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ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO

IL DIRITTO ROMANO - SECONDA PAGINA

ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
 
Lo studio del diritto romano prevede lo studio del diritto a Roma circa 2000 anni fa, e precisamente dal V secolo a.C. al VI secolo d.C.
Il diritto romano è il padre dei diritti vigenti oggi nei vari Stati: per esempio, il diritto italiano è figlio del Codice Napoleone (1804), del quale molti articoli sono semplicemente la traduzione in francese di articoli appartenenti al diritto romano.
I romani concepirono il diritto come un sapere etico, come modus cogitandi (tanto più che in antichità si forniva il minor numero possibile di nozioni, cosicché il discente imparava ad imparare), e notiamo che mentre i giuristi romani erano prevalentemente dei pratici, i giuristi di oggi sono più dei teorici.
Il diritto romano si identifica col diritto privato, che è strettamente connesso alla vita quotidiana, mentre erano sconosciuti ai romani quello che per noi oggi sono il diritto penale, amministrativo e costituzionale (il diritto comunque è un’unica materia, viene divisa in settori per comodità disciplinari).
Ci sono due distinzioni che i romani non fecero: la prima è quella tra diritto soggettivo (es.: IO ho il diritto di cittadinanza, di andare alle elezioni, ..) e diritto oggettivo, la seconda è quella tra fonti di produzione del diritto e fonti di cognizione dello stesso.
Oggi le fonti di produzione del diritto sono riportate nell’articolo 1 delle preleggi del c.c., e sono: le leggi; i regolamenti; [le norme corporative]; gli usi (le norme corporative si trovano racchiuse nelle parentesi quadre poiché le corporazioni sono state abolite, poiché erano del regime fascista).
Nel diritto romano le fonti principali erano 3:
·  i mores (= costumi), la più antica fonte del diritto, detta anche ius civile, o ius quiritium, e ritenuta da alcuni precivica;
·  la giurisprudenza dei collegi sacerdotali, ed in particolare quello dei pontefici;
·  le leges regiae (leggi del re)
La legge è quindi una delle fonti del diritto, ma è sbagliato identificare la legge col diritto.
Gaio, nel II secolo d.C., disse che il diritto del popolo romano è costituito da leggi, plebisciti, senati consulti, editti dei magistrati, costituzioni imperiali e responsi dei giuristi; Giustiniano nel VI secolo d.C. confermò questi elementi come fonte del diritto.
I responsi dei giuristi sono opinioni che i giuristi davano ai clienti che le chiedevano loro, mentre per quanto riguarda gli editti dei magistrati notiamo fin da subito che i magistrati (es. i pretori, i consoli, ...) potevano emanare leggi: le fonti produttive del diritto romano erano più di quelle attuali connesse al nostro ordinamento.
Ai tempi di Gaio comunque le leggi non si facevano più da quasi 2 secoli, gli editti dei magistrati non erano più emanati da tempo, e l’unica fonte vigente era data dalle leggi emanate dall’imperatore.
Gli studenti dell’epoca di Gaio menzionavano le fonti non più vigenti perché i giuristi romani avevano una concezione storica del diritto più profonda della nostra, e perché il diritto è una realtà prodotta dal tempo.
Il valore normativo è indipendente dall’epoca in cui le leggi sono emanate: anche per questo i giuristi dell’epoca di Giustiniano ritennero di dover tenere in vigore gli emendamenti del passato.
I responsi dei giuristi erano la fonte più importante (perché più diffusa) ed erano le ultime nell’elenco, perché gli ultimi elementi di una lista, quando la leggiamo, sono quelli che si ricordano più facilmente (pensiamo, per esempio, quando al ristorante il cameriere ci espone a voce il menu).
I romani menzionavano sempre le fonti del diritto, e da questo punto di vista il giurista moderno ha un compito più facile di quello del giurista di allora: oggi il sistema è unitario, mentre i giuristi romani avevano fonti di diversa natura e diversa efficacia.
 
La schiavitù
 
Gli uomini venivano distinti in 2 classi fondamentali (è la natura, secondo i romani, a creare questa distinzione), come leggiamo nel Commentarius Primus delle Institutionum Gai: [III. De condicione hominum] 9. Et quidem summa divisio de iure personarum haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi.
Gli schiavi non vengono considerati persone ma cose, quindi non sono soggetti di diritto: l’ordinamento romano è quindi schiavistico, ma nemmeno esso può negare che lo schiavo abbia capacità di agire.
È da notare che il Cristianesimo all’epoca non fece alcunché per abolire la schiavitù.
Anche se gli schiavi erano considerati res, i padroni non potevano abusare di essi, proprio perché essi erano considerati come un patrimonio, utili perciò all’economia di Roma (così come oggi il proprietario di una casa non può lasciare che essa crolli): ciò fu ribadito da Giustiniano, imperatore cristiano che non abolì la schiavitù ma, appunto per ragioni economiche, introdusse ordinamenti più miti per gli schiavi.
L’Italia nel 1928 ha seguito la convenzione della Società delle Nazioni (ricordiamoci però che tra il 21 ed il 24 ottobre 1936, quando Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, diventato ministro degli Esteri, firmò l’asse Roma-Berlino col quale la Germania riconosceva l’Impero d’Etiopia, l’Italia usciva dalla Società delle Nazioni, collaborava con la Germania nella lotta contro il bolscevismo e difendeva le forze franchiste in Spagna), che abolisce la schiavitù, mentre quest’istituto era nel 1932 ancora giuridicamente riconosciuto nel Tibet, in Arabia, in Asia... la schiavitù comunque oggi in varie parti del mondo è disciplinata, se non formalmente, di fatto.
Questa vergognosa distinzione si diffuse grazie anche ad Aristotele, che determinò lo sviluppo della cultura europea per vari secoli.
In che modo?
Aristotele scrisse nella Repubblica che esiste chi è per natura adatto a comandare e chi portato ad obbedire: in questo modo il concetto si radicò nella cultura europea.
San Paolo dal canto suo raccomandò agli schiavi di obbedire ai loro padroni, come se servissero il Signore in persona.
Seneca (filosofo dell’età di Nerone, nacque a Cordova negli ultimi anni del I secolo a.C.), che era in grado di influire sulla cultura, in una lettera a Lucilio si compiace che Lucilio tratta bene i propri schiavi, perché essi in realtà non sono schiavi ma uomini come gli altri, nati “dagli stessi semi”, e “compagni di schiavitù”, poiché la fortuna (ricordiamoci che è vox media) ha uguale potere sugli uni e sugli altri... però Seneca stesso aveva molti schiavi!
Nel VI secolo la schiavitù viene fatta derivare dalla natura degli esseri umani, nel senso che essa dev’essere accettata come frutto del peccato originale, come il dolore, la malattia ecc. (però allora dovremmo essere tutti schiavi).
Oggi si comincia ad ammettere che la schiavitù è contraria al cosiddetto diritto naturale, poiché tutti gli uomini nascono liberi.
Nel III secolo d.C. invece si diceva chiaramente che, per quanto attiene al diritto, gli schiavi non sono nessuno (oggi c’è molta ipocrisia al riguardo, allora almeno questa non c’era), lo schiavo non ha caput (caput, capitis, neutro, qui inteso nel senso di “persona”), non ha personalità giuridica, quindi non può essere, per esempio, titolare del diritto di proprietà, mentre può esserne oggetto, così come può essere oggetto di eredità: quando moriva il padrone, i suoi schiavi non diventavano liberi.
L’uccisione di uno schiavo non veniva considerato un omicidio, così come non viene oggi considerato omicidio l’uccisione di un’animale (ed anche questa è una vergogna).
Un’eccezione all’impossibilità dello schiavo di essere titolare di diritti c’era: il peculio, ciò con cui il padrone ricompensava lo schiavo, poteva essere usato da quest’ultimo come egli (lo schiavo) avrebbe voluto, quindi anche se formalmente non poteva godere del diritto di proprietà, di fatto tutti rispettavano questa sua volontà, tanto più che alcuni schiavi facevano fruttare il loro peculio ed acquistavano, pagandola in moneta sonante, la libertà.
La parola pecunia risale a quando non esisteva ancora la moneta, perciò era diffusissima la permuta fatta col pecus (la pecora o comunque l’animale in generale).
Come si diventava schiavi?
Un’eventualità era la nascita: chi nasce da una schiava è automaticamente uno schiavo.
Si poteva diventare schiavi anche in guerra, venendo catturati dal nemico: questa schiavitù non è prevista dal ius romanus, e veniva considerata iniusta.
Chi cadeva in schiavitù a causa della guerra perdeva momentaneamente la titolarità dei diritti (es.: di patria potestà, di credito, ...), e venne perciò creato un istituto secondo il quale questi diritti soggettivi di cui il cittadino caduto in schiavitù all’estero era titolare diventano quiescenti (=> sono sospesi, non eliminati), ed erano riacquistati dal cittadino che riusciva a tornare in patria.
Si poteva diventare schiavi anche con il ius, come accadeva ai debitori insolventi.
E come ci si liberava dalla schiavitù?
Il padrone poteva affrancare lo schiavo emancipandolo, attraverso la manomissione: lo schiavo diventava così libero cittadino romano e giuridicamente capace, ma sussisteva ancora un rapporto in cui l’ex-padrone era chiamato patrono e l’ex-schiavo liberto.
In virtù di questo rapporto se uno dei due soggetti si fosse ammalato l’altro avrebbe avuto il dovere di assisterlo.
 
Capacità giuridica e capacità di agire
 
Già il diritto romano distingueva tra la capacità giuridica e la capacità di agire: la capacità giuridica è quella capacità, che si acquista con la nascita, a diventare titolari del diritto soggettivo, mentre la capacità di agire si acquista con la maggiore età, anche se a volte la natura priva le persone di questa capacità di agire (pensiamo ad una persona che impazzisce).
Il diritto italiano assegna la capacità giuridica al momento della nascita: diversamente accadeva col diritto romano, dove per acquisire tale capacità occorrevano 3 requisiti: un uomo doveva essere:
·  libero (esistevano anche i servi)
·  cittadino romano (esistevano i cives, i latini ed i peregrini)
·  pater familias (esistevano anche i filii familias): quest’espressione non allude all’esistenza di una famiglia, come si potrebbe pensare, ma all’essere sui iuris: lo schiavo ed un figlio non sono sui iuris, essendo il primo soggetto al potere del padrone ed il secondo alla patria potestas.
Oggi i figli diventano sui iuris col compimento della maggiore età (art. 2 del codice Civile: Maggiore età. Capacità di agire. [I]. La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa.), ma i ragazzi romani la acquistavano se il padre rinunciava alla patria potestas, altrimenti solo con la morte del padre avrebbero potuto acquistare questa capacità, a qualsiasi età ed a qualsiasi stato sociale, anche se fosse stato più ricco e potente del genitore (per cui anche un console di 60 anni, se aveva vivo il padre di 90 anni, era soggetto alla patria potestas).
Un contratto concluso dal pupillo non ancora in maggiore età e senza l’autorizzazione dell’auctoritas veniva considerato nullo.
Un altro potere di cui il pater familias godeva era quello sulla moglie, chiamato ius manus, ancora in vigore in Italia fino a 60-70 anni fa, quando la moglie non poteva compiere atti di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del marito; da notare che la parola “ius” può avere diversi significati, tra i quali anche quello di “tribunale” (luogo in cui si fa valere il diritto).
C’era infine la potestas sui servi, detta dominica potestas.
Non c’è da stupirsi se Pietro Bonfante, grande romanista italiano morto nella prima metà del ‘900, vedeva la famiglia come una struttura politica.
Fino a che viveva il capostipite di una famiglia (in cui si comprendevano anche le cose materiali ed inanimate), il pater familias, tutti i subalterni erano a lui soggetti.
I figli adottivi erano trattati come i figli naturali (generati secondo natura, cioè dal padre), non c’era alcuna distinzione dal punto di vista giuridico.
Un pater familias poteva anche adottare un altro pater familias mediante l’istituto dell’adrogatio: in questo caso l’adrogatus perdeva la condizione di pater familias e veniva trattato come un figlio (quindi non era più sui iuris).
La patria potestas dunque si acquistava o generando un figlio, o adottando un figlio, o adrogando un pater familias; lo stesso potere si perde con la morte del figlio, cioè del soggetto su cui esso è esercitato, oppure per volontà del pater familias, che può decidere di rinunciare a questo potere verso uno o più sottoposti, creando quindi una situazione di emancipazione (e-mancipare: togliere dal mancipio; la “e” indica un moto da luogo figurato; tutti i poteri di un uomo su un altro uomo venivano chiamati “mancipium”), nella quale l’emancipato diventa automaticamente pater familias.
Ma cosa succedeva se ad un neonato moriva il padre?
Egli veniva formalmente considerato sui iuris, quindi era soggetto di diritto, poteva avere proprietà, crediti, ecc., ma era incapace all’atto pratico di intendere e di volere, non aveva dunque la capacità di agire, ed al pupillo veniva assegnato un tutore affinché questi gestisse il suo patrimonio e curasse i suoi interessi finché non fosse finito il periodo della tutela, al termine del quale l’ex-tutelato chiedeva conto all’ex-tutore del suo operato.
Come veniva assegnato il tutore?
Il pater, morendo, poteva nominare nel testamento un tutore per il figlio, e nel caso il pater fosse morto improvvisamente, senza aver avuto il tempo di scrivere alcunché, il compito di tutore veniva assegnato al parente maschile più prossimo (gli agnati, parenti di parte paterna), ed in mancanza di parenti (il diritto cerca spesso di prevedere qualsiasi eventualità) veniva assegnato dal magistrato, si trattava quindi di un tutore dativo.
La tutela era un’istituzione temporanea per i maschi e perpetua per le donne.
Una persona poteva dunque essere:
·  giuridicamente capace ma incapace di agire;
·  giuridicamente incapace ma capace di agire;
·  giuridicamente capace e capace di agire.
Poteva accadere che una persona capace giuridicamente e capace di agire perda in qualche modo la capacità di intendere e di volere: in questo caso le veniva affiancata una persona simile al tutore, detta però curatore.
Il diritto delle persone è strettamente connesso con le nozioni di capacità.
Vediamo un esempio: se uno schiavo (capace di agire) presta una somma di denaro ad un figlio di famiglia, chi è creditore e nei confronti di chi?
Certamente non lo schiavo, poiché egli non poteva essere titolare del diritto di credito.
 
Il processo civile
 
Oggi per processo civile intendiamo quel processo in cui si fanno valere i diritti soggettivi previsti dal diritto privato.
I giuristi romani avevano una visione più processuale, più di azione, del diritto, mentre noi oggi pensiamo il diritto da un punto di vista più sostanziale.
Anche allora il processo si svolgeva non in un luogo qualsiasi ma in un luogo a ciò preposto, il tribunale (in latino, il ius, o, più raramente, tribunal; “in tribunale” si può tradurre con “in iure”).
Esistono 3 tipi di processo romano, diversi tra loro a seconda dello scopo:
·  per legis actiones, è il più antico;
·  cognitio extra ordinem, o libellare;
·  formulare, o per formulas, cioè attraverso formule.
Il processo formulare può avere scopi diversi, ed essere:
·  processo di mero accertamento, nel quale si chiede non la condanna o l’assoluzione di qualcuno ma l’esistenza o l’inesistenza di un diritto (es.: sono cittadino romano? Sono erede di un certo defunto? Sono libero o schiavo?);
·  processo di condanna, nel quale un soggetto chiede al giudice di condannare un altro soggetto, => il giudice prima accerta e poi condanna od assolve;
·  processo di esecuzione (della sentenza): se per esempio una persona mi deve una somma ed è stata anche condannata a consegnarmela, questa somma, ma non me la consegna, posso ancora ricorrere al giudice;
·  processo di divisione (es.: per due comproprietari).
In ogni caso il processo si svolge sempre allo stesso modo.
La chiamata in tribunale era detta vocatio in ius (moto a luogo): questa formula presuppone l’esistenza di un diritto soggettivo da far valere; i diritti sono azionabili, quindi prima c’è il diritto, poi, eventualmente, l’azione per farlo valere.
Vediamo un esempio: se A presta a B (che nomi originali!) del denaro attraverso un mutuo (=> c’è accordo di volontà) e B non restituisce nulla, A può fargli causa.
Il titolare del potere costituzionale di giurisdizione (=> iuris dictio) è un magistrato di nome pretore, che non è un giudice (non sarà lui a decidere), non si chiede se sia vero o no che B debba pagare davvero una certa somma ad A, a colui che si afferma creditore, ma di controllare che il processo si svolga secondo le regole e con le azioni giuste: è importante ricordarsi che a diritti diversi corrispondono azioni diverse, quindi ci sono tante azioni quanti sono i diritti da far valere, e ad ogni azione corrisponde una formula ben precisa.
Abbiamo parlato di mutuo, e conviene vedere cos’è questo elemento.
Il mutuo romano è un contratto gratuito, cioè che non prevede interessi: questo perché il contratto si perfezionava con la consegna della res (ancora oggi è così, e facciamone un esempio: un amico mi chiama a casa la sera, disperato, perché ha bisogno di soldi, ed io lo rassicuro dicendo che domani andremo in banca e gli presterò quanto gli serve; lui insiste dicendo che gli serve subito una garanzia, allora io gli firmo subito un foglio in cui garantisco che il giorno dopo gli presto il denaro occorrente, ed il giorno dopo vado effettivamente in banca, ritiro la somma e gliela presto: quando si perfeziona il contratto di mutuo? Quando il mio amico assume l’obbligo di darmi la somma che gli presto? Quando al telefono lo rassicuro dicendogli che gli presto il denaro? Quando gli firmo il foglio? O quando gli consegno i soldi? Stando a ciò che abbiamo detto, il contratto si perfeziona quando gli consegno effettivamente i soldi), e quindi andava restituita solo essa, né di più né di meno, perché diversamente sarebbe stato un restituire una res diversa, e come farebbe una persona a consegnare una cosa diversa da quella che le è stata prestata?
La somma di denaro viene quindi considerata res, ed il mutuo un contratto reale (=> res).
Le res sono individuabili per connotati specifici ed in natura ogni cosa è diversa dall’altra (è uguale solo a se stessa, si dice), ma l’origine del denaro è diversa: esso infatti è un genere, una cosa fungibile, quindi per estinguere un debito non è necessario che io riconsegni gli stessi biglietti che mi hanno prestato, ma biglietti che sommati diano il valore del denaro che ho ricevuto in prestito.
Se presto 10 dicendo in anticipo che chiederò indietro 12 ed il mutuatario acconsente, l’accordo è comunque nullo.
Il mutuo (o prestito di consumo) è dunque un contratto per cui una delle parti, il mutuante, trasferisce al mutuatario la proprietà di una certa quantità di danaro o di altre cose fungibili, dietro la promessa non solenne di restituzione di un’eguale quantità di cose dello stesso genere e qualità (tantundem); il mutuo produce obblighi solo per il mutuatario (il mutuante non è obbligato a prestare, mentre il mutuatario è obbligato a restituire), ed è quindi un contratto unilaterale.
Nel caso dell’esempio di cui sopra, la formula da applicare era quella della condictio (azione, nella fattispecie chiedere indietro) certae creditae pecuniae (di una certa somma di denaro), che recitava: “Titius iudex esto. Si paret Numerium Negidium Aulo Agerio sestertium X milia dare oportere, iudex Numerium Negidium Aulo Agerio X milia condemnato, si non paret, absolvito”, cioè “Tizio sia il giudice, se sembra (al giudice, chiaramente) che Numerio Negidio abbia il dovere di dare ad Aulo Agerio 10.000 sesterzi, il giudice (lo) condanni, se così non (gli) sembra, (lo) assolva”.
Il pretore, che come abbiamo detto non giudica e non emana sentenze, è scelto di comune accordo dalle parti litiganti, così come il giudice, che non è un magistrato, un organo dello stato, ma un cittadino privato; se le parti non riescono a mettersi d’accordo su un giudice (poiché dev’essere scelto di comune accordo, basta che una delle due parti non sia d’accordo su un giudice perché questo non venga scelto), magari perché chi aveva torto immaginava di perdere la causa e continuava a non accettare nessun giudice, esso (il giudice) veniva scelto dal pretore da una lista di persone dabbene.
Il pretore invita le parti in causa a contestare la lite, a concludere la litis contestatio, invita cioè le parti ad accordarsi a rimettere la controversia così formalizzata nella formula: non si mettono d’accordo sull’esito, non è una transazione.
Il giudice condanna od assolve in base alle prove e non in base alla propria conoscenza dei fatti (così come oggi): se anche il giudice sa con certezza che Numerio è debitore ed è sicuro che non abbia pagato il debito, ma non gli viene presentata alcuna prova a sostegno di ciò, Numerio dev’essere assolto; il giudice non può essere uno dei testimoni della consegna.
Gli effetti della litis contestatio sono l’obbligo di rispettare la sentenza del giudice e l’intangibilità della formula: se l’attore ha fatto scrivere nella formula che Numerio gli deve 100 sesterzi e poi si ricorda che i sesterzi erano 112, non può far cambiare il testo: se Numerio viene condannato, viene condannato al pagamento di 100 sesterzi, ed i 12 di differenza vengono considerati come donazione da parte di Aulo Agerio.
Questa caratteristica è detta della conservazione della lite, ed indica che la formula, così come essa arriva davanti al giudice, non può più essere modificata.
Il rapporto obbligatorio aveva un effetto estintivo, e diventava processuale, controverso (tanto più che il testo dice “se sembra al giudice che Numerio Negidio deve dare...” e non “dato che Numerio Negidio deve dare...”, quindi la sentenza non era impugnabile: se, per esempio, Aulo Agerio non riesce a dimostrare che Numerio Negidio gli deve 100 sesterzi, e Numerio Negidio viene assolto, Aulo Agerio non può muovergli una seconda causa per questo stesso motivo, poiché il rapporto obbligatorio si è estinto: ne bis in idem, non si può agire due volte per la stessa causa.
Per contro, se Aulo Agerio avesse chiesto 110 dopo aver prestato 100, avrebbe probabilmente perso la causa, e con essa anche i 100 sesterzi dovutigli, perché l’azione sarebbe risultata infondata.
Quando si chiede più di quanto è dovuto si fa una pluris petitio, quando invece si chiede meno di quanto è dovuto si ha una situazione di minus petitio.
Il pretore, che è un organo dello Stato, dopo aver accertato che le parti hanno contestato la lite, investe il giudice del potere-dovere di giudicare: il giudice è obbligato a decidere, una volta accettato l’incarico non può sottrarsi a questo dovere, dovendo egli obbedire allo iussum iudicandi, all’ordine di giudicare.
Il processo formulare può essere definito un processo ibrido, poiché c’è un aspetto privatistico (il giudice) ed uno pubblicistico.
La formula si divide nell’intentio, parte nella quale l’attore esprime la propria richiesta, nella demonstratio, frase in cui si indicano i fondamenti della pretesa (“demonstrare” non si traduce con “dimostrare” ma con “indicare”, da dēmonstro, as, āvi, ātum, āre, 1 tr.), e nella condemnatio/absolutio, dove il giudice condanna od assolve.
Un altro elemento sul quale puntare l’attenzione è l’obbligo giuridico: abbiamo visto che se presto ad una persona del denaro, essa ha l’obbligo giuridico di restituirmelo, cioè il mio diritto è tutelato dal diritto civile, ma esistono anche obblighi non giuridici.
Per esempio, se invito una persona a cena e questa accetta, essa non ha comunque l’obbligo giuridico di presentarsi effettivamente alla mia cena, quindi nel caso non si presentasse non potrei farle causa per questo, poiché l’intentio si fonda sul diritto civile.
Vediamo ora un esempio con dilazione: io presto dei soldi ad un amico a patto che me li restituisca entro un mese, ed incontrandolo poco prima della fine del mese e vedendolo preoccupato gli dico, davanti a dei testimoni, di non preoccuparsi perché gli do un altro mese di tempo per pagarmi, gli assicuro che prima dello scadere del secondo mese non lo chiamo in giudizio.
Se però poi lo cito in giudizio prima dello scadere del secondo mese, il giudice mi darebbe ragione perché il patto concluso dopo, quello che prevede la dilazione, non incide sulla formula della condictio (da “condicere”, chiedere indietro, la condictio è quindi un’azione di ripetizione) certae creditae (cioè “data a credito”) pecuniae.
Il pretore può però dare al convenuto un mezzo di difesa, una exceptio, prevista nella formula dell’Actio certae creditae pecuniae cum exceptio pacti et replicatio doli, che recita: “(Nominatio iudicis) Titius iudex esto. (Intentio) Si paret Numerius Negidius Aulo Agerio sestertium decem milia dare oportet, qua de re agitur, (exceptio pacti) si inter Aulum Agerium et Numerium Negidium non convenit ne ea pecunia peteretur, (replicatio doli) vel in ea re aliquid dolo malo Numerii Negidii factum est vel fit, (condemnatio) iudex, Numerium Negidium Aulo Agerio sestertium decem milia condemnato, si non paret absolvito”.
Il giudice, verificata la fondatezza dell’exceptio, assolve Numerio Negidio, non perché sia infondata la pretesa, l’intentio, ma perché è fondata l’exceptio, ed Aulo Agerio perde tutto ciò che aveva prestato (così la prossima volta sarà più corretto, soprattutto nei confronti degli amici!).
Se invece il giudice vede che già l’intentio è infondata, non ha nemmeno bisogno di verificare che sia fondata l’exceptio, ma deve subito assolvere Numerio Negidio: se Aulo Agerio presta 100 a Numerio Negidio e questi restituisce la somma prestatagli, ma Aulo Agerio gli fa causa comunque, Numerio Negidio viene assolto perché l’azione è infondata.
Un altro esempio: se Aulo Agerio presta una somma a Numerio Negidio e i due fanno poi un patto di dilazione, e ciò nonostante Numerio Negidio non paga, il giudice in un eventuale processo, accertato che l’azione è fondata e l’exceptio è infondata, condanna Numerio Negidio al pagamento della somma.
Il diritto romano quindi tutela l’affidamento: l’intentio si basa sul diritto civile, ed esso è intoccabile, ma il pretore può paralizzarne l’azione, quindi c’è una sorta di parallelismo tra diritto civile e diritto pretorio, perché il pretore tutela anche il debitore senza modificare il diritto civile.
Ciò che autorizza l’attore a dedurre in giudizio che Numerio Negidio deve pagarlo è il fatto che al contratto di mutuo il diritto civile riconosce effetti di obbligo (mentre per un invito a cena, abbiamo detto, non accade ciò).
Se il debitore paga, tardivamente, dopo la litis contestatio, ma prima che il giudice l’abbia condannato a pagare, il giudice deve comunque emettere una sentenza, e questa dev’essere di condanna (i Romani trovarono poi dei correttivi a questo procedimento).
La sentenza ha forza coattiva, che non dipende dalla litis contestatio, ma dallo iussum iudicandi, il dovere di giudicare del quale il giudice è stato investito dal pretore.
La condictio certae creditae pecuniae è un’azione in ius.
Il mutuo con interessi, a cui siamo abituati oggi, nel diritto romano prevedeva due contratti: la restituzione della res era regolata dal contratto di mutuo, mentre la parte in più era prevista da un altro accordo, la stipulatio: si hanno perciò due contratti, due crediti, due diritti.
Allora come ora, era vietata l’usura: oggi gli usurai usano infatti la cambiale, un titolo di credito astratto: su di essa è riportato l’importo da pagare, ma non il motivo per cui si paga
Per quanto riguarda il deposito, chiariamo innanzitutto che consiste nella consegna di una cosa mobile dal depositante (qui deposuit) al depositario (qui depositum suscepit) affinché questi la custodisca e la restituisca a richiesta; a differenza del comodatario, inoltre, il depositario non può usare della cosa senza commettere furto.
Il deposito è dunque un contratto reale e bilaterale, definito gratuito dai classici, ma nei Digesta del Corpus Iuris di Giustiniano c’è una tendenza a ritenere che il contratto non risulti snaturato per il pagamento di un piccolo compenso.
Il deposito fino al II secolo a.C. non era considerato un contratto, quindi non aveva effetto obbligatorio ed il deponente non avrebbe potuto compiere nessuna azione legale contro un depositario infedele: esso, insomma, era considerato dal diritto civile come oggi viene considerato il famoso invito a cena.
Ad un certo punto però un pretore, non sappiamo né chi né quando, introdusse, evidentemente pressato da richieste sempre più frequenti, una formula per proteggere il deposito: mentre nella formula della condictio certae creditae pecuniae c’era il “dare oportere”, nella formula del deposito non esiste un diritto soggettivo: questa formula non è in ius, sul diritto civile, ma è una formula in factum, nel potere del magistrato: in altri termini, mentre le formule in ius conceptae si fondano sull’affermazione di un diritto soggettivo dell’attore o di un obbligo giuridico del convenuto, le formule in factum conceptae pongono a fondamento esclusivo della condanna circostanze di fatto.
La formula in factum a tutela del deposito recitava: “Si paret Aulum Agerium apud Numerium Negidium mensam argenteam deposuisse, eamque dolo malo Numerii Negidii redditam non esse, quanti ea res erit, tantae pecuniae iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato, si non paret absolvito”: essa quindi parla solo del deposito che l’attore afferma di aver fatto, e della mancata restituzione da parte del convenuto, ma non dice che dal deposito deriva un obbligo (un oportere): l’obbligo giuridico non è nato perché solo il diritto civile può crearne, ed il diritto civile non conosce il deposito, ma la formula fa sì che si verifichino le stesse conseguenze che si avrebbero se vi fosse un obbligo; in seguito alla prima formula, in factum, si aggiunse una formula in ius concepta, un bonae fidei iudicium, che non eliminò la precedente: entrambe le formule rimasero in vigore per tutta l’epoca classica e l’attore poteva scegliere tra le due quale usare.
La compravendita è regolata da un contratto bilaterale: il venditore deve consegnare la res oggetto dell’accordo (azione di vendita), ed il compratore deve pagarla, poiché quest’accordo prevede che il venditore trasmetta al compratore il possesso di una merx e gliene garantisca il pacifico godimento in cambio della proprietà di una somma di denaro, il pretium.         
L’actio ex empto è l’azione di compera, infatti il verbo “comprare” in latino è ĕmo, is, ēmi, emptum, ĕre (3 tr.).
Un controsenso che può accadere nel caso che la res venduta non venga consegnata è la condanna del venditore al risarcimento in denaro, e non l’obbligo di vendere la res.
Esempio: siamo in un’epoca in cui vige il diritto romano, ed una persona mi vende una biga; io la pago e questa non mi consegna la biga: questa persona viene condannata non a darmi la biga, ma ad una quantità di denaro pari al valore della biga: nel processo romano la condanna del giudice è sempre al pagamento di una somma di denaro, mai ad un comportamento.
Nel diritto moderno invece esiste anche la possibilità, rara, di una condanna specifica: se per esempio pago un imbianchino affinché mi pitturi il salotto e lui non esegue il lavoro, il giudice potrebbe condannarlo ad eseguire il lavoro, o a sostenere le spese di un altro imbianchino che faccia questo lavoro.
La formula del diritto romano, in caso di azione contro un compratore che non paga, non inizia con un “si paret” ma dice “dato che Aulo Agerio ha venduto la cosa per la quale si agisce, il giudice condanni ad una somma di danaro pari al valore di ciò che Numerio Negidio deve dare-fare ad Aulo Agerio”.
Altro contratto bilaterale è quello di locazione, un contratto consensuale in virtù del quale una delle parti, detta locatore, si obbliga a mettere nella materiale disposizione dell’altra, detta conduttore, una certa cosa, che questa si obbliga a restituire dopo averla goduta per un certo tempo o dopo averla manipolata o trasportata nel modo convenuto.
Il commodato (o prestito ad uso) è un contratto reale ed imperfettamente bilaterale, che consiste nella consegna di una cosa mobile od immobile da parte del commodante al commodatario, che può usarla per un certo tempo od in una certa direzione, per poi restituirla al commodante (i nomi di commodante e commodatario non sono romani ma dei commentatori).
La formula in questo caso diverrebbe: “Dato che Aulo Agerio ha preso in commodato la cosa di cui si tratta, il giudice condanni Numerio Negidio ad una somma di denaro pari a ciò che Numerio Negidio deve dare-fare ad Aulo Agerio, se non gli sembra lo assolva”.
Il comodato è come il mutuo un contratto reale, ma qui il prestito è di una cosa specifica, mentre nel mutuo si presta una quantità di genere; sia il comodato che il mutuo sono contratti gratuiti, si deve restituire solo la cosa prestata.
L’obbligo di restituzione, nel mutuo e nel comodato, nasce dalla consegna della cosa, non dall’accordo.
Se l’accordo prevede che il comodatario paghi poi un compenso, si applicano le regole della locazione.
 
 
Iniquo vuol dire contrario all’equità, alla buona fede, perciò è diverso da “ingiusto”.
 
Il possesso indica la capacità di disporre di un bene materiale, ed è ben diverso dalla proprietà: per esempio, se vedo un amico con in mano una penna, so che essa è in suo possesso, ma non so se è di sua proprietà o se gli è stata prestata, se l’ha rubata, ecc.
Il possesso nel diritto romano non rimane quiescente, e ciò valeva anche per il matrimonio, inteso dai romani come situazione materiale, una communio hominis vitae, e quindi era come se si rinnovasse continuamente (diversamente da quanto accade oggi).
 
Ognuno di noi è una persona fisica, ma esistono anche persone giuridiche, come lo Stato, una scuola, un comune, enti che possono compiere atti giuridici, quindi che sono giuridicamente capaci: attraverso quest’istituto notiamo che avviene una personificazione di entità che non hanno natura fisica.
Vediamo un esempio che tratta di eredità giacente: Tizio è proprietario di un patrimonio, e se muore, un erede prende questo patrimonio; se una persona muore e gli eredi attendono ad accettare l’eredità, passa del tempo, perciò una persona è titolare, ma:
·  il defunto non c’è più;
·  l’erede non c’è ancora,
dunque l’eredità diventa persona giuridica e gestisce se stessa tramite un organo curatore: diventa creditrice nei confronti dei debitori e debitrice nei confronti dei creditori del defunto.
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MATERIALI
PER IL CORSO DI
ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento
anno accademico 2003-2004
CENNI INTRODUTTIVI: IL DIRITTO è " ARS BONI ET AEQUI"
Codice civile vigente. Relazione del ministro guardasigilli (16 marzo 1942):
§12: La riaffermazione della romanità del nostro diritto non significa immutabilità o
cristallizzazione di esso. Il diritto romano ha mostrato nel corso dei secoli e nella sua
applicazione ai più diversi Paesi una tale forza di adattamento, che nessun progresso della
vita civile è stato mai ostacolato da esso.
Le fonti del diritto romano sono state oggetto di elaborazione più volte secolare; le varie
generazioni hanno potuto interpretarle secondo le proprie esigenze ideali, secondo le proprie
concezioni e il proprio genio creatore. (...) Ma né il diritto romano del codice francese, né il
diritto romano della scuola pandettistica tedesca del secolo passato possono essere il diritto
del popolo italiano del secolo ventesimo. Il nostro diritto, quale noi lo sentiamo e lo
intendiamo, è il diritto dello Stato romano...diritto del buon senso umano e perciò universale.
D.1,1,1 (Ulpiano, Istituzioni, 1): (...) nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi.
Infatti, secondo la corretta definizione di Celso, il diritto è l’arte (tecnica) del buono e del
giusto.
D.1,1,,10pr.-1 (Ulpiano, Regole, 1): Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.
(1) Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.
La giustizia consiste nella ferma e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le
regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, dare a ciascuno
il suo.
I) DIRITTO ARCAICO (I CARATTERI PRINCIPALI)
A) Il formalismo (o ritualismo)
1) Mancipatio (mancipazione)
Istituzioni di Gaio, I, 119: Est autem mancipatio, ut supra quoque diximus, imaginaria quaedam
venditio; quod et ipsum ius proprium civium Romanorum est, eaque res ita agitur: adhibitis non minus quam
quinque testibus civibus Romanis puberis et praetera alio eiusdem condicionis, qui libram aeneam teneat, qui
appellatur libripens, is qui mancipio accipit, aes tenens ita dicit hunc ego hominem ex iure Quiritium
meum esse aio isque mihi emptus esto hoc aere aeneaque libra; deinde aere percutit libram idque
aes dat ei a quo mancipio accipit quasi pretii loco.
La mancipazione, come si è gia detto sopra, è una specie di vendita fittizia: il che è diritto
proprio dei cittadini romani; e la cosa si svolge così: con l’impiego di non meno di cinque
testimoni cittadini romani puberi, e di un altro della stessa condizione che sorregga una
bilancia di bronzo e si chiama libripende, colui che riceve in mancipio, tenendo del rame,
dice "io dico che quest’uomo è mio per diritto dei Quiriti e mi sia comprato con questo rame
e con questa bilancia", ed il rame lo dà quasi in funzione di prezzo a colui dal quale riceve in
mancipio.
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2) Stipulatio (stipulazione)
Ist. di Gaio, III,92-93: Verbis obligatio fit ex interrogatione et responsione, veluti dari spondes?
spondeo, dabis? dabo, promittis? promitto, fidepromittis? fidepromitto, fideiubes? fideiubeo,
facies? facio. (93) Sed haec quidem verborum obligatio dari spondes? spondeo propria civium Romanorum
est; ceterae vero iuris gentium sunt, itaque inter omnes homines sive cives Romanos sive peregrinos valent (...).
L’obbligazione verbale si fa con domanda e risposta, come: "prometti solennemente che sarà
dato? Prometto solennemente. Darai? Darò. Prometti? Prometto? Fideprometti?
Fideprometto, Presti fideiussione? Presto fideiussione, Farai? Farò. (93) Ma l’obbligazione
verbale "dari spondes? spondeo" è propria solo dei cittadini romani, mentre le altre sono di
diritto delle genti, e quindi hanno valore per tutti gli uomini, romani e stranieri.
B) Il c.d. principio dell’economia dei mezzi giuridici (R. von Jhering)
1) Emancipatio (emancipazione)
Ist. di Gaio, I,132: Praeterea emancipatione desinunt liberi in potestate parentum esse. Sed filius quidem
tribus mancipationibus, ceteri vero liberi sive masculini sexus sive feminini una mancipatione exeunt de
parentum potestate; lex enim XII tabularum tantum in persona filii de tribus mancipationibus loquitur his
verbis si pater filium ter venum duit, a patre filius liber esto. eaque res ita agitur: mancipat pater
filium alicui; is eum vindicta manumittit; eo facto revertitur in potestatem patris; is eum iterum mancipat vel
eidem vel alii (sed in usu eidem mancipari) isque eum postea similiter vindicta manumittit; eo facto rursus in
potestatem patris revertitur; tertio pater eum mancipat vel eidem vel alii (sed hoc in usu est, ut eidem
mancipetur), eaque mancipatione desinit in potestate patris esse (...).
Inoltre i discendenti cessano di essere in potestà degli ascendenti per mezzo
dell’emancipazione. Ma il figlio esce dalla potestà con tre mancipazioni e gli altri discendenti,
invece, sia di sesso maschile sia di sesso femminile, con una sola: infatti la legge delle dodici
Tavole soltanto con riferimento alla persona del figlio parla di tre mancipazioni, le seguenti
parole "se il padre abbia venduto il figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre". E la cosa si
svolge così: il padre mancipa il figlio a uno; questo lo manomette per verghetta; ciò fatto
torna in potestà del padre; il quale lo mancipa di nuovo o allo stesso o ad un altro (ma è in
uso manciparlo allo stesso), e questo poi similmente lo mancipa di nuovo allo stesso o ad un
altro (ma è in uso manciparlo allo stesso), e con tale mancipazione cessa di essere in potestà
del padre.
2) In iure cessio (cessione in tribunale)
Ist. di Gaio, II,24: In iure cessio autem hoc modo fit: apud magistratum populi Romani, veluti praetorem,
is cui res in iure ceditur rem tenens ita dicit hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio;
deinde postquam hic vindicaverit, praetor interrogat eum qui cedit, an contra vindicet; quo negante aut tacente
tunc ei, qui vindicaverit eam rem addicit; idque legis actio vocatur. (...)
La cessione in tribunale avviene così: davanti ad un magistrato del popolo romano, per
esempio il pretore, colui al quale la cosa in tribunale viene ceduta, tenendo la cosa, dice
"affermo che quest’uomo è mio per diritto dei Quiriti"; poi, dopo che lui ha rivendicato, il
pretore interroga il cedente, per sentire se rivendichi il contrario; se dice di no o tace, il
pretore assegna la cosa a chi aveva fatto la rivendica; e ciò si chiama azione di legge.
II) FONTI DI PRODUZIONE DEL DIRITTO (PRECLASSICO E) CLASSICO
A) L’editto del pretore
1) D.1,1,7,pr.-1 (Papiniano, Definizioni, 2): Ius autem civile est, quod ex legibus, plebis scitis, senatus
consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt
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adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honorarium
dicitur ad honorem praetorum sic nominatum.
Il diritto civile è quello che proviene dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti
dei principi, dall’autorità dei giuristi. (1) Il diritto pretorio è quello che fu introdotto dai
pretori per ragioni di pubblica utilità allo scopo di migliorare, integrare e correggere il diritto
civile. Esso viene anche definito onorario, così denominato in ragione della carica ["honos"]
del pretore.
2) D.1,1,8 (Marciano, Istituzioni, 1): Nam et ipsum ius honorarium viva vox est iuris civilis.
Infatti, anche lo stesso diritto onorario è una viva voce del diritto civile.
3) Istituzioni di Giustiniano, IV,3,16: Ceterum placuit ita demum ex hac lege actionem esse, si quis
praecipue corpore suo damnum dederit. ideoque in eum, qui alio modo damnum dederit, utiles actiones dari
solent: veluti si quis hominem alienum aut pecus ita incluserit, ut fame necaretur. (...) sed si non corpore
damnum fuerit datum neque corpus laesum fuerit, sed alio modo damnum alicui contigit, cum non sufficit
neque directa neque utilis Aquilia, placuit eum qui obnoxius fuerit in factum actione teneri: veluti si quis
misericordia ductus alienum servum compeditum solverit, ut fugeret.
Si ritenne che in base a detta legge sorgesse azione solo a tutela del danno arrecato
principalmente con il contatto fisico. Di conseguenza, nei confronti di colui che abbia
causato il danno in modo differente si suole concedere della azioni utili. Per esempio, se uno
avesse segregato in luogo chiuso uno schiavo o un animale altrui affinché morisse di fame
(...) Se, invece, il danno non sia stato arrecato con il contatto fisico, né vi sia stata un corpo
lesionato, ma uno abbia ricevuto un danno in altro modo, poiché in tal frangente non risulta
sufficiente né l’azione diretta derivante dalla Aquilia, né l’azione utile, si è ritenuto che
l’autore del danno debba rispondere in base ad un’azione in factum, come nel caso di chi ,
mosso a pietà, abbia liberato il servo altrui messo in catene, perché fuggisse.
B) ESEMPI DI AZIONI ED ECCEZIONI DEL PROCESSO FORMULARE:
(tratte da O. Lenel, Das Edictum perpetuum, Leipzig 1927)
actiones (azioni)
1) Actio certae creditae pecuniae [Condictio] (intimazione per una somma determinata di denaro e
Azione per una somma determinata di denaro data a mutuo).
C.Aquilius iudex esto. Si paret N.Negidium A.Agerio sestertium X milia dare oportere, qua de re agitur,
C.Aquilius iudex N.Negidium A.Agerio sestertium X milia condemnato; si non paret absolvito.
Sia giudice Caio Aquilio. Se apparirà che Numerio Negidio deve dare ad Aulo Agerio
dicimila sesterzi - materia del contendere - il giudice Caio Aquilio condanni Numerio
Negidio a pagare ad Aulo Agerio diecimila sesterzi; se non apparirà, lo assolva.
2) Vindicatio rei (Rivendica). Formula petitoria.
C.Aquilius iudex esto. Si paret fundum quo de agitur ex iure Quiritium A.Agerii esse neque is fundus
arbitrio C.Aquilii iudicis A.Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam C.Aquilius iudex
N.Negidium A.Agerio condemnato, si non paret absolvito.
Sia giudice C.Aquilio. Se apparirà che il fondo di cui si tratta è di A.Agerio in base al diritto
dei Quiriti e il fondo non sarà restituito ad A.Agerio in conformità alla valutazione arbitrale
del giudice C.Aquilio, il giudice C.Aquilio condanni N.Negidio a pagare ad A.Agerio una
somma pari al valore che avrà la cosa [al momento della sentenza], se non apparirà, lo
assolva.
3) Actio Publiciana (Azione Publiciana)
C.Aquilius iudex esto. Si quem hominem A.Agerius emit et is traditus est anno possedisset, tum si eum
hominem de quo agitur ex iure Quiritium eius esse pareret, si ea res arbitrio C.Aquilii iudicis A.Agerio non
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restituetur, quanti ea res erit tantam pecuniam C.Aquilius iudex N.Negidium A.Agerio condemnato, si
non paret absolvito.
Sia Giudice C.Aquilio. Se, qualora A.Agerio avesse posseduto per un anno lo schiavo che ha
comperato e gli è stato consegnato, risultasse che lo schiavo di cui si tratta è suo in base al
diritto dei Quiriti e la cosa non sarà restituita ad A.Agerio in conformità alla valutazione
arbitrale del giudice C.Aquilio, il giudice C.Aquilio condanni N.Negidio a pagare ad A.Agerio
una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva.
4) Actio pro socio (Azione di società)
C.Aquilius iudex esto. Quod A.Agerius N.Negidio societatem omnium bonorum coiit, qua de re agitur,
quidquid ob eam rem N.Negidium A.Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona, dumtaxat quod
N.negidius facere potest, eius C.Aquilius iudex N.Negidium A.Agerio condemnato; si non paret absolvito.
Sia giudice C.Aquilio, posto che A.Agerio ha concluso con N.Negidio una società relativa
all’intero patrimonio - materia del contendere - con riguardo a tutto ciò che, in forza di tale
rapporto, N.Negidio deve dare o fare o garantire in favore di A.Agerio secondo buona fede,
nei limiti delle possibilità di N.Negidio il giudice condanni N.Negidio nei confronti di
A.Agerio, se non apparirà, lo assolva.
Exceptiones (eccezioni)
1) Ist. di Giustiniano, IV,13pr.-1: (...) Comparatae sunt autem exceptiones defendendorum eorum gratia,
cum quibus agitur: saepe enim accidit , ut, licet ipsa persecutio qua actor experitur iusta sit, tamen iniqua sit
adversus eum cum quo agitur. Verbi gratia si metu coactus aut dolo inductus aut errore lapsus stipulanti
Titio promisisti, quod non debueras promittere, palam est iure civili te obligatum esse et actio, qua intenditur
dare te oportere, efficax est: sed iniquum est te condemnari ideoque datur tibi exceptio metus causa aut doli
mali aut in factum composita ad impugnandam actionem.
Le eccezioni sono state introdotte per la difesa dei convenuti: spesso, infatti, accade che, pur
essendo la domanda dell’attore in sé giusta, risulti tuttavia iniqua nei confronti del
convenuto. Se tu, per esempio, costretto da violenza, o indotto dolosamente, o tratto in
errore, a Tizio stipulante promettesti ciò che promettere non avresti dovuto, è chiaro che per
diritto civile sei obbligato, e l’azione con la quale si richiede la tua prestazione è efficace: ma è
iniquo che tu venga condannato, e perciò ti si concede l’eccezione di violenza, o l’eccezione
di dolo malvagio, o un’eccezione correlata al fatto (per l’errore) per contrastare l’azione.
C) Il metodo dei giuristi romani
Ist. di Gaio, I,7: Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura
condere. Quorum omnium si in unum sententae concurrunt, id quod ita sentiunt, legis viccem optinet; si vero
dissentiunt, iudici licet quam velit sententiam sequi; idque rescripto divi Hadriani significatur.
I responsi dei giuristi sono i pareri e le opinioni di coloro a cui è permesso creare diritto. Se i
loro pareri risultano essere tutti concordi, essi assumono valore di legge, se invece sono fra
loro discordanti, al giudice è consentito seguire l’opinione che vuole; e ciò è specificato in un
rescritto del divino Adriano.
Il c.d. ius controversum (diritto contrastato)
1) Ist. di Gaio, III,149: Magna autem quaestio fuit.an ita coiri possit societas, ut quis maiorem partem
lucretur, minorem damni praestet. Quod Q.Mucius contra naturam societatis esse existimavit. Sed Ser.
Sulpicius, cuius etiam praevalit sententia, adeo ita coiri posse societatem existimavit, ut dixerit illo quoque
modo coiri posse, ut quis nihil omnino damni praestet, sed lucrum partem capiat, si modo opera eius tam
pretiosa videatur, ut aequum sit cum hac pactione in societatem admitti. nam et ita posse coiri societatem
constat, ut unus pecuniam conferat, alter non conferat, et tamen lucrum inter eos commune sit; saepe enim
opera alicuius pro pecunia valet.
Una grande discussione nacque sul fatto se potesse costitursi una società in cui un socio
riceva una quota maggiore di utili e ne sopporti una minore di perdite. Quinto Mucio ha
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ritenuto questo contrario alla natura della società. Ma Servio Sulpicio, la cui opinione
prevalse, era così certo che potesse formarsi una siffatta società, da arrivare a dire che si
poteva costituire una società in cui un socio non sopportava alcun danno, ma partecipava
agli utili, se fosse sembrata talmente preziosa la sua opera da rendere equa la sua ammissione
alla società con questo patto. Infatti è certo che la società si può costituire anche in modo
che un socio conferisca del capitale, e un altro no, e comunque gli utili siano fra loro comuni;
spesso infatti il conferimento d’opera di un socio è equiparabile al conferimento di capitale.
2) D.9,2,11pr. (Ulpiano, commentari all’editto,18): Item Mela scribit, si cum pila quidam luderent,
vehementius quis pila percussa in tonsoris manus eam deiecerit et sic servi, quem tonsor radebat, gula sit
praecisa adiecto cultello, in quocumque eorum culpa sit, eum lege Aquilia teneri. Proculus in tonsore esse
culpam: et sane si ibi tondebat, ubi ex consuetudine ludebatur vel ubi transitus frequens erat, est quod ei
imputetur: quamvis nec illud male dicatur, si in loco periculoso sellam habenti tonsori se quis commiserit,
ipsum de se queri debere.
Se taluno, nel giocare a palla con altri, abbia dato a questa un colpo troppo forte, facendola
ricadere sulle mani di un barbiere, e lo schiavo che il barbiere stava radendo abbia avuto la
gola tagliata dal rasoio, Mela scrive che quello fra loro che sia in colpa sarà tenuto in base
all’azione della legge Aquilia. Proculo sostiene la colpa del barbiere; e certo se egli si è posto a
radere in un luogo dove si era soliti giocare o dove il transito era frequente, è il caso di
fargliene una colpa; benché non sia neppure scorretto l’affermare che colui il quale si affidi
ad un barbiere che abbia posizionato la sua sedia in luogo pericoloso debba imputare a se
stesso il male che ne può venire.
3) D.19,2,19,1 (Ulpiano, commentari all’editto, 32): Si quis dolia vitiosa ignarus locaverit, deinde
vinum effluxerit, tenebitur in id quod interest nec ignorantia eius erit excusata: et ita Cassius scripsit. Aliter
atque si saltum pascuum locasti, in quo herba mala nascebatur: hic enim si pecora vel demortua sunt vel
etiam deteriora facta, quod interst praestabitur, si scisti; si ignorasti, pensionem non petes, et ita Servio
Labeoni Sabino placuit.
Se uno, ignorandolo, abbia dato in locazione delle botti difettose e quindi il vino sia andato
versato fuori, egli sarà tenuto a quanto era di interesse alla controparte (oltre il danno
emergente anche il lucro cessante), né la sua ignoranza potrà essere addotta come scusa e
così scrisse Cassio. Diversamente se tu concedesti in locazione un’area per il pascolo, nel
quale crescevano foraggi di cattiva qualità: in questo caso infatti se le pecore sono morte o
sono diminuite di valore, sarà dovuto quanto è di interesse alla controparte solo nel caso che
tu fossi stato a conoscenza della cattiva qualità dei foraggi; se non eri a conoscenza non
dovrai richiedere il corrispettivo della locazione, e così stabilirono Servio, Labeone e Sabino.
La formazione di una " regula iuris"
1) Valerio Massimo, Dei fatti e detti memorabili, 8,2,4: Multus sermo eo etiam iudicio manavit, in
quo quidam damnatus est, qui equo, cuius usus illi Ariciam commodatus fuerat, ulteriore eius municipii clivo
vectus esset (...)
Grande scalpore suscitò pure il processo che finì con la condanna per furto di un tale che,
avendo ricevuto in comodato un cavallo per viaggiare fino ad Ariccia, si era spinto fino ad
una altura vicina a quel municipio.
2) Aulo Gellio, Notti attiche, 6,15: Labeo in libro de duodecim tabulis secundo acria et severa iudicia
de furtis habita esse apud veteres scripsit: idque Brutum solitum dicere, et furti damnatum esse qui iumentum
aliorsum duxerat quam quo utendum acceperat, item qui longius produxerat quam in quem locum petierat.
Itaque Q.Scaevola in librorum quos de iure civili composuit XVI verba haec posuit: "quod cui
servandum datum est si id usus est sive quod utendum accepit ad aliam rem atque accepit
usus est, furti se obligavit".
Labeone nel libro secondo sulle dodici tavole scrive che rigorosi e severi giudizi furono
pronunciati dai (giuristi) antichi in tema di furto; e riporta l’affermazione di Bruto secondo
cui risultava colpevole di furto anche chi avesse condotto un giumento in luogo diverso da
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quello per cui l’aveva ricevuto in comodato, e così pure chi l’avesse portato più lontano
rispetto al luogo per cui aveva chiesto il permesso. E così Scevola, nel sedicesimo libro sul
diritto civile da lui composto, ha scritto quanto segue: "se a uno è dato in deposito qualcosa
ed egli se ne serve, ovvero se di ciò che ha ricevuto in comodato si serve per altro scopo da
quello per cui l’ha ricevuto, egli risponde di furto".
3) D.47,2,55,1 (Gaio, commentario all’editto, 13): (...) ex quo satis apparet furtum fieri et si quis
usum alienae rei in suum lucrum convertat.
E perciò appare chiaro che c’è furto anche se taluno converte l’uso di una cosa altrui per
ricavarne un personale guadagno.
4) D.50,17,1 (Paolo, commentario a Plauzio, 16): Regula est, quae rem quae est breviter enarrat.
Non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Per regulam igitur brevis narratio traditur et, ut
ait Sabinus, quasi causae coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum.
Una regola è la precisa esposizione in sintesi dell’affare in questione. Non si desuma il diritto
dalle regola, ma si crei la regola dal diritto realizzato. Per mezzo della regola, pertanto si
propone una breve esposizione dei fatti: come dice Sabino essa è come la sintesi dei fatti che
ha luogo all’inizio del giudizio, e, se viziata in una qualunque parte, perde la sua funzione.
5) D.50, 17, 202 (Giavoleno, Epistole, 11): Omnis definitio in iure civili periculosa est: parum est
enim, ut subverti non posset.
Nel diritto ogni definizione appare pericolosa; è difficile infatti che essa non possa essere
sovvertita.
6) D.1,2,2,12-13 (Pomponio, Manuale in un solo libro [Enchiridion]): Ita in civitate nostra aut
iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione
consistit (...) (13) (...) post hoc dein de auctorum successione dicemus quod constare non potest ius, nisi sit
aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci.
Così nel nostro stato o c’è il diritto costituito con legge, o c’è lo specifico ius civile che senza
una norma scritta consiste nella sola interpretazione dei giuristi. (13) Dopo questo parleremo
del succedersi dei giuristi, perché non può esistere il diritto se non vi sia qualche esperto del
diritto stesso che lo possa far progredire migliorandolo di giorno in giorno.
D) Cataloghi delle fonti del diritto
1) Ist. di Gaio, I,2: Constant autem iura populi romani ex legibus, plebiscitis, senatoconsultis,
constitutionibus principum edictis eorum qui ius edicendi habent, responsis prudentium.
Gli ordinamenti giuridici del popolo romano sono costituiti da leggi, plebisciti,
senatoconsulti, costituzioni dei principi, editti dei magistrati competenti, responsi dei giuristi.
2) Ist. di Giustiniano, I,2, 3 e 9: Constat autem ius nostrum aut ex scripto aut ex non scripto, ut apud
Graecos: ton vómon oi mèn éggrafoi, oi dè ágrafoi. Scriptum ius est lex, plebiscita, senatus consulta,
principum placita, magistratuum edicta, responsa prudentium. (9): Ex non scripto ius venit, quod usus
comprobavit. Nam diuturni mores consensu utentium comprobati legem imitantur.
Il nostro diritto deriva da fonti scritte e non scritte, come presso i Greci: delle leggi alcune
sono scritte altre non scritte. Diritto scritto è la legge, sono i plebisciti, i senatoconsulti, gli
ordini dei principi, gli editti dei magistrati, i responsi dei giuristi. (9) Da una fonte non scritta
proviene il diritto confermato dall’uso. Invero i costumi durevoli, convalidati dal consenso
degli utenti, imitano la legge.
III) Partizioni del diritto
1) Ist. di Gaio, I,1: Omnes populi qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi
omnium hominum iure utuntur; nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est
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vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter homines constituit, id apud
omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus
itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur. (...)
Tutti i popoli retti da leggi e consuetudini, impiegano, in parte un diritto loro proprio, in
parte un diritto comune a tutti gli uomini: invero quel diritto che ciascun popolo stabilisce
per sé è suo proprio e si chiama diritto civile, come a dire proprio della città; mentre quello
che una naturale ragione ha stabilito fra tutti gli uomini è osservato ugualmente da tutti i
popoli e si chiama diritto delle genti, come a significare che di quel diritto tutte le genti si
servono. Pertanto il popolo romano impiega, in parte un diritto proprio, in parte un diritto
comune a tutti gli uomini.
2) D.1,1,1,2-3 (Ulpiano, Ist., 1): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius
est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam
publice utilia, quaedam privatim. (...) privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus
praeceptis aut gentium aut civilibus. (3) Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud
non humani generis prorpium, sed omnium animalium quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque
commune est.
Due sono gli aspetti di questo studio: il pubblico e il privato. Diritto pubblico è quello che
concerne l’utilità dello stato romano; diritto privato quello che riguarda l’interesse dei singoli:
talune cose sono infatti utili allo stato, altre per i privati. (...) Il diritto privato si divide in tre
parti: è composto infatti di precetti naturali, o comuni a tutti i popoli, o civili. (3) Il diritto
naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali: questo diritto, invero, non è
caratteristico del genere umano, bensì di tutti gli animali che nascono in terra e in mare, ed è
comune anche agli uccelli.
3) Ist. di Giustiniano, II, 2 e 11: (...) Ius autem gentium omni humano generi commune est. Nam usus
exigente et humanis necessitatibus gentes humanae quaedam sibi constituerunt; bella etenim orta sunt et
captivitates secutae et servitutes, quae sunt iuri naturali contrariae. Iure enim naturali ab initio omnes
homines liberi nascebantur. (11) Sed naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes peraque servantur,
divina quadam providentia constituta semper firma atque immutabilia permanent; ea vero quae ipsa sibi
quaeque civitas constituit, saepe mutari solent vel tacito consensu populi vel alia postea lege lata.
Il diritto delle genti è invece comune a tutto il genere umano. A causa della pratica e delle
necessità umane, i popoli si organizzarono e sorsero così le guerre, col loro seguito di
prigionie e schiavitù, che sono contrarie al diritto naturale. Per diritto naturale, invero, tutti
gli uomini inizialmente nascevano liberi. (11) Il diritto naturale, che si osserva ugualmente
presso tutti i popoli, stabilito da una provvidenza divina, resta sempre fermo e immutabile;
invece l’ordinamento che ciascuno stato si dà suol cambiare spesso, o per tacito consenso del
popolo, o per la successiva emanazione di un’altra legge.
4) Sofocle, Antigone, 450-457: "Ah sì. Quest’ordine non l’ha gridato Zeus, a
me; né fu Diritto, che divide con gli dei l’abisso, ordinatore di norme come
quelle, per il mondo. Ero convinta: gli ordini che tu gridi non hanno tanto
nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane, non mai scritte
senza cedimenti. Regole non d’un ora, non d’un giorno fa. Hanno vita
misteriosamente eterna. Nessuno sa radice della loro luce ".
5) Antifonte (Diels-kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 87 b44 a2): "la
maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge è contrario alla natura"
6) Platone, Protagora, 24 [Ippia] "Per natura il simile è consanguineo del
simile, mentre la legge, tiranna degli uomini, alla natura fa molte violenze agli
uomini".
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7) Platone, Gorgia, 38- 39: [Callicle] "Ma, penso, quelli che fanno le leggi
sono i deboli e i molti ... spaventando i più forti e capaci di sorvegliare gli
altri, per impedire che si elevino, dicono essere brutto ed ingiusto voler essere
superiori agli altri e che offendere la giustizia è appunto questo, tentare di
avere più degli altri. 39 - Perciò questo tentativo di rendersi superiori agli altri
si dice ingiusto e brutto secondo la legge, e questo chiamano offendere la
giustizia. Ma la natura stessa a mio avviso dimostra essere giusto che il più
forte stia al di sopra del più debole e il più capace del meno capace. Tale
criterio del giusto appare anche negli altri animali, tale fra stato e stato, fra
gente e gente, cioè che il più forte domini il più debole ed abbia maggiori
vantaggi".
IV) Il negozio giuridico (vizi della volontà)
1) Actio Doli (Azione di dolo)
C.Aquilius iudex esto. Si paret dolo malo N.Negidii factum esse, ut A.Agerius N.Negidio fundum quo de
agitur mancipio daret neque plus quam annus est cum experiundi potestas fuit neque ea res arbitrio
C.Aquilii iudicis restituetur, quanti ea res erit tantam pecuniam C.Aquilius iudex N.negidium A.Agerio
condemnato; si non paret absolvito
Sia giudice C.Aquilio. Se risulta che, per effetto di dolo N.Negidio, ha mancipato a
N.Negidio il fondo di cui si tratta e non è trascorso più di un anno dal giorno in cui l’azione
avrebbe dovuto essere intentata e la cosa non sarà restituita in conformità alla valutazione
arbitrale del giudice C.Aquilio; il giudice C.Aquilio condanni N.Negidio a pagare ad A.Agerio
una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva.
2) Exceptio doli (eccezione di dolo)
Si in ea re nihil dolo malo A.Agerii factum est neque fiat.
Se, nella questione, nulla sia avvenuto o avvenga per dolo di A.Agerio.
3) D.4,3,1,2 (Ulpiano, commentari all’editto, 11): Dolum malum Servius quidem definiit:
machinationem quandam alterius decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur. Labeo autem posse
et sine simulatione id agi, ut quis circumveniatur; posse et sine dolo malo aliud agi, aliud simulari, sicuti
faciunt, qui per eiusmodi dissimulationem deserviant et tuentur vel sua vel aliena: itaque ipse definiit dolum
malum esse omnem calliditatem fallaciam machinationem ad circumveniendum fallendum decipiendum
alterum adhibitam. Labeonis definitio vera est.
Servio definisce il dolo come una macchinazione volta ad ingannare un altro, quando si finge
di fare una cosa e se ne compie un’altra. Labeone afferma invece che si può raggirare un altro
anche senza simulazione; e che pure senza dolo si può fare una cosa e fingerne un’altra,
come accade con coloro che mediante una dissimulazione di questo tipo svolgono
fedelmente i loro doveri e tutelano le cose proprie e altrui.; e pertanto egli stesso definisce il
dolo come ogni astuzia, inganno, macchinazione usata per raggirare, condurre in errore,
ingannare un altro.
4) D.44,4,2,3 (Ulpiano, commentari all’editto, 76): (...) si quis sine causa ab aliquo fuerit stipulatus,
deinde ex ea stipulatione experiatur, exceptio utique doli mali nocebit: licet enim eo tempore quo stipulabatur,
nihil dolo malo admiserit, tamen dicendum est eum, cum litem contestatur, dolo facere, qui perseveret ex ea
stipulatione petere (...).
Se qualcuno, dopo essersi fatto promettere qualcosa mediante una stipulazione senza causa,
agisce giudizialmente per ottenere l’adempimento della stipulazione, sarà respinto con
l’eccezione di dolo; infatti, benché non ci fosse stato alcun dolo nel momento in cui si era
perfezionata la stipulazione, tuttavia bisogna dire che costui, perseverando nel chiedere
l’adempimento della stipulazione giudizialmente, agisce dolosamente.
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5) Exceptio metus causa (Eccezione di violenza [negoziale])
Si in ea re nihil metus causa factum est.
Se, nella questione, nulla sia avvenuto a causa di violenza.
6) D.4,2,21,5 (Paolo, commentari all’editto, 11): Si metu coactus adii hereditatem, puto me heredem
effici, quia quamvis si liberum esset noluissem, tamen coactus volui: sed per praetorem restituendus sum, ut
abstinendi mihi potestas tribuatur.
Seppur costretto dal timore, ho adito l’eredità e sono diventato erede, poiché sebbene libero
di non accettare, tuttavia costretto ho voluto: ma per mezzo della restitutio in integrum (rimessa
in pristino) concessa dal pretore, mi viene attribuita la facoltà di astenermi dall’eredità.
7) D.4,2,6 (Gaio, commentari all’editto provinciale, 4): Metum autem non vani hominis, sed qui
merito in homine constantissimo cadat, ad hoc edictum pertinere dicemus.
Diciamo che in questo editto viene preso in considerazione non il timore di un uomo fragile
ed eccessivamente pauroso, ma quello che può nascere in un uomo ragionevole e saldo di
carattere.
8) D.50, 17,155,1 (Paolo, commentari all’editto, 65) : Non videtur vim facere, qui iure suo utitur et
ordinaria actione experitur.
Non sembra fare violenza chi esercita un proprio diritto ed esperisce un’azione ordinaria.
9) D.22,6,9pr. e 2 (Paolo, unico libro sull’ignoranza di diritto e di fatto): Regula est iuris quidem
ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam facere. (...) Sed facti ignorantia ita demum cuique non nocet,
si non ei summa neglegentia obiciatur: quid enim si omnes in civitate sciant, quod si ille solus ignorat? Et
recte Labeo definit scientiam neque curiossimi neque neglegentissimi hominis accipiendam, verum eius, qui
curet eam rem ut, diligenter inquirendo notam habere possit.
E’ regola che non rileva e quindi nuoce l’ignoranza di diritto, mentre rileva quella di fatto.
Ma l’ignoranza di fatto non nuoce purché non si possa rilevare in chi ignora una crassa
negligenza: che cosa dire, infatti, se quello solo ignora ciò che in città tutti sanno? E
giustamente Labeone definisce che si deve individuare come criterio idoneo della possibilità
di conoscenza né quello di una persona assai attenta né quello di una assai trascurata, ma
quello di chi possa conoscere la cosa secondo una diligenza media.
10) D.18,1,9pr. (Ulpiano, commentari a Sabino, 28): In venditionibus et emptionibus consensum
debere intercedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentiant sive in pretio sive in quo alio, emptio
imperfecta est. Si igitur ego me fundum emere putarem Cornelianum, tu mihi te vendere Sempronianum
putasti, quia in corpore dissensimus , emptio nulla est. Idem est, si ego me Stichum, tu pamphilum absentem
vendere putasti: nam cum in corpore dissentiatur, apparet nullam esse emptionem.
Nelle compravendite è chiaro che si deve manifestare il consenso: del resto se nella
compravendita si dissente sia sul prezzo che su qualche altra cosa, la compravendita è nulla.
Se, dunque, io credevo di comprare il fondo Corneliano e tu di vendermi quello
Semproniano, poiché dissentivamo sull’oggetto, la compravendita è nulla. Lo stesso deve
dirsi se tu hai creduto di vendere panfilo assente e io di comprare Stico: infatti dissentendo
sull’oggetto, è chiaro che la vendita è nulla.
11) D.18,1,11 (Ulpiano, commentari a Sabino, 28): Quodsi ego me virginem emere putarem, cum
esset iam mulier, emptio valebit, in sexu enim non est erratum. Ceterum si ego mulierem venderem, tu puerum
emere existimasti, quia in sexu error est, nulla emptio, nulla venditio est.
Che se io pensavo di comprare una vergine ed invece ho acquistato una donna non più
vergine, la compravendita sarà valida, poiché non vi fu sbaglio sul sesso. Se io abbia venduto
una donna, credendo tu di acquistare un fanciullo, poiché l’errore verte sul sesso, la
compravendita sarà nulla.
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11) D.12, 1,18pr. (Ulpiano, Disputazioni, 7): Si ego pecuniam tibi quasi donaturus dedero, tu quasi
mutuam accipias, Iulianus scribit donationem non esse: sed an mutua sit, videndum. Et puto nec mutuam
esse magisque nummos accipientis non fieri, cum alia opinione acceperit. Quare si eos consumpserit, licet
condictione teneatur, tamen doli exceptione uti poterit quia secundum voluntatem dantis nummi sunt
consumpti.
Se io ti ho consegnato del denaro con l’intenzione di volertelo donare e tu l’hai ricevuto
come se fosse stato dato a mutuo, Giuliano scrive che non si tratta di donazione; ma bisogna
vedere se si tratta di mutuo. E penso che non si tratti neppure di mutuo, in quanto il denaro
non è passato in proprietà dell’accipiente, avendo egli ricevuto con altra intenzione rispetto al
dante causa. Per la qual cosa se l’accipiente avrà utilizzato quella somma di denaro, benché
sia tenuto a rispondere verso il dante causa con l’azione di intimazione, tuttavia avrà a sua
disposizione l’eccezione di dolo, poiché quella somma di denaro è stata utilizzata secondo la
volontà del dante causa.
V) Diritti reali
A) Nozione di diritto reale
Ist. di Gaio, IV, 1-3 e 5: Quot genera actionum sint, verius videtur duo esse, in rem et in personam (...)
(3) In rem actio est, cum aut corporalem rem intendimus nostram esse, aut ius aliquod nobis conpetere, veluti
utendi aut utendi fruendi, eundi agendi aquamve ducendi vel alitus tollendi prospiciendive; aut cum actio ex
diverso adversario est negativa. (5) Appellantur autem in rem quidem actiones vindicationes, in personam
vero actiones, quibus dari fierive oportere intendimus, condictiones.
Appare più esatto che i generi di azioni siano due, reali e personali. (...) E’ reale l’azione
quando pretendiamo che una cosa corporale sia nostra, o che ci competa qualche diritto,
come di uso o di usufrutto, di servitù di passaggio in proprio e con animali, o di condurre
acqua, o di costruire edifici più alti, o di veduta; o quando l’azione dell’avversario è la
negatoria. (5) Le azioni reali si chiamano rivendiche; le azioni personali, con cui pretendiamo
"debba darsi o farsi", intimazioni
B) Dominium (proprietà)
1) Bartolo da Sassoferrato (XIV sec.), Commentaria ad D.41,2,17,1: (...) Quid ergo est dominium.
Respondeo dominium est ius de re corporali perfecte disponendi nisi lege prohibeatur.
Che cos’è dunque la proprietà? Rispondo: la proprietà è il diritto di disporre interamente di
una cosa corporale, ove la legge non lo vieti.
2) Code civil des Français (a. 1804, vigente), art. 544: La propriété est le droit de jouir et
disposer des choses de la maniére la plus absolue, pourvu qu’on n’en fasse pas un usage
prohibé par les lois ou par les règlements.
3) Codice civile italiano (a. 1865, abrogato): art. 436: La proprietà è il diritto di godere e
disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle
leggi o dai regolamenti.
4) Bürgerliches Gesetzbuch (a.1900, vigente), § 903: Befugnisse des Eigentümers. Der Eigentümer
einer sache kann, soweit nicht das Gesetz oder Rechte Dritter entgegenstehen, mit der Sache nach Belieben
verfahren und andere von jeder Einwirkung asschliessen. (...).
Facoltà del proprietario. Il proprietario di una cosa può, in quanto non si oppongano la legge
o diritti dei terzi, disporre della cosa a suo gradimento ed escludere altri da ogni azione su di
essa.
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5) Burgerlijk Wetboeck (a.1992, vigente), 5:1 (=book 5, art. 1): Eigendom is het meest
omvattende recht dat een persoon op een zaak kan hebben.
La proprietà è il diritto più esteso che una persona possa avere su una cosa.
6) Ist. di Gaio, I, 53: (...) male enim nostro iure non debemus; qua ratione et prodigis interdicitur bonorum
administratio.
Non dobbiamo, infatti, usare malamente del nostro diritto; ed è questa la ragione per cui ai
prodighi è vietato aministrare i loro beni.
7) Ist. di Giustiniano, I, 8,2: (...) expedit enim rei publicae, ne quis re sua male uteretur.
E’ infatti interesse dello Stato che uno non usi malamente delle sue cose.
8) Anonimo, Quaestiones de iuris subtilitatibus (circa XII sec.), XX: (...) Cum autem plenam
potestatem quis habere dicitur, hoc significatur eum iure suo posse et uti et frui et ipsam rem consumere seu
commutare et omnino id quod super ea re sibi libet facere.
Quando si dice che un proprietario ha il pieno potere si vuole intendere che egli del suo
diritto può usare e godere, e che può distruggere o trasformare la cosa stessa, e fare su di
essa tutto quanto gli aggrada.
9) D.50,17,54 (Ulpiano, commentari all’editto, 46): Nemo plus iuris ad alium transferre potest,
quam ipse haberet.
Nessuno può trasferire ad altri un diritto di estensione maggiore di quello di cui egli stesso
dispone.
Ususfructus (usufrutto)
1) D.7,1,1 (Paolo, libri a Vitellio, 3): Usus fructus est ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum
substantia.
L’usufrutto è il diritto di usare e percepire i frutti di una cosa altrui, senza alterarne la
destinazione economica.
2) D.7,9,1pr.-4 (Ulpiano, commentari all’editto, 79): Si cuius rei usus fructus legatus sit,
aequissimum praetori visum est de utroque legatarium cavere: et usurum se boni viri arbitratu et, cum usus
fructus ad eum pertinere desinet, restituturum quod inde exstabit. (...) cavere autem debet viri boni arbitratu
perceptu iri usum fructum, hoc est non deteriorem se causam usus fructus facturum ceteraque facturum, quae
in re sua faceret.
Se è stato legato l’usufrutto di una cosa, è sembrato assai equo al pretore imporre
all’usufruttuario di garantire il nudo proprietario in rapporto a due cose: che egli userà della
cosa secondo il giudizio di un uomo dabbene e che, quando cesserà il suo diritto di
usufrutto, egli restituirà quanto rimarrà della cosa. Egli deve garantire che userà e percepirà i
frutti a giudizio di un uomo dabbene, cioè non renderà deteriore la cosa e farà tutto ciò che
farebbe come se la cosa fosse propria.
3) D.7,1,15,1 -5 (Ulpiano,commentari a Sabino, 18): Mancipiorum quoque usus legato non debet
abuti, sed secundum condicionem eorum uti: nam si librarium rus mittat et qualum et calcem portare cogat,
histrionem balniatorem faciat, vel de symphonia atriensem, vel de palaestra stercorandis latrinis praeponat,
abuti videbitur proprietate.(...) Et si vestimentorum usus fructus legatus sit (...) dicendum est ita uti eum
debere, ne abutatur: nec tamen locaturum, quia vir bonus ita non uteretur. Proinde si scaenicae vestis usus
fructus legetur vel aulaei vel alterius apparatus, alibi quam in scaena non uteterur. Sed an et locare possit,
videndum est: et puto locaturum, et licet testator commodare, non locare fuerit solitus, tamen ipsum
fructuarium locaturum tam scaenicam quam funebrem vestem.
L’usufruttuario non deve neppure abusare degli schiavi, quando gliene sia stato legato
l’usufrutto, ma usarne secondo la loro condizione: infatti se mandi un segretario in
campagna, costringendolo a portare calce, di un attore teatrale faccia un bagnino, di un
orchestrale un portiere, o affidi la pulizia delle latrine ad un lottatore della palestra, egli
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abuserà della proprietà. E se è stato legato l’usufrutto di vestiti si deve dire che egli ne deve
usare in modo da non abusarne: ne potrà darli in locazione, perché così non si comportebbe
un uomo dabbene. Se, però, è stato legato l’usufrutto di un costume o di un arazzo teatrale o
di un’indumento per un altra funzione simile, di ciò non si userà se non in scena; ma ci si
deve chiedere se sia possibile darli in locazione. E credo che potranno essere locati: anche se
il testatore era solito darli in comodato e non locarli, tuttavia l’usufruttuario potrà dare in
locazione sia il vestiario teatrale che quello funebre.
a veste
VI) OBBLIGAZIONI
A) Definizione
1) D.44,7,3 (Paulus, 2 institutionum): Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus
nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel
praestandum.
L’essenza delle obbligazioni non sta nel rendere nostro qualcosa di materiale oppure un
diritto di servitù, ma nel costringere un altro verso di noi a dare, fare, prestare qualche cosa.
2) Ist. di Gaio, IV, 41: Intentio est ea pars formulae, qua actor desiderium suum concludit: velut haec pars
formulae si paret N.Negidium A. Agerio sestertium X milia dare oportere; item haec quidquid paret
N.Negidium dare facere oportere; item haec si paret hominem ex iure Quiritium A.Agerii esse. La pretesa
è quella parte della formula in cui l’attore esprime la sua richiesta; per esempio questa: "se
apparirà che Numerio Negidio debba dare diecimila sesterzi ad Aulo Agerio"; oppure
"qualunque cosa apparirà dover Numerio Negidio dare o fare ad Aulo Agerio"; e,
similmente: "se apparirà che in base al diritto dei Quiriti lo schiavo sia di Aulo Agerio". (42)
B) Fonti delle obbligazioni
1) Ist. di Gaio, III,88: Nunc transeamus ad obligationes. Quarum summa divsio in duas species diducitur:
omnis enim obligatio vel ex contractu nascitur vel ex delicto.
Passiamo adesso alle obbligazioni. La cui partizione maggiore le divide in due specie:ogni
obbligazione, infatti, nasce da contratto o da delitto.
2) D.44,7,1 (Gaio, Le cose quotidiane, 2) : Obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio
aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris.
Le obbligazioni nascono, o da contratto, o da delitto, o, secondo specifiche norme, da cause
di diversa struttura.
3) Ist. di Giustiniano, III,13pr. e 2: Nunc transeamus ad obligationes. obligatio est iuris vinculum, quo
necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura. (2) Sequens divisio in quattor
species diducitur: aut enim ex contractu sunt aut quasi ex contractu aut ex maleficio aut quasi ex maleficio.
(...)
Ora passiamo alle obbligazioni. L’obbligazione è un vincolo giuridico in forza del quale
siamo costretti a pagare qualche cosa secondo le norme del nostro stato. (2) La partizione
successiva le divide in quattro specie: ci sono invero obbligazioni da contratto, da quasi
contratto, da delitto, da quasi delitto.
4) Codice civile italiano (a. 1865, abrogato): art.1097: Le obbligazioni derivano dalla legge, da
contratto o quasi-contratto, da delitto o quasi-delitto.
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5) Ist. di Gaio, IV, 1-3 e 5: Agimus autem interdum, ut rem tantum consequamur, interdum ut
poenam tantum, alias ut rem et poenam. (7) Rem tantum persequimur velut actionibus, quibus ex contractu
agimus. (8) Poenam tantum persequimur velut actione furti et iniuriarum et secundum quorundam opinionem
actione vi bonorum raptorum; nam ipsius rei et vindicatio et condictio nobis competit.
(2) E’ personale l’azione con cui agiamo contro qualcuno che ci è obbligato per contratto o
per delitto ossia quando pretendiamo "doversi dare fare garantire qualche cosa". (3). (6)
Talvolta agiamo per ottenere solamente la cosa, talvolta per ottenere solamente una penale,
talvolta per ottenere cosa e penale. (7) perseguiamo solo una cosa con le azioni con cui
agiamo in forza di un contratto. (8) Perseguiamo solo una penale con l’azione di furto, di
ingiurie e, secondo una certa opinione, con l’azione di rapina, quanto alla cosa stessa ci
compete, infatti, sia la rivendica che l’intimazione.
VII) CONTRATTI
A) Definizione
1) D.50,16,19 (Ulpiano, commentari all’editto, 11): Labeo libro primo praetoris urbani definiit, quod
quaedam "agantur", quedam "gerantur", quaedam "contrahantur": et actum quidem generale verbum esse,
sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultrocitroque
obligationem, quod Graeci synallagma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem,
societatem: gestum rem significare sine verbis factam.
Labeone, nel primo libro dedicato all’editto del pretore urbano, chiarisce che a volte "si
agisce", a volte "si gerisce", a volte "si contrae": e atto è segno di carattere generale, sia che si
attui qualche cosa mediante parole sia che lo si faccia mediante cosa, come nel caso della
stipulazione o nel pagamento di una somma di denaro; "contratto", invece, è costituire
obbligazioni reciproche, quello che i Greci chiamano "sinallagma", come la compravendita,
la locazione-conduzione, la società; "gerito" significa aver fatto una cosa senza la pronuncia
di parole.
2) D.2,14,1,3 (Ulpiano, commentari all’editto,4): Conventionis verbum generalis est ad omnia
pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti
convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis locis animi
motibus in unum consentiunt, id est in unam sententiam decrrunt. Adeo autem conventionis nomen generale
est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum nullam obligationem, quae non habeat in se
conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum nulla est.
Convenzione è parola generale che si riferisce a ogni cosa, intorno alla quale si trovano
d’accordo persone che acconsentono fra loro per contrarre o transigere un affare. Come si
usa la parola "convenire" parlando di quelle persone che da luoghi differenti si radunano in
un unico luogo, così la stessa parola "convenire" si usa parlando di quelle persone che, spinte
da differenti motivi personali, acconsentono alla medesima cosa, cioè le parti si trovano
d’accordo. Il nome poi di convenzione ècosì generale che, come dice Pedio, non esiste
contratto nè obbligazione che non abbia in sè l’elemento dell’accordo, sia che si contragga
mediante cosa, sia mediante parole solenni, in quanto anche la stipulazione, che è contratto
verbale, se non ha il consenso risulta nulla.
3) D.50,17,23 (Ulpiano, commentari a Sabino, 29): Contractus quidam dolum malum dumtaxat
recipiunt, quidam dolum et culpam. dolum tantum depositum et precarium. dolum et culpam mandatum,
commodatum, venditum, pignori acceptum, locatum, item dotis datio, tutelae, negotia gesta: in his quidem et
diligentiam. societas et rerum communio et dolum et culpam recipit. sed haec ita, nisi si quid nominatim
convenit (vel plus vel minus) in singulis contractibus: nam hoc servabitur, quod initio convenit (legem enim
contractus dedit), excepto eo, quod Celsus putat non valere, si convenerit, ne dolus praestetur: hoc enim bonae
fidei iudicio contrarium est: et ita utimur. animalium vero casus mortesque, quae sine culpa accidunt, fugae
servorum qui custodiri non solent, rapinae, tumultus, incendia, aquarum magnitudines, impetus praedonum a
nullo praestantur.
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In taluni contratti la responsabilità è limitata al dolo, in altri al dolo e alla colpa. Al solo
dolo, deposito e precario. Al dolo e alla colpa, mandato, comodato, vendita, pegno,
locazione, e similmente la dazione della dote, la tutela la gestione d’affari altrui, in questi pure
la negligenza. Nella società e nella comunione si risponde per dolo e per colpa. Questo in via
normale, a meno che non si stabilisca specificatamente nei singoli contratti una diversa
gradazione dei criteri di responsabilità (più o meno gravosi [per il debitore]), a cui ci si dovrà
attenere in quanto stabiliti inizialmente nel contratto che ha funzione di legge fra le parti,
eccettuato il patto che esclude la responsabilità per dolo, patto che Celso reputa non valido,
essendo infatti contrario alla buona fede e così pure noi crediamo. Diversamente, gli eventi
imprevedibili e le morti degli animali che accadono senza colpa, le fughe dei servi che si era
soliti non porre sotto sorveglianza, le rapine, i tumulti, gli incendi, le inondazioni, gli attacchi
dei predoni escludono la responsabilità.
B) Contratti reali
Mutuum (mutuo)
Ist diGaio III,90: Re contrahitur obligatio velut mutui datione. Mutui autem datio proprie in his rebus
contingit quae pondere numero mensura constant, qualis est pecunia numerata vinum oleum frumentum aes
argentum aurum. Quas res aut numerando aut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et
quandoque nobis non eaedem, sed aliae eiusdem natura reddantur. Unde etiam mutuum appellatum est, quia
quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit.
L’obbligazione si contrae mediante cosa come nel caso del mutuo. La dazione a mutuo
concerne propriamente quelle cose che valgono per peso, numero o misura, quali il denaro
contante, il vino, l’olio, il frumento, il rame, l’argento e l’oro. Diamo queste cose, a numero,
peso o misura, affinché diventino di chi le riceve, e ci vengano successivamente restituite,
non le stesse, ma altre della stessa natura. Per questo è chiamato mutuo, perché quel che ti è
dato in questo modo da me, diventa da mio tuo.
Depositum (deposito)
1) Ist. di Gaio IV, 45-47: Sed eas quidem formulas, in quibus de iure quaeritur, in ius conceptas
vocamus, quales sunt, quibus intendimus nostrum esse aliquid ex iure Quiritium aut nobis dari
oportere aut pro fure damnum decidi oportere; sunt et aliae, in quibus iuris civilis intentio est. (46)
Ceteras vero in factum conceptas vocamus, id est in quibus talis intentio concepta est, sed initio formulae
nominato eo quod factum est adiciuntur ea verba, per quae iudici damnandi absolvendive potestas datur (...)
et denique innumerabiles eius modi aliae formulae in albo proponuntur. (47) Sed ex quibusdam causis
praetor et in ius et in factum conceptas formulas proponit, veluti depositi et commodati. Illa enim formula,
quae ita concepta est iudex esto. Quod A.Agerius apud N.negidium mensam argenteam
deposuit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem N.Negidium A.Agerio dare facere oportet
ex fide bona, eius iudex N.negidium A.Agerio condemnato, nisi restituat. Si non paret,
absolvito, in ius concepta est. Ait illa formula, quae ita concepta iudex esto. Si paret A.Agerium apud
N.negidium mensam argenteam deposuisse eamque dolo malo N.Negidii A.Agerio redditam
non esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam iudex N.negidius A.Agerio condemnato. Si non
paret absolvito, in factum concepta est. Similes etiam commodati formulae sunt.
Le formule in cui si tratta di un diritto le nominiamo concepite in diritto: come quelle con cui
pretendiamo "che qualcosa sia nostro per diritto dei Quiriti" oppure "che ci debba essere
dato" oppure "che debba essere risarcito il danno causato dal furto"; ce ne sono altre ancora,
in cui la pretesa è di diritto civile. (46) Nominiamo invece concepite in fatto le rimanenti,
cioè quelle in cui non formulata alcuna pretesa come sopra, ma, richiamato all’inizio della
formula il fatto si aggiungono le parole con cui si concede al giudice la facoltà di condannare
o assolvere (...) Sono del resto proposte innumerevoli formule del genere nell’editto del
pretore. (47) In taluni casi il pretore propone sia formule concepite in diritto che in fatto:
come per il deposito e per il comodato. E’concepita in diritto la formula così strutturata:
[Tizio] sia giudice. Posto che Aulo Agerio ha depositato un vassoio d’argento presso
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Numerio Negidio - materia del contendere - qualunque cosa in rapporto a ciò debba
Numerio negidio dare o fare ad Aulo Agerio in base alla buona fede, ad essa, o giudice,
condanna Numerio Negidio nei confronti di Aulo Agerio, se non restituisca. Se non risulta,
sia assolto. Mentre appare concepita in fatto quella così strutturata: " [Tizio] sia giudice. Se
apparirà che Aulo Agerio abbia depositato un vassoio d’argento presso Numerio Negidio e
che per il dolo di Numerio Negidio il vassoio non sia stato restituito ad Aulo Agerio, il
giudice, per quanto varrà la cosa, a tale somma condanni Numerio Negidio nei confronti di
Aulo Agerio. Se non risulta, lo assolva". Pure per il comodato si propongono formule simili.
Pignus (pegno)
1) D.13,7,1pr. (Ulpiano, commentari a Sabino,40): Pignus contrahitur non sola traditione, sed etiam
nuda conventione, etsi non traditum est.
Il pegno si contrae non solo con la consegna, ma anche con semplice accordo, e pure se non
è stato ancora consegnato.
2) D.13,7,9,2 (Ulpiano, commentari all’editto,28): Proprie pignus dicimus, quod ad creditorem
transit, hypothecam, cum non transit nec possessio ad creditorem.
Definiamo propriamente pegno, ciò che viene trasmesso al creditore, mentre parliamo di
ipoteca, quando non passa al creditore il possesso della cosa.
3) D.13,7,8pr. (Pomponio, commentari a Sabino, 35): Si necessarias impensas fecerim in servum
aut in fundum, quem pignoris causa acceperim, non tantum retentionem, sed etiam contrariam pigneraticiam
actionem habebo: finge enim medicis, cum aegrotaret servus, dedisse me pecuniam et eum decessisse, item
insulam fulsisse vel refecisse et postea deustam esse, nec habere quod possem retinere.
Se io avrò sostenuto delle spese necessarie per il servo o per il fondo che io avevo ricevuto a
titolo di pegno, non disporrò solo del diritto di ritenzione, ma mi spetterà anche l’azione
pigneratizia contraria; fai il caso che io abbia pagato dei medici, essendo ammalatosi il servo,
e poi costui morì, oppure che io feci delle spese per per riparare o rifare un’edificio, che poi
s’incendiò: in tali casi non avrei alcun bene su cui esercitare il diritto di ritenzione.
C) Contratti verbali (Stipulatio)
1) D.45,1,1,6 (Ulpiano, commentari a Sabino, 48): Eadem an alia lingua respondeatur, nihil
interest. Proinde si quis Latine interrogaverit, respondeatur ei Graece, dummodo congruenter respondeatur,
obligatio constituta est. (...).
Nulla importa se si risponda nella stessa o in un’altra lingua. Pertanto, se taluno avrà
interrogato in latino e gli è stato risposto in greco, purché si risponda opportunamente,
l’obbligazione è valida.
2) D.45,1,1,2 (Ulpiano, commentari a Sabino, 48): Si quis interroget "dabis?" responderit "quid
ni?" et is utique in ea causa est, ut obligetur (...).
Se taluno interroghi "darai?" e uno gli risponde: "perché no?" anche costui si pone nella
condizione di essere obbligato.
3) C.8,37,10 (Imp. Leo A. Erythrio pp.): Omnes stipulationes, etiamsi non sollemnibus vel directis, sed
quibuscumque verbis pro consensu contrahentium compositae sint, legibus cognitae suam habeant firmitatem.
(...Costantinopoli...) [a.472]
Tutte le stipulazioni abbiano valore, pur se non siano state perfezionate con parole solenni e
dirette, ma con parole qualsiasi fondandosi sul consenso dei contraenti.
D) Contratti Consensuali
Emptio-venditio (compravendita)
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1) Ist. di Gaio, III,139-140: Emptio et venditio contrahitur, cum de pretio convenerit, quamvis
nondum pretium numeratum sit, ac ne arra quidem data fuerit (...).
La compravendita si contrae non appena si raggiunge l’accordo sul prezzo, anche se la
somma di denaro non sia ancora stata versata a titolo di prezzo e nemmeno data un’arra (...).
2) D.18,1,7,1 (Ulpiano, Commentari a Sabino, 28): Huiusmodi emptio ‘quanti tu eum emisti’,
‘quantum pretii in arca habeo’, valet: nec enim incertum est pretium tam evidenti venditione: magis enim
ignoratur, quanti emptus sit, quam in rei veritate incertum est.
Una compravendita regolata da una siffatta clausola: "al valore del prezzo a cui tu lo
comprasti", "a quanto denaro ho in cassa" è valida: né infatti appare incerto il prezzo di una
vendita tanto manifesta: infatti il prezzo risulta piuttosto ignorato che non incerto nella verità
oggettiva.
3) D.18,1,8pr.-1 (Pomponio, Commentari a Sabino, 9): Nec emptio nec venditio sine re quae veneat
potest intellegi. Et tamen fructus et partus futuri recte emuntur, ut, cum editus esset partus, iam tunc, cum
contractum esset negotium, venditio facta intellegatur; sed si id egerit venditor, ne nascatur aut fiant, ex empto
agi posse. (1) Aliquando tamen et sine re venditio intellegitur, veluti cum quasi alea emitur, quod fit, cum
captum piscium vel avium vel missilium emitur: emptio enim contrahitur etiam si nihil inciderit, quia spei
emptio est (...).:
Né la compera, né la vendita possono essere concepite senza la cosa, oggetto della vendita. E
tuttavia i frutti e i parti futuri si comprano validamente, in modo che, al momento in cui il
feto sia venuto alla luce, si consideri perfezionata la compravendita dal momento in cui fu
contratto il negozio; ma se il venditore si sarà adoperato per impedire chei parti o i frutti
non vengano ad esistenza, il compratore potrà agire con l’azione di compera nei suoi
confronti. Tuttavia talvolta si può concepire una vendita anche senza l’oggetto (della
vendita), come quando si copra la così detta alea: cioè quando si compra il prodotto della
pesca, della caccia o dei missilia (distribuzione di donativi alla folla in occasione di feste
pubbliche): la compravendita infatti è perfezionata, anche se nulla verrà raccolto, poiché si
compra la speranza.
4) Ist. di Giustiniano, III,23,3: Cum autem emptio et venditio contracta sit (...), periculum rei venditae
statim ad emptorem pertinet, tametsi adhuc ea res emptori tradita non sit. itaque si (...) fundus vi fluminis
totus vel aliqua ex parte ablatus sit, sive etiam inundatione aquae aut arboribus turbine deiectis longe minor
aut deterior esse coeperit emptoris damnum est, cui necesse est, licet rem non fuerit nactus, pretium solvere.
quiquid enim sine dolo malo et culpa venditoris accidit, in eo venditor securus est, sed et si post emptionem
fundo aliquid per alluvionem accessit, ad emptoris commodum pertinet: nam et commodum eius debet, cuius
periculum est.
Una volta perfezionata una compravendita il rischio del perimento della cosa venduta passa
subito al compratore, anche se quella cosa non gli è stata ancora consegnata. Quindi, se (...) il
fondo sia stato spazzato via in tutto o in parte dalla violenza del fiume, oppure anche sia
stato ridotto nelle dimensioni o versi in condizioni peggiori a causa dell’inondazione
dell’acqua o per l’abbattimento delle piante ad opera del turbine: il danno è del compratore,
che deve pagare il prezzo, anche se non abbia ottenuto la cosa. Pertanto per tutto quanto
accade senza dolo o colpa del venditore, il venditore è esente da rischi. Ma se dopo la
compravendita il fondo si incrementa di qualchecosa per alluvione, tale incremento viene a
vantaggio del compratore: infatti anche i vantaggi devono essere di colui che sopporta i
rischi.
5) D.18,1,25,1 (Ulpiano, commentari a Sabino, 34): Qui vendidit necesse non habet fundum emptoris
facere, ut cogitur qui fundum stipulanti spopondit.
Il venditore non ha la necessità di rendere proprietario del fondo il compratore, come invece
è costretto colui che ha promesso il fondo allo stipulante.
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6) C.4,44,2 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Aurelio Lupo): Rem maioris pretii si tu vel
pater tuus minoris pretii distraxit, humanum est, ut vel pretium te restituente emptoribus fundum venditum
recipias auctoritate intercedente iudicis, vel, si emptor elegerit, quod deest iusto pretio recipies. Minus autem
pretium esse videtur, si nec dimidia pars veri pretii soluta sit.
Se tu o tuo padre avete alienato una cosa di maggior valore ricevendo un prezzo minore, è
naturalmente giusto (humanum) o che tu, restituendo il prezzo ai compratori, recuperi il fondo
venduto con il ricorso all’autorità giurisdizionale, o che tu, se lo preferirà il compratore,
riceva quanto manca al giusto prezzo. Il prezzo si considera minore se non sia stata pagata
neppure la metà del giusto prezzo.
7) D.21,1,38pr. (Ulpiano, commento all’editto degli edili curuli, 2): Aediles aiunt:’Qui iumenta
vendunt, palam recte dicunto, quid in quoque eorum morbi vitiique sit, utique optime ornata vendendi causa
fuerint, ita emptoribus traderentur. Si quid ita factum non erit (...) morbi autem vitiive causa inemptis
faciendis in sex mensibus, vel quo minoris cum venirent fuerint, in anno iudicium dabimus. Si iumenta paria
simul venierint et alterum in ea causa furit, ut redhiberi debeat, iudicium dabimus, quo utrumque
redhibeatur’.
Gli edili dichiarano: "coloro che vendono animali da tiro e da soma devono attestare
manifestamente e con precisione le malattie e i vizi che ciascun animale abbia e, comunque
siano stati preparati e abbelliti a scopo di vendita,, così li consegnino ai compratori. Se
qualcosa di quanto precritto non sarà stato fatto, daremo azione entro sei mesi per la
rescissione della compravendita a causa della malattia o del vizio, oppure entro l’anno per la
riduzione al minor valore che tali animali avevano al momento della loro vendita. Se sarà
stata venduta insieme una coppia di animali e solo uno dei due si troverà in siffatta situazione
da dover essere restituito, concederemo azione affinché siano restituiti entrambi.
Altri contratti consensuali
1) D.19,2,13,1-2 (Ulpiano, commentari all’editto, 32): Si navicularius ous Minturnas vehendum
conduxerit et, cum flumen Minturnense navis ea subire non posset, in aliam navem merces transtulerit eaque
navis in ostio fluminis perierit, tenetur primus navicularius? Labeo si culpa caret, non teneri ait: ceterum si,
vel invito domino fecit vel quo non debuit tempore, aut si minus idoneae navi, tunc ex locato agendum.
Se un armatore ha appaltato ("conduxerit") il trasporto di un carico a Minturno e, non
potendo la sua nave entrare nel fiume Minturnense, egli trasferì il carico di merci su un altra e
questa naufragò all’imbocco del fiume, è tenuto il primo armatore? Labeone afferma che egli
non è responsabile, se sia esente da colpa; ma se lo fece contro la volontà del proprietario
delle merci, o in un momento in cui non avrebbe dovuto farlo, oppure, ancora, si servì di
una nave inadatta (a trasportare quelle merci o a navigare in fiume), allora si dovrà agire nei
suoi confronti con l’azione di locazione.
2) D.17,2, 29,1 (Ulpiano, commentari a Sabino,30): Ita coiri societatem posse, ut nullam partem
damni alter sentiat, lucrum vero commune sit, Cassius putat: quod ita demum valebit, ut et Sabinus scribit,
si tanti sit opera, quanti damnum est: plerumque enim tanta est industria socii, ut plus societati conferat
quam pecunia, item si solus naviget, si solus peregrinetur, pericula subeat solus.
Cassio ritiene che possa costituirsi una società in cui uno dei due soci non sopporti alcuna
perdita, mentre gli utili siano comuni; un tale accordo sarà valido, come anche Sabino scrive,
se vi sia un tale conferimento d’opera, pari alle perdite subite; spesso infatti le capacità
personali e professionali ("industria") del socio sono tali da essere più necessarie allo scopo
sociale del conferimento di capitale, come quando il socio compia viaggi da solo per mare o
per terra, o da solo affronti i pericoli.
3) D.17,2,72 (Gaio, Le cose quotidiane, 2): Socius socio etiam culpae nomine tenetur, id est desidiae
atque neglegentiae. Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit etenim talem
diligentiam communibus rebus adhibere, qualem suis rebus adhibere solet, quia qui parum diligentem sibi
socium adquirit, de se queri debet.
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Un socio è tenuto nei confronti degli altri soci anche a titolo di colpa, cioè per inerzia e
negligenza. La colpa tuttavia non va determinata con riferimento ad una diligenza esattissima;
basta infatti che sia impiegato negli affari sociali quel grado di diligenza che uno suole
impiegare nelle sue, poiché chi si procura un socio poco diligente deve lagnarsi di sé
medesimo.
4) Bürgerliches Gesetzbuch (a.1900 [rifor.2002], vigente), § 708: Ein Gesellschafter hat bei
der Erfüllung der ihm obliegenden Verpflichtungen nur für diejenige Sorgfalt einzustehen,
welche er in einigen Angelegenheiten anzuwenden pflegt.
Un socio è tenuto, nell’adempimento degli obblighi che gli incombono, a rispondere solo di
quella diligenza che egli suole avere nei propri affari.
5) Schweizerisches Obligationenrecht (a.1912, vigente) § 538: Ogni socio deve usare negli
affari della società quella diligenza e quella cura , che suole adoperare nei propri.
E) Contratti innominati
1) D.2,14,7pr.-2 (Ulpiano, commentari all’editto, 4): Iuris gentium conventiones quaedam actiones
pariunt, quaedam exceptiones. (1) Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in
proprium nomen contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri
similes contractus. (2) Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamne causa, eleganter Aristo
Celso rspondit esse obligationem. Ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc
sunállagm esse et hinc nasci civilem obligationem. Et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in
hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iliuanus scribit in
factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, id est praescriptis verbis, sufficere: esse
enim contractum, quod Aristo sunállagma dicit, unde haec nascitur actio.
Nel diritto delle genti per la tutela di talune convenzioni sorgono azioni, per altre eccezioni.
(1) Quelle che producono azioni non conservano il nome generale (di convenzioni), ma
acquistano il nome specifico di un contratto, come compravendita, locazione-conduzione,
società, comodato, e deposito e tutti gli altri simili contratti. (2) Ma anche se la convenzione
non assume il nome specifico di un contratto, tuttavia permane la causa dell’obbligazione, e
giustamente Aristone, in risposta a Celso, afferma l’esistenza di un’obbligazione. Come se io
ti ho dato una cosa affinché tu me ne dessi un’altra, o ti dirdi qualcosa affinchè tu ne facessi
un’altra: qui si tratta di sinallagma e da qui sorge un’obbligazione civile. E pertanto penso che
giustamente Mauriciano abbia dissentito da Giuliano in questo caso: io ti ho dato lo schiavo
Stico perché tu manometta lo schiavo Panfilo, e tu l’hai manomesso, mentre Stico viene
evitto. Giuliano scrive che il pretore deve concedere in tuo favore un’azione in factum,
Mauriciano invece ritiene sufficiente l’azione civile incerti, cioè l’azione praescriptis verbis; infatti
ciò che Aristone definisce sinallagma è un contratto, da cui nasce tale azione.
2) D.19,5,17,3 (Ulpiano, Commentari all’editto, 28): Si cum unum bovem haberem et vicinus unum,
placuerit inter nos, ut per denos dies ego ei et illi mihi bovem commodaremus, ut opus faceret, et apud alterum
bos periit, commodati non competit actio, quia non fuit gratuitum commodatum. verum praescriptis verbis
agendum est.
Avendo io un bue e il mio vicino un altro, ci eravamo accordati di darci in comodato
reciprocamente gli animali per un tempo di dieci giorni per svolgere delle attività (nei
rispettivi fondi); il mio bue è morto quando era a disposizione del vicino: in questo caso non
compete un’azione di comodato perché non si trattò di comodato nella sua essenza gratuito,
ma si dovrà agire con un’azione praescriptis verbis.
3) D.19,5,13 pr. (Ulpiano, Commentari a Sabino, 30): Si tibi rem vendendam certo pretio dedissem,
ut, quo pluris vendidisses, tibi haberes, placet neque mandati neque pro socio esse actionem, sed in factum
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quasi alio negotio gesto, quia et mandata gratuita esse debent, et societas non videtur contracta in eo, qui te
non admisit socium distractionis, sed sibi certum pretium excepit.
Se io ti ho consegnato una cosa affinché tu la vendessi ad un prezzo determinato con
l’accordo che fosse tuo quanto tu fossi riuscito a ricavare in più (rispetto a quel prezzo), si è
stabilito che non c’è ne l’azione di mandato né quella di società, ma si deve agire in factum
come se si fosse posto in essere un altro genere di negozio, poiché il mandato deve essere
gratuito e non sembra essersi contratta una società nei confronti di chi non ha ammesso te
come socio nella vendita, ma ha riservato per sé un prezzo determinato.
VIII) Delicta (illeciti)
A) Lex Aquilia de damno (Legge Aquilia sul danneggiamento)
1) D.9,2,2pr. (Gaio, commento all’editto provinciale, 7): Lege Aquilia capite primo cavetur: ‘ut qui
servum servamve alienum alienamve quadrupedem vel pecudem iniuria occiderit, quanti id in eo anno plurimi
fuit, tantum aes dare domino damnas esto’(...).
Nel primo capo della legge Aquilia si stabilisce: "chi avrà ingiustamente ucciso uno schiavo o
una schiava altrui o un quadrupede o animale (altrui), è obbligato a pagare il maggior valore
che quella cosa ha avuto nell’anno precedente.
2) D.9,2,27,5 (Ulpiano, commentari all’editto, 18): tertio autem capite ait eadem lex Aquilia:
‘ceterarum rerum praeter hominem et pecudem occisos si quis alteri damnum faxit, quod usserit fregerit ruperit
iniuria, quanti ea res erit in diebus triginta proximis, tantum aes domino dare damnas esto’.
Nel terzo capo dice la medesima Legge Aquilia: se taluno avrà recato un danno ad un altro in
rapporto ad una qualsiasi altra cosa eccettuata l’uccisione di schiavi e animali, infrangendo e
rompendo ingiustamente, è obbligato a pagare il (maggior) valore che la cosa aveva nei trenta
giorni precedenti.
3) Ist. di Gaio, 3,212: Is iniuria autem occidere intellegitur, cuius dolo aut culpa id acciderit; nec ulla alia
lege damnum, quod sine iniuria datur, reprehenditur; itaque impunits est, qui sine culpa et dolo malo casu
quodam damnum committit.
Ma si ritiene che taluno abbia ucciso ingiustamente, se avrà fatto qualcosa con dolo o colpa;
né alcuna altra legge sanziona il danno che non è stato recato antigiuridicamente; e così chi
reca un danno senza dolo o colpa ma per caso fortuito non riceve sanzione.
4) D.9,2,5,pr.-2 (Ulpiano, commentari all’editto, 18):. Sed et si quemcumque alium ferro se
petentem quis et occiderit, non videbitur iniuria occidisse: et si metu quis mortis furem occiderit, non
dubitabitur, quin lege Aquilia non teneatur. Sin autem cum posset adprehendere, maluit occidere, magis est
ut iniuria fecisse videatur: ergo et lege Cornelia tenebitur. 1. iniuriam autem hic accipere nos oportet non
quemadmodum circa iniuriarum actionem contumeliam quandam, sed quod non iure factum est, <hoc est
contra ius>, id est si culpa quis occiderit ... igitur iniuriam hic damnum accipiemus culpa datum etiam ab eo,
qui nocere noluit.2. Et ideo quaerimus, si furiosus damnum dederit, an legis Aquiliae actio sit? Et Pegasus
negavit: quae enim in eo culpa sit, cum suae mentis non sit? Et hoc est verissimum. Cessabit igitur Aquiliae
actio, quemadmodum, si quadrupes damnum dederit, Aquilia cessat, aut si tegula ceciderit. Sed et si infans
damnum dederit, idem erit dicendum. Quodsi inpubes id fecerit, Labeo ait, quia furti tenetur , teneri et
Aquilia eum: et hoc puto verum, si sit iam iniuriae capax.
Ma anche se taluno avrà ucciso un altro che lo stava aggredendo con un’arma da taglio non
sembrerà aver ucciso ingiustamente: e anche se taluno avrà ucciso un ladro, poiché temeva
per la propria incolumità non v’è dubbio che egli non sia responsabile in base alla legge
Aquilia. Ma se avendo la possibilità di bloccarlo, egli abbia comunque preferito ucciderlo
allora sembra che egli abbia ucciso antigiuridicamente e pertanto è tenuto anche in base alla
legge Cornelia. 1. E’ necessario che noi consideriamo l’antigiuridicità non come un’offesa
relativa all’azione di ingiuria (lesioni fisiche e diffamazione), ma come ciò che non è fatto
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secondo diritto [cioè contro il diritto], cioè se taluno avrà ucciso con colpa. Pertanto qui
riteniamo danno arrecato antigiuridicamente anche quello fatto con colpa e senza
l’intenzionalità di recare danno. 2 Ci chiediamo, allora, se un insano di mente avrà recato
danno c’è la responsabilità in base alla legge Aquilia? Pegaso la negò, infatti quale colpa si
può ravvisare in chi non ha capacità di discernimento? Questo è senza dubbio vero e non
avrà luogo l’azione in base alla legge Aquilia come nel caso in cui un animale rechi danno o
cada una tegola dall’alto. Ma anche se un bambino avrà recato danno bisognerà dire lo
stesso, sebbene Labeone dica, sulla base della riconosciuta responsabilità per furto del
minore, che può essere tenuto anche in base alla legge Aquilia se consapevole di recare
danno.
5) Ist. di Giustiniano, IV,3, 9-10, e 16: His autem verbis legis ‘quanti id in eo anno plurimi fuerit’ illa
sententia exprimitur, ut si quis hominem tuum, qui hodie claudus aut luscus aut mancus erit, occiderit, qui in
eo anno integer aut pretiosus fuerit, non tanti teneatur, quanti is hodie erit, sed quanti in eo anno plurimi
fuerit. qua ratione creditum est poenalem esse hiuis legis actionem, quia non solum tanti quisque obligatur,
quantum damni dederit, sed aliquando longe pluris: ideoque constat in heredem eam actionem non transire,
qaue transitura fuisset, si ultra damnum numquam lis aestimaretur. (10) Illud non ex verbis legis, sed ex
interpretatione placuit non solum perempti corporis aestimationem habendam essesecundum ea quae diximus,
sed eo amplius quidquid praetera perempto eo corpore damni vobis adlatum fuerit, veluti si servum tuum
heredem ab aliquo institutum ante quis occiderit, quam is iussu tuo adiret: nam hereditatis quoque amissae
rationem esse habendam constat. item si ex pari mularum unam vel ex quadriga equorum unum occiderit, vel
ex comoedis unus servus fuerit occisus: non solum occisi fit aestimatio, sed eo amplius id quoque computatur,
quanto depretiati sunt qui supersunt.
Con le parole della legge "il maggior valore che la cosa ha avuto in quell’anno"si esprime il
principio che se uno abbia ucciso il tuo schiavo che oggi è zoppo oppure menomato nella
vista o negli arti, mentre in quell’anno era stato integro o di maggior pregio, sia tenuto a
corrispondere non il suo attuale valore [al momento della uccisione], bensì il maggior valore
avuto in quell’anno. Perciò si è considerato tale azione di natura penale, dato che uno è
tenuto non solo per l’ammontare dell’effettivo danno recato in quel momento, ma talvolta
per un valore assai superiore: onde è certo non si trasmette nei confronti dell’erede, cosa che
si sarebbe verificata se il valore della lite non venisse mai stimato oltre il danno arrecato. (10)
Non fondandosi sulla lettera della legge, ma per effetto della sua interpretazione, si è ritenuto
che si debba operare la stima, seguendo il criterio detto [cfr. supra § 9], non solo del corpo
ucciso, ma ulteriormente di ogni danno sia derivato dall’uccisione di quel corpo, come per
esempio, se taluno abbia ucciso il tuo servo istituito erede, prima che questi potesse accettare
su tuo ordine: è infatti evidente che bisogna stimare anche l’eredità perduta. Similmente se
sarà uccisa di una coppia di mule una, o di una quadriga di cavalli uno, o se sarà ucciso di una
compagnia (teatrale o circense) di comici uno: si opera la stima non solo dell’ucciso, ma in
più si calcola il deprezzamento del valore di quelli che rimangono.
6) D.9,2,31 (Paolo, commentari a sabino, 10): Si putator ex arbore ramum cum deiceret vel
machinarius hominem praetereuntem occidit, ita tenetur, si is in publicum decidat nec ille proclamavit, ut
casus eius evitari possit. sed Mucius etiam dixit, si in privato idem accidisset, posse de culpa agi: culpam
autem esse, quod cum a diligente provideri poterit, non esset provisum, aut tum denuntiatum esse, cum
periculum evitari non possit, sedcundum quam rationem non multum refert, per publicum an per privatum
iter fieret, cum plerumque per privata loca vulgo iter fieret, quod si nullum iter erit, dolum dumtaxat praestare
debet, neimmittat in eum, quem videri transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non
potuerit, an per eum locum aliquis transiturus sit
Se un potatore lasciando cadere un ramo dall’albero, o l’operaio che lavorava sopra un
impalcatura abbia ucciso uno schiavo che passava di lì, è tenuto nel caso che abbia gettato la
cosa in luogo pubblico e non abbia apreavvertito apiena voce affinché fosse possibile evitare
quanto cadeva. Ma Mucio affermò che si può agire in giudizio per la responsabilità per colpa,
anche se lo stesso evento si sia verificato in un luogo privato: perché la colpa consiste nel
fatto che non si sia previsto quanto una persona diligente era in grado di prevedere, oppure
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nel caso che si abbia avvisato quando non era oramai più possibile evitare il pericolo. In
virtù di questo principio non ha molta importanza che il passante transitasse in luogo
pubblico o in luogo privato, in quanto è assai frequente che vi sia transito anche in luoghi
privati. Se invece nel luogo di cui si tratta non si verificava alcun passaggio, egli risponderà
unicamente di dolo,cioè che non deve lanciare cose addosso ad un passante vedendolo in
transito: non si può infatti considerarlo responsabile per colpa, in quanto egli non poteva
indovinare che qualcuno fosse sarebbe passato di lì.
7) D.9,2,8 (Gaio, commento all’editto provinciale,7): Idem iuris est, si medicamentum perperam
usus fuerit, sed qui bene secuerit et dereliquit curationem, securus non erit, sed culpae reus intellegitur. (1)
Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem
obtriverint, volgo dicitur culpae nomine teneri. idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum
impetum non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur, cum affectare quisque non
debeat, in quo vel intellegit, vel intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram, idem iuris est in
personam eius., qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non poterit.
La medesima regola giuridica vale nel caso in cui (un medico) abbia usato male un
medicamento. E non risulterà indenne neppure il medico che, pur avendo operato
correttamente, abbia poi trascurato l’attività di cura successiva alla operazione, ma sarà
considerato in colpa. (1) Anche del mulattiere si afferma comunemente che è responsabile
per colpa se per imperizia non abbia potuto governare lo slancio delle mule, facendole così
schiacciare uno schiavo altrui. La stessa cosa si dice se non è riuscito a trattenerelo slancio
delle mule a causa della propria infermità: infatti non sembra ingiusto ascrivere a colpa
l’infermità, poiché nessuno deve intraprendere un’attività nella quale sa o deve sapere che la
sua infermità risulterà pericolosa per gli altri, La medesima regola vale nei confronti di chi
per imperizia o per infermità non abbia potuto trattenere l’impeto del cavallo su cui
viaggiava.
8) D.19,2,30,2 (Alfeno, Digesti, 3): Qui mulas ad certum pondus oneris locaret, cum maiore onere
conductor eas rupisset consulebat de actione. respondit vel ex lege Aquilia vel ex locato recte eum agere,sed lege
Aquilia tamen tantum cum eo agi posse, qui tum mulas agitasset, ex locato etiam si alius ea rupisset, cum
conductore recte agi.
Una persona che dato in locazione delle mule con un limite di carico, avendole il conduttore
fiaccate sovracaricandole con un peso maggiore, chiedeva quale azione potesse esperire.
Alfeno rispose che egli poteve correttamente esercitare o l’azione della legge Aquilia o
l’azione contrattuale (di locazione), ma chee sulla base della legge Aquilia si poteva agire solo
nei confronti di colui che si occupava delle mule nel momentodell’accaduto, mentre con
l’azione contrattuale (di locazione) si sarebbe potuto agire nei confronti del conduttore,
anche se fosse stato un altro a danneggiare le mule.
9) Ist. di Gaio, III, 203-207: Furti autem actio ei conpetit. cuius interest rem salvam esse, licet dominus
non sit. Itaque nec domino aliter conpetit, quam si eius intersit rem non perire. (204) Unde constat
creditorem de pignore subrepto furti agere posse, adeo quidem, ut quamvis ipse dominus, id est ipse debitor,
eam rem subripuerit, nihilo minus creditori conpetat actio furti. (205) Item si fullo polienda curandave aut
sarcinator sarcienda vestimenta mercede certa acceperit eaque furto amiserit, ipse furti habet actionem, non
dominus, quia domini nihil interest ea non periisse, cum iudicio locati a fullone aut sarcinatore suum consequi
possit, si modo is fullo aut sarcinator rei praestandae sufficiat; nam si solvendo non est, tunc quia ab eo
dominus suum consequi non potest, ipsi furti actio conpetit, quia hoc casu ipsius interest rem salvam, esse.
(206) Quae de fullone aut sarcinatore diximus, eadem transferemus et eum cui rem commodavimus. Nam ut
illi mercedem capiendo custodiam praestant, ita hic quoque utendi commodum percipiendo similiter necesse
habet custodiam praestare. (207) Sed is apud quem res deposita est custodiam non praestat tantumque in eo
obnoxius est, si quid ipse dolo malo fecerit. Qua de causa si res ei subrepta fuerit, quia restituendae eius
nomine depositi non tenetur nec ob id eius interest rem salvam esse, furti agere non potest, sed ea actio domino
conpetit.
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L’azione di furto spetta a chi abbia interesse all’incolumità della cosa, benché non sia
proprietario. Quindi, anche allo stesso proprietario non spetta se non quando egli abbia
interesse al non perimento della cosa. (204) Perciò è sicuro che il creditore può agire con
l’azione di furto per la sottrazione del pegno; al punto che anche se la cosa sia stata sottratta
dallo stesso proprietario - quindi dal debitore - comunque il creditore ha l’azione di furto.
(205) Così, se il lavandaio per pulirli e curarli, o il sarto per rammendarli, abbia ricevuto dei
vestiti, dietro la corrisponsione di un preciso compenso, e li abbia perduti a causa di un furto
a lui compete l’azione di furto e non al proprietario, in quanto al proprietario non interessa
per nulla che i vestiti siano periti, poiché può ottenere quanto gli spetta con l’azione di
locazione dal lavandaio o dal sarto, purché quel lavandaio o quel sarto sia solvibile in
rapporto al valore della cosa; infatti nel caso che non lo sia, poiché allora il proprietario è
impossibilitato ad ottenere quanto gli spetta da lui, è allo stesso proprietario che spetta
l’azione di furto, in quanto in tal caso risulta di suo proprio interesse che la cosa risulti
incolume. (206) Quanto abbiamo detto riguardo al lavandaio e al sarto, lo possiamo riferire
anche al comodatario. Come infatti il lavandaio e il sarto, ricevendo un compenso,
rispondono per custodia, così anche il comodatario, avendo il vantaggio dell’uso della cosa,
deve similmente rispondere per custodia. (207) Ma il depositario non risponde per custodia,
e la sua responsabilità è circoscritta al dolo. Perciò se gli è stata sottratta la cosa, poiché per la
causa del deposito non è tenuto alla restituzione e quindi non gli interessa l’incolumità della
cosa, a lui non spetta l’azione di furto, che invece compete al proprietario.