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ETRUSCHI
LE FONTI
Riportiamo brevemente un profilo degli studiosi antichi che ci hanno tramandato la storia del popolo etrusco. Ricordiamo che la cultura etrusca ebbe un forte “scontro” con quella romana. A tale proposito si tenga presente che alcuni storici si sono schierati apertamente a favore della cultura romana (cioè quella vincitrice), altri contro. Per tale ragione, le notizie storiche sugli Etruschi che ci sono pervenute nel corso dei secoli sono state in alcuni casi trionfalistice e leggendarie, in altri scarne e deludenti.
 
Dionisio di Alicarnasso
 
Retore e storico greco vissuto fra il 60 a. C. e la fine del I sec. a. C., soggiornò per molti anni a Roma, dove tenne una scuola. Oltre ad opere di retorica, scrisse un'importante opera storica: Antichità romane, composta in 20 libri, dei quali possediamo i primi 10, mentre il libro XI ci è giunto lacunoso. Il lavoro arrivava fino all'inizio della prima guerra punica, partendo dalle fasi più antiche della preistoria e della storia romana.
 
Diodoro Siculo
 
Vissuto tra il I sec. a. C. ed il I d.C., lo storico Diodoro Siculo, il cui nome significa "dono di Dio", nacque ad Agira e visse a Roma in età Cesarea ed Augustea. Considerato dai greci "padre della storia" insieme ad Erodoto, Diodoro volle e seppe esprimere la sua cultura di lingua greca tanto da essere spesso chiamato "storico greco". Viaggiò molto per i tre continenti conosciuti per approfondire i suoi studi. Tornato a Roma, utilizzò le sue nuove conoscenze per scrivere una colossale storia universale, dal titolo "Biblioteca" in quaranta volumi, dei quali restano soltanto quindici volumi. La sua opera, tradotta in diverse lingue, tratta dalla tecnica egizia della mummificazione alla scienza urbanistica mesopotamica, dal periodo precedente la guerra di Troia alle conquiste di Giulio Cesare in Gallia. Alla sua fonte hanno attinto Marco Polo, che lo cita ne "Il Milione", Salzano, Holm e Di Berenger. Innegabili sono i meriti della sua opera che ci ha tramandato avvenimenti mai raccontati e che altrimenti sarebbero andati perduti. Plinio il Vecchio lodò il contenuto della sua opera scrivendo pure che Diodoro non favoleggiò, ma trasse i fatti reali dalla somma delle tradizioni locali e, dove non era possibile per assenza di documenti, da accurate deduzioni.
 
Dione Cassio
 
Dione Cassio, ovvero Dio Cassius Cocceianus (ca. 150-235), storico e politico romano, nato a Nicea, in Bitinia; suo nonno materno fu il filosofo stoico Dione Crisostomo (ca. 40-112). Dione Cassio ebbe incarichi amministrativi a Roma sotto gli imperatori Commodo, Pertinace, Settimio Severo e Alessandro Severo; fu due volte console (220 e 229). Dione è meglio conosciuto come l'autore di una storia di Roma in 80 libri scritta in greco. Ne restano interi solo 18, ma frammenti di alcuni degli altri libri e successive epitomi di altri scrittori sono arrivate sino a noi. Le opere di Dione sono tutte di primaria importanza per la storia degli ultimi anni della repubblica romana ed i primi anni del'impero.
 
Eforo
 
Storico greco nato a Cuma eolica all'inizio del IV sec. a. C. La sua opera principale fu una storia universale della Grecia in 29 libri, il trentesimo venne aggiunto dal figlio. La narrazione partiva dal mitico ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso sino all'assedio di Perinto ad opera di Filippo II (341/340 a. C.). Il suo lavoro costituì una fonte importante per Diodoro Siculo e Strabone, venendo utilizzata, inoltre, da Polieno, Pompeo Trogo e Plutarco.
 
Erotodo
 
Storico greco nato ad Alicarnasso, forse intorno al 484 a. C., e morto non prima del 430 a. C., non si sa se a Thurii, come riporta la breve biografia della Suda, o ad Atene, dove potrebbe essere ritornato a conclusione dei suoi viaggi nella Grecia continentale, in Egitto, Fenicia, Mesopotamia, in Magna Grecia L'opera di Erodoto ci è giunta con il titolo di Historìai (Storie), desunto dalle prime parole del proemio. Fu probabilmente il filologo Aristarco di Samotracia a dividerla in nove libri, a ciascuno dei quali, successivamente, venne dato il nome di una musa. Vi è esposta la storia di Lidi, Persiani, Egiziani, Babilonesi e Sciti. Gli avvenimenti del racconto principale riguardano gli ottanta anni di storia che vanno dall'ascesa al trono di Creso e Ciro (560-559 a. C.) alla battaglia di Micale e all'occupazione di Sesto (479 a. C.). La composizione dell'opera risulta piuttosto complessa soprattutto per le numerose digressioni che partendo dal racconto principale arrivano ad occupare più capitoli se non un intero libro.
 
Floro L. Anneo (o Giulio)
 
(secc. I-II d.C.) Originario dell'Africa, a somiglianza degli oratori greci della "seconda sofistica", ebbe un'attività di conferenziere itinerante nelle province. Uno dei temi da lui affrontato era la questione se "Virgilio era oratore o poeta", problema sul quale ci è stato conservato uno svolgimento redatto in forma di dialogo.
Finì per stabilire a Roma la sua dimora, durante l'impero di Adriano, e nella città compose i suoi 2 libri "sulle guerre romane" (specificamente, il I relativo alle guerre esterne, il II alle guerre civili del I sec. a.C.), comprende 7 secoli di storia militare romana, dalla fondazione dell’Urbe ad Augusto. Sotto la vernice del presunto storico, traspare però l'atteggiamento del rètore: Floro elogia più che raccontare. Questo conferenziere, sempre in cerca di brillanti amplificazioni, immagina di paragonare la vita del popolo romano a quella di un essere umano le cui differenti età si caratterizzano per una crescita, una maturità e una decadenza, salvo poi concludere, per trarsi d'impaccio, che la dinastia antonina aveva restituito a Roma la sua giovinezza. Quest'opera "puerile" (anche nella struttura molto semplice del suo latino) ci è stata conservata sotto il titolo, davvero improprio, di "Epitoma de Tito Livio" ("Compendio di Tito Livio").
 
Livio Tito
 
Scarse le notizie della sua vita. Di lui non si conosce il cognome. Si sa che nacque a Padova nel 59 a.C. Presto si trasferì a Roma, dove entrò nelle grazie dell'imperatore Augusto, che gli affidò, a quanto pare, l'educazione culturale del nipote adottivo Claudio, futuro imperatore. Ebbe una figlia ed un figlio, Tito, divenuto poi famoso geografo. Di idee conservatrici, improntò la sua vita e la sua opera ad equilibrio morale e religioso e spirito patriottico. Il suo essere un convinto pompeiano, e quindi critico nei confronti di Cesare, non gli impedì di comprendere lo spirito nuovo dei tempi, di ammirare l'opera riformatrice imperiale e di celebrare la pace augustea e la figura stessa dell'imperatore. Morì a Padova nel 17 d.C.
 
Pochi frammenti ci sono pervenuti dei suoi scritti filosofici e retorici, che noi conosciamo soprattutto tramite le testimonianze di successivi autori come Quintiliano e Seneca. Ma il suo capolavoro è rappresentato dalle Storie. Iniziato tra il 27 ed il 25 a.C., occupò tutta la sua vita.
Originariamente il titolo doveva essere Ab Urbe condita libri e comprende in 142 libri annalisticamente, anno per anno o per gruppi di anni, la storia di Roma dalle origini sino al 9 a.C., anno della morte di Druso Maggiore (figliastro di Augusto), il governatore delle Gallie che combatté contro le popolazioni germaniche. E' probabile che l'opera dovesse comprendere, nel disegno originario, 150 libri e concludersi con la morte di Augusto (14 d.C.). L'autore la pubblicò, man mano che procedeva nella composizione, per sezioni staccate, raggruppandole in decadi (10 libri) o pentadi (5 libri), corrispondenti per lo più a determinati cicli di fatti storici. Dei 142 libri ne avanzano solo 35 : le decadi 1a, 3a, 4a e i primi cinque libri, lacunosi, della 5a. Degli altri 107 rimangono alcuni frammenti ed i riassunti che vennero fatti di tutta l'opera, forse ad uso scolastico, ad eccezione dei libri 136 e 137.
 
 
Macrobio Ambrogio Teodosio


Ambrogio Macrobio Teodosio visse nel V secolo. Egli si rivela africano da certe particolarità linguistiche e probabilmente fu il Macrobio proconsole in Africa nel 410. Il più e il meglio della sua erudizione è raccolto nei sette libri dei Saturnalia, una specie di enciclopedia del sapere filosofico, centrata sulla figura di Virgilio; inoltre aveva scritto prima due libri di Commentarii al Somnium Scipionis ciceroniano. L'una e l'altra opera sono dedicate al figlio Eustachio.
 
Plinio il Vecchio
 
Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio, nacque a Como nel 23 d. C., fu il più grande naturalista romano. Morì durante l'eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. a Stabia. La sua fama è legata all'opera monumentale Naturalis Historia in 37 libri, tutti pervenuti fino a noi. Si tratta di una vera e propria enciclopedia in cui Plinio si propose di compendiare l'intero scibile umano: cosmologia e geografia fisica; geografia ed etnologia; antropologia e fisiologia; zoologia; botanica; botanica in relazione al suo impiego in medicina; zoologia in relazione all'impiego in medicina; metallurgia e mineralogia, con ampie digressioni sulla storia dell'arte.
 
Properzio Sesto
 
(Assisi? 50 ca a.C. – Roma, dopo il 15 a.C.) Nacque da agiata famiglia di rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu avviato alla carriera forense. Ma Properzio rivelò precoce attitudine per la poesia: già al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto "monobiblos" ("libro unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la tradizione dei poeti alessandrini. Il successo che gli arrise spinse Mecenate ad ammetterlo nel suo celebre "circolo". Qui, Properzio conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era solito recitare i propri "roventi" ("ignes") versi. Difficili, invece, i rapporti con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e Properzio sembrano poi ignorarsi del tutto (gelosia reciproca?).
Uno dei primi amori cantati dal poeta fu la giovane schiava Licinna, ma forse l'unico avvenimento davvero importante nella sua vita fu l'incontro con Cinzia. Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte Cinto (si ricordi, a proposito, anche la Delia di Tibullo). Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di Properzio, dagli occhi neri e dai capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma anche di facili avventure d'amore (e dunque costituzionalmente infedele), dominò incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione. Si amarono, talora "nevroticamente", per quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desiderio di lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. Dunque, una vera e definitiva "rottura" nel rapporto non ci fu mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il "discidium", la separazione definitiva; nonostante la stessa morte di lei.
 
 
Silio Italico Tiberio Cazio Asconio
(Padova?, 25 ca – Campania 101 d.C.) Senatore, cortigiano di Nerone, console nel 68, noto durante i periodi più cupi della tirannide come delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d'Asia. Coltivò la poesia nella vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male incurabile, si lasciò morire di fame.
 
Stabone
 
La data di nascita di Strabone, con buona probabilità, può essere stabilita nel 64/63 a.C., nella provincia romana di Amaseia, nel Ponto. Originario di una nobile famiglia, anticamente legata al re Mitridate, Strabone ebbe a disposizione un patrimonio notevole che gli diede la possibilità di ricevere un'ampia istruzione e di dedicarsi, per tutta la vita, ai viaggi e agli studi. La maggior parte delle notizie biografiche si desumono dalla stessa Geografia. Al 44 a.C., anno della morte di Cesare, risale il suo primo soggiorno a Roma (XII 6,2), dove fu allievo del celebre Tirannione, a sua volta originario del Ponto. Personalità di spicco nella vita culturale romana di quegli anni - tra l'altro fu il maestro dei figli di Cicerone - Tirannione era un grammatico di formazione peripatetica e, in particolare, esperto di 'Geografia', come ricorda lo stesso Cicerone (Lettere ad Attico, II 6). A Roma, Strabone poté ricevere un'ampia istruzione filosofica caratterizzata dall'eclettismo: oltre a Senarco di Seleucia, un altro filosofo peripatetico, frequentò anche lo stoico Posidonio di Apamea, vissuto tra il 135 e il 51 a.C., i cui scritti, amplissimi per numero e argomenti trattati, e oggi perduti, possono essere considerati come importante fonte di numerosi autori greci e latini, da Cicerone a Seneca, da Galeno ad Ateneo, Diogene Laerzio, fino a Simplicio e Stobeo, oltre allo stesso Strabone.
Tra il 35 a.C. e il 7 d.C., sono documentati sempre nella Geografia, ulteriori soggiorni a Roma, e altri viaggi nelle provincie e le città del nascente impero romano. Talora Strabone accompagò anche personalità di rango della classe dirigente romana: in ogni caso non sembra che abbia mai compiuto viaggi con la finalità di raccogliere notizie 'autottiche' da inserire nella propria opera, compilata, essenzialmente, attraverso la consultazione di fonti scritte; né d'altro canto ricoprì mai direttamente ruoli di rilievo all'interno dell'amministrazione romana. In breve, nella biografia di Strabone non si ricordano episodi di grande rilievo, né particolari esperienze: fu una vita da 'studioso', alquanto appartata rispetto ai tumultuosi anni che videro la trasformazione della 'repubblica' romana nell'assetto imperiale augusteo. Incerta la data di composizione della Geografia. Sicuramente l'opera fa seguito ai Commentari Storici in 47 libri oggi perduti - ne restano solo frammenti di tradizione indiretta - che proseguivano il corso della narrazione di Polibio, incentrata sul periodo 264-200 a.C. Vari riferimenti e dati interni, in ogni caso, come per es. alcuni cenni all'impero di Tiberio (14-37 d.C.) e ad eventi riconducibili al 21 o al 23 d.C. (cfr. XVII 3,7.9.25), inducono a ipotizzare il periodo compreso tra il 17 e il 23 d.C. per la redazione dell'opera, dunque verso la fine della lunga vita di Strabone, probabilmente pubblicata solo dopo la sua morte, avvenuta intorno al 24 d.C.
 
Svetonio Gaio Tranquillo
 
(Algeria o Roma, 70 d.C.? – 140? ca d.C.) Della sua vita possediamo poche notizie, desumibili soprattutto dalle sue stesse opere e da Plinio, che in una lettera a Traiano ne sottolinea la rettitudine e l'erudizione. Nato da una ricca famiglia dell'ordine equestre, Svetonio rifiutò tuttavia la carriera di amministratore o di soldato riservata in genere a quelli del suo rango. Uomo dedito agli studi, intimo amico di Plinio il Giovane (il quale lo introdusse nelle simpatie di Traiano, facendogli anche conferire lo ius trium liberiorum, una sorta di sussidio familiare che in casi eccezionali veniva concesso anche a scapoli benemeriti), nonché avviato alla carriera retorica e forense, lo storico consacrò tuttavia tutta la sua vita a ricerche erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone: ma la sua attività - come vedremo - si limitò quasi interamente al genere biografico.
Grazie all'amicizia del prefetto del pretorio Setticio Claro (anch'egli amico di Plinio, sopravvissuto a quest'ultimo, e che avrebbe continuato comunque a proteggere il nostro autore), intorno al 120 Svetonio riuscì ancora a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato cioè della corrispondenza) nei servizi dell'imperatore Adriano. A quest'alto incarico egli poté essere chiamato dopo aver dato buona prova delle sue qualità di funzionario amministrativo, prima come sovrintendente di tutte le biblioteche pubbliche di Roma, poi come "a studiis" (quasi un nostro ministro della cultura e dell'istruzione). Tutte queste mansioni, e in special modo l'ultima in ordine di tempo (quella di segretario), gli permisero di accedere liberamente agli archivi del Palatino, per cui le sue informazioni ci hanno permesso di ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui, sarebbero andati completamente perduti. Nessun altro storico, infatti, poteva averne conoscenza.
Dopo il rovescio politico del suo protettore, tuttavia, anche l'incarico di Svetonio presso la corte non durò molto a lungo. Nel 122, Adriano lo allontanò con un pretesto, perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui fra gli altri, avevano instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente dell'imperatrice Sabina. Svetonio, così, trascorse gli ultimi anni della sua vita immerso negli studi ed attendendo alla pubblicazione delle sue vaste e numerose opere.
 
Tacito Publio (o Gaio?) Cornelio
(55 d.C.? ca – 120 ca) Origini nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati biografici di T. (a partire già dai suoi "tria nomina"): nacque probabilmente nella Gallia Narbonese (ma forse a Terni, o addirittura nella stessa Roma), da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma (frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben presto fama come oratore (dovette essere anche un valentissimo avvocato), e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare.
Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano; ma, come Giovenale, poté iniziare la carriera letteraria solo dopo la morte dell'ultimo, terribile, esponente flavio (96 d.C.), sotto il cui principato anche il nostro autore, come altri intellettuali del resto, non dovette vivere momenti certo tranquilli. Questore poi nell’81-82 e pretore nell'88, T. fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche se in veste di supplente) e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il console morto durante l'anno in carica. Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113), per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico, nella vita e negli studi, di Plinio il Giovane.
 
Tiberio Claudio Druso Nerone
 
(Imperatore di Roma) Tiberio Claudio Druso Nerone era figlio di Antonia - figlia a sua volta del generale Marcantonio - nipote in linea paterna di Livia Drusilla - moglie di Augusto - and fratello di Germanico. Sposò prima Valeria Messalina poi sua nipote Agrippina, madre di Nerone. Nel 41 d.C, dopo la morte di Caligola, diventò imperatore per caso, e di mostrò uno dei migliori Cesari di Roma.
Fu uno degli ultimi profondi conoscitori della lingua etrusca e scrisse una monumentale storia di questo popolo - completa di grammatica (Tyrrenica) - che è andata completamente perduta. Ordinò di costruire il Porto di Ostia e cominciò il prosciugamento del lago di Fucino, opera che verrà portata a compimento soltanto nel nostro secolo. Nel 43 d.C. conquistò la Britannia. La sua ultima moglie, Agrippina, lo uccise nel 54 d.C, con una porzione di funghi avvelenati per mettere sul trono il figlio Nerone.
 
Tucidide
 
Storico nato ad Atene verso il 460 a.C. Molto poco si conosce della sua vita e le scarse notizie sono per lo più deducibili dalle sue opere e da biografie molto tarde. Fu stratega nel 424/3 a.C. e, al comando di una flotta di sette navi, accorse in aiuto di Anfipoli minacciata dai Persiani. L'insuccesso di questa spedizione costò a Tucidide un lungo esilio durato venti anni che egli trascorse probabilmente nel Peloponneso e in Tracia. Durante l'esilio cominciò a scrivere la Storia della guerra del Peloponneso in otto libri, che poté condurre solo fino al 411 a.C. Tucidide morì verso il 400 a.C. probabilmente di morte violenta.
 
Valerio Massimo
 
(I secolo d.C. - Età di Tiberio) Non sappiamo quando e dove sia nato questo retore, che era cliente del console del 14 d.C., Sesto Pompeo, e che Valerio seguì nel 27 quando Sesto fu nominato proconsole in Asia. Nel 32, dopo la caduta del prefetto di Tiberio, Seiano, completò la sua opera, dedicandola al principe. Valerio Massimo è autore di una raccolta di aneddoti storici, Factorum et dictorum memorabilium libri, in 9 libri. L'opera è una raccolta di exempla storici, diretta alle scuole, divisa per argomenti, al cui interno si ha una sotto-divisione in exempla stranieri e (quantitativamente di più) romani, che sono attinti non tanto ai grandi storici greci, quanto a Cicerone, Sallustio e Livio. I temi sono disparati:
I. Religione; II. Rispetto delle istituzioni; III. Coraggio, forza, pazienza; IV. Misericordia, sobrietà, amore coniugale, amicizia; V. Clemenza, riconoscenza, amore filiale; VI. Castità, giustizia; VII. Fortuna; VIII. Processi e otium; IX. Vizi.
Secondo quello che l'autore afferma nella prefazione, si tratta di un manuale diretto a chi vuole citare gesta o sentenze riguardanti un determinato argomento: è dunque un manuale ad uso dei retori e dei declamatori delle scuole, costruito con uno stile ampolloso e pretenzioso. Tuttavia Valerio nasconde questa vacuità retorica sotto il pretesto etico dell'esaltazione della virtù, che ovviamente si rivela in Tiberio e ha il suo contrario in Seiano, insigne esempio di ingratitudine punita. Ragion per cui Valerio non può essere definito uno storico, quanto un retore che testimonia il progressivo sbriciolamento della storiografia in aneddotica e pettegolezzo, senza più la necessaria comprensione delle causalità degli eventi. Per il suo carattere moraleggiante, l'opera ebbe molta fortuna nel Medioevo, circolando anche in due riassunti, quello di Giulio Paride e uno (mutilo) di Nepoziano, ambedue del IV-V secolo d.C.
 
Varrone Marco Terenzio
 
(Reate, oggi Rieti, in Sabina, nel 116 – 27 a.C.) Autore longevo. L'elemento più significativo della vita di Varrone è sicuramente la sua longevità, che lo mette in condizione di assistere agli eventi che vanno dal comparire di Mario sulla scena politica all'ascesa di Augusto. Fra tradizione e modernità. Studiò a Roma e ad Atene. Difensore della tradizione (secondo, potremmo dire, quasi il dettato genetico della sua origine sabina), si schierò dalla parte di Pompeo, ricoprendo la carica di tribuno della plebe e, in seguito, quella di pretore, senza peraltro proseguire e concludere il suo "cursus honorum". Cesare gli perdonò e gli affidò addirittura la biblioteca pubblica che intendeva instaurare in Roma: la scelta proprio di Varrone potrebbe spiegare la valenza politica del progetto cesariano: il mondo nuovo che dittatore sta realizzando si preoccupa di mantenere la memoria del passato per trasmetterla ai posteri. Pare, infine, che Varrone sia stato anche consigliere di Augusto per le questioni religiose.
 
Vitruvio Pollione
 
(sec. I a.C.) Identificato con l’ufficiale cesariano Mamurra, architetto, scrisse il "De architectura" (25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato ad Augusto e riconducibile alla sua politica d’abbellimento architettonico di Roma.
L’opera, in parte compilatoria e in parte originale (7 libri di architettura, 1 di idraulica e 2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo e per il suo contenuto (ricco di elementi di varia natura, tratti da discipline disparate: aritmetica, geometria, disegno, musica, prosodia, astronomia, ottica, medicina, giurisprudenza, storia, filosofia), è un unicum nel suo genere. L’architettura è vista, in senso aristotelico, come "mimesis" dell’ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede all’architetto una cultura ricca e varia, enciclopedica (quasi quella dell’oratore ciceroniano), che faccia perno sulla filosofia.
Etruscologia
 
La rassegna retrospettiva che qui s'intende presentare per grandi linee richiama i dati essenziali relativi agli avvenimenti, alle persone e alle opere che costituiscono la trama del graduale recupero delle conoscenze sull'Etruria antica e dell'approccio moderno alla sua comprensione. A tal proposito non sembra difficile individuare e distinguere: 1) una «preistoria» erudita che va fino al Settecento, 2) un periodo di estese e positive acquisizioni scientifiche che abbraccia gran parte dell'Ottocento e infine 3) uno stadio di più estesa ricerca e di più compiuta elaborazione storico-critica soprattutto nel corso del nostro secolo.
Anche se la memoria degli antichi Tusci era riaffiorata talvolta non senza qualche punta di orgoglio nelle cronache toscane del tardo medioevo e nella letteratura umanistica, fu senza dubbio il generale risveglio d'interesse per i monumenti antichi e per le scoperte di antichità che portò la cultura del Rinascimento ad un primo incontro con le testimonianze del mondo etrusco in quanto fenomeno più o meno chiaramente distinguibile, e progressivamente distinto, nell'ambito della risorgente classicità. Rinvenimenti sporadici di tombe e di iscrizioni osservati con crescente curiosità alimentarono tra gli ultimi decenni del XV e i primi del XVI secolo gli scritti pieni di ricostruzioni fantastiche di Annio da Viterbo e le opere di altri eruditi come Sigismondo Tizio a Siena. Da Leon Battista Alberti a Giorgio Vasari si avviò una iniziale teorizzazione dell'architettura e dell'arte figurativa etrusca (particolarmente importante, a metà del Cinquecento, fu la scoperta della Chimera d' Arezzo).
Il richiamo dell'Etruria antica si spostò nel corso del XVI secolo dalla Tuscia papale alla Toscana, e in Toscana trovò il suo ambiente più propizio non soltanto a livello di interessi culturali, ma anche per una certa rispondenza al programma politico del principato mediceo, culminando poi nel Settecento in quel vivacissimo movimento di ricerche (scavi a Volterra, Cortona, ecc.) e di studi antiquari che prese il nome di etruscheria. L'entusiasmo dei dotti locali portati a sopravalutare le antiche glorie della loro patria toscana contribuì a diffondere la conoscenza dei monumenti etruschi e a favorire la esaltazione, sovente esagerata, degli Etruschi fra gli altri popoli del mondo antico.
Come il XVI era stato il secolo della riscoperta di Roma e il XIX sarà il secolo della scoperta della Grecia, così il XVIII può considerarsi senz'altro il secolo della scoperta dell'Etruria. È pur vero che il primo tentativo di sintesi sulle conoscenze lasciate dal mondo antico relativamente all'Etruria risale all'opera De Etruria regali dello scozzese Th. Dempster, scritta fra il 1616 e il 1619; ma è anche vero che questa fu pubblicata e valorizzata soltanto nella prima metà del Settecento e che ad essa fecero eco le opere di F. Buonarroti, di O. H. Passeri, di S. Maffei, di A. F. Oori, di M. Guarnacci. Sin dal 1726 era stata fondata l'Accademia Etrusca di Cortona, che divenne il centro principale di questa attività erudita, riflessa anche nei volumi delle sue Dissertazioni, pubblicati fra il 1735 e il 1795. Fuori d'Italia va ricordata l'opera del grande antiquario francese A. C. Ph. De Caylus. Più che per il valore delle congetture e delle conclusioni, sovente arbitrarie e fantastiche, e per la natura del procedimento critico, la etruscheria settecentesca va giudicata positivamente per la passione e per la diligenza delle ricerche e della raccolta del materiale archeologico e dei monumenti, che talvolta conserva tuttora un certo valore.
 

 
L'attività etruscologica del Settecento culmina nella pubblicazione del Saggio di lingua etrusca e di altre d'Italia di L. Lanzi: una piccola «summa» delle cognizioni sull'Etruria, non soltanto nel campo della epigrafia e della lingua, ma anche in quello della storia, dell'archeologia e della storia dell'arte. Il Lanzi appare già alla soglia di una fase di cognizioni più vaste e di metodo più sicuro, come è provato da molte sue affermazioni nel campo epigrafico-linguistico e dalla reazione alle esagerazioni dell'etruscheria, per esempio nella giusta attribuzione alla Grecia dei vasi dipinti fino allora detti etruschi, e più generalmente nel concetto di una preminente influenza greca sullo sviluppo dell'arte etrusca, della quale è tracciata una prima embrionale ma apprezzabile periodizzazione; nel solco del Lanzi si svilupperà l'attività degli epigrafisti italiani dell'Ottocento come O. H. Vermiglioli. F. Orioli. M. A. Migliarini e lo stesso A. Fabretti. Possiamo in sostanza affermare che quello studioso sia stato per molti aspetti, e soprattutto per la convergente molteplicità dei suoi interessi, il vero fondatore dell'etruscologia moderna.
Occorre invece tener presente che una certa sopravvivenza delle idee settecentesche, non solo per quel che riguarda l'Etruria, ma anche nel senso dell'esaltazione degli antichi popoli italici con più o meno accentuate sfumature antiromane (Maffei, Guarnacci, O. Lami, C. O. M. Denina e altri), si manifesterà ancora negli scritti di archeologi, storici e saggisti della prima metà del secolo XIX, trasferendosi dall'illuminismo allo spirito romantico e perfino venandosi di spunti nazionalistici nel quadro del movimento del Risorgimento italiano. L’espressione più significativa di queste correnti è rappresentata dall'opera di O. Micali, che, a torto sottovalutata, emerge per acutezza di osservazioni, capacità di sintesi e apertura ai nuovi orientamenti delle scienze storiche. Si andavano ormai del resto universalmente diffondendo i riflessi di un rapido e straordinario progresso delle scoperte e degli studi.
Il nuovo secolo si era iniziato infatti con una intensissima esplorazione soprattutto delle necropoli dell'Etruria meridionale e con una serie di scoperte di valore decisivo a Tarquinia, a Vulci, a Cerveteri, a Perugia, a Chiusi e in altre località. Alla iniziale attività formativa di collezioni a Cortona e a Volterra, che aveva caratterizzato il Settecento si contrappone ora lo sviluppo delle raccolte di materiali etruschi nel Museo granducale di Firenze, nel Museo Etrusco Gregoriano a Roma, nel Museo etrusco-romano di Perugia; mentre, come risultato immediato degli scavi, si formano le ingenti collezioni private di Luciano Bonaparte, principe di Canino, e del banchiere O. P. Campana, destinate ad emigrare in gran parte fuori d'Italia e a costituire i nuclei delle collezioni etrusche del Museo del Louvre a Parigi, del Museo Britannico a Londra e di molti altri grandi musei europei.
Nel frattempo, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX, si era determinato quel grandioso processo di rinnovamento degli studi sulle antichità classiche in generale che, iniziato da J. J. Winckel-Mann e continuato da E. Q. Visconti, C. Fea, L. Canina, E. Gerhard, K. Q. Moller, accoglieva nuovi impulsi dal contatto diretto del mondo occidentale con i monumenti originali della Grecia e non di rado investiva direttamente, per l'interesse personale di alcuni dei suoi protagonisti, anche il mondo etrusco. Nello stesso periodo la linguistica generale comparata usciva con F. Schlegel e F. Bopp dalle nebbie dell'erudizione prescientifica e si concretava nella definizione e nella dimostrazione dell'unità linguistica indoeuropea.
In seguito a questi avvenimenti e nell'ambito di questi generali sviluppi degli studi la conoscenza delle antichità etrusche passa decisamente dalla fase settecentesca a quella ottocentesca del metodo storico, archeologico e filologico. Un primo fattore essenziale di progresso è costituito dalla fondazione dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica, nato a Roma nel 1829 per iniziativa del Oerhard e di un gruppo di studiosi e di amatori nordici, i cosiddetti «Iperborei»: per diversi decenni le ricerche e le scoperte d'Etruria saranno illustrate nel Bullettino, negli Annali e nei Monumenti dell'Instituto. Lo studio della topografia e dei monumenti si afferma attraverso una serie di indagini e di pubblicazioni di viaggiatori, di archeologi e di architetti, come W. Gell, il Canina (Antica Etruria marittima, 1846- 1851), O. Dennis (The Cities and Cemeteries of Etruria, London, 1848, con successive edizioni fino al 1883). Particolarmente famoso è stato, per la diffusione delle cognizioni sull'Etruria nel mondo della cultura in generale, il libro del Dennis.
Si continuano intanto a pubblicare raccolte sistematiche di monumenti, opere d'arte ed oggetti di scavo e cataloghi come quello del Museo Etrusco Gregoriano. Ma si iniziano anche raccolte specializzate per singole classi di oggetti, veri e propri «corpora»: di vasi specchi, poi urne. Non mancano relazioni di scavi talvolta anche accurati, nella misura in cui le operazioni di ricerca sul terreno ancora spesso concepite e condotte come recupero selettivo di materiali, se non addirittura come rapina, tendono a finalità più decisamente conoscitive sotto il controllo degli studiosi. L 'interesse per le opere figurate va perdendo il carattere di curiosità soprattutto rivolta alle speculazioni mitologiche, care agli eruditi del Settecento; ma resta ancora prevalentemente confinato nello studio dei soggetti e alla derivazione e al confronto delle immagini, cioè all'iconografia. Il confronto con l'arte greca porta di regola ad un giudizio negativo nei riguardi della produzione etrusca considerata in gran parte un artigianato d'imitazione: tale posizione sarà teorizzata in modo esplicito nel primo tentativo di sintesi sull'arte degli antichi Etruschi che appare soltanto verso la fine del secolo con l'opera di Martha, L 'art etrusque (Paris, 1889).
Il periodo del quale ci occupiamo è particolarmente fecondo nel campo degli studi epigrafici. L'attività degli studiosi italiani, epigoni del Lanzi, ai quali abbiamo già fatto cenno, culmina nella pubblicazione del monumentale Corpus lnscriptionum ltalicarum, con un Glossarium ltalicum, del Fabretti (1867). Nell'ultimo trentennio del secolo gli studi sulla lingua etrusca prendono un deciso orientamento critico. Si distinguono in essi, tra gli altri, W. Corssen, W. Deecke, C. Pauli, S. Bugge, O. Herbig, E. Lattes: le questioni dominanti sono quelle dei metodi di interpretazione e della appartenenza o meno dell'etrusco al gruppo delle lingue indoeuropee.
 

In questo stesso momento s'imposta anche il problema dell' origine degli Etruschi, non più soltanto sulla base delle fonti letterarie antiche e delle congetture linguistiche, ma anche in rapporto alle nuove scoperte sulle fasi primitive della civiltà dell'Eruria e dell'Emilia (nel 1856 venivano in luce le prime tombe a cremazione di Villanova presso Bologna) e agli sviluppi generali delle conoscenze sulla preistoria italiana: partecipano a queste ricerche e a questi dibattiti, tra gli altri, W. Helbig, I. Undset, L. Pigorini, E. Brizio. Occorre infine ricordare un'opera complessiva che ebbe, ed ha tuttora. fondamentale importanza come quadro di cognizioni complessive essenzialmente fondate sulla raccolta, la rielaborazione e l'interpretazione dei dati della tradizione greco-romana sul mondo etrusco: cioè il libro di K. Q. Moller, Die Etrusker (1828).
Il terzo e più avanzato periodo della storia degli studi etruscologici ha come premessa l'intensificarsi di ricerche archeologiche sistematiche e controllate che si manifesta già a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo soprattutto per l'intervento di organi responsabili ufficiali dopo l'unità italiana. Si scava nelle necropoli di Tarquinia, di Vetulonia, di Narce, di Bologna; si arricchiscono e si consolidano le conoscenze sulle fasi più antiche dell'Etruria, cioè il villanoviano, che appare ora diffuso, oltre che in Emilia, anche nei territori etruschi tirrenici, e l'orientalizzante; si rivela il singolare abitato a pianta regolare di Marzabotto; si esplorano i resti dei templii di Marzabotto, di Falerii, di Orvieto con le loro decorazioni architettoniche. Via via nel corso del secolo attuale fino agli ultimi decenni si intraprenderanno nuove regolari indagini nei centri maggiori, a Caere, Veio, Tarquinia, Populonia, Roselle, e altrove; infine nelle località litoranee e portuali di Spina sull' Adriatico e di Pyrgi e Graviscae sul Tirreno, e in centri minori arcaici dell'interno come Acquarossa presso Ferento nel Viterbese e Poggio Civitate presso Murlo in provincia di Siena, per non citare che le imprese più significative, in parte ancora in corso: ovunque con risultati che hanno profondamente cambiato, se non addirittura rivoluzionato, il quadro delle nozioni ottocentesche sulla civiltà etrusca. Naturalmente anche in questo settore, come generalmente nell'archeologia moderna operante sul terreno, gli scavi sono condotti con sempre maggiore scrupolo di controlli scientifici tali da offrire il maggior numero possibile di osservazioni e di dati, dai rilevamenti stratigrafici ai più avanzati e raffinati metodi tecnologici (fotografia aerea, prospezioni chimiche, fisiche, elettromagnetiche del sottosuolo ecc.). Hanno concorso e concorrono a queste attività, oltre gli uffici statali cioè le Soprintendenze archeologiche dell'Etruria Meridionale, della Toscana, dell'Umbria, dell'Emilia, anche istituti scientifici italiani e missioni straniere. Si aggiungano alle scoperte nel territorio etrusco quelle non meno importanti, e collateralmente rivelatrici, del Lazio, della Campania, dell'Umbria, del Piceno, dell'ltalia settentrionale. L 'indagine non è chiusa in se stessa e il mondo che viene in luce appare sempre più significativamente inquadrato ed interpretabile nella visione dello sviluppo della civiltà antica in generale, così per quanto riguarda l'ltalia come per i suoi rapporti con le aree circostanti, con la Grecia e con l'Oriente.
Nascono ora, anche come conseguenza dei nuovi scavi, i grandi musei pubblici italiani con prevalente impronta di collezioni etruscologiche, a Firenze, a Roma (il Museo Nazionale di Villa Giulia), a Tarquinia, a Chiusi, a Perugia, a Bologna, poi a Ferrara (Museo di Spina), e le importanti raccolte locali di Orvieto, Fiesole, Arezzo, Siena, Grosseto, Marzabotto, ecc., affiancandosi all'incremento di vecchi musei come il Gregoriano Etrusco del Vaticano o il museo dell' Accademia Etrusca di Cortona; mentre specialmente tra la fine del secolo passato e il principio del nostro secolo si sono considerevolmente arricchiti di materiali etruschi i musei stranieri d'Europa e d' America.
È proseguita intanto la pubblicazione di repertori generali o di singole classi di monumenti: per il materiale della fase più antica della civiltà etrusca la raccolta di tavole a disegno de La civilisation primitive en Italie (1896-1904) di O. Montelius; per la pittura i fascicoli dei Monumenti della pittura antica in Italia riguardanti le tombe etrusche di Tarquinia e di Chiusi (dal 1937); per le terrecotte architettoniche la raccolta di A. Andren, Architectural Terracottasfrom Etrusco-ltalic Temples (1939-1940); per i sarcofagi il «corpus» di R. Herbig, Die Ungeretruskischen Steinsarkophage (1952); per la ceramica dipinta l'opera di D. Beazley, Etruscan Vase-Painting (1947). Parallelamente allo sviluppo delle esplorazioni la descrizione dei luoghi e la considerazione topografica delle città e del territorio, nel solco già aperto dal Canina e dal Dennis, vengono assumendo in questo periodo caratteri più decisamente critici: possiamo citare in proposito la parte dedicata all'Etruria nella ltalische Landeskunde (1883-1902) di H. Nissen e, più specificamente ed estesamente, la Topografia storica dell'Etruria in quattro volumi (1915-1920) di A. Solari. Ma caratteristica soprattutto è la tendenza ad affrontare monograficamente lo studio di singoli centri considerati in tutti i loro diversi aspetti archeologici e storici: ciò che è stato fatto per Bologna (A. Orenier, P. Ducati), Chiusi (R. Bianchi Bandinelli), Cortona (A. Neppi Modona), Populonia (A. Minto), Sovana (Bianchi Bandinelli), Vulci (F. Messerschmidt), Tarquinia (M. Pallottino), Capua (Heurgon), e così via. Molte delle opere generali sugli Etruschi pubblicate negli ultimi decenni danno del resto largo spazio alla trattazione descrittiva delle città etrusche.
 All'indagine topografica si ricollegano i problemi di storia dell'architettura, con particolare riguardo alle origini, alle caratteristiche e allo sviluppo del tempio etrusco e della sua decorazione, e sia pure in misura minore agli edifici civili e alla casa; nonchè gli studi di urbanistica greca e italica che hanno investito largamente anche il mondo etrusco (F. Castagnoli, O. A. Mansuelli, R. Martin). L'approfondimento critico dei fenomeni dell'arte figurativa trova a sua volta un duplice incentivo da un lato nelle nuove scoperte, specialmente quella dell' Apollo di Veio avvenuta nel 1916; da un altro lato nelle generali tendenze «esterne» della critica contemporanea verso il superamento del classicismo e dell'accademismo e verso la comprensione e rivalutazione delle culture artistiche estranee alla classicità, incluse quelle provinciali e tardo-antiche (A. Riegl): donde partì una più o meno esplosiva affermazione dell'originalità e della positività dell' «arte etrusca» o dell' «arte italica» rispetto all'arte greca; ciò che è stato poi in parte ridimensionato o riportato sul piano di più rigorose valutazioni storiche. Non può trascurarsi la segnalazione di grosse raccolte illustrative generali, tuttora utili anche se ormai prive di aggiornamento, come la Storia dell'arte etrusca di Ducati (1927).
I progressi dei rinvenimenti e degli studi nel campo della preistoria e della protostoria dell'Etruria e dell'ltalia in genere hanno portato soprattutto, nel corso del secolo attuale, a basilari tentativi di sistemazione cronologica, sia in senso relativo come individuazione di successione delle fasi culturali dell'età del bronzo e dell'età del ferro, sia in senso assoluto come ricerca di date sulla base dei confronti con materiali d'importazione o d'imitazione di oggetti delle più o meno bene inquadrate civiltà del Mediterraneo orientale, da ultimo anche con l'ausilio dei nuovi metodi scientifici di datazione, segnatamente dei computi con il radiocarbonio (da O. Montelius, O. Karo, A N. Aberg, A . Akerstrom, O. Von Merhart, H. Moller-Karpe, R. Peroni, oltre chi scrive e molti altri). Ovviamente le novità archeologiche continuamente insorgenti non solo in Etruria, ma anche nel resto dell'area italiana e in tutto il Mediterraneo hanno concorso a dare più precisi connotati e termini via via meno rigidi alla polemica sulle origini etrusche iniziata nell'Ottocento ed ora affrontata in specifiche opere monografiche (L. Pareti, F. Schachermeyr, Ducati, Pallottino, F. Altheim, H. Hencken).
Il compito degli storici, oltre che sul problema delle origini, sembra concentrarsi con accresciuta attenzione su quello delle istituzioni politiche, amministrative e religiose delle città etrusche, anche in rapporto con gli analoghi fatti e sviluppi di Roma e del mondo italico. Non sono mancate indagini sulle forme della vita, sui costumi, sull'economia e sull'organizzazione sociale, quale emerge anche dall'analisi dell'abbondantissimo materiale onomastico offerto dalle iscrizioni funerarie. Si aggiungano vecchi e nuovi interessi portati specificamente sul tema della religione, della divinazione, dei culti. Infine gli studi epigrafici e linguistici hanno trovato nuovo alimento nella individuazione e nella scoperta di testi di fondamentale importanza (alla fine del XIX secolo il manoscritto su tela di Zagabria e la tegola di Capua, i più lunghi tra quelli finora conosciuti; recentemente le lamine d'oro di Pyrgi con una «bilingue» etrusco-fenicia) e nel generale incessante incremento del materiale, la cui pubblicazione sistematica, in sostituzione delle precedenti raccolte. Per tutto il corso del nostro secolo si sono moltiplicate, con risultati rilevantissimi e talvolta determinanti, le indagini epigrafiche, interpretative, grammaticali, ad opera di una lunga schiera di studiosi.
Un momento di particolare importanza per l'etruscologia fu quello degli anni tra il 1920 e il 1930 quando, anche a seguito delle scoperte archeologiche cui si è fatto cenno, segnatamente di Veio, si accese improvvisamente nel mondo degli studi e della cultura un vivacissimo interesse per l'arte e per la civiltà dell'Etruria antica e, ciò che più conta, si manifestò una simultaneità e convergenza senza precedenti nell'affrontare e discutere i problemi più scottanti, non soltanto dell'arte, ma anche dell'origine, della lingua, della religione e della società etrusca. Firenze diventa il centro principale di questo movimento al quale partecipano studiosi italiani e stranieri; si susseguono un Convegno Nazionale (1926) e il I Congresso Internazionale Etrusco (1928); nasce il Comitato Permanente per l'Etruria (1927) e poco dopo (1932) sarà fondato l'Istituto di Studi Etruschi ed Italici, massimo organo promotore e coordinatore degli studi etruscologici anche a livello internazionale; dal 1927 si pubblica la serie dei volumi annuali della rivista Studi Etruschi.
La suggestione del mondo etrusco non manca di riflettersi negli stessi anni sulla cultura e sulla letteratura europea. Successivamente, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, le prospettive di attività, di cooperazione e di organizzazione del lavoro così clamorosamente aperte hanno avuto ulteriori verifiche ed ampliamenti con un ritmo che si è accelerato negli ultimi tempi: oltre l'intensificarsi dei contributi individuali, vi hanno concorso gli incontri scientifici, specialmente i convegni periodici promossi dall'Istituto di studi Etruschi ed Italici; le rassegne documentarie a partire dalla grande mostra «Arte e civiltà degli Etruschi» presentata in varie città d'Europa nel 1955 e 1956; gli scavi con risultati spesso imprevisti, le analisi tecnologiche e i restauri di vecchi e nuovi materiali; lo sviluppo di insegnamenti specifici di etruscologia nelle Università italiane; le iniziative fiorite, oltre che a Firenze, a Roma intorno alla cattedra etruscologica dell' Ateneo romano, al Centro di studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche per l'archeologia etrusco-italica e ad altre istituzioni italiane e straniere; infine il formarsi di tradizioni di studi etruscologici anche all'estero, specialmente in Francia, in Belgio, in Olanda, in Germania, in Svezia.
Alla informazione e alla divulgazione concorre il diffondersi di opere generali sulla civiltà degli Etruschi, che, dopo il pressochè unico esempio ottocentesco del citato Moller e Deecke, accompagna il risveglio degli studi etruscologici con i libri del Ducati (L'Etruria antica, 1927), di B. Nogara (Gli Etruschi e la loro civiltà, 1933), di M. Renaro (lnitiation à l'etruscologie, 1941) e la prima edizione del presente volume (1942), cui seguiranno pubblicazioni di sintesi e d'impostazione sempre più numerose soprattutto negli ultimi anni (tra le più note quelle di R. Bloch, O. W. Von Vacano, L. Banti, E. Richaroson, H. H. Scullaro), nonchè miscellanee (Historia, VI, 1957: Tyrrhenica, 1957; Etudes etrusco-italiques, 1963). Questa letteratura rispecchia panoramicamente non soltanto il progresso delle conoscenze, ma anche l'aprirsi di nuove prospettive di metodo e d'interpretazione storica, delle quali si dirà più avanti.
Introduzione
Il fondatore della questione etrusca è Dionisio D’Alicarnasso, storico greco di età augustea, che dedica cinque capitoli (26-30) del primo libro delle sue Antichità romane all'esame di questo argomento, confutando - con i mezzi critici a sua disposizione - le teorie che identificavano gli Etruschi con i Pelasgi o i Lidi e dichiarandosi favorevole all'ipotesi che fossero un popolo «non venuto di fuori ma autoctono», il cui nome indigeno sarebbe stato Rasenna. Scrive lo storico: Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la regione, le loro città furono occupate dai popoli che vivevano nelle immediate vicinanze, ma principalmente dai tirreni, che si impadronirono della maggior parte di esse, e delle migliori…Sono convinto che i pelasgi fossero un popolo diverso dai tirreni. E non credo nemmeno che i tirreni fossero coloni lidii, poiché non parlano la lingua dei primi….Perciò sono probabilmente più vicini al vero coloro che affermano che la nazione etrusca non proviene da nessun luogo, ma che è invece originaria del paese.(Dionisio di Alicarnasso (Antichità Romane) I sec. a.C.)
 
Prima di lui le opinioni sulle origini etrusche non avevano avuto, a quanto sembra, carattere di meditata discussione; ma, come la maggior parte delle notizie antiche sulle origini di popoli e città del mondo greco ed italico, erano ai confini tra la storia e il mito, giovandosi al più - nel senso di una giustificazione critica - di accostamenti etimologici ed onomastici. Come le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani attraverso le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi, si era parlato di una provenienza orientale, dalla Lidia in Asia Minore, attraverso una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di Lidia, nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o di una loro identificazione con il misterioso popolo nomade dei Pelasgi (Ellanico di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di Tirreno con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di Imbro (Anticlide in Strabone, V, 2, 4); si aggiungano minori varianti o rielaborazioni di questi racconti su cui non vale la pena di soffermarci. Scrive Erotodo: Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni vissero in questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre più. Allora il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte sarebbe rimasto, l'altro avrebbe cercato fortuna altrove. Alla testa dei partenti pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste e aver visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono varie città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un altro, tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso nome si chiamarono tirreni. (Erodoto (Storie I, 94) V sec. a.C.)
 
L'origine lidia degli Etruschi entrò senza difficoltà tra i luoghi comuni della letteratura classica: Virgilio dice indifferentemente Lidi per Etruschi. Ne mancava, a detta dello stesso Dionisio d' Alicarnasso, chi sospettasse una loro origine indigena d'Italia. Ma soltanto Dionisio raccolse le diverse opinioni, le discusse e cercò di dimostrare la propria - cioè quella dell'autoctonia - sulla base dell'estrema antichità del popolo etrusco e del suo isolamento culturale e linguistico tra le varie genti a lui note.
In epoca moderna il problema è stato ripreso dapprima soltanto sulla base dei testi classici, più tardi anche con il concorso dei dati archeologici e linguistici. La prima fase della discussione fu condotta, tra l'inizio del XVIII e la prima metà del XIX secolo, da N. Freret , B.G. Niebuhr e K.O. Moller, i quali, richiamandosi alla posizione «critica» di Dionisio d' Alicarnasso, si pronunciarono, sia pure con diversa accentuazione, contro la tradizione erodotea della provenienza degli Etruschi dall'Asia Minore (si arrivò perfino ad accostare il nome Rasenna con quello dei Raeti delle Alpi). Di fatto noi riconosciamo l'esistenza di una civiltà etrusca -etnicamente definita dalle iscrizioni in lingua etrusca che cominciano ad apparire nel VII secolo a.C. e durano fino al principio dell'età imperiale romana - diffusa nell'Etruria propria (Lazio settentrionale e Toscana), in Campania e nella parte orientale della valle del Po. La fase più antica di questa civiltà storica (e sicuramente etrusca), caratterizzata da un intenso afflusso di elementi orientali e detta perciò orientalezzante, si riattacca immediatamente alla cultura del ferro villanoviana.
 Dal punto di vista del rito funebre si osserva in Etruria un predominio esclusivo dell'inumazione di età preistorica (con le culture eneolitica e del bronzo); poi l'apparire della incinerazione con i sepolcreti «protovillanoviani» ed una sua netta prevalenza nel villanoviano più antico; un riaffermarsi dell'inumazione nell'Etruria meridionale e marittima durante il villanoviano evoluto e l'orientalizzante; infine un uso promiscuo dei due riti - con prevalenza dell'inumazione nel sud, dell'incinerazione nel nord - per tutta la successiva durata della civiltà etrusca. Giova ricordare che anche in Roma repubblicana i due riti funebri erano paralleli e legati a tradizioni familiari (ma alla forte prevalenza dell'incinerazione sul finire della repubblica e nel primo secolo dell'Impero succederà il generalizzarsi dell'inumazione a partire dal II secolo d.C., senza che ciò corrisponda a trasformazioni di carattere etnico).
Sulla base dei dati offerti dalle tradizioni letterarie, dai confronti linguistici e dall'interpretazione dei fatti archeologici sono state formulate, dall'ultimo secolo, varie teorie relative alle origini del popolo etrusco. Esse possono tuttavia riportarsi sostanzialmente a tre sistemi, di cui uno riprende e sviluppa la tesi tradizionale antica della provenienza degli Etruschi dall'oriente, l'altro continua la scuola di Niebuhr e del Moller nel senso di una provenienza da settentrione, il terzo infine -più recente - tenta di aderire in modo meno generico all'opinione di Dionisio d'Alicarnasso sull'autoctonia degli Etruschi, ricercando le loro origini etniche nel substrato antichissimo delle popolazioni preistoriche d'Italia, anteriori alla diffusione delle lingue indoeuropee. Di queste tre tesi la più nota ed universalmente accettata è quella dell'origine orientale. Essa è stata particolarmente cara agli archeologi, italiani e stranieri, che in densa schiera hanno dedicato i loro appassionati studi alle antichità dell'Italia protostorica. Ad essi apparve soprattutto perspicua la coincidenza tra le notizie delle fonti e il fenomeno culturale orientalizzante, manifestatosi a partire dalle coste tirreniche tra l'VIII e il VI secolo a.C., come un improvviso avvento di progresso esotico in contrasto con le forme apparentemente arretrate della precedente cultura villanoviana; si sottolineò anche il capovolgimento del rito funebre dall'incinerazione all'inumazione. 
Edoardo Brizio (nel 1885) fu il primo ad impostare scientificamente questa tesi, identificando gli invasori etruschi con i portatori della civiltà orientalizzante (poi ellenizzante) in Toscana e in Emilia, e identificando gli Umbri della tradizione erodotea - intesi come ltalici indoeuropei - nei preesistenti incineratori villanoviani.  Dopo di lui sono stati tenaci assertori dello stesso punto di vista, tra gli altri, A. Piganiol, R. Bloch. La tesi orientale ha trovato e trova larghissimo credito non soltanto fra gli etruscologi, ma anche in generale fra i classicisti e studiosi delle civiltà antiche non strettamente specializzati negli studi etruscologici, attratti dall'autorità della tradizione, dalla facile spiegazione di alcune caratteristiche «orientali» della civiltà etrusca, dalle notevoli concordanze onomastiche tra l'etrusco e le lingue dell' Asia Minore (rilevate da O. Herbigs) e dall'ancor più evidente rapporto linguistico dell'etrusco con l'idioma preellenico di Lemno. Tuttavia non sono mancate varianti ed attenuazioni della classica impostazione del Brizio, specialmente in conseguenza di una più approfondita considerazione delle fonti antiche e dei dati archeologici: così vi fu chi suppose un arrivo degli Etruschi dal mare, ma attraverso l'Adriatico e non il Tirreno, sulla scia della tradizione dei Pelasgi (E. Pottier); chi immaginò un'invasione in più ondate, a partire dal 1000 a.C..
Ancora più di recente, l'origine stessa delle culture del ferro dette «tirreno-arcaiche» sia con inumazione sia con cremazione (praticamente il villanoviano) è stata attribuita ad un'ondata egea, entro la quale si collocherebbe l'avvento degli antenati degli Etruschi storici da Lemno e da Imbro; o addirittura si è fatta risalire l'immigrazione dei Tirreno-Pelasgi in Italia alla tarda età del bronzo. Queste connessioni preistoriche e protostoriche con l'oriente sarebbero confermate dalla più volte proposta identificazione dei Tyrsenoi con i Trs. nominati dai geroglifici egiziani: vale a dire con uno dei «popoli del mare» che tentarono l'invasione dell'Egitto sotto i faraoni Merneptah e Ramses III (tra il 1230 e il 1170 a.C.).
Infine, di fronte all'affermarsi del concetto di una formazione storica degli Etruschi da più elementi (come si dirà più avanti), l'apporto orientale è stato ultimamente riproposto in forma più cauta e limitata, come un fattore di sollecitazione dovuto all'avvento di nuclei di navigatori asiatici od egei, simili ai Normanni del medioevo, ma pur sempre determinante in quanto esso avrebbe imposto la lingua etrusca in Italia. Su questa linea di ipotesi si muovono le idee di H. Hencken circa successive penetrazioni all'inizio del villanoviano e dell'orientalizzante, come l'attuale tendenza a collocare le connessioni orientali in età più remota, cioè nella fase micenea o immediatamente postmicenea secondo la tesi del Berard. La teoria dell'origine da settentrione ebbe però il suo principale fondamento critico nelle scoperte e nelle ipotesi archeologiche del secolo scorso, con particolare riguardo alla ricostruzione pigoriniana, che già conosciamo, sulla discesa degli incineratori delle terremare verso l'Italia peninsulare. Tra questi sarebbero stati non soltanto gli Italici, ma anche gli Etruschi, tanto più che diversi linguisti ritenevano che l'etrusco fosse una lingua indoeuropea e italica.
 La teoria settentrionale sedusse alcuni archeologi - che però passarono poi alla tesi della provenienza orientale - ma fu soprattutto sostenuta da studiosi di storia antica. Tuttavia, dovendosi riconoscere una profonda differenza etnica e linguistica fra Etruschi ed Italici, O. De Sanctis giunse a rovesciare la teoria pigoriniana identificando gli Etruschi con i crematori discesi dal nord e gl'Italici con le genti eneolitiche già stanziate nella penisola. L. Pareti ha voluto riconoscere una più antica ondata indoeuropea (quella dei «Protolatini») negli eneolitici; un'ondata indoeuropea più recente (quella degli Italici orientali) nei crematori «proto- villanoviani»; e infine il nucleo etnico del popolo etrusco nei possessori della cultura villanoviana, derivata dalle terremare e dalle palafitte dell'Italia settentrionale. Alla teoria della provenienza settentrionale si ricollega, in sede linguistica, la ipotesi di P. Kretschmer sulla pertinenza degli Etruschi ad un gruppo etnico-linguistico «retotirrenico» o «reto-pelasgico» disceso dall'area balcanico-danubiana verso la Grecia e verso l'Italia.

La terza tesi, o dell'autoctonia  fu quindi elaborata nel campo archeologico da U. Antonielli, ma soprattutto sviluppata dalla scuola dei linguisti italiani tra cui O. Devoto, il quale ultimo ne dette una formulazione organica già nella prima edizione del suo libro Gli antichi ltalici (1931). Considerati i legami intercorrenti tra l'etrusco e le lingue preindoeuropee del Mediterraneo, il popolo etrusco non sarebbe giunto in Italia dopo gli Indoeuropei, ma rappresenterebbe invece un relitto delle più antiche popolazioni preindoeuropee, una specie di «isola» etnica, così come i Baschi dell'area dei Pirenei rappresentano tuttora l'avanzo di primitive popolazioni ispaniche rispetto alle attuali nazioni neolatine che li circondano. La toponomastica sembra dimostrare infatti, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l'esistenza nella penisola di uno strato linguistico più antico dei dialetti italici e piuttosto affine all'etrusco stesso e agli idiomi dell’Egeo preellenico e dell' Asia Minore. Gli Etruschi sarebbero un concentrarsi verso occidente - sotto la spinta degli invasori ltalici - di elementi etnici appartenenti a questo strato: naturalmente con notevoli commistioni ed influssi linguistici indoeuropei. Dal punto di vista archeologico, cioè culturale, lo strato etnico più antico sarebbe da riconoscere negli inumatori di età neoeneolitica e dell'età del bronzo ai quali si sarebbero sovrapposti gli ltalici o Protoitalici incineratori (rappresentati in Etruria dalla cultura villanoviana), dando luogo alla nazione etrusca storica come un riaffermarsi degli elementi originari della stirpe sotto gl'impulsi culturali provenienti dall' oriente. Questa tesi, sia pure con formulazione diversa nei particolari, fu cara anche a paletnologi «occidentalisti».




 
Analisi della teoria della provenienza orientale
 
Le teorie sin qui esposte tentano di spiegare ciascuna a suo modo i dati della tradizione, delle ricerche linguistiche, delle scoperte archeologiche, per ricostruire lo svolgersi degli eventi che hanno portato all'insediamento e allo sviluppo del popolo etrusco. Si tratta in realtà di ingegnose combinazioni dei diversi elementi conosciuti; ma esse soddisfano soltanto una parte delle esigenze che derivano da una piena valutazione critica di tali elementi. Ciascuno dei tre sistemi e delle loro varianti lascia qualcosa di inesplicato, urta contro fatti assodati: senza tuttavia che questo torni a vantaggio delle altre ricostruzioni. Se ciò non fosse, la discussione sarebbe stata da lungo tempo superata con un accordo di massima tra gli studiosi, e la polemica tradizionale non sarebbe giunta ad un punto morto.
 Consideriamo in primo luogo criticamente la tesi orientale. Essa riposa sopra una presunta concordanza tra dati della tradizione - per quanto essi convergono sulla provenienza degli Etruschi dall'oriente egeo-anatolico, siano stati essi Lidi o Pelasgi o abitanti di Lemno - e dati archeologici, cioè la constatazione di una fase culturale orientalizzante nell'Italia centrale. Si aggiungano sul piano linguistico, come già detto, la forti somiglianze tra l'etrusco e il lemnio, nonchè le supposte connessioni dell'etrusco con idiomi dell’Asia Minore e perfino del Caucaso. Ma innanzi tutto quale è il valore effettivo di ciascuno di questi elementi posti a confronto, preso isolatamente? Sulle tradizioni relative a migrazioni e a parentele etniche derivate dai poeti e dai logografi greci la critica moderna è generalmente scettica o almeno estremamente prudente. Ciò vale in primo luogo per i Pelasgi, popolo leggendario che i Greci ritenevano originario della Tessaglia ed emigrato in età eroica per via di mare in varie regioni dell'Egeo e perfino dell'ltalia, sulla base di concordanze formali tra nomi di località tessale e località esistenti nei paesi che si ritennero meta delle loro migrazioni. Così furono dette pelasgiche tutte le zone nelle quali appariva il nome di città Laris(s)a (dalla Larissa di Tessaglia) e cioè l'Attica, l'Argolide, l'Acaia, Creta, Lesbo, la Troade, l'Eolide, l'Italia meridionale. Lo stesso si dica per i nomi affini a quello della città di Gyrton nella Tessaglia, come Gortyna in Macedonia, in Arcadia e in Creta, Kyrton in Beozia, Crotone nell'ltalia meridionale, Cortona in Etruria. Va però tenuto presente che in età storica si consideravano di origine pelasgica popolazioni non greche effettivamente esistenti al margine del mondo greco, quasi avanzi di quella antica emigrazione, come gli abitatori delle isole di Lemno e di 1mbro e dell'Ellesponto nell'Egeo settentrionale; e ciò fu immaginato probabilmente - in direzione opposta, cioè in occidente - anche per gli Etruschi fin dai primi contatti dei navigatori greci con l'Etruria, dato che proprio alcuni centri etruschi costieri più aperti ad una intensa frequentazione ellenica e perciò meglio conosciuti, come Caere (detta dai Greci Agylla, con i porti di Alsio, Pyrgi, ecc.) e sull'Adriatico Spina, si consideravano originarie fondazioni dei Pelasgi. È senza dubbio a questo filone di tradizioni che s'ispira l'ipotesi erudita di un'identificazione dei Tirreni d'ltalia, cioè degli Etruschi, con i Pelasgi, attribuita da Dionisio d'Alicarnasso allo storico Ellanico, del tutto indipendente dalla versione di Erodoto sull'origine lidia e palesemente contrastante con le opinioni degli autori antichi posterodotei che parlano sì di un'occupazione pelasgica dell'Etruria, ma anteriore e comunque distinta da quella dei Tirreni. Quanto al famoso racconto di Erodoto sull'immigrazione dei Tirreni dalla Lidia (o meglio dei Lidi chiamati poi Tirreni dal loro eponimo Tirreno), prescindendo dalla fortuna che esso ebbe nell'antichità, difficilmente sfuggiremmo oggi - dopo le argomentazioni critiche del Pareti - all'impressione che si tratti, così come è formulato, di un'invenzione dei logografi ionici nella fase di più stretti rapporti commerciali e culturali del mondo greco-orientale con l'Etruria e di probabili presenze di navigatori etruschi nell'Egeo, di cui si dirà più avanti, cioè essenzialmente nel VI secolo.
È possibile che questa storia abbia avuto spunti ispiratori concreti, oltreche in talune apparenti somiglianze tra l'Etruria e il mondo anatolico, anche in accostamenti onomastici con la città lidia di Tyrrha o con il popolo dei Torebi e nella stessa esistenza di Tirreni nell'Egeo, ricordati dagli scrittori greci a partire dal V secolo, ma spesso confusi con i Pelasgi (cosicchè non è neppure esclusa l'ipotesi che si tratti di un nome diffuso secondariamente in sede di erudizione etnografica come conseguenza dell'identificazione dei Pelasgi con i Tirreni d'Italia, i quali sarebbero dunque i soli Tirreni conosciuti dalla tradizione greca più antica). Ancora ai Pelasgi ci riporta la notizia di Anticlide che, per quanto tarda e contaminata favolisticamente con la versione di Erodoto, presenta un'interessante precisazione geografica in quanto parla di un'immigrazione dalla sfera nord-egea delle isole di Lemno e Imbro conosciuta storicamente dai Greci come «pelasgica» (e alla quale richiamano i rapporti linguistici fra etrusco e lemnio).
In conclusione i dati delle fonti letterarie classiche, leggendari e contraddittorii, non offrono alcuna prova a favore di una provenienza del «popolo etrusco» dall'oriente; tuttavia non escludono possibili echi di singole più o meno remote connessioni del mondo etrusco con l'area egea.
 Passando a considerare l'aspetto archeologico del problema, va notato subito che il fenomeno del manifestarsi della civiltà orientalizzante in Etruria non è tale da giustificare l'ipotesi di un popolo straniero che approdi recando le sue strutture e le sue forme di vita, come invece è evidentissimo in Sicilia e nell'Italia meridionale all'arrivo dei coloni greci. Durante la fase del villanoviano evoluto cominciano ad avvenire trasformazioni notevoli che preludono allo splendore della successiva fase orientalizzante: si diffonde il rito funebre dell'inumazione, appaiono le prime tombe a camera, l'uso del ferro si generalizza, aumentala frequenza degli oggetti di bronzo decorato e dei metalli preziosi (oro, argento), e nello stesso tempo s'incontrano sempre più numerosi oggetti e motivi d'importazione straniera (scarabei e amuleti di tipo egizio, ceramica dipinta d'imitazione greca). II passaggio alla civiltà orientalizzante non è dunque radicale ed istantaneo. Molti degli aspetti di questa civiltà, come le stesse grandi tombe architettoniche o di imitazione architettonica, la ceramica d'impasto e di bucchero, arredi, gioielli, ecc., rientrano in pieno nello sviluppo della cultura indigena, sia pure sollecitata da influenze esterne, orientali e greche, e soprattutto eccitata dal rigoglio economico. Singoli oggetti importati e motivi provengono dall'Egitto, dalla Siria, da Cipro, da Rodi e in genere dalla Grecia; altri hanno la loro patria d'origine anche più lontano, in Mesopotamia o in Armenia (Urartu).
 Caratteristico è il genere di decorazione che mescola motivi egiziani, mesopotamici, siriaci, egeo-asianici, talvolta in composizioni ibride, o sviluppa i repertori di fregi con animali reali e fantastici, presenti negli oggetti di lusso di origine fenicio-cipriota, ma rielaborati e diffusi in parte notevole dai Greci stessi soprattutto nel corso del VII secolo a.C.. In sostanza l'impressione che si prova di fronte alle tombe etrusche orientalizzanti e ai loro sontuosi corredi è che l'ossatura, le forme essenziali della civiltà affondino le loro radici nelle tradizioni locali; mentre lo spirito e le caratteristiche degli elementi decorativi, esterni, acquisiti, si riportino alla «moda» orientale. E quando appunto si voglia prescindere da questo carattere composito - indigeno ed esotico - della civiltà orientalizzante di Etruria' e ci si voglia limitare all'esame dei soli elementi importati; allora appare chiaro che essi non sono presenti soltanto in Etruria, ma appaiono più o meno con gli stessi aspetti in altri paesi mediterranei nello stesso periodo, a cominciare dalla Grecia stessa, là dove certo non si suppone un'immigrazione asianica.
 Allo stile orientalizzante succederà in Etruria un preponderante influsso di elementi culturali ed artistici propriamente greci, dapprima peloponnesiaci e ionici e poi attici, nel corso del VI e del V secolo a.C. Ad essi è dovuta una ben più decisiva trasformazione della vecchia cultura indigena in nuove forme di vita, anche nel campo più intimo della religione e delle costumanze: basti pensare alle divinità e ai miti ellenici penetrati in Etruria. Nessuno naturalmente oserebbe immaginare l'assurdo storico di una colonizzazione etnica greca dell'Etruria nel VI secolo (anche se abbiamo prove convincenti dell'esistenza di nuclei di commercianti greci nei porti etruschi). Non si comprende dunque la necessità di attribuire la civiltà orientalizzante ad un'invasione di stranieri, piuttosto che a un rinnovamento di civiltà. Anche per quel che concerne il rito funebre non esiste alcun brusco trapasso dalla cremazione del villanoviano all'inumazione dell'orientalizzante.
 Già il villanoviano più antico dell'Etruria meridionale mostra tombe a fossa commiste con tombe a pozzo di cremati. L'affermazione dell'inumazione è progressiva nella fase del villanoviano evoluto. Questo processo è del resto comune nel corso dell'VIII secolo non soltanto in Etruria, ma anche nel Lazio, dove non si suppone nessuna immigrazione. Inoltre esso appare limitato all'Etruria del sud, perche l'Etruria interna (per esempio Chiusi) non abbandonerà il costume dell'incinerazione prevalente ne durante l'orientalizzante ne per tutta la successiva durata della civiltà etrusca. Nella stessa Etruria meridionale si avrà una parziale ripresa della cremazione nel VI secolo. Un'incidenza di fatti etnici è inimmaginabile, se si intende come sostituzione di un popolo ad un altro.
Riconsideriamo ora questi diversi elementi nei loro reciproci rapporti geografici ecronologici per verificare se sia sostenibile la tesi orientalistica nella sua formulazione tradizionale e più diffusa - tuttora sostenuta da alcuni studiosi e ripetuta in sede di pubblicazioni non specialistiche - dell'arrivo degli Etruschi in Italia come portatori della civiltà orientalizzante. Ma quale civiltà orientalizzante? Noi sappiamo benissimo che le importazioni orientali e più generalmente il formarsi del gusto orientalizzante in Etruria tra la fine dell'VIII e il principio del VI secolo ci riconducono a centri di produzione e d'ispirazione estremamente diversi e dispersi del Vicino Oriente e del Mediterraneo orientale, con una prevalenza, se mai, dell'area siro-cipriota, e poi greco-orientale.
È dunque piuttosto alla navigazione fenicia e greca, interessante con analoghi risultati anche altri territori del bacino mediterraneo, che sarà da attribuire l'apporto culturale orientalizzante. Questo quadro appare chiaramente inconciliabile con l'idea della immigrazione o della colonizzazione di un popolo straniero che rechi con se il proprio bagaglio di civiltà partendo da un punto ben definito del mondo orientale, cioè, stando alle fonti, dalla Lidia o dall'Egeo settentrionale: tanto più che proprio per questi territori manca ogni specifica analogia culturale con l'Etruria in corrispondenza dell'età alla quale si è voluta riferire l'immigrazione etrusca. Le scoperte di Lemno, delle località costiere della Ionia e dell'Eolide asiatiche, di Sardi, dell'interno dell' Anatolia non hanno offerto finora alcun elemento, se non piuttosto generico (per esempio tumuli, tombe a camera, facciate rupestri, ecc.), di concordanza con i monumenti e con la civiltà dell'Etruria per quel periodo che in Asia Minore è denominato «frigio» (IX- VII secolo) ed a Lemno, impropriamente, «tirrenico» (meglio dobbiamo dire «pelasgico», sulla base della tradizione storica più antica ed autorevole).
 La ceramica geometrica frigia, quella lidia e la caratteristica ceramica arcaica di Lemno non hanno assolutamente alcun rapporto con la produzione vascolare indigena e greco-geometrica d'Italia. Qualche vaso di tipo lidio si diffonde in occidente soltanto nel VI secolo, insieme con tanti altri tipi greco-orientali. Così anche la ceramica grigia asiatica è esportata dai coloni di Focea nel Mediterraneo occidentale, ma è rara in Italia, dove non sembra aver alcun rapporto con l'origine del bucchero etrusco. La fibula asianica, presente con estrema dovizia in tutta l'Anatolia, ha una caratteristica forma con arco semicircolare rigido e ingrossamenti a perle o in forma di elettrocalamita; sembrerebbe impossibile che essa non avesse dovuto accompagnare le migrazioni di un popolo asianico. Ma è un fatto che essa non ha avuto diffusione verso occidente neanche per via commerciale: finora nell'Italia centrale se ne è trovato un solo esemplare sui Colli Albani, e altri due provengono dalla necropoli di Pitecusa, cioè in ogni caso fuori del territorio dell'Etruria!
 La recente scoperta di una tomba reale a Gordion, capitale della Frigia, con grandi lebeti di bronzo con figure applicate simili a quelle delle tombe orientalizzanti dell'Etruria edi Palestrina, offre un'altra testimonianza della larga diffusione dell'arte bronzistica dell'Urartu sulle vie della Grecia e dell'Italia, ma non è una prova di un rapporto diretto tra la Frigia e l'Etruria. Viceversa le connessioni dei centri occidentali dell'Asia Minore con l'Italia sono sempre più intense ed immediate nel VI secolo, a causa delle navigazioni ioniche verso occidente e forse anche di presenze etrusche nell'Egeo, culminando con le preponderanti influenze greco-orientali sull'arte dell'Etruria arcaica. Ma questo fenomeno non ha ovviamente nulla a che vedere con la questione delle origini.
 L'identificazione della civiltà orientalizzante con la supposta immigrazione etrusca secondo le fonti antiche appare insostenibile anche per elementari ragioni di carattere cronologico e storico. L 'inizio della civiltà orientalizzante etrusca non è anteriore alla fine dell'VIII secolo, cioè ad un momento in cui i coloni greci erano già più o meno saldamente stanziati sulle coste della Sicilia e dell'Italia meridionale. Il racconto di Erodoto sull'immigrazione dalla Lidia non può essere invece arbitrariamente distratto dal suo sistema cronologico, che riporta i fatti al regno di Ati sulla Lidia: cioè, secondo la cronologia tradizionale, poco dopo la guerra di Troia, tra il XIII e il XII secolo a.C. Lo stesso discorso vale anche per le migrazioni pelasgiche. Un avvenimento così notevole agli albori dei tempi storici - ed in parallelismo e in concorrenza con la colonizzazione greca - non sarebbe sfuggito ad altre fonti storiche e soprattutto non sarebbe stato trasfigurato, come in Erodoto, in un episodio leggendario di mezzo millennio più antico.
 Si consideri anzi che una fonte così autorevole come lo storico greco Eforo (in Strabone, VI, 2, 2), parlando della fondazione di Nasso, la più antica colonia calcidese della Sicilia, nell'VIII secolo, afferma che prima di allora i Greci non si avventuravano nei mari occidentali per timore dei Tirreni: ammette cioè implicitamente un'antica presenza e potenza degli Etruschi in Italia prima dell'inizio della colonizzazione greca storica. Proprio se si vuol dare giusto valore ai dati della tradizione quali possibili echi di una lontana realtà storica occorrerà ricollocarli nel loro proprio contesto cronologico che è quello dell' età eroica, cioè riportarli in ogni caso ad avvenimenti corrispondenti alla tarda età del bronzo, che è quanto dire alle fasi tardo-micenee e postmicenee degli ultimi secoli del II millennio a.C.: si tratterebbe in ultima analisi di accogliere l'impostazione critica del Berard, la sola metodologicamente accettabile. Ma anche volendo supporre che i racconti di fonte classica contengano qualche reminiscenza di presenze e di apporti orientali sulle coste tirreniche nella tarda età del bronzo, dovremmo comunque sfrondarne le coloriture più ingenue e semplicistiche troppo palesemente ispirate ai modelli delle colonizzazioni storiche, e respingere l'idea di trasferimenti di popolazioni in massa.
 Dovremmo anche, più sottilmente, distinguere l'impostazione aneddoticamente caratterizzata, e perciò fittizia, del racconto di Erodoto sulla provenienza dei Tirreni dalla Lidia - oltre tutto basata sull'ambiguità del concetto e del nome di Tirreni - dai più vaghi ma più diffusi, e presumibilmente più antichi, richiami alle navigazioni dei Pelasgi. In questo senso potrebbe anche ammettersi una certa corrispondenza fra dati della tradizione e dati linguistici, sia nella prospettiva geografica (pelasgità di Lemno, provenienza degli Etruschi da Lemno secondo Anticlide, affinità fra illemnio e l'etrusco), sia nella prospettiva cronologica (antichità del rapporto così nel quadro delle tradizioni come nell'evidenza linguistica). Manca invece una qualsiasi spia archeologica, anche se la possibilità che navigazioni egee abbiano raggiunto il Tirreno nel tardo bronzo ci è suggerita da più o meno sporadici trovamenti di ceramica di tipo miceneo, come già sappiamo.



 
Analisi della teoria della provenienza settentrionale e dell’autoctonia
 
Passiamo ora all'esame delle tesi «occidentalistiche», a cominciare da quella della provenienza degli Etruschi da settentrione. Il vecchio raffronto tra il nome dei Rasenna e quello dei Reti è puerile: le iscrizioni rinvenute nel Trentino e nell' Alto Adige sono assai tarde (posteriori al V secolo a.C.) e, se anche mostrano antichissimi legami o recenti rapporti con l'etrusco, nulla provano ai fini di una supposta originaria immigrazione degli Etruschi, come popolo già formato, dalla regione alpina. Dal punto di vista archeologico la critica già fatta ai punti di vista del Pigorini e dello Helbig in firma sostanzialmente l'ipotesi di una discesa di popoli dal settentrione dell'ltalia verso il centro della penisola. L'etruschicità della pianura padana è una ben definita conquista dal sud, come dicono anche le fonti storiche: in questo si può andare d'accordo con il Brizio e con il Ducati, pur facendo ogni riserva sulla cronologia ed escludendo che gli abitatori di Bologna villanoviana siano da identificare con quegli Umbri italici la cui apparizione sul versante orientale dell'Appennino è ancora più recente.
 La linguistica ha ormai da tempo superato la vecchia concezione delle affinità genetiche tra etrusco e lingueitaliche: cosicche anche da questo punto di vista la tesi pigoriniana di, una discesa unica di Etruschi edi ltalici ha perduto ogni consistenza. Di qui la teoria del De Sanctis tendente a riconoscere gli Etruschi nei crematori e gl'ltalici negli inumatori del vecchio ceppo eneolitico (meglio noi diremmo ora, nelle genti di tradizione appenninica). Sul piano di una grossolana identificazione dei fatti archeologici con quelli etnico-linguistici queste equazioni sarebbero le sole idonee a spiegare la già constatata corrispondenza delle aree dell'inumazione e della cremazione rispettivamente con le aree indoeuropea e non indoeuropea d'ltalia. Ma è evidente, specialmente oggi alla luce delle più recenti scoperte, che non si può parlare in blocco di «crematori» come rappresentanti di un'unica e precostituita realtà etnico-linguistica; che il villanoviano non è una cultura introdotta già formata da qualche area esterna a quella del suo sviluppo, ne presenta forme più antiche a nord dell' Appennino, ma anzi ha i suoi precedenti immediati piuttosto nel «protovillanoviano» peninsulare, e tra l'altro proprio nell'Etruria tirrenica (dai Monti della Tolfa al Grossetano); che fasi arcaiche di culture di crematori affini al «protovillanoviano», come il «protolaziale» e il «protoveneto», appaiono all'inizio delle culture del ferro del Lazio e del Veneto, spettanti a popoli storici di lingua indoeuropea ma di origine diversa, cioè rispettivamente ai Latini e ai Veneti. Con ciò cade anche - o si riduce nella sfera delle congetture indimostrabili - l'opinione del Pareti che i «protovillanoviani» rappresentino originariamente una sola stirpe, quella degli ltalici orientali (ipotesi tanto più inverosimile in quanto in età storica gl'Italici orientali sono principalmente inumatori), e che una successiva ipotetica ondata di «villanoviani» rappresenti la discesa degli Etruschi. Si tratta, come si vede, di giuochi di pazienza senza alcun fondamento di verosimiglianza critica. In nessun modo l'archeologia può dimostrare un «arrivo» degli Etruschi dal nord.
 Altro argomento a svantaggio della tesi settentrionale è proprio il rapporto della lingua etrusca con la lingua preellenica di Lemno. Per spiegarlo occorrerebbe accettare la tesi del Kretschmer di un'immigrazione parallela dal bacino danubiano, per via continentale, nell'Egeo settentrionale e in Italia; ma resterebbero pur sempre da spiegare gli elementi affini all'etrusco nella toponomastica «tirrenica» dell'Italia peninsulare, che sono profondi e diffusi. Ciò non esclude tuttavia la presenza in etrusco di elementi linguistici continentali, ricollegabili a linguaggi nordico-occidentali del substrato preindoeuropeo (come il «ligure» o il «retico») o addirittura a lingue indoeuropee. Ma questo prova, se mai, una larga coincidenza e mescolanza locale di fattori di diversa origine, attraverso una complessa sovrapposizione di aree linguistiche.
Anche la tesi dell'autoctonia, intesa in un senso assoluto e schematico, presenta il fianco a fondate critiche. Il punto di vista dei linguisti (Trombetti, Ribezzo, Devoto, ecc.), che riconosce nel fondo dell'etrusco il relitto di una più vasta unità linguistica preindoeuropea, è teoricamente ineccepibile, in quanto tiene conto delle affinità mediterranee della lingua etrusca e della presenza del substrato «tirrenico», rivelato soprattutto dalla toponomastica, in gran parte del territorio italiano. Viceversa la ricostruzione specifica dei fatti in base ai dati archeologici, tentata dall'Antonielli e dal Devoto, si dibatte contro gravi difficoltà. Essa presuppone una netta contrapposizione etnica tra indigeni inumatori dell'eneolitico e dell'età del bronzo, e «villanoviani» crematori discesi da settentrione, identificando i primi con lo strato primitivo «tirrenico», i secondi con gli invasori italici indoeuropei. Ancora una volta la constatazione della corrispondenza pressoche esatta delle aree d'incinerazione e di inumazione rispettivamente con l'area non indoeuropea e con quella indoeuropea si oppone alla ricostruzione astratta degli autoctonisti. Proprio l'Etruria, dove è tipica e densissima l'occupazione degli incineratori, sarebbe il solo cantone dell'Italia in cui la lingua primitiva avrebbe conservato i suoi caratteri sino alla pienezza dei tempi storici; mentre invece le lingue italiche avrebbero trionfato nella parte orientale della penisola, dove non si hanno tracce se non sporadiche ed insignificanti del passaggio dei supposti incineratori italici!
 È chiaro che l'autoctonismo linguistico non può essere costretto entro l'assurdità di questi schemi archeologici, nei quali appare ancora così evidente l'impronta del vecchio preconcetto pigoriniano. Invano Devoto tentò di ricondurre l'equazione incineratori = Italici al concetto di una corrente «protoitalica» di cui però nulla chiaramente risulta nei fatti positivi dell'etnografia storica italiana. In ogni caso un puro autoctonismo si presenta a priori come una teoria antistorica: ed in concreto urta contro l'evidenza di vicende culturali che denunciano influenze europee ed orientali e contro i dati linguistici che dimostrano rapporti tra l'Etruria e l'Egeo oltre che una profonda penetrazione di elementi indoeuropei nella lingua etrusca.
I Villanoviani
 
Si denomina così la cultura dell’età del Ferro caratteristica del territorio dell’Etruria, dell’Emilia centrale (area delimitata dai corsi del Panaro, del Po e del Santerno), della Romagna orientale (bacino del Marecchia), a Capua e a Pontecagnano. Così chiamata dalla scoperta del Gozzadini nel 1850 a Villanova di Castenaso (Bo) di un centinaio di tombe caratterizzate dalla sepoltura in pozzetti:
-  rivestite da ciottoli (tomba a pozzetto);
-  limitata da lastre di pietra (tomba a cassetta);
- scavati nel tufo, all’interno di grandi ovuli (tombe a ziro) nei quali veniva posto un ossuario dalla tipica forma biconica coperto da una ciotola (femminile) o da un elmo (maschile) contenente le ceneri del defunto. Il corredo era caratterizzato: elementi tipici maschili come i morsi di cavallo, i rasoi lunati, spilloni, fibule serpeggianti e la spada o da elementi tipici femminili come cinturoni, fibule ad arco rivestito o ad arco ritorto, rocchetti e fusaiole. Pochi sono gli elmi e le spade e questo ha fatto ipotizzare che per i guerrieri ci fosse un altro tipo di rito, ma è molto più probabile che dato l’altissimo valore del metallo, le armi restassero in eredità ai parenti del defunto, e solo in casi eccezionali come quello di un "re" lo accompagnassero nell’ultimo viaggio.
Questa popolazione aveva senz’altro tutta una serie di riti religiosi che a noi spesso sfuggono. La ricorrente presenza della "barca solare" ci testimonia il culto solare. In un primo tempo queste tombe furono credute di una popolazione non meglio identificata, ma col progredire degli scavi in tutta l’Etruria queste emersero facendo chiaramente capire che queste tombe sono da riferirsi agli antenati degli etruschi, che si imposero senz’altro con la forza il proprio dominio dalla pianura Padana alla Campania, come è testimoniato dalla distruzione dei villaggi della fase precedente e dal sapersi opporre alla colonizzazione greca; manifestarono una forte identità culturale testimoniata dalla presenza di oggetti identici nei corredi.
I villanoviani vivevano in capanne monofamiliari di forma rotonda , realizzate in legno e fango; ve ne erano anche rettangolari, di dimensioni maggiori, destinate alle attività comuni e di allevamento; la loro forma ci è documentata dalle urne a capanna (usate come cinerario in area tosco-laziale), dalla forma degli ziri e dalla stele della casetta ora al Museo di Bologna. Erano raggruppate in piccoli nuclei. I Villanoviani si occupavano di agricoltura, non avendo ancora affinato la capacità di sfruttare le miniere. La ceramica che è l’evidenza materiale che più spesso incontriamo ci testimonia una certa specializzazione artigianale richiedendo (dato il notevole spessore) temperature elevate di 7000°-8000°, era decorata con motivi a meandro, a zig-zag, a fascia continua ecc.. L’arte villanoviana è straordinaria, troviamo una ricerca continua di nuove forme, tutto può essere rappresentato.
 
I Villanoviani in Emilia-Romagna
 
Con la fine del XII secolo vengono abbandonati i siti che avevano visto una presenza della cultura terramaricola i motivi non sono stati ancora sufficientemente chiariti. Abbiamo uno iato (vuoto) fino al IX secolo, quando si insediarono i primi agglomerati villanoviani, in siti apparentemente non coincidenti con quelli precedenti. In una vasta area ad occidente del corso del fiume Panaro non si hanno tracce consistenti di occupazione addirittura per il periodo dal XII al VII secolo a.C.. Questo dato potrà senz’altro essere rivisto, quando si faranno altri scavi alla ricerca delle tracce di questa fase. Ci devono essere state cause naturali (alluvioni, irrigidimento climatico ecc) e delle cause storiche (invasioni di altri popoli) che hanno spinto i terramaricoli a spostarsi: è tutto da chiarire, forse ci riuscirà uno di voi quando un domani diventerà un valente archeologo.
A Carpi, però, recenti scavi hanno messo in luce le tracce della presenza villanoviana a Carpi S. Croce-Via Zappiano e a Budrione - Via Gusmea, anche se sono da collocarsi cronologicamente in quella fase di "attardamento" villanoviano caratteristica del villanoviano bolognese, cioè tra metà VII e metà VI a.C. con una continuità fino al V testimoniata dalla presenza di ceramica depurata etrusco-padana. A Bologna dal IX° secolo a.C. abbiamo una moltitudine di dati che ci testimoniano una società poco differenziata dal punto di vista sociale dedita all’agricoltura e all’allevamento e nel Modenese: a Savignano, Castelfranco e Cognento. i villaggi erano perlopiù arroccati su colline con le necropoli poste nelle zone più basse.
In Romagna Verucchio è il centro principale della Cultura Villanoviana, posto su di un colle prospiciente il fiume Marecchia, fu al centro di intensi traffici commerciali che dall’area Baltica (Via dell’ambra), dalla penisola Illirica, dal centro Europa, dall’area Veneta qui arrivavano. Le merci venivano poi smerciate verso il centro Italia. Per gli archeologi è un osservatorio privilegiato per tutto il periodo storico, infatti la sabbia e l’aria salmastra hanno permesso al legno e ad altri materiali come stoffe, vimini e semi di conservarsi, unico caso in tutta l’Italia, stranamente in questo contesto i metalli si sono molto consumati. E’ stato trovato un vestito di lino ornato di perline d’ambra e fermato con numerose fibule (spille-bottoni) che serviva a dare l’identità fisica al defunto cremato.
 
I villanoviani nella Tuscia
 
Con l'età del Bronzo tardo si assiste all'aumentare progressivo della popolazione: la crescita demografica in Etruria non porta all'aumento del numero degli abitati ma alla nascita di abitati più estesi, più popolosi, meglio organizzati.
Questa fase vede la nascita dei primi nuclei di quasi tutte le future città dell'Etruria storica: è l'inizio dello sviluppo protourbano che si manifesta con la formazione di grandi abitati, posti sempre su pianori difesi, ma di superficie nettamente superiore rispetto ai villaggi protovillanoviani, talvolta superiore ai 100 ettari. I siti più importanti di questa fase sono, da Sud a Nord, Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci (Canino), Orvieto, Vetulonia, Chiusi e Volterra. La maglia dei territori dei centri villanoviani mostra come sia aumentata l’estensione del territorio posto sotto il loro controllo politico, da poche decine a 1000-2000 chilometri quadrati: questo processo, denominato sinecismo, denota un marcato aumento della compattezza politica del popolo etrusco che, proprio in questa fase iniziale dell'Età del Ferro, inizia a delinearsi come entità politica e culturale autonoma e peculiare.
Lo sviluppo dei siti nel luogo delle future città etrusche avviene precocemente nell'Etruria settentrionale: Populonia e Vetulonia sono gli abitati che mostrano per primi il costituirsi delle grandi comunità, e già nel X secolo a.C.. Molte comunità villanoviane sembrano sorgere su siti che hanno già visto fasi dell'età del Bronzo, o almeno della fase finale, dal X secolo a.C.. Bisogna ricordare che testimonianze della cultura villanoviana sono state rinvenute non solo nel territorio dell'Etruria propriamente detta, ma anche in Emilia Romagna, nelle Marche ed in Campania, sul litorale salernitano: si è discusso molto se considerare le emanazioni extra-Etruria come "colonie" etrusche o come semplici influenze culturali su popolazioni locali. Fatto certo è la forte e quasi totale permeazione di elementi villanoviani in queste zone.
 Con l'inizio dell'età del Ferro, nel IX secolo a.C., la popolazione si concentra in gruppi anche di migliaia di individui in grandi centri: questi sono situati al centro di territori molto vasti e sono formati da nuclei abitati distinti che occupano pianori e colline adiacenti. All'interno delle aree controllate da ciascun centro sono presenti degli abitati molto più piccoli, posti talvolta nelle zone di confine con il territorio di altri centri: è stato supposto il loro ruolo di centri satellite posti a controllo del territorio. In quest'ultimo sono presenti risorse diverse come, ad esempio, colture, pascoli, aree metallifere; spesso il centro egemone sorge nei pressi di importanti assi viari, fluviali od in prossimità di approdi costieri, da cui dista circa 4-5 km in media. Caso unico Populonia, in Toscana, che sorge proprio sulla costa, grazie probabilmente al suo ruolo di utilizzatrice del metallo dell'Isola d'Elba e, per questo, al controllo del traffico marittimo da e per l’isola tirrenica. Riguardo alla presenza di vari nuclei di abitato all'interno di un solo insediamento, si cita ad esempio Veio, che ne mostra diversi (Campetti, Macchia Grande, Portonaccio, Comunità, sullo stesso pianoro, e Piazza d'Armi, Isola Farnese, Monte Campanile, Vaccareccia, su colline prospicenti); la distribuzione frammentata dei vari nuclei d'abitato è delineata anche dalle diverse necropoli (Valle la Fata, Quattro Fontanili, Casal del Fosso, Grotta Gramiccia). La stessa situazione è mostrata dai nuclei abitativi di Tarquinia (pianori della Civita, del Calvario, di Tarquinia moderna) e dalle diverse necropoli (Poggio Selciatello, Poggio Selciatello di Sopra, Poggio Selciatello di Sotto, Poggio dell'Impiccato, Arcatelle e "Le Rose").
 Per ricostruire la struttura interna degli abitati dell'età del Ferro ci si può purtroppo attenere a pochi dati di rilievo, poiché sono pochi gli scavi archeologici effettuati all'interno di aree abitate di questo periodo. A Veio lo Stefani all'inizio del secolo ha messo in luce le tracce di capanne circolari piccole (Veio-Piazza d’Armi) e ovali più grandi (Portonaccio e Campetti). A Torre Valdaliga (Civitavecchia) e nell'abitato della Mattonara (Civitavecchia) sono state rilevate strutture a pianta circolare, ovale e rettangolare. Al villaggio del Gran Carro sul Lago di Bolsena appaiono anche abitazioni su palafitta poste sulla riva lacustre, sopraelevate per un probabile innalzamento del livello delle acque. L'insediamento villanoviano meglio conosciuto è quello di Tarquinia-Monte Calvario: sono state rinvenute le piante di 25 capanne a pianta ovale, rettangolare allungata e quadrangolare. Queste abitazioni non differiscono molto da quelle dell'età del Bronzo e si nota, all'interno degli abitati, tra le capanne, l'esistenza di aree coltivate e destinate al ricovero degli animali.
 Dalle urne a capanna rinvenute in Etruria e nel Lazio antico è possibile conoscere quale fosse la struttura in elevato di queste abitazioni. Si tratta di capanne dal tetto a doppio spiovente o a quattro falde, con struttura lignea ricoperta da frasche, talvolta coibentate ed impermeabilizzate da argilla asciugata all'aria, frammista a paglia e, come accade ancora oggi in molte civiltà capannicole asiatiche ed africane, ad escrementi di bovini. Talvolta le abitazioni avevano, come a Luni sul Mignone (Blera), il pavimento scavato nel banco roccioso, forse per ricavarvi un ambiente sotterraneo atto alla conservazione delle derrate alimentari; l'elevato, per far sì che non deperisse, essendo in materiale vegetale, appoggiava su muretti di pietrame a secco anziché sul banco stesso. Per evitare infiltrazioni d'acqua piovana all'interno delle capanne, attorno al perimetro delle stesse venivano scavate una o più canalette di scolo con cui, spesso, veniva accumulata in cisterne. Al centro delle capanne, lontano dalle pareti, c'era il focolare, "cuore" dell'abitazione, in genere mantenuto acceso dalle donne. I fumi uscivano da aperture apposite sul tetto.
 I villaggi dell'età del Ferro, come del resto era avvenuto nell'età del Bronzo, dovevano il proprio sostentamento principalmente all'agricoltura ed all'allevamento; ma c'è ora un nuovo elemento a modificare la stratificazione sociale: la specializzazione artigianale, soprattutto dei metallurghi, che porta all'accumulo di ricchezza. Oltre a questo, il ceto emergente, quello dei guerrieri, basa il proprio censo sul controllo delle terre e delle loro risorse, raggiungendo posizioni di potere all'interno della società villanoviana. Il processo di differenziazione sociale, che come abbiamo visto sembra avere una fase embrionale nella tarda età del Bronzo, è forse mostrato dall'eccezionale ricchezza di alcuni corredi funerari: numerosi oggetti in bronzo, ferro, alcuni in oro, ambre, ceramiche pregiate (soprattutto dopo la ripresa dei rapporti con il mondo egeo anche d’importazione). "Simbolo" dell'appartenenza alla classe superiore sono le armi, gli elmi (in terracotta o, assai più raramente, in bronzo) ed i morsi per i cavalli: questo animale, introdotto nella media età del bronzo in area tirrenica è un chiaro segno del rango superiore di alcuni defunti, segno che, presto, verrà accompagnato dall'uso del carro a due ruote.
 Un altro indicatore sono forse le urne a capanna, che in ambito etrusco sono sia maschili che femminili, forse pertinenti a persone che avevano nella società dei ruoli particolari. Alcuni autori sostengono che sia forse presto parlare dell'esistenza di una differenziazione sociale e notano una relativa uniformità nei corredi funerari del periodo: sono però d'accordo sull'esistenza di un processo di stratificazione sociale, preparatorio alla società orientalizzante "dei principi" del VII secolo a.C.. Attorno alla metà dell'VIII secolo a.C. si assiste al passaggio tra il villanoviano tipico a quello evoluto: si inizia effettivamente a distinguere una netta differenziazione dei corredi, negli oggetti che li compongono, in qualità e quantità, nella struttura stessa delle tombe (ciste di pietra), nell'apparire del rito dell'inumazione accanto a quello dell'incinerazione. L'inumazione è prevalentemente in fosse scavate nel terreno.
Non ci sono nette diversità nei corredi delle tombe ad incinerazione ed in quelle ad inumazione: si nota comunque un generalizzato aumento degli oggetti costituenti il corredo, in particolare di quello degli inumati. La presenza di oggetti importati da altre culture dell'Italia protostorica denota la forte mobilità delle genti protoetrusche: sono accertati contatti e scambi con i Sardi, con le aree transpadane (soprattutto con i paleoveneti), con le genti dell'Italia meridionale (enotri): presto, sin dall'inizio dell'VIII secolo a.C., iniziano ad apparire anche oggetti provenienti dall'Egeo. Come già detto, il tema dei rapporti con genti provenienti dal mondo greco, va ricordato poiché è proprio grazie all'influenza culturale orientale che inizia quel processo di permeazione degli elementi greci, definito ellenizzazione, che influenzerà moltissimo la cultura etrusca per tutta la durata di questo popolo.
 Se alla fine dell'VIII secolo a.C. si assiste all' esplosione orientalizzante in cui appare chiara la civiltà etrusca d'età storica con la sua stratificazione sociale, la sua cultura, le sue forme politiche ed economiche, lo si deve in buona parte anche all'influenza greca. Il rapporto con i Greci si fa più intenso dopo la fondazione da parte di questi dell'emporio di Pithekusa (Ischia) e della colonia di Cuma. Gli abitati aumentano nettamente la propria popolazione e si estendono in nuclei attigui, allargandosi su diversi pianori. Le abitazioni sono ancora in capanne più o meno complesse: si prepara però la fase preurbana dell'età Orientalizzante in cui iniziano ad apparire, all'interno degli abitati, alcune unità abitative assai più articolate; anche qui, data la relativa scarsità di dati, esse sono riconoscibili soprattutto dalla pianta complessa delle tombe a camera orientalizzanti, arricchite da elementi architettonici scolpiti, a ricordare struttura interna ed architettura domestica. Le abitazioni presentano il tetto di frasche fino alla metà del VII secolo a.C. e ciò può essere testimoniato dalla tomba "a capanna" di Cerveteri e dalla camera laterale sinistra del Tumulo Cima di Barbarano Romano, in cui appare sia il tetto semicircolare tipico delle capanne, che la struttura con orditura lignea tipica dei tetti con tegole: il Tumulo Cima è databile attorno al 650 a.C..
 Le prime aree pubbliche, più o meno monumentalizzate, non appaiono prima della metà del VII secolo a.C.: esempi possono essere la cisterna di Veio, un luogo di culto di Roselle e la monumentalizzazione dell'area della Civita di Tarquinia. Secondo alcuni autori con l'istituzione di tali strutture civiche si può considerare concluso il lungo processo di evoluzione urbana iniziato embrionalmente nel IX secolo a.C.. I gruppi di aristocratici apparsi nettamente nel Villanoviano evoluto sono alla base di quell'esplosione culturale, economica e sociale che porterà alla fase storica del popolo etrusco iniziata con il "periodo orientalizzante" (fine VIII - fine VII secolo a.C.). Tra i siti principali della provincia di Viterbo che hanno restituito testimonianze della cultura Villanoviana, cioè della fase etrusca dell'età del Ferro, ricordiamo Vulci, Tarquinia, Bisenzio (Capodimonte), Vetralla, Barbarano Romano, Civita Castellana, San Giovenale e Luni sul Mignone (Blera): esse sono visibili nei Musei Archeologici di Vulci (Castello della Badia), di Tarquinia (Palazzo Vitelleschi), Barbarano Romano (Museo Civico), Bolsena (Castello Monaldeschi - Museo territoriale del Lago di Bolsena), Civita Castellana (Forte del Sangallo).
La Storia
Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria interna
L’espansione e l’apogeo degli Etruschi in Italia
L’alleanza cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma
 L’Etruria “federata”
L’epilogo etrusco: i Galli e Roma




 Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria interna
In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat: quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi, dice Catone (Servio, ad Aen., XI, 567); e Livio (I, 2; V, 33) insiste sulla potenza, sulla ricchezza, sulla fama degli Etruschi in terra e in mare dalle Alpi allo stretto di Messina. I dati archeologi ci ed epigrafici e le notizie di altre fonti storiche confermano il valore di queste tradizioni, pur limitandone la genericità e consentendo di chiarire con sufficiente approssimazione quali territori italiani furono propriamente abitati e quali sottomessi dagli Etruschi o in qualche modo da loro influenzati politicamente, economicamente o culturalmente.
Consideriamo anzitutto quella che siamo soliti denominare Etruria propria, compresa tra il Mare Tirreno, il corso del Tevere e il bacino dell' Amo, cioè l'Etruria storica costituente la Regione VII dell'Italia augustea. Ad essa appartengono le dodici città (dodecapolis) che secondo il canone tradizionale formavano la nazione etrusca. La tradizione antica ha accreditato presso gli storici moderni l'idea che questo territorio fosse la sede originaria della stirpe, dalla quale sarebbero partite le imprese marittime e le conquiste terrestri (verso il Lazio e la Campania e verso le zone transappenniniche). Ma su questa semplice affermazione occorrerà comunque un più approfondito giudizio critico.
Già trattando delle origini etrusche si è fatto cenno alle ipotesi di una progressiva «etruschizzazione» dell'Etruria storica che, secondo i sostenitori della provenienza trasmarina dei Tirreni, sarebbe logicamente avvenuta partendo dalle coste verso l'interno, con la sottomissione o l'incorporazione di elementi indigeni italici (gli Umbri di Erodoto). A riprova della esistenza di questo originario fondo italico e della persistente eterogeneità etnica di aree comprese entro i confini geografici dell'Etruria si addusse tra l'altro l'abbondante presenza di nomi personali di origine italica nelle città etrusche, per esempio a Caere, ma non soltanto a Caere (l'Etruria settentrionale è particolarmente ricca di tali elementi soprattutto in tempi recenti); si è dato inoltre particolare valore al fenomeno dei Falisci, di lingua originariamente latina, abitanti nell'ansa orientale del Tevere, oltreche al ricordo dei Camertes Umbri dell'Etruria interna e di Umbri Sarsinates per la zona di Perugia.
Ma il significato di queste constatazioni può rovesciarsi, considerando l'eventualità (che è del resto controllabile in molti casi) di penetrazioni storiche sabine e umbre in Etruria specialmente nelle zone di confine e di processi di latinizzazione come a Caere dopo l'imporsi dell'egemonia romana nel IV secolo a.C. Soltanto nel caso del territorio falisco riconosciamo effettivamente la presenza originaria di una popolazione di lingua non etrusca stabilita sulla riva destra del Tevere, in presumibile continuità con l'area latina estesa a sud oltre il fiume; ed è significativo che in questa zona, come nel Lazio, manca la tipica cultura del ferro villanoviana, che invece è presente, vistosissima, nel non lontano centro di Veio. Il territorio falisco subì certamente un'influenza politica e culturale etrusca determinante, soprattutto in età arcaica, non diversamente da alcune parti del Lazio inclusa la stessa Roma (la ricorrenza di iscrizioni etrusche accanto a quelle falische è prova del bilinguismo delle classi dominanti); ma poi prevalsero pressioni ed infiltrazioni di elementi italici sabini che caratterizzarono fortemente il dialetto locale. In ogni caso possiamo considerare assolutamente certo che fin dall'inizio dei tempi storici esiste un mondo etrusco ben definito e riconoscibile la cui estensione coincide sostanzialmente con quella della regione che fu chiamata dagli antichi Etruria, cioè non solo la fascia costiera tirrenica ma anche tutto il retroterra fino alla valle del Tevere e alle pendici dell' Appennino Tosco-Emiliano. Lo dimostrano da un lato l'impronta unitaria della lingua documentata dalla diffusione delle iscrizioni etrusche fin dal loro primo apparire nel VII secolo; da un altro lato il carattere inconfondibile degli aspetti culturali a partire dal villanoviano e per tutti i loro successivi sviluppi, in piena coincidenza con l'univoca tradizione antica sulla etruscità di questi territori e dei relativi centri. Ogni ipotesi circa l'eventualità di preesistenti differenze e sovrapposizioni o commistioni etniche andrà semmai respinta più lontano nella preistoria. Ogni progresso dalle coste verso l'interno si spiega logicamente, non già con l'idea di una penetrazione etnica, ma con le concrete ragioni storiche di una penetrazione d'impulsi economici e culturali provenienti dai centri marittimi più direttamente esposti a sollecitazioni esterne. Seppure con minore concentrazione ed intensità gl'insediamenti interni partecipano in pieno e vigorosamente allo sviluppo dell'Etruria arcaica.
Esistono, ben s'intende, condizioni ambientali diverse da quelle delle zone litoranee. Mancano i fondamentali e primordiali presupposti di un accelerato incremento basato sui contatti e sui commerci marittimi, oltreche sullo sfruttamento delle miniere prevalentemente concentrate lungo la linea costiera, e sulla potenzialità, di ambedue questi fattori combinati. Si offrono in compenso estese, profonde e variate terre vallive e collinari ricche (allora) di boschi o idonee al pascolo e specialmente all'agricoltura, costituente la base principale dell'economia; mentre le comunicazioni interne dovevano essere favorite dalla navigazione fluviale e lacustre e si aprivano vie di contatti e di scambi, lungo ed oltre il corso del Tevere e dell'Amo ed attraverso la dorsale appenninica, con le regioni centrali della penisola e con il settentrione fino al versante adriatico. A questa configurazione del paese con le sue risorse sembrano potersi in qualche modo ricollegare i caratteri delle forme associative e delle strutture socio-economiche e in ultima analisi i lineamenti della storia più antica dell'Etruria interna.
Di fatto noi vediamo apparire molto diffuso un sistema di piccole aggregazioni sparse nel territorio o più intensamente addensate in zone presumibilmente favorevoli a coltivazioni granarie od ortofrutticole o a vigneti (quando fu introdotta e si diffuse la vite) o al piccolo allevamento: tipici gli esempi attorno al lago di Bolsena, lungo la valle tiberina, nei territori di Chiusi, di Volterra, ecc.; si può parlare di persistenze della tradizione dei villaggi preistorici, ma anche di fattori economici e sociali che possono aver determinato lo sviluppo di insediamenti rurali ed un incremento demografico decentrato. L 'emergere di ceti dominanti, cui si deve ovviamente ogni impulso innovatore, poggia soprattutto sul possesso terriero: ne cogliamo un riflesso nei grandi sepolcri a tumulo con ricchi corredi funebri più o meno isolati nelle campagne (presso Cortona, nel Chianti, nella valle dell' Amo), contemporanei e simili a quelli che appaiono invece accorpati nelle grandi necropoli urbane di Caere, di Tarquinia, di Vetulonia, di Populonia. C'è poi da considerare la frequenza di centri di maggiore consistenza aventi carattere di «borghi» generalmente in altura e muniti (in latino si sarebbero detti oppida), per i quali si può pensare a comunità autonome in qualche modo affini ai piccoli popu/i ricordati dalla tradizione per il Lazio protostorico: ne conosciamo esempi rilevanti, anche per le loro testimonianze archeologiche, soprattutto nell'Etruria meridionale e centrale, come San Giovenale, San Giuliano, Blera, Norchia, Tuscania, Acquarossa, Bisenzio, Castro, Poggiobuco, Pitigliano, Satumia, ecc. Alcuni di questi abitati, come quelli molto simili del vicino territorio falisco, ad esempio Narce, risalgono a nuclei dell'età del bronzo. Alla loro vitalità arcaica sembra aver fatto seguito dopo il VI secolo una decadenza talvolta fino alla sparizione (è il caso di Acquarossa presso Ferento) per il mutare delle condizioni economiche e politiche determinato dalla crescita delle grandi città, sia litoranee sia interne, da un più marcato imporsi del loro dominio territoriale, da presumibili fenomeni di inurbamento, di accentrazione fondiaria, di insicurezza delle campagne a seguito di eventi bellici, minacce esterne, ecc.; ma alcuni dei vecchi centri di media grandezza avranno all'opposto rilevanti sviluppi in età avanzata (Sutri, Tuscania, Sovana).
Un caso particolare rivelato dagli scavi recenti è quello dello splendido complesso architettonico-urbanistico di Poggio Civitate presso Murlo nel territorio di Siena che dà l'impressione di una fondazione principesca, santuario e forse anche residenza, fiorita fra il VII e VI secolo e poi praticamente abbandonata, richiamando in certo senso a quel sistema di dominii gentilizi che parrebbe altrimenti intravvedersi, soprattutto nel nord, dai grandi sepolcri monumentali extraurbani. Ma l'Etruria interna ha anch'essa le sue città, seppure meno numerose e addensate di quelle della fascia litoranea. La nascita e lo sviluppo di alcune di esse, meno distanti dal mare come Veio e a nord Volterra, o più arretrate come Volsinii (Orvieto) e Chiusi, avvengono contemporaneamente ai processi formatori delle città costiere e sostanzialmente con le stesse caratteristiche. Per altri centri che avranno pari dignità in avanzata età storica come Perugia, Cortona, Arezzo si può discutere, alla luce dei dati archeologici finora conosciuti, se il vero e proprio accentramento urbano si sia attuato più lentamente, per il perdurare di forti nuclei abitativi nei possedimenti aristocratici delle campagne; ma anche se l'origine può essere stata diversa queste città esistevano già certamente in età arcaica.
Ciò che appare soprattutto interessante è il fatto che le città dell'Etruria interna si trovano disposte in qualche modo ad arco o a corona lungo una fascia approssimativamente corrispondente ai confini geografici dell'Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra del Tevere, Veio, Falerii (seppure di origini falisce), Volsinii (nella zona di confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei monti confinanti con l'Umbria Cortona; lungo l'Arno Arezzo e Fiesole; ne si escludono del tutto da questo sistema, benche meno periferiche, Chiusi e Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi vie fluviali. Ma non si può sfuggire all'impressione che nell'ubicazione delle città si configuri anche una sorta di delimitazione protettiva che in certo senso conferma l'idea di un'antica concezione unitaria del territorio etrusco.
Per altro verso proprio la marginalità di questi centri deve aver offerto possibilità di contatti e di scambi con le confinanti regioni esterne, oltreche di aperture a fenomeni espansivi: quali s'intravvedono per Veio (e per il territorio falisco) con il Lazio e la Sabina; per Volsinii e Perugia con l'Umbria; per le città più settentrionali in genere con i paesi d'oltre Appennino.

 Una vera e propria ricostruzione di eventi storici, di politica interna ed esterna, nell'età più antica è impossibile come per l'Etruria costiera. È immaginabile uno sviluppo parallelo e notevolmente differenziato dalle singole zone per l'ampiezza del territorio e per la diversità delle situazioni e delle gravitazioni come si è già accennato. Di primitive monarchie, sorte dai ceti egemonici o come prevalente affermazione di piccoli potentati locali, possediamo soltanto echi leggendari (e naturalmente d'incerta autenticità e cronologia): così per Veio si ricordavano un re Morrius o Mamorrius discendente di Halesus fondatore di Palerii (Servio, ad Aen. VIII, 285) ed un re Propertius connesso con le origini della città di Capena (Catone in Servio, ad Aen. VII, 697), ed inoltre un re Velo Vel Vibe vissuto ai tempi di Amulio di Albalonga, cioè riferibile all'VIII secolo a.C. secondo la cronologia tradizionale; più concretamente le iscrizioni arcaiche ci danno nomi di stirpi gentilizie di alto rango di cui una, i Tulumne, assurgerà al potere regio, se non prima, nel V secolo. È difficile dire quali rapporti, di rivalità, di alleanza, ecc., vi siano stati fra i centri dell'Etruria interna e tra questi e i centri costieri: una immagine piuttosto attendibile di queste situazioni nella prima metà del VI secolo potrebbe riflettersi nel fregio «storico» dipinto della Tomba Francois di Vulci (posteriore di oltre due secoli agli avvenimenti, ma fondato, come crediamo, su buone tradizioni), che mostra figure e nomi di principi o capi di alcune città, come Laris Papathna di Volsinii (Velznax) e Pesna Arcmsna forse di Sovana (Sveamax), collegati a quanto sembra con Cneve Tarchunie, cioè un Tarquinio di Roma (Rumax), contro condottieri e avventurieri provenienti da Vulci. Ancora più difficile è ipotizzare se, o fino a che punto, già in età arcaica si siano venute determinando quelle tradizioni o istituzioni di colleganza stabile, religiosa e in parte politica, tra le «dodici città» dell'Etruria, che in età più recente vedremo incentrata intorno al santuario del dio Voltumna, il Fanum Voltumnae, a Volsinii o presso Volsinii, e che porterà al prestigio e alla fama di questa città come «capitale dell'Etruria» Etruriae caput (Valerio Massimo, IX, 1).
Ma il momento del grande sviluppo, socialmente rivoluzionario, di Volsinii, sembra doversi collocare - alla luce delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche delle necropoli di Orvieto - piuttosto negli ultimi decenni del Vl secolo come si avrà occasione di sottolineare più avanti, Certamente invece molto antica, e straordinaria, è la fioritura economico-culturale, e di conseguenza presumibilmente la potenza, di Chiusi, situata nel cuore dell'Etruria centro-settentrionale, in una posizione eccezionalmente favorevole di accessi e di transiti al centro di densissimi abitati, con irradiazioni verso l'alta valle del Tevere e Perugia attraverso il Lago Trasimeno e le vie terrestri, e da un altro lato verso il Senese (si pensi al già ricordato «santuario-palazzo» di Murlo, dove si manifestano influenze artistiche chiusine); cosicchè non deve far meraviglia che la tradizione storica registri sul finire del VI secolo una espansione politico-militare di Chiusi in piena area costiera tirrenica, con la spedizione del re Porsenna contro Roma, spiegabile soltanto immaginando un'egemonia della monarchia chiusina progressivamente acquisita già nei decenni precedenti su gran parte dell'Etruria interna.




L’espansione e l’apogeo degli Etruschi in Italia
 
A questo punto, considerata l'Etruria propria, converrà affrontare il quadro di quella più vasta «Etruria» che oltre i confini geografici del Tevere e dell' Appennino fu creata dall'espansione non soltanto economica e politica, ma anche in parte notevole stanziale e demografica degli Etruschi in altri territori dell'ltalia antica. Espansione, va detto subito, che anche e soprattutto alla luce delle scoperte e delle valutazioni critiche più recenti deve ritenersi assai più precoce di quanto si credesse in passato, diremmo addirittura contestuale al primo manifestarsi della civiltà etrusca, comunque in atto già per diversi aspetti avvenuta all'inizio dei tempi storici: se, come dobbiamo presumere ed abbiamo già fondatamente supposto, la presenza del villanoviano a sud nel Salernitano e a nord in alcune zone dell'Emilia e della Romagna significa presenza etrusca (o, se si preferisce volendo giocare sui termini, protoetrusca).
Ma va anche detto subito e fermamente che non sembra lecito rinunciare al concetto di espansione, cioè di stanziamenti secondari o conquiste, per ipotizzare vaghe e confuse insorgenze etniche in luoghi lontani; e ciò per due ragioni: 1) in primo luogo per il rispetto dovuto alla tradizione storica antica che esplicitamente e concordemente parla di fondazioni o colonizzazioni etrusche in Campania e nell'ltalia settentrionale; 2) inoltre per la reale differenza che si percepisce, sulla base dei dati linguistici, archeologici e storiografici, fra il territorio compat- tamente etrusco dell'Etruria propria e le regioni esterne nelle quali convivono altre stirpi, lingue e tradizioni e nelle quali l'etruschizzazione, anche se intensa, appare comunque limitata nello spazio oltre che nel tempo. Ciò premesso, sempre sul piano generale non può sfuggire alla nostra attenzione il fatto che la espansione etrusca, lungi dal manifestarsi concentricamente attorno all'area originaria, appare orientata secondo un lungo asse longitudinale che scende a sud seguendo il versante tirrenico in direzione della Campania e sale a nord attraverso l'Appennino Tosco-Emiliano verso la pianura padana, lasciando praticamente intatto e non superato il confine orientale del Tevere che separa l'Etruria dall'Umbria. La spiegazione dell'appariscente fenomeno potrà ricercarsi, se non andiamo errati, proprio nelle condizioni dei tempi remoti ai quali risalgono le prime spinte espansive, in parte collegabili con le attività marittime, lungo il Tirreno, in parte identificabili con fattori d'attrazione delle piaghe transappenniniche, mentre meno favorevole doveva apparire una penetrazione verso l'interno della penisola anche per la forte presenza e pressione di quelle genti italiche che sono storicamente conosciute come Sabini e Umbri.
 
Verso il Sud
 
Il dominio etrusco in Campania, la cui storicità fu rivendicata da una classica opera di J. Beloch contro precedenti scetticismi, è largamente comprovato dalle fonti letterarie antiche, dai documenti epigrafici e dalle testimonianze archeologiche. Gli scrittori greci e romani parlano della fondazione di una dodecapoli (Strabone, V, 4,3) evidentemente sul modello di quella dell'Etruria propria, e più specificamente dell'origine o dell'occupazione etrusca di Capua, considerata la capitale, NoIa, Nocera, Pompei e altri centri campanr. Le iscrizioni etrusche sono piuttosto abbondanti, e tra queste primeggia la tegola di Capua, che è il più lungo testo in lingua etrusca che possediamo dopo il manoscritto su tela della Mummia di Zagabria. Il materiale archeologico e le opere figurate presentano più o meno spiccate, a volte strettissime, analogie con gli aspetti e le sequenze culturali dell'Etruria fino al V secolo. Occorrerà tuttavia, per dare una più sicura e precisa dimensione storica a questo quadro generale, cercare di definirne per quanto possibile i termini geografici e cronologici.
Va comunque ricordato che la presenza degli Etruschi in Campania costituisce soltanto uno dei fattori che concorrono a definire la fisionomia etnica, politica e culturale, estremamente complessa, di questa regione la cui funzione fu d'importanza primaria - e per certi aspetti ed in alcuni momenti determinante - nella storia dell'ltalia antica. Gli altri fattori sono le popolazioni indigene, variamente denominate Ausoni, Opici, Osci, Sanniti, Campani; e la colonizzazione greca. La tradizione antica fu propensa a schematizzare questa pluralità etnica nel senso di una successione di invasioni ed occupazioni: ciò che in parte, ma solo in parte, corrisponde a reali avvicendamenti storici. Più concreta appare invece la prospettiva geografica, che delimita la presenza greca alla fascia costiera del golfo di Napoli (fondazioni degli Eubei a Pithecusa, cioè lschia, e a Cuma, con estensione a Partenope o Paleopoli, donde poi Napoli; forse Rodii; più tardi Samii a Dicearchia cioè Pozzuoli; mentre altri attacchi coloniali greci s'incontrano soltanto a sud del fiume Sele); colloca l'espansione etrusca fra il golfo di Salerno e il retroterra campano, la «mesògaia», fino al fiume Volturno; riconosce alle genti indigene il carattere di generale sottofondo etnico e perduranti stanziamenti marginali specialmente a nord del Volturno; ambienta i Sanniti sull'arco montano con processo verso la pianura. È molto probabile che le origini dell'etruschizzazione della Campania siano da collocare nel quadro delle più antiche attività marittime degli Etruschi nel Tirreno, di cui si è già discorso. L'apparizione di un tipo di cultura villanoviana a Pontecagnano presso Salerno nel IX secolo con qualche riflesso verso l'interno (Valle del Tanagro), come elemento che ha tutto l'aspetto di essere intrusivo rispetto alle dominanti manifestazioni culturali locali di inumatori, e le successive sequenze in parte analoghe e parallele a quelle dell'Etruria propria, includenti, ciò che è più importante, la presenza di iscrizioni etrusche arcaiche nella stessa Pontecagnano e nell'area della penisola sorrentina fino a Castellammaredi Stabia e a Pompei, coincide piuttosto significativamente con le notizie delle fonti antiche circa il possesso etrusco del litorale salernitano, cioè del cosiddetto «agro picentino», fino alla foce del Sele e alla esistenza della colonia etrusca di Marcina.
Il problema che si pone è quello del rapporto, cronologico e storico, tra questi remoti insediamenti costieri e la più vasta area del dominio territoriale etrusco interno tra il Volturno e la valle del Sarno, cioè la vera e propria Campania etrusca avente come centro principale Capua e tutta una serie di città caratterizzate dalla presenza di iscrizioni etrusche e di materiali propri di una cultura materiale di tipo etrusco (benchè di regola pertinenti ad una fase cronologica piuttosto avanzata, tra la fine del VI e la prima metà del V secolo), come Suessula, Acerra, Nola, Pompei, Nocera: queste due ultime costituenti in certo modo una cerniera con l' area sorrentino-salernitana.
L'ipotesi di una netta priorità della colonizzazione costiera pel golfo di Salerno sul dominio etrusco della mesògaia campana che ne sarebbe stata quasi una tardiva conseguenza va attenuata o corretta nel senso di una possibile e probabile pluralità di antiche vie di approccio dall'Etruria propria alla Campania, e soprattutto del maturare di condizioni storiche diverse attraverso l'età arcaica.
La stessa discussione sul problema dell'interpretazione dei dati tradizionali circa la cronologia della fondazione etrusca di Capua appare di secondaria importanza: i recenti scavi hanno confermato la progressiva formazione di un grosso centro fra il IX e I'VIII secolo, con caratteri indigeni ma con sensibili richiami alI' area culturale etrusca, falisca e laziale, e con una progressiva affermazione di influenze etrusche soprattutto nel VI secolo; prove sicure del carattere fondamentale etrusco della città si avranno tuttavia soltanto per gli inizi del V secolo. Si può presumere che alla primordiale colonizzazione, o protocolonizzazione, del litorale salernitano abbiano fatto riscontro penetrazioni per via terrestre (valle del Sacco e del Liri?) e per via di mare (foci del Liri e del Volturno?) verso l'ubertosa e appetibile pianura della Terra di Lavoro; e che la precoce e salda installazione coloniale greca nel golfo di Napoli (già almeno dalla metà dell'VIII secolo), chiudendo questa privilegiata via d'accesso portuosa, abbia favorito il consolidarsi di un dominio etrusco interno, a sua volta serrato ad arco attorno alla fascia d'influenza di Cuma e tendente a sfociare al mare più a sud alla foce del Sarno (Pompei) e nel golfo di Salerno in congiunzione con i vecchi scali del territorio picentino. Si disegnerebbero così, con una certa verosimiglianza, le grandi linee interpretative della storia della etruschizzazione della Campania e della sua dialettica di contrasto con la colonizzazione greca, ferma restando anche l'esistenza del problema dei rapporti con le popolazioni locali, che possiamo immaginare di coesistenza e di sovrapposizione nelle zone di più intensa occupazione etrusca, e di vicinato, scambi e influenze nelle zone marginali specialmente a nord del Volturno, come nel retroterra picentino, ma anche già forse di minacciosa irrequietezza lungo l'arco montano abitato dai Sanniti dal quale proverranno gl'impulsi e i movimenti destinati a segnare nel futuro la sorte dell'Etruria campana e dell'intera Campania.
Gli sviluppi di questa storia nel V secolo appartengono tuttavia ad una fase cronologica più avanzata che sarà oggetto di trattazione successiva. La presenza e la dominazione degli Etruschi in Campania coinvolgono naturalmente il problema dell'espansione etrusca nell'area intermedia fra l'Etruria e la Campania, cioè nel Lazio. Una fase di prevalenza etrusca nella storia del Lazio è esplicitamente affermata dalla tradizione antica, con particolare riguardo ai racconti relativi alla dinastia etrusca dei Tarquini regnante in Roma tra la fine del VII e gli ultimi decenni del VI secolo; confermata largamente dalle scoperte epigrafiche e in generale dalle testimonianze archeologiche e artistiche; universalmente riconosciuta dagli studiosi moderni. Ma va subito aggiunto che, rispetto alla Campania, esiste una differenza sostanziale. Nonostante la maggiore vicinanza geografica, anzi la contiguità territoriale con l'Etruria, che manca alla Campania, non si può parlare per il Lazio di un dominio etrusco definito, unitario e stabile, tanto meno di una colonizzazione demografica, quali sono accertabili per la Campania come si è visto; si riconosceranno semmai sovranità parziali, immigrazioni di capi, influenze istituzionali e culturali, tali da giustificare l'impressione di una sorta di «protettorato» che ha la sua ragione storica, evidentissima, nell'esigenza di assicurare alle città etrusche, considerate singolarmente e nel loro insieme, il controllo delle vie di transito terrestri e marittime (cioè di appoggio al cabotaggio) verso la Campania. Ma il fondo della popolazione con la sua lingua, le sue tradizioni e le sue strutture resta non etrusco, cioè latino: ciò che senza dubbio dipende dal fatto che l'espansione etrusca a sud del Tevere, quando avviene, trova un mondo di società protostoriche già da tempo evolute, organizzate, sulla via dell'urbanizzazione e presumibilmente coscienti di una loro identità «nazionale», quale è quello che ci si rivela attraverso le scoperte archeologiche soprattutto recenti e recentissime, con le sue fasi di cultura «protolaziale» o «albana» dei crematori della fine dell'età del bronzo e del principio dell'età del ferro (X-IX secolo) e di cultura dei fiorenti centri di inumatori dell'VIII-VII secolo tipicamente esemplificata dalla grande necropoli di Decima.
La penetrazione degli Etruschi non sembra anteriore al VII secolo. Essa appare preceduta da una serie di scambi tra i territori dell'una e dell'altra sponda del Tevere, che tuttavia non alterano la sostanziale diversità della loro fisionomia culturale: basti pensare che gli aspetti caratteristici della civiltà villanoviana, che pure raggiungono le lontane coste del Salernitano, sono ignoti al Lazio (come del resto al territorio falisco pur situato sulla sponda etrusca). Viceversa è notevole la diffusione nel villanoviano dell'urna cineraria in forma di capanna che ha la sua origine e il suo epicentro nell'area laziale. I rapporti culturali piuttosto stretti esistenti tra il Lazio e i territori di Capena e di Falerii fra il IX e il VII secolo si giustificano con l'identità del fondo etnico-linguistico.
Ma si può parlare anche di una più vasta rete di connessioni che include Veio, il territorio capenate e falisco e Roma. D' altra parte su questa zona medio-tiberina deve aver pesato, in questo stesso periodo, anche un altro elemento di indubbia rilevanza storica, e cioè la pressione degl'italici Sabini discesi dall'interno della penisola lungo la valle del Tevere fino a raggiungere Roma e ad essere implicati nelle sue stesse origini. Una concreta presenza etrusca nel Lazio è attestata dalle tombe principesche di Palestrina, l'antica Praeneste (tombe Castellani, Bernardini, Barberini) databili intorno al secondo quarto del VII secolo, caratterizzate da fasto si corredi orientalizzanti per molti aspetti analoghi a quelli di Caere e dalla presenza di un'iscrizione etrusca; inoltre dalla tomba a tumulo pure orientalizzante scoperta a Lavinio, la città sacra costiera a sud di Roma, sotto un più tardo sacrario ricordato dagli antichi come «tomba di Enea»; nonche dai sepolcri e dai depositi votivi di Satricum includenti una iscrizione etrusca della fine del VII secolo. Per quel che riguarda Roma la tradizione antica colloca l'inizio della dinastia etrusca dei Tarquini negli ultimi decenni del VII secolo, con la «chiamata al potere» di Tarquinio Prisco in sostituzione del re sabino Anco Marcio; ne per quanto sappiamo esistono indizi archeologici a favore di una presenza etrusca in Roma prima di quel momento. Tutti questi dati esigono un tentativo d'interpretazione storica. È possibile che la richiesta di sicurezza dei confini delle città etrusche meridionali, Caere e Veio, e di aperture commerciali e politiche verso il sud abbiano imposto, nel momento di massima fioritura della potenza tirrenica, la creazione di punti di controllo e l'imposizione di signorie etrusche nei centri locali, sia all'interno in direzione della cruciale via della valle del Sacco (come è presumibile per Palestrina), sia lungo la costa fino a quel territorio dei Rutuli (e poi dei Volsci) che Catone ricordava sotto il dominio etrusco.
Il «ritardo» di Roma - pur divisa dall'Etruria solo da un guado, e dunque naturalmente esposta per prima ad un ingresso degli Etruschi nel Lazio - costituisce un problema la cui spiegazione potrà ricercarsi, oltre che nella stessa grandezza e potenza autonoma di un centro in rapido sviluppo (tanto che già nel VII secolo, stando alla tradizione, era stato in grado di distruggere Albalonga, cioè di imporre il suo predominio sulle antichissime comunità albane nel cuore del Lazio), anche e soprattutto nell'ostacolo rappresentato dai Sabini allora presenti e presumibilmente predominanti a livello di direzione politica in Roma stessa (contro i Sabini appunto si manifesterà poi, sempre secondo la tradizione, la principale attività militare di Tarquinio Prisco assurto al potere regio). Alla tradizione annalistica raccolta dalla grande storiografia romana (specialmente Livio e Dionisio D'Alicarnasso) circa gli eventi dinastici e socio-politici di Roma dalla fine del VII e per tutto il VI secolo non possiamo più negare oggi, sia pure con ogni riserva e prudenza critica, una sostanziale veridicità storica. Combinata con altre versioni collaterali delle fonti antiche e parzialmente confermata dai dati epigrafici e archeologi ci (cioè topografico-monumentali e artistici), essa ci offre un quadro sufficientemente perspicuo della presenza etrusca a Roma e nel Lazio.
Prescindendo dai particolari aneddotici e dall'autenticità individuale dei personaggi - di cui tuttavia non è da diffidare a priori (si pensi ad esempio alla spiccata verosimiglianza di una figura come quella della regina Tanaquil, con il suo prenome femminile etrusco Thanachvil di larga diffusione nella epigrafia arcaica, nata da nobile famiglia tarquiniese ed esperta nell'interpretazione dei prodigi celesti secondo la scienza degli Etruschi: Livio, I, 34) -, noi possiamo riconoscere l'esistenza di una fase iniziale di affermazione e di consolidamento della sovranità etrusca in Roma, e di etruschizzazione di Roma, collocabile tra gli ultimi decenni del VII e i primi decenni del VI secolo e sia pure convenzionalmente definibile come «età di Tarquinio Prisco». Dobbiamo ritenere che allora l'aggregato romano abbia assunto il suo volto definitivo di città unitaria ed organizzata, con una cinta difensiva, la creazione di uno spazio pubblico (il foro) distinto dalle abitazioni private, l'attrezzatura dell'arce del Campidoglio con l'inizio della costruzione del tempio di Giove Capitolino, secondo esplicite notizie delle fonti letterarie; ed effettivamente le scoperte archeologiche sembrano far risalire a questo periodo le prime stabili costruzioni architettoniche civili e religiose con le loro decorazioni di terracotta, soprattutto alla Regia (presumibile santuario-dimora ufficiale dei re) e al Comizio, sopra tracce di tombe e capanne più antiche.
Sul piano politico e sociale si presumeranno l'avvento e la supremazia di una classe dirigente etrusca, che possiamo pensare installata di preferenza con le proprie dimore ai piedi del Campidoglio tra la valle del Foro e il guado tiberino, in quello che sarà il futuro Vicus Tuscus: ne abbiamo testimonianze dalle iscrizioni etrusche, di cui due provenienti dall'adiacente area sacra di S. Omobono (una specialmente, incisa su una placchetta d'avorio in figura di leoncino, menziona un Araz Silqetenas Spurianas di possibile origine tarquiniese come lo stesso re Tarquinio secondo la tradizione); il carattere prevalentemente aristocratico della struttura dei poteri della città al principio del VI secolo potrebbe trovare una conferma indiretta anche nell'iscrizione dedicatoria latina del cosiddetto vaso di Duenos, se duenos è termine generico indicante una qualità sociale del donante (= bonus, cioè «nobile»). È importante notare che le iscrizioni in lingua etrusca sembrano essere tutte di carattere privato, mentre il testo del famoso cippo del Lapis Niger nel Foro Romano, ormai con sicurezza databile in questo periodo e riferibile a prescrizioni di cerimonie sacre del re nel Comizio, è scritto in latino e pertanto documenta, nonostante la sovranità etrusca, l'uso del latino come lingua ufficiale dello stato.
Gli eventi e i personaggi del regno di Servio Tullio succeduto a Tarquinio Prisco, nei decenni centrali del VI secolo, ci appaiono in verità ricordati dalla storiografia romana con particolari drammatici, in parte fiabeschi e talvolta persino contraddittori (origini oscure, comunque non etrusche, del protagonista; irregolarità formali della sua assunzione al potere; riforme e popolarità, per cui pote essere più tardi esaltato come fondatore delle libertà repubblicane e persino ispiratore della costituzione della repubblica: esplicitamente Livio, I, 60; imparentamento e rivalità con la famiglia dei Tarquini, di perdurante potenza, culminanti nella sanguinosa «presa di potere» di Tarquinio il Superbo), tali da far pensare ad un racconto in qualche modo sistematizzato che nasconda situazioni, avvenimenti e processi istituzionali assai più complessi. Il riferimento dell'imperatore Claudio, nel suo discorso al Senato registrato dalle Tavole di Lione (C.I.L. XIII, 1668), a una tradizione etrusca che identificava Servio Tullio con Mastarna compagno di gesta di Caelius Vibenna eponimo del Monte Celio apre il discorso sulla fondata possibilità di inserire in questo periodo - che potremmo anche qui definire convenzional-mente come «età serviana» - tutti gli avvenimenti e personaggi connessi con il «ciclo» semileggendario delle avventure dei fratelli Celio (o Cele) e Aulo Vibenna (nella forma etrusca Caile e Avle Vipina) e di Mastarna o Maxtarna (etrusco Macstrna), citate in numerosi e vari accenni delle fonti letterarie e raffigurate nelle pitture della Tomba Francois di Vulci oltre che in qualche altrò monumento minore. Si tratta di un' azione militare o di un complesso di azioni militari, presumibilmente tendenti al formarsi di una grossa «signoria» nel cuore dell'Etruria meridionale e su Roma stessa, condotta dal «nobile duce» Celio Vibenna con il fratello Aulo, ambedue originari di Vulci (Festo, Arnobio), e con il «fedelissimo compagno» (Claudio) Mastarna, oltre che con altri camerati di varia estrazione, un Larth Ulthe, un Marce Camitlna e un Rasce (l'«etrusco»?) forse di condizione servile (Tomba Francois).
È dubbio se questa sconvolgente iniziativa sia partita da un tentativo ufficiale di affermazione egemonica della città di Vulci, che comunque più tardi sembra essersene appropriata la gloria come provano le pitture della Tomba Francois; in ogni caso s'incontrò l'opposizione di altre città tra cui Volsinii e Roma, i cui capi coalizzati (Larth Papathna di Volsinii, Pesna Arcmsna di Sovana? , Cneve Tarchunie di Roma), dopo aver catturato lo stesso duce nemico Celio Vibenna - liberato dall'amico Mastarna -, furono a loro volta sconfitti e a quanto sembra massacrati (Tomba Francois). Ne conseguì la mano libera su Roma, con il presumibile abbattimento del potere dei Tarquini che forse in origine avevano favorito l'azione dei Vibenna (Tacito, Festo), l'installazione di questi ultimi al margine della città (sul Celio?), infine con la morte di Celio il probabile passaggio del dominio di Roma ad Aulo - il cui cranio trovato sul Campidoglio farebbe parte di una storiella pseudoetimologica tendente a spiegare il nome Capitolium come «caput Oli regis» - e quindi a Mastarna, cioè, secondo le fonti di Claudio, a Servio Tullio.
L 'insieme di questi fatti potrebbe collocarsi tra la fine del regno di Tarquinio Prisco e l'inizio del «regno» di Servio Tullio, diremmo attorno ai tempi di passaggio dal primo al secondo venticinquennio del VI secolo (Tacito, Ann.. IV, 65 accenna a Tarquinio Prisco, ma da storico prudente avverte che per i rapporti con i Vibenna potrebbe essersi trattato anche di «un qualsiasi altro re»: ed effettivamente nella Tomba Francois appare un Cneve Tarchunie, un Gneo Tarquinio, del tutto ignoto alla tradizione storiografica canonica).
La cronologia proposta, e diciamo pure la storicità dell'intera saga dei Vibenna e di Mastarna, trova una luminosa concreta conferma archeologica nella scoperta a Veio dell'iscrizione dedicatoria di un Avile Vipiiennas, recante in forma arcaica l'identica formula onomastica di Aulo Vibenna e databile nella prima metà del VI secolo. Abbiamo dunque ragioni per credere che in questo periodo i legami fra Roma e l'Etruriasiano stati rafforzati dalla presenza di elementi e di poteri diversi dalla dinastia dei Tarquini. La questione diventa più complessa per quanto riguarda l'interpretazione storica del personaggio Mastarna che, pur nel suo stretto vincolo con i Vibenna, non ci appare necessariamente di origine etrusca: il suo nome singolo ha tutta l'apparenza di un appellativo qualificante o di un titolo, per di più chiaramente riferibile alla parola latina mogister con l'aggiunta del suffisso aggettivale etrusco -no. Ciò ha indotto alcuni studiosi moderni a supporre l'esistenza a Roma già in età regia della funzione del mogister populi che all'inizio della repubblica avrebbe sostituito il potere del re come magistratura suprema unica di dittatura ordinaria, collegata al concetto di populus quale totalità dei cit- tadini, in un quadro tendente a trasformare lo stato in una comunità egualitaria contro la supremazia delle vecchie oligarchie gentilizie. Il «re» Servio Tullio, al quale la tradizione attribuiva la riforma centuriata, potrebbe essere stato il promotore di questo rinnovamento ed egli stesso esponente dell'affermazione delle nuove classi sociali in qualità di mogister populi (donde l'identificazione con Mastarna) in contrasto con l'ordine preesistente rappresentato dalla dinastia dei Tarquini; la sua azione politica, dopo la parentesi della reazione tirannica di Tarquinio il Superbo negli ultimi decenni del VI secolo, sarebbe stata destinata a trionfare con l'inizio della repubblica. Ma con questi avvenimenti siamo già in una fase avanzata di cui si tratterà specificamente in una parte successiva di questo capitolo.
   
Verso il Nord
 
Passando a considerare l' opposta direttiva dell' espansione terrestre degli Etruschi, cioè l' Italia settentrionale, dobbiamo dire che anche qui esistono zone per le quali si può parlare, come per la Campania, di una occupazione stanziale, cioè di un dominio di popolamento, che s'incentra essenzialmente nell'attuale Emilia- Romagna a contatto con l'Etruria propria attraverso i passi del crinale appenninico. Le fonti antiche alludono insistentemente ad una colonizzazione e del pari alla fondazione di dodici città, di riflesso delle dodici città dell'Etruria propria. Si aggiunga il ricordo di un'azione colonizzatrice particolarmente antica, adombrata nella leggenda che l'attribuiva principalmente a Tarconte, l'eroe delle origini eponimo e fondatore di Tarquinia (versioni citate negli Scholia Vernonesia e in Servio, ad Aen., X, 200, specialmente a proposito delle origini di Mantova). Una derivazione ravvicinata dalle zone dell'Etruria settentrionale interna si percepisce d'altra parte nelle tradizioni relative alla fondazione di Felsina (Bologna) e di Mantova da parte di Ocnus (altrimenti Aunus, forse da Aucnus) figlio o fratello di Aulestes, a sua volta fondatore di Perugia. A parte la questione delle origini la presenza degli Etruschi a nord dell' Appennino Tosco-Emiliano è larghissimamente testimoniata dagli scrittori classici, storici e geografici, e confermata dall'archeologia con estrema dovizia di dati incontestabili, inclusi i documenti epigrafici.
Si tratta ora di precisare, nei limiti del possibile, i tempi, i luoghi, i caratteri e gli sviluppi di questa occupazione. Nella più diffusa tradizione degli studi moderni la conquista etrusca dei territori della pianura padana, cioè di quella che suol definirsi appunto «Etruria padana», avrebbe avuto luogo con notevole ritardo rispetto alla nascita dell'Etruria propria, e cioè non prima della fine del VI secolo, quando a Bologna, a Marzabotto e a Spina - i centri archeologicamente più significativi dell'etruschismo nordico - appaiono i primi segni di una civiltà d'inconfondibile impronta etrusca e con iscrizioni etrusche.
Questa tesi fu proposta dai primi scavatori delle necropoli bolognesi e in particolare sostenuta da E. Brizio in rapporto alla generale teoria della provenienza degli Etruschi dall'oriente e della loro sovrapposizione agli Umbri identificati con i «Villanoviani», tenuto conto del perdurare della cultura villanoviana a Bologna fino all'inoltrato VI secolo e dell'apparente distacco topografico fra i sepolcreti appartenenti a questa cultura e le tombe di tipo «etrusco». Ma questa interpretazione è già stata oggetto in passato di più o meno cauti dubbi, ed ora crediamo di poter affermare con sufficiente fondatezza che l'apparizione, tutto sommato localmente improvvisa, del villanoviano nel IX secolo debba considerarsi la manifestazione esteriore di un iniziale passaggio di elementi etruschi dalla Toscana oltre l'Appennino, e ciò non soltanto per le valutazioni precedentemente espresse sul significato etnico della diffusione villanoviana in generale, ma anche proprio per l'indizio, non da sottovalutare, di quelle tradizioni che associavano in qualche modo la colonizzazione padana con i tempi delle origini della nazione etrusca.
Che a Bologna in età villanoviana già si parlasse etrusco sembrerebbe del resto dimostrato dalla recente individuazione di una iscrizione etrusca incisa sopra un vaso della fase tardo-villanoviano di Arnoaldi, databile intorno al 600 a.C., cioè assai prima della supposto «conquista etrusca» della fine del VI secolo. Un altro motivo che collega ab antiquo il villanoviano transappenninico alla grande matrice dell'Etruria tirrenica si coglie nella sua stessa localizzazione geografica, che è rappresentata da due zone limitate immediatamente aderenti all'Appennino: la prima in Emilia, a Bologna e nei suoi immediati dintorni, in corrispondenza dello sbocco delle valli dei fiumi Reno e Savena, cioè dei passi Piastre-Collina e Futa; la seconda in Romagna, a Verucchio, San Marino ed altre località minori, in corrispondenza e a guardia della valle del Marecchia con i suoi raccordi montani all'alto bacino del Tevere e al Casentino. Esse hanno veramente tutta l'apparenza di due "teste di ponte" dall'Etruria verso la pianura padana e la costa adriatica. La cultura villanoviana di Verucchio si evolve dal IX fino al VI secolo attraverso almeno tre fasi, di cui soprattutto la seconda presenta singolari affinità con il villanoviano evoluto dell'Etruria meridionale, mentre la terza fase, in cui pur resta dominante la cremazione, appare già largamente imbevuta di elementi orientalizzanti; assai notevoli e comprensibili in ogni caso sono i rapporti con le vicine culture medio-adriatiche di Novilara e del Piceno.
Alla possibilità di una remota penetrazione etrusca lungo le coste del Mare Adriatico si ricollega l'esistenza dell"'isola" villanoviana di Fermo nelle Marche, in piena zona di cultura picena, con caratteristiche anche qui di forti somiglianze con il villanoviano dell'Etruria meridionale; non sembra incongruo citare in proposito il ricordo di una fondazione tirrenica, cioè etrusca, del santuario di Hera a Cupra a non grande distanza da Fermo (Strabone, V, 4, 2): è immaginabile una sia pur modesta attività marittima sull' Adriatico analoga a quella coeva sul Tirreno? Per quel che riguarda il villanoviano dell'Emilia è eviqente che esso ha attirato e attira in modo preminente l'attenzione degli studiosi non soltanto per la priorità delle scoperte risalenti a circa la metà del secolo scorso e per la ricchezza dei materiali, ma anche e soprattutto per la possibilità di sistematiche classificazioni topografi-che e cronologiche e per la continuità di vita storica del suo maggiore centro, Bologna. L'area circostante in pianura, entro limiti piuttosto ristretti segnati dai corsi del Panaro e del Santerno e, a nord, del Reno presenta insediamenti di villaggi con tutto l'aspetto di una specifica occupazione agricola (ne si può escludere che proprio la disponibilità di queste estese terre coltivabili abbia primamente attratto gli abitatori delle zone a sud dell'Appennino); ma l'occupazione si addensa essenzialmente a Bologna che via via assumerà il carattere di un aggregato protourbano. Ed è a Bologna che noi cogliamo le linee di uno sviluppo che va dal IX al VI secolo, distinto in quattro fasi successive (più o meno corrispondenti ai periodi già designati con i nomi delle località dei sepolcreti: Savena-San Vitale, Benacci I, Benacci II, Arnoaldi), delle quali le ultime appaiono progressivamente imbevute di elementi orientalizzanti, pur nella tradizionale fedeltà al rito della cremazione, con l'apparizione di stele funerarie scolpite e il sostituirsi ai vecchi cinerari biconici di cinerari in forma di situle (secchie) con decorazione stampigliata.
È difficile dire quale impatto possano aver avuto le prime penetrazioni etrusche a nord della catena appenninica con le popolazioni locali di là dalle sfere, ripetiamo limitate, della presenza villanoviana. Di queste altre popolazioni sappiamo del resto poco o nulla, anche dal punto di vista della documentazione archeologica che per il resto dell'area emiliano-romagnola e in generale per la Padania orientale risulta ancora scarsamente conosciuta durante l'età del ferro, mal distinguibile dalle sopravvivenze della tarda età del bronzo che fu comunque fiorente in queste zone (notevole, anche se priva di significato storico dato il dislivello cronologico, è la netta contrapposizione tra l'area delle terremare del bronzo nell’Emilia occidentale e l'area di occupazione villanoviana dell'età del ferro). Fa, bene inteso, eccezione il grosso e netto complesso di manifestazioni della civiltà Paleoveneta a nord del Po e dell'Adige, con il suo svolgimento parallelo a quello del villanoviano emiliano e la sua certa connotazione etnica.
Un fenomeno protostorico ben definito che sembra fronteggiare a nord della grande piana fluviale il fenomeno villanoviano esteso ai piedi dell'Appennino, cioè già i Veneti di fronte agli Etruschi, e con influenze culturali via via crescenti sull'area emiliana, sensibili soprattutto nell'ultima fase bolognese di Arnoaldi. Sui fatti della Romagna, non rileno incerti di quelli emiliani per i tempi più antichi, si potrà accennare soltanto ad osservazioni sporadiche specialmente in zone montane, con particolare riguardo alle tombe di guerrieri in circoli di pietra di San Martino in Gattara nell'alta valle del Lamone, che per altro non sono anteriori alla fine del VI secolo e che possono oggi attribuirsi con certezza, più che a genti indigene (o peggio a supposti invasori gallici), all'avanzata verso il nord di Italici umbri, dei quali si avrà occasione di riparlare. In sostanza la espansione protostorica degli Etruschi verso la pianura padana e la costa adriatica non deve aver trovato rilevanti ostacoli in preesistenze probabilmente non dense e forse attardate; in ogni caso essa deve esser rimasta contenuta ai margini dello spartiacque appenninico con aspetti economici, sociali e culturali di sostanziale conservatorismo rispetto all'Etruria propria (ciò che tuttavia non esclude un pro gresso, accelerato tra il VII e il VI secolo, sia negli scambi con le aree esterne tirrenica, veneta e medio-adriatica, sia negli aspetti interni delle forme di vita e del lusso: specialmente a Verucchio, dove più che a Bologna s'intravvede il formarsi di gerarchie economico-politiche e conseguenti emergenze culturali).
Il solo indizio, sia pure discutibile e discusso, di una politica attiva oltre i limiti dell'Emilia centrale e interessata alla difesa degli equilibri dell'intera pianura padana parrebbe riconoscersi nella notizia di Livio (V, 34) sulla battaglia combattuta, e perduta, dagli Etruschi nelle vicinanze del Ticino contro i Galli discesi in Italia con Belloveso e Segoveso ai tempi del re Tarquinio Prisco e della fondazione focea di Marsiglia, cioè intorno al 600 a.C., se questa cronologia alta dell'invasione celtica è accettabile come crediamo: saremmo comunque in un periodo avanzato di Bologna villanoviana, corrispondente alla fase Arnoaldi, e curiosamente proprio ai tempi nei quali si data la prima iscrizione etrusca sopra ricordata. Ma la grande espansione etrusca nel nord, con la sua massima estensione e con la pienezza e ricchezza delle sue più caratteristiche espressioni, deve collocarsi effettivamente non prima degli ultimi decenni del VI secolo, quale probabile conseguenza di avvenimenti economici e politici di portata assai più vasta riguardanti non soltanto l'Etruria, ma l'intera area italiana e i mari circostanti. È in questo momento, e soprattutto a partire dagli inizi del V secolo, che l'incipiente crisi della potenza marittima etrusca nel Tirreno può aver richiamato allo sbocco adriatico; che lo sviluppo dei centri dell'Etruria interna (Volsinii, Perugia, Chiusi, Volterra, Fiesole) può aver favorito un più pressante interesse per gli aperti territori d'oltre Appennino e determinato nuove ondate di migrazione verso il nord; che l'incremento dei traffici con l'Europa centrale attraverso le Alpi ed in pari tempo la minacciosa pressione dei Celti già dilaganti nella pianura padana possono aver reso necessario un consolidamento ed un ampliamento della presenza etrusca nell'ltalia settentrionale trasformandola in vero e proprio dominio. Di fatto vediamo ora trasformarsi l'antico centro bolognese in città, l'etrusca Felsina; nascere subitaneamente nella media valle del Reno, quale stazione viaria, ma probabilmente anche come centro d'interesse minerario, Marzabotto (cui si ritiene di attribuire il nome antico di Misa), con la sua esemplare pianta regolare a strade incrociate di tipo ortogonale che gli dà una così evidente impronta di "colonia"; fiorire sul mare alla foce di un antico ramo del Po la grande città di Spina aperta ad ogni traffico e ad ogni presenza e influenza dei Greci, e più a nord Adria condominio degli Etruschi e dei Veneti (sui quali ormai si riversa il prestigio culturale etrusco).
Nell'antica area marittima romagnola è ricordato e in parte attestato il possesso etrusco di Ravenna; il controllo degli Etruschi si estende anche all'Emilia occidentale almeno fino all'Enza e forse oltre (certamente contenuto dall'opposta avanzata celtica: priva di fondamento è l'etruscità e comunque incerta l'ubicazione di Melpum già da molti ritenuto un avamposto etrusco in Lombardia); sicuramente fu passato il Po verso le Alpi come provano le tradizioni dell'origine etrusca di Mantova e taluni indizi culturali ed epigrafici, con preminente attrazione verso la valle dell' Adige quale canale di comunicazioni transalpine fra il territorio dei Veneti e l'espansione dei Celti, donde la tradizione liviana dell'origine etrusca dei Reti.
La civiltà etrusca nell'Italia settentrionale tra la fine del VI e l'inoltrato IV secolo è rappresentata tipicamente a Bologna, come nei centri coevi e archeologicamente emergenti di Marzabotto e di Spina, dalla fase culturale tradizionale detta della Certosa (da uno dei più rappresentativi sepolcreti bolognesi): la caratterizzano abbondanti arredi di tipo etrusco, larghissime importazioni di ceramica greca attica, il diffondersi del rito funebre dell'inumazione, le stele sepolcrali figurate (essenzialmente a Bologna), le iscrizioni etrusche. Alcuni di questi elementi possono suggerire qualche fondata ipotesi sulle correnti d'origine, dall'Etruria propria, del popolamento e delle influenze culturali di questa grandiosa "colonizzazione". Molti indizi archeologici, epigrafici e onomastici ci riportano, con indubbia verosimiglianza storico-geografica, alle città dell'Etruria settentrionale interna quali Chiusi, Volterra e Fiesole (si pensi tra l'altro alla comune seppur differenziata produzione delle stele nel volterrano, attorno a Fiesole e a Bologna); transiti diretti ed antichi furono senza dubbio le medie valli appenniniche. Ma esistono anche tracce di influenze provenienti dall'Etruria meridionale che potrebbero far sospettare una direttiva risalente lungo la valle del Tevere, tramite Volsinii e Perugia, fino a raggiungere la costa adriatica: ciò che da un lato ci consente di richiamare la saga "perugina" di Aulestes e di Ocnus, da un altro lato ci fa pensare alle remote affinità del villanoviano romagnolo e di Fermo con il villanoviano sud-etrusco.
Quali che siano le provenienze e i fattori di alimentazione dell'etruscità padano-adriatica, certo essa acquistò nel V secolo una sua individualità e compattezza, attorno ai centri maggiori (dalla polarità interna di Felsina a quella marittima di Spina), oltreche una sua straordinaria rilevanza storica-economica, politica, culturale, tale da giustificare la tradizione della dodecapoli nordica contrapposta alla dodecapoli tirrena. Ma dello sviluppo e della sorte finale di queste città e di questo dominio si tratterà in modo più specifico nel quadro della successive vicende del mondo etrusco.
Non può tralasciarsi infine un cenno a quell'altra direttiva di espansione etrusca verso il nord che è rappresentata dalla Liguria. Ci troviamo di fronte a premesse e a situazioni storiche del tutto diverse, in cui l'attività marittima deve aver avuto la sua parte di naturale rilevanza rispetto a possibili conquiste o installazioni terrestri, con qualche analogia (per altro vaga e diremmo embrionale) con i fenomeni dell'avanzata e della presenza etrusca nel mezzogiorno. Il territorio compreso tra le foci dell' Amo e la valle del Magra, cioè la Versilia e la Lunigiana, fu certamente investito da una penetrazione etrusca già in età arcaica, anche se prevalentemente abitato da popolazioni liguri e con una certa fluttuazione nel tempo tra Etruschi e Liguri: lo attestano le fonti antiche (seppure con ambiguità nella sua attribuzione alle due stirpi), alcune testimonianze archeologiche ed epigrafiche, oltre che la finale attribuzione di queste zone all'Etruria augustea; ma la stessa Pisa, pur nella importanza della sua posizione geografica alla foce dell'Arno, non sembra essere mai stata tra le maggiori città etrusche, collocandosi in una zona marginale del territorio di Volterra e quasi di confine rispetto al resto dell'Etruria; mentre Luni avrà anch'essa un suo autentico e grosso sviluppo urbano soltanto alla fine della civiltà etrusca. Fra l'Etruria padana e le penetrazioni etrusche in territorio ligure non sono pensabili coerenti rapporti sia per l'interposta area montuosa tenuta da primitive e notoriamente bellicose tribù locali, sia anche e soprattutto per l'avanzata dei Celti. Una progressione terrestre verso occidente non sembra del resto aver superato la Magra; mentre è probabile, e comprovata da iscrizioni etrusche, una presenza commerciale etrusca, forse anche al limite di un controllo "coloniale" ; nel centro portuale di Genova; più oltre le attività marittime verso le coste provenzali debbono aver trovato un fermo nelle istallazioni greche, effettivamente coloniali, di Monaco e di Nizza.




 
L’alleanza cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma
 
Le fonti storiche greche ci parlano per il VI secolo a.C. di accese rivalità “internazionali” per il controllo delle rotte marittime, dandoci notizia di vere e proprie battaglie navali tra Greci ed Etruschi. Così, ad esempio, nel caso della battaglia combattuta l’anno 535 a.C. circa, nelle acque del Mare Sardo, della quale ci informa Erodoto.
Si tratta di uno degli episodi più salienti di tutta la storia etrusca, provocato dall’intrusione greca nel “mare di casa” degli Etruschi e, in particolare, dalla fondazione, intorno al 565 a.C., della colonia di Alalie (Aleria) sulla costa orientale della Corsica. Protagonisti di questa impresa erano stati i profughi della città di Focea, nella Ionia asiatica, che per sfuggire alla minaccia persiana si erano trasferiti a più riprese in Occidente e, attorno al 600 a.C., si erano stabiliti alle foci del Rodano fondandovi Massalie (Marsiglia). Gli scali marittimi e le stazioni commerciali che i Massalioti avevano installato nel Golfo del Leone e sulle coste del Mar Ligure misero così in crisi il commercio etrusco.
Quando l’ultima ondata di Focei provenienti dalla madre patria occupati dai Persiani si stabilì in Corsica, gli etruschi furono costretti a reagire. A muoversi fu Cere, la quale si alleò con Cartagine, anch’essa seriamente danneggiata nei suoi interessi commerciali dall’intrusione focea. L’alleanza condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi dei Focei e altrettante di Etruschi e Cartaginesi.
Stando sempre a Erodoto, a vincere furono i Greci, ma la vittoria rimase senza frutto “poiché - scrive lo storico - quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti rese inservibili”, sicché “essi tornarono ad Alalie, presero a bordo i figli, le donne e quanto dei loro beni potevano trasportare e, lasciata la Corsica, partirono verso Reggio”.

Alcuni dei prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Coloro che passavano sul luogo dell’eccidio, racconta ancora Erodoto, animali o uomini, “diventavano rattrappiti, storpi o paralitici”. Gli Etruschi mandarono allora a interrogare l’oracolo di Delfi, il quale ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi massacrati.
Il successivo clamoroso episodio della lotta per il predominio del Mediterraneo di verificò agli inizi del V secolo a.C. nel 480 a.C. quando i Greci di Sicilia, accettando la supremazia dei Siracusani, affrontarono a Imera i Cartaginesi sbarcati in forze nell’isola sotto la guida di Amilcare. La sconfitta dei Cartaginesi fu un colpo anche per gli etruschi, benché non avessero partecipato direttamente al conflitto. Qualche anno dopo, nel 474 a.C., essi dovettero affrontare Cuma, ribelle al loro predominio in Campania, e il tiranno siracusano Gerone, da Cuma chiamato in soccorso. Furono sconfitti in una memorabile battaglia navale presso Capo Miseno, che segnò l’inizio del declino della loro potenza sul mare. I Greci cominciarono ad assalire e saccheggiare le località etrusche della costa tirrenica, creando così un calo delle attività produttive degli Etruschi, che non potevano fare più affidamento sull’esportazione. Durante una spedizione siracusana, vennero saccheggiate Vetulonia e Populonia.
Anche sull’Adriatico gli Etruschi avevano cercato di espandersi. Tappe fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di stazione intermedia in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina, sul mare. Spina era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino al IV secolo a.C., quando la presenza di questi sull’Adriatico cominciò ad essere contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente, era da questi mercati adriatici che transitava l’ambra, la resina giallastra reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne, ma anche uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire espansionistiche spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e a sud della penisola.
Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si affacciarono ai due estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle tribù celtiche penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud, l’incipiente espansionismo di Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.C., riprese con determinazione la guerra contro Veio. Nel 396 a.C. Veio venne conquistata e distrutta, mentre il suo territorio fu incorporato nello Stato romano. Nello stesso anno della caduta di Veio, le fonti storiche parlano di occupazione da parte dei Galli della prima città dell’Etruria padana: una non meglio precisata Melpum che alcuni pensano di localizzare nei pressi di Milano o persino di identificare con essa.
Nell’Etruria meridionale, intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare il IV secolo a.C. Da una parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere che, sia pure pacificamente, finì col soccombere all’alleata Roma, alla quale cedette il suo antico ruolo. Da un’altra parte, ci fu invece il ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad una accorta politica di sfruttamento delle risorse agricole del suo territorio, riuscì a superare la crisi che l’aveva lungamente abbattuta e a rifiorire, con ricchezza e potenza. Ma l’accresciuta potenza e la sua stessa posizione geografica, portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo con Roma, che portò alla guerra scoppiata nel 358 a.C. e che si concluse nel 351 a.C. senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale. Intanto sul fronte settentrionale finiva l’Etruria padana: nella seconda metà del IV secolo infatti l’onda celtica travolse tutti i centri etruschi della regione, compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai Galli. Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro i confini originari, peraltro già intaccati a sud dall’espansione romana. Nel 311 a.C. si riaccese la guerra contro Roma. Ancora una volta l’iniziativa dovette essere degli Etruschi, ma protagoniste dello scontro furono ora le città centro-settentrionali, con a capo Volsini affiancata da Vulci, Arezzo, Cortona, Perugia e Tarquinia, svincolatasi dalla tregua appena scaduta. Nel 308 a.C. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e Perugia si arresero accettando condizioni umilianti. L’anno 302 a.C. la guerra etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, tornò a riaccendersi, per protrarsi, con una serie pressoché ininterrotta di campagne annuali, fino al 280 a.C.: i Romani quasi sempre all’attacco, gli Etruschi costretti alla difensiva e a rinchiudersi spesso nelle loro città fortificate. Tra il 281 e il 280 a.C. si arresero per sempre Vulci e Volsini, mentre le città settentrionali si affrettarono a rinnovare i precedenti trattati di pace. Tutti infine dovettero sottoscrivere patti associativi o “federativi” (dal latino foedus, trattato), in forza dei quali mantenevano una formale indipendenza, con lo status giuridico di “alleate” (sociae), mentre, di fatto, accettavano la supremazia di Roma, ponendosi nei confronti di questa in rapporto di sudditanza.





 L’Etruria “federata”
 
La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso forzato nell’alleanza con Roma segnò l’inizio dell’ultimo periodo della storia etrusca: quello che viene definito dell’Etruria “federata”. A fondamento del nuovo ordine imposto all’Etruria stavano dunque i vincoli federali derivanti dai trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse, particolarmente dure per le città che più direttamente si erano opposte a Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di essa. Includenti tra l’altro anche l’imposizione di tributi e il controllo sulla pubblica amministrazione.
In generale, i trattati imponevano a tutte le città di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma; di riconoscere come propri gli amici e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di fornire alla stessa Roma aiuti ogniqualvolta essa ne facesse richiesta, specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi; di coordinare con gli interessi Romani ogni loro attività, anche di natura produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche; di accettare (o di richiedere) l’intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali e di conflitti interni. L’aspetto positivo del sistema federativo consisteva nel fatto che le singole città continuavano a vivere la loro vita “locale”, sostanzialmente libera e autonoma, regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della tradizione nazionale, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione.
 La federazione fu messa a dura prova dall’invasione dell’Italia da parte di Annibale. La seconda guerra punica (218 - 202 a.C.) toccò l’Etruria soltanto marginalmente, durante la discesa dell’esercito cartaginese lungo la valle tiberina, ma l’impressione suscitata dalla disfatta subita dai Romani al Trasimeno, in territorio etrusco, fu tanto forte che nelle città etrusche si risvegliò qualche desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di simpatia nei confronti di Annibale e qualche seria agitazione che costrinse i Romani a rafforzare i loro presidi. Poi comunque i patti vennero rispettati e ogni città diede il suo contributo prezioso prima alla resistenza e poi alla riscossa romana; in particolare quando, nel 205 a.C., furono forniti aiuti massicci a Scipione per l’allestimento della sua spedizione africana. Tito Livio scrive in proposito che le città etrusche si comportarono ognuna secondo le proprie possibilità e ne elenca dettagliatamente i contributi: Cere dette frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia fornirono legname per la costruzione degli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi (= antichi recipienti) di grano e rifornimenti di ogni sorta da servire per quaranta navi. Con il I secolo a.C., tra il 90 e l’89, Roma concesse agli Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l’80 e il 70 a.C., i municipi Romani dell’Etruria. La realtà storica degli Etruschi venne infine consacrata con una delle regioni in cui la stessa Italia venne suddivisa da Augusto: la regione VII, alla quale toccò di perpetuare, fino alla fine del mondo antico, il nome glorioso dell’Etruria.




 
L’epilogo etrusco: i Galli e Roma

In questo paragrafo analizziamo in modo più approfondito il rapporto tra Roma e gli Etruschi. Abbiamo già detto che l’Etruria perde la supremazia sui mari a scapito di Siracusa e vede fallire il suo progetto di alleanza con i Cartaginesi ed (a livello più ampio) con i Persiani sconfitti a Salamina dagli ateniesi (filo-siracusani). Infatti presso Cuma, in particolare a Capo Miseno, la flotta etrusca è sconfitta dai siracusani, che, successivamente, saccheggiano le coste toscane, in particolare Populonia e Vetulonia, e l’isola d’Elba e prendono la Corsica e Ischia (454 a.C.). In Sicilia, presso Imera, stavolta per via di terra, gli Etruschi perdono di nuovo contro i siracusani e contemporaneamente a Salamina la Grecia sconfigge i Persiani. Fallisce così l’alleanza tra Etruschi, Cartaginesi e Persiani che voleva contrapporsi a quella tra Greci e Siracusani. Nel 350 a.C. alcuni ambasciatori tirreni si recano in Mesopotamia da Alessandro Magno, per chiedere aiuto, ma non ricevettero una pronta collaborazione: Alessandro avrebbe preparato un’invasione dell’occidente solo dopo circa dieci anni.
Dopo Veio, testimone della scarsa coesione tra le città della lega, cadono le altre città, una dopo l’altra, tra cui Falerii, capitale dei Falisci e gli avamposti di Tarquinia. Nel 387 a.C. i Celti di Brenno sconfiggono i Romani ad Allia, devastano l’Etruria e Roma, che si ricostruisce, anche se in un primo momento, nel quale Camillo si oppose, si pensava di spostare la capitale da Roma a Veio. Nel 350 a.C. i siracusani depredano Pyrgi e Caere, Roma conquista Tarquinia, con forti rappresaglie ed i Galli dilagano in Valle Padana, non trovando la minima resistenza. Tutte le città della lega del nord sono prese, ad eccezione di Spina e Mantova. Spina ed Adria verranno poi prese dai greci che nel frattempo avevano fondato Ancona. L’economia agricola è distrutta: non si produce più vino, ricompaiono le paludi in Valle Padana, il sistema idrico è distrutto, cresce solo del grano che la città di Spina commercia con la Grecia (non si producono più vasi attici, anche perché la città greca di Marsiglia ha una florida attività con i Liguri e i Galli). Per rappresaglia contro i Galli, alcuni etruschi eseguono atti di pirateria sui carichi di grano.
Nel 310 a.C. i Romani, comandati da Q. Fabio Rulliano, invadono e saccheggiano la Selva Cimina ritenuta sacra e inviolabile. Gli Etruschi non seppero sfruttare le guerre sannitiche: nel 295 a.C. subirono in particolare una sconfitta a Sentinum, non interagendo bene con gli Umbri. E’ anche vero che i Romani separarono geograficamente le varie tribù sannitiche tra loro e queste, a loro volta, dagli Etruschi, mantenendo neutrale la striscia di territorio dei Peligni (Sulmona-Chieti). Nel nel 283 a.C. assoldarono (dapprima venendo depredati) i Galli per combattere contro Roma vicino Bassano in Teverina, sul lago Vadimone, ma furono sconfitti, tanto che le acque del Tevere si tinsero di rosso. In tale occasione furono cacciati dall’Italia i Galli Senoni (che subirono un genocidio nei pressi di Rimini), con la fondazione di Sena Gallica (Senigallia) ed i Boi. Si ribellarono ai Roamni ad Arezzo, ma furono annientati. Sperarono inutilmente in Pirro, che dopo aver vinto ad Eraclea (Basilicata) nel 282 a.C., perse a Maleventum. Sostennero Annibale vanamente nel 210 a.C., subendo ritorsioni e processi sommari dai Romani. Eseguirono azioni di sabotaggio, di frode e di pirateria contro Roma.
I Romani fondarono colonie di controllo in Etruria: Rusellae, Castrum Novum (Porto Clementino), Alsium, Fregene, Saturnia e Graviscae. Nel 225 a.C. i Galli devastano di nuovo l’Etruria e sono sconfitti dai Romani a Talamone, la Maremma non si riprenderà più dalla devastazione: il grande sistema idrico di bonifica è stato distrutto e si lascia il posto a paludi e zanzare. Si racconta che Ansedonia, Graviscae, Rusellae erano città inospitali, con aria insalubre. L’Etruria pagò a caro prezzo le azioni di guerriglia e di favoreggiamento dei vari condottieri, scesi in Italia per combattere i Romani: confische di beni, tribunali, persecuzioni, liste di proscrizione. Fino al 100 a.C. i Tirreni godevano ancora di un’agiata economia e di una certa ricchezza, segno di una continua attività commerciale, seppure sempre più debole. Osserviamo che in questa fase il destino dei Tirreni è molto simile a quello dei Sanniti, entrambi in lotta contro Roma. Il latifondismo riduce alla fame il Sannio e l’Etruria: il prezzo del grano si è ridotto, visto che tanti oramai sono i paesi dell’impero che lo producono. Con l’avvento di Caio e Tiberio Gracco viene proposta la riforma agraria e si fonda un partito d’ispirazione popolare, per porre un freno a questa piaga della società. A seguito della loro uccisione nel 130 a.C. l’Italia conosce il flagello della guerra sociale. Il console Lucio Giulio Cesare, per evitare la guerra, propone la lex julia: abroga il latifondo e concede la cittadinanza romana, anche se non con diritto di voto, ai popoli si schierano per la pace. Gli Etruschi si accontentano ed evitano di scendere in combattimento al fianco dei Sanniti, che assieme ai Piceni e Marsi avevano fondato una capitale a Corfinium, in Abruzzo. Tale evento è ricordato a Perugia nell’Ipogeo dei Volumni.
Cessata la guerra tale legge fu respinta dal Senato e scoppiò la guerra civile che vide come protagonisti Mario, popolare, vittorioso sulle tribù celtiche dei Cimbri e Teutoni, e Silla, uomo degli ottimati (patrizi), abile e astuto stratega. Nonostante il popolo si fosse schierato per il primo, Silla, dopo aver massacrato i Sanniti, marciò su Roma e prese il potere. Pompeo intanto sconfisse truppe tirrene in Val di Chiana e ad Arezzo (88 a.C.). Mario, assieme a Cinna, altro popolare, approfittando della guerra che Silla aveva mosso a Mitridate in Grecia, riprende il potere. E’ un buon periodo per tutti i popoli italici. Mario e Cinna muoiono tra l’86 e l’84 a.C.. Silla ritorna e nell’82 a.C. sconfigge i popolari a Prenestae, dove avviene una strage di Sanniti, e poi a Porta Collina (Monte Antenne-Roma) con un altro famoso massacro. Silla si dirige in Etruria, dove subisce l’unica sconfitta a Saturnia, ma poi si vendica a Chiusi con l’aiuto di Pompeo. Fino al 79 a.C., anno della caduta di Volterra, ci sono state rappresaglie, liste di proscrizione, con premi per chi uccideva i proscritti, inibizione dalle cariche pubbliche, confische di beni, riduzione dei territori ad Arezzo, Fiesole e Chiusi. L’Etruria era alla fame. Solo più tardi, Cicerone riuscì a far ridare terre a Volterra ed Arezzo.
Nel 62 a.C. alcuni abitanti di Fiesole e Arezzo si unirono vanamente a Catilina e furono sconfitti a Pistoia. Come si vede, l’Etruria, è stata sempre sede di sommosse. Il periodo di Cesare (49-44 a.C.) è ottimo per i Tirreni: c’è rispetto, pace e riprendono le attività commerciali. Del resto Arezzo si mostrò simpatizzante il generale, accogliendo le coorti spedite in avanscoperta prima di passare il Rubicone. Con la morte di Cesare finisce il nono secolo etrusco. Con l’avvento di Augusto si assiste alla distruzione di Perugia del 40 a.C. per aver appoggiato il fratello di Marco Antonio, sconfitto ad Azio da Agrippa nel 31 a.C., con la deportazione di 300 perugini, trucidati nel Foro Romano. Mecenate consigliò l’imperatore di ricostruire Perugia, che si chiamò Augusta Perusia. Comincia per l’Etruria uno sviluppo nel turismo, di moda già all’epoca. Famose erano le fonti termali Fontes Clusini presso Chianciano e Aquae Populoniae presso Populonia.
Nacquero le provincie, le colonie, le regioni romane ed i processi di latinizzazione presero sempre più piede. L’ultimo imperatore amico dei tirreni fu Claudio, loro grande studioso, morto nel 54 a.C., che compose i " Tyrrhenica ", studi di etruscologia, mai trovati. Dunque gli Etruschi insegnarono moltissimo ai loro discepoli romani, che li distrussero e perseguirono una politica di propaganda e di denigrazione nei loro confronti: tecnica adottata nei confronti di tutti i popoli vinti, in particolare dei tirreni che erano stati i fondatori dell’urbe.
I Personaggi
 
Riportiamo brevemente la storia di alcuni personaggi caratteristici della storia etrusca. Come già ricordato nel capitolo precedente, è importante tenere presente che le notizie storiche pervenuteci sono state filtrate dal mondo culturale filo romano (tranne nel caso della vicenda del mitico Mastarna e dei Vibenna), per cui è lecito supporre che per alcuni tratti le vicende riportate si siano arricchite di leggenda, al fine di esaltare la cultura romana che aveva sconfitto quella etrusca.
Cicerone Marco Tullio
Fabia (gens)
Furio Camillo Marco
Mastarna ed i Vibenna
Mecenate Caio Cilno
Ocresia
Porsenna
Ravnthu
Servio Tullio
Spurinna (gens)
Tanaquilla
Tarquinio Lucio Prisco
Tarquinio Lucio il Superbo
Tullia
Velia
Virgilio Publius Maro
Vulca
MARCO TULLIO CICERONE    

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. in territorio di Arpino, da famiglia equestre nella villa paterna alla confluenza del Liri col Fibreno e sempre si considerò un puro Arpinate, quasi continuatore del grande conterraneo Mario. Nell'orazione Pro Plancio esprime vivo l'attaccamento viscerale alla sua terra di origine quando ricorda quale affetto leghi gli Arpinati fra di loro e con quale partecipazione questi seguano le sue vicende politiche. Lì, sui monti dei Volsci, aggiunge, è la forza d'Italia, perché ha conservato gli antichi costumi, senza malevolenze, senza finzioni e conclude: "La nostra patria è rozza e montuosa ma semplice e fedele".
E nel momento del suo esilio indica alla moglie Terenzia, quale rifugio sicuro, la villa di Arpino e al suo unico figlio egli darà la toga virile non in Roma, ma nel foro dell'antica città volsca. Cicerone ben presto fu inviato a Roma dove studiò Retorica e Diritto, ma anche Filosofia e Lettere e completò la sua preparazione ad Atene e a Rodi. Il suo cursus honorum iniziò nel 76 a.C. con una rapida e inarrestabile ascesa: fu questore nella Sicilia orientale, poi edile curule, pretore nel 66 a.C. e console nel 63. La sua oratoria robusta ed euritmica gli aveva aperto la strada alle affermazioni politiche. Nel periodo turbolento che viveva la Repubblica dei suoi tempi, Cicerone fu personaggio controverso: ora acclamato pater patriae dopo aver sventato la congiura di Catilina, ora esiliato per la vendetta di Clodio. In bilico fra il vecchio ed il nuovo fu incerto nello schierarsi, ma se la sua fede politica sembra mutare, sempre costante fu la sua fedeltà ai valori morali e alla Repubblica.
Nella lotta fra Cesare e Pompeo si schiera con Pompeo, ma dopo Farsalo si riavvicina a Cesare. Le Idi di Marzo lo trovano dalla parte dei tirranicidi e con le Filippiche si scaglia contro Antonio.
Quando questi si accorda con Ottavio, Cicerone capisce che la sua ora è suonata. E allora tutto, indecisione, incertezza, opportunismo, fu riscattato dalla sua morte affrontata consapevolmente, anzi cercata, e alte suonano le parole della seconda Filippica: "Ed ora per me, o Senatori, la morte rappresenta un desiderio ... Una sola cosa desidero: di lasciare libero morendo il popolo romano. Niente di più bello può essermi concesso dagli dei immortali". Infatti raggiunto a Formia dai sicari di Antonio, gli fu troncata la testa che egli aveva sporto dalla lettiga.
Era il 7 dicembre del 43 a.C. Le Verrine, le Catilinarie, le Filippiche furono i momenti più alti della sua oratoria; il De legibus, il De Officiis, il De Republica, le Tuscolanae sono l'espressione del Cicerone pensatore, studioso, interprete dell'anima latina. Le Epistolae, infine, sono il documento che ci rivela l'umanità, l'inquietudine, i dubbi e le angosce dell'uomo Cicerone.
FABIA (Gens)
La gens Fabia possedeva dei territori nella zona a ridosso di Veio e presto la lotta per il predominio territoriale divenne inevitabile. Nel 478 a.C. la famiglia dei Fabii, aveva chiesto e ottenuto l'autorizzazione al Senato, per combattere una sorta di guerra privata contro la  la rivale etrusca. 306 membri della prestigiosa famiglia romana, accompagnati da una guarnigione di 4000 uomini, probabilmente loro clienti, si accamparono a poca distanza da Veio, sulle rive del fiume Cremeria, un piccolo affluente del Tevere.
Da lì conducevano una guerra fatta di piccoli scontri, incursioni e razzie di bestiame. Il 13 febbraio del 477 a.C., caddero in un'imboscata preparata dai veienti: 305 componenti della famiglia dei Fabii, caddero sotto i colpi dei nemici. Solo un giovane si salvò e garantì in questo modo la discendenza dalla famiglia che rimase comunque una delle gens più importanti dell'antica Roma.
FURIO CAMILLO Marco
 
Generale e uomo politico romano (fine del V sec. a.C.- 365 a.C.). Censore nel 403, sei volte tribuno militare con potestà consolare tra gli anni 401 e 381, dittatore nel 396 a.C., si segnalò nella guerra contro gli Etruschi, conquistando Veio già assediata da dieci anni e raddoppiando il dominio territoriale di Roma. Tre anni dopo aver concluso la pace con i Falisci, in seguito a una condanna, andò in esilio ad Ardea (391).
Secondo una tradizione poco verosimile, sarebbe tornato nel 390, dopo la presa di Roma da parte dei Galli, interrompendo le trattative di riscatto con la famosa frase « Non con l'oro ma con il ferro si salva la patria » e avrebbe ricacciato gli invasori. Attese, quindi, alla ricostruzione di Roma e diresse, nel 389 a.C., le guerre contro gli Equi, gli Ernici e i Volsci; inoltre aumentò l'effettivo dell'esercito romano, introducendo lo stipendio per i nullatenenti, e circondò il Campidoglio di potenti fortificazioni. Grande personalità ebbe il soprannome di Secondo Fondatore di Roma e la leggenda ne abbellì la figura e le gesta.
MASTARNA ed i VIBENNA

Riflessi sulla storia di Roma
 
Quello di cui ci accingiamo ora a parlare è un capitolo della storia di Roma che manca completamente nei racconti degli storici di età tardo-repubblicana e imperiale, cioè nella storiografia ufficiale romana, pur trattandosi di un capitolo d'importanza non trascurabile, come vedremo. È questo un esempio tra i più evidenti della distanza che intercorre tra le memorie dei tempi protostorici c arcaici e la grande stagione della letteratura latina. Dei fatti in questione abbiamo tuttavia qualche sentore più che dalle opere di storia dagli scritti di erudizione: frammenti di notizie sparse e perfinodiscordanti, fra le quali tuttavia non mancano spunti di autorevole credibilità e alle quali documenti archeologico-epigrafici originali offrono un appoggio determinante. Nella sua forma più semplice il racconto si riferiva ad un nobile condottiero etrusco chiamato Caele o Caelius Vibenna venuto a Roma ai tempi di Romolo per dargli aiuto contro i Sabini, ovvero al tempo del re Tarquinio (s'intende Prisco), e che in ogni caso avrebbe dato il suo nome al Monte Celio da lui occupato e abitato. La prima variante cronologica è riportata essenzialmente da Vatrone (de lingua Lat. V, 46), accolta per cosl dire incidentalmente da Dionisio di Alicarnasso là dove si parla di Romolo, e altrimenti piuttosto nota e diffusa. Ma questa versione faceva genericamente riferimento agli Etruschi o ai Lucumoni o a personaggio denominato Lucumone (Cicerone in de Republica II, 8,14). L'altra versione che abbassa l'avventura di Vibenna all'età dei Tarquinii cioè al VI secolo ha dalla parte l'autorità di Tacito, Annali IV, 65,1-2 e soprattutto l’importantissimo anche se estremamente mutilato frammento di Festo sotto Tuscum Vicum, 486,12-19, in cui si parla di Cele e di un fratello Vibenna originari di Vulci (se l’aggettivo etnico che li definisce va reintegrato Volcientes come è pressochè certo sulla base di altre fonti), e con loro di un Maxtarna (del cui nome sono conservate solo le prime tre lettere, ma la cui completa restituzione non dovrebbe dar luogo a dubbi).
C'è poi una.testimonianza il cui valore supera quello di ogni altro argomento, e cioè l'annotazione contenuta in un discorso al senato dell'imperatore Claudio (riportato nelle tavole di bronzo di Lione), nel quale si affèrrria che secondo autori etruschi Servio Tullio era stato in origine un personaggio chiamato Mastarna, fedelissimo sodalis e compagno di ogni avventura del duce Caelius Vivenna, del cui esercito variamente provato dagli eventi ed uscito dall'Etruria egli avrebbe condotto i resti ad occupare il Monte Celio; cambiato nome avrebbe poi ottenuto il regno di Roma con grande vantaggio per lo stato. L'autorità di questa fonte, rispetto ad ogni altra attestazione letteraria, è garantita dalla certezza del testo, dalla ufficialità della sede e dalla solennità dell'occasione in cui fu pronunciata l'orazione claudiana, tali da escludere ogni irresponsabile fantasia, infine ovviamente dalla pedantesca competenza dell'imperatore etruscologo.
Tutti questi dati della tradizione sono confermati, collegati e per così dire illustrati da quel singolare documento che è il fregio dipinto della Tomba Francois di Vulci, databile intorno agli ultimi decenni del IV secolo a.C., che è quanto dire poco più di due secoli dopo gli avvenimenti presumibilnente descritti. Le figure sono accompagnate dalle didascalie con i nomi relativi. Il fregio si sviluppa su tre tratti di parete; vi è rappresentato un combattimento con cinque coppie di personaggi, in gran parte in nudità o seminudità (eroica?): partendo da sinistra (vicino alla porta della cella iella tomba), Caile Vipinas {Celio Vibenna) liberato da Macstrna (Mastarna) che gli taglia i ceppi alle mani con la spada ed ha pronta per lui un'altra spada; seguono Larfs UIfes (Larth Ulthes), indossante una tunica, che trafigge Laris Papasfnas Velznax, cioè Laris Papathnas di Volsinii; Rasce in atto di colpire Pesna Arcmsnas Sveamax, cioè Pesna Arcmsna di una città chiamata *Sveama, forse Sovana, avvolto in un nanto listato che gli copre il capo; Avle Vipinas, cioè Aulo libenna, che afferra la chioma e infila la spada sotto il braccio di un nemico di apparente chioma bionda, designato da ma scritta mal conservata come Vensficau... plsaxs (nome inidentificabile: si è pensato anche ad un etnico Venthi per Veletus, e città d'origine anch'essa non riconoscibile); infine Marce Camitlnas che ha atterrato o sorpreso a terra e tiene per i capelli Cneve T arxunies RumaX, cioè Gneo Tarquinio di Roma che abbiamo già menzionato, il quale tenta di fermare con la destra la spada che sta per inferirgli il colpo fatale. Analizziamo la scena cominciando dai personaggi.
 
 
 L'ultimo duello è per noi il più significativo perchè ci garantisce l'ancoraggio cronologico dell'intera storia con l'età dei Tarquinii, oltre che il suo diretto rapporto con Roma, offrendo così il più puntuale riscontrò con le fonti di Claudio e di Tacito. Un altro dato importante è l'apparizione di Aulo Vibenna, il fratello di Celio che dalle fonti letterarie citate non era contemplato se non nel tormentato passo di Festo dove peraltro non è leggibile il prenome. Ma la coppia dei due fratelli torna a presentarsi comunque chiaramente appaiata, con le relative didascalie (Caile Vipinas e Avle Vipinas), in procinto di aggredire un giovane cantore vaticinante di nome Cacu (ma quanto diverso dal Caco feroce brigante della leggenda romana!), nella figurazione di uno specchio del Museo Britannico proveniente da Bolsena; lo stesso tema si riscontra in rilievi di urne cinerarie di Chiusi ma senza i nomi. È evidente da queste figurazioni che i due personaggi sono considerati eroi ed entrati nel mito.
Considerando ora tutto il complesso del fregio vulcente distinguiamo chiaramente le due parti in conflitto. Sei figure costituiscono il gruppo vincente: oltre Macstrna che libera Caile Vipinas, quattro combattenti che colpiscono i nemici con la spada, di cui soltanto uno tunicato (Larth Ulthes), gli altri nudi (Rasce, Avle Vipinas, Marce Camitlnas). Va sottolineato che la maggior parte di questi personaggi è designata con la formula onomastica bimembre, prenome e gentilizio, rivelando con ciò la sua appartenenza alla classe dotata di diritti civili, cioè i due Vibenna, Larth Ulthes (l'unico che sia parzialmente vestito) e Marce Camitlnas; mentre Macstrna e Rasce hanno un unico nome individuale e dovrebbero quindi ritenersi di condizione servile o comunque inferiore, secondo quanto sappiamo del sistema onomastico etrusco. I loro quattro avversari soccombenti sono tutti caratterizzati da prenome e gentilizio, cui si aggiunge un terzo elemento in posizione di cognomen (ma non con le caratteristiche morfologiche di un cognomen, e perciò piuttosto un derivato con valore di « etnico ») indicante la città di provenienza o di appartenenza: Volsinii per Laris Papathnas, *Sveama- per Pesna Arcmsna, nome non leggibile per Venthicau..., Roma per Cneve Tarchunies. L'intenzionalità della precisazione etnica per i quattro sconfitti è evidente: si direbbe che la si sia voluta contrapporre ad aggressori «senza patria». La presenza tra loro di un Tarquinio di Roma fa ragionevolmente pensare che per tutti si tratti di personaggi di alto rango, se non addirittura di capi o re delle rispettive città.
Dalle persone si può passare ora alla natura dell'azione. Tutta una serie di indizi prova chiarissimamente che qui non si è inteso offrire un quadro generico di battaglia, ma si è voluto rappresentare un episodio storico molto particolare e ben definito. Tale episodio presuppone che Caile Vipinas, capo di una certa consorteria (come mostra il risalto datogli dal fregio), sia stato preso prigioniero da uno schieramento avversario. I suoi compagni ne hanno predisposto la liberazione con un'azione che coglie di sorpresa, forse nel sonno, i catturatori. La scena appare ritratta con una simultaneità di movimenti quasi come una «istantanea». Ogni assalitore colpisce un avversario con la spada snudata; ad uno degli assaliti scivola il manto dal capo; un altro lascia cadere lo scudo che non ha fatto in tempo ad abbracciare; un altro ancora è a terra, non ancora levato o caduto. Per quel che riguarda il primo gruppo, che naturalmente è il principale, mentre intorno la lotta infuria vediamo il liberatore Mastarna tagliare i legami del prigioniero e portargli la spada destinata a farlo entrare nel combattimento.
Che cosa significa tutto questo? Si tratta senza dubbio di un fatto importante, presumibilmente decisivo; di vicende concernenti le avventure dei Vibenna e dei loro seguaci, contrastate da avversari potenti. Di una prigionia e conseguente liberazione di Cele Vibenna la tradizione letteraria non parla, almeno per quanto essa è giunta tanto lacunosamente fino a noi. Che questo evento e in generale la storia dei Vibenna siano presenti tra i soggetti pittorici della grande Tomba Francois di Vulci, unico tema «storico» locale tra i molti ispirati dalla mitologia greca (a parte il «ritratto» in apparente costume trionfale di Vel Saties, titolare e membro della famiglia proprietaria della tomba, di cui non è qui il caso di discutere), si spiega con l'intento di glorificare antichi personaggi, se non già addirittura eroi, della città come i Vibenna e in pari tempo alludere alla loro vittoria sul romano Tarquinio, in un momento (fine del IV secolo) in cui Vulci doveva essere gravemente minacciata dai Romani già penetrati a fondo in Etruria.
S'intende che anche proprio per questo l'episodio rappresentato dalla liberazione di Caile Vipinas deve intendersi come vittoria, e vittoria clamorosa, della sua parte contro la parte avversa. Resterebbe forse da spiegare perchè questa parte avversa veda schierarsi simultaneamente e parallelamente quattro «rappresentanti» eminenti di quattro città che, con la loro uccisione, debbono intendersi vinte. Qui sospettiamo che il realismo della scena episodica abbia ceduto almeno parzialmente il campo ad un certo simbolismo figurativo, per cui si sia voluta considerare presente e soccombente l'intera coalizione nemica attraverso i suoi capi, eventualmente anche fondendo in uno altri fatti, con quella visione contemporanea di momenti diversi che sarà poi caratteristica della pittura e del rilievo trionfali romani. Chiaro sembra anche il proposito di contrapporre alla pari ed elevata dignità dei vinti la mancanza di qualificazione etnica e l'eterogeneità sociale dei vincitori (partecipazione dei due individui senza gentilizio: Mastarna e Rasce).
Un ultimo gruppo di testimonianze, interessante proprio Roma in maniera più diretta, va preso in esame a proposito di Aulo Vibenna, il fratello del «capo». Meno illustre e meno ricordato per quel che riguarda l'avventura primaria, egli sembra apparirci protagonista di vicende conseguenti incentrate a quanto sembra attorno a Roma. Il documento fondamentale, tanto ricco di dati interessanti quanto poco chiaro, è un lungo passo dello scrittore cristiano Arnobio (Adversus gentes VI, 7) in cui si fa riferimento a diverse fonti annalistiche risalendo in ultima analisi fino a Fabio Pittore. In forma retorica e alquanto complicata si allude ad eventi della vita di Olus (cioè Aulus) Vulcentanus e in particolare si accenna al fatto che egli fu ucciso per mano di un servo, che non si vollero accogliere le sue spoglie in patria, che fu sepolto sul Campidoglio e che il tempio capitolino (con il colle) prese nome dal suo cranio ritrovato dopo qualche tempo (caput Oli = Capitolium).
La leggenda della scoperta del cranio al momento della fondazione del tempio di Giove ricorre in diversi autori romani; in particolare l'etimologia caput Oli è ricordata da Servio nel commento all'Eneide (VIII, 345) e dalla fonte del Cronografo di Vienna (anno 354 d.C.), che precisa che sul cranio era scritto in lettere etrusche «caput Oli regis»; di una iscrizione in lettere etrusche parlava anche Isidoro, Origines XV, 2,31. Da notare che questo prodigioso rinvenimento, ritenuto augurale per la futura grandezza di Roma anche da interpreti etruschi interpellati in proposito, è riportato da Livio (I, 55) al regno di Tarquinio il Superbo, cioè in tempi posteriori agli ipotetici eventi del «periodo serviano». Ma a fronte di queste memorie favolose noi possediamo una testimonianza concreta di straordinario valore, rappresentata con pressochè assoluta certezza da un documento originale dello stesso Aulo Vibenna, cioè una iscrizione dedicatoria etrusca trovata nel santuario di Portonaccio a Veio con il suo nome in forma arcaica Avile Vipiiennas, incisa sopra un piede di vaso di bucchero databile tra il secondo quarto e la metà del VI secolo. La presenza nello stesso deposito di oggetti offerti da personaggi di alto rango come i Tulumne che poi regneranno a Veio ci autorizza a credere che qui si tratti veramente di quell'Aulo Vibenna di cui era rimasta a Roma una cosl cospicua memoria. Ma c' è pi più. In una coppa etrusca di imitazione greca dipinta a figure rosse della metà circa del V secolo proveniente molto probabilmente da Vulci, attualmente conservata a Parigi nel Museo Rodin, c'è una dedica Avles Vi(i)pinas la quale fa pensare che questo personaggio fosse stato ben presto addirittura eroizzato (personalmente e singolarmente, cioè in un quadro diverso dalla tradizione dei racconti mitici da cui derivano le citate figurazioni dei due fratelli nello specchio di Bolsena e nelle urne chiusine).
 Da tutto l'insieme di dati sin qui raccolti, anche se scarni e di tanto diversa natura, non è tuttavia impossibile cercare un’interpretazione storica. E’ cosa certa che nella prima metà del VI secolo un grosso sconvolgemento ha turbato l’Etruria meridionale e Roma (riguardo all’Etruria questa vicenda appare tanto più importante se si considera quanto poco sappiamo della storia politica etrusca in generale). Si tratta di un'azione militare guidata da un condottiero originario di Vulci, Caile Vipinas, e dai suoi seguaci, presumibilmente a scopo di rapina e di conquista, senza peraltro escludere altre eventuali ragioni di carattere ideologico o sociale che ci sfuggono. L 'impresa come già sappiamo è un esempio tipico dell'avventurosità delle aristocrazie arcaiche (i Vibenna erano di stirpe nobile come risulta da Varrone e, presumibilmente, dalle fonti di Arnobio) e sembra avere, almeno inizialmente, il carattere di un'iniziativa privata o se si preferisce «gentilizia»: non certo espressione della politica di una città, nella fattispecie Vulci, anche se più tardi Vulci la esaltò come una sua gloria nelle pitture della Tomba Francois (che probabilmente sono copie della decorazione di un edificio pubblico).
Tuttavia non si può del tutto escludere che nel movimento suscitato dai Vibenna possa essersi inserito qualche elemento di tendenza riformistica e antioligarchica, forse maturata proprio a Vulci città apertissima alle influenze della Grecia e quindi anche possibilmente alle sue innovazioni socio-politiche. Ciò porterebbe ad un contrasto con gli ambienti più conservatori soprattutto dell'Etruria interna; e sarebbe una spiegazione, peraltro del tutto ipotetica, di quell'estendersi della sfera d'azione della potenza armata dei Vibenna fino ad investire e minacciare grandi città come Volsinii e Roma. Bene inteso non sarà da pensare a cambiamenti politici ingenti e durevoli, se non forse per Roma, come vedremo. La presentazione dei rappresentanti vinti ed uccisi delle quattro città nel fregio della tomba Francois è verosimilmente un'amplificazione di singoli e più modesti avvenimenti reali. Le forze degli aggressori saranno passate come un uragano attraverso l'Etruria meridionale interna e la valle del Tevere, con vicende alterne, come provano da un lato la «varia fortuna» del testo di Claudio, da un altro lato gli episodi della cattura e della liberazione dello stesso capo della spedizione Caile Vipinas testimoniate dalle pitture vulcenti. La quasi totalità di questi avvenimenti deve essersi svolta in Etruria. A Roma, stando alla versione claudiana, sarebbero giunti solo i resti dell'esercito sotto la guida di Mastarna, ciò che implicherebbe l'uscita di scena di Caile.
 Che cosa accadde poi? Per rispondere a questa domanda conviene. considerare più da vicino le persone degli attori del dramma. Si è già detto dei Vipina (forma originaria arcaica Vip(i)ien(n)a, forma latina Vibenna con la variante Vivenna della registrazione epigrafica del discorso di Claudio); si può aggiungere che questo nome gentilizio apparirà diffuso in tutta l'Etruria per l'intero corso della storia etrusca, con particolare riguardo all'area vulcente, centro-etrusca e chiusina: deriva da una forma semplice «prenominale» Vipi (latino Vibius) comune anche all'onomastica delle lingue italiche e più frequente nell'Etruria meridionale (ricordiamo tra l'altro il Vel Vibe veiente del frammento di Nevio). La compagnia di Caile Vipinas nella Tomba Francois appare, ripetiamo, socialmente mista: la presenza di parenti (Aulo), amici di pari rango (Larth Ulthes, Marce Camitlnas) e coadiutori di rango inferiore (Macstrna, Rasce) ricorda molto da vicino la composizione delle consorterie che accompagnavano la migrazione del futuro Tarquinio Prisco o sdstenevano Servio Tullio aspirante al regno nel racconto degli storici. Larth Ulthes ha un raro gentilizio attestato in tempi più recenti anche con forme affini in area centro-etrusca.
Quanto al nome Camitlnas, in verità isolato, l'ovvia assonanza con Camillus può essere fuorviante; anche se non sarà da rigettare a priori; il richiamo più pertinente potrebbe essere con il tipo Camcdius e derivati, di area laziale, campana, umbro-sannitica: dunque forse un commilitone «meridionale» (al quale sarebbe toccato il gesto più pregnante, quello di colpire Tarquinio). Restano i due «senza nome»: Mastarna e Rasce, per il quale ultimo si può pensare ad un semplice ausiliare designato genericamente dalla sua nazionalità (Ras-ce con formazione equivalente a Rasna, Rascnna, cioè « l'etrusco» o « un etrusco »?).
Mastarna esige un più particolare esame perchè il suo nome e la sua personalità costituiscono il problema centrale di ogni possibile tentativo di interpretazione storica di questi fatti per quanto essi riguardano Roma. Che la forma onomastica etrusca Macstrna (latinizzata in Max(tarna), Mastarna) contenga la parola latina magister è una vecchia certezza che non può dar luogo a dubbi. La questione è invece quella del suffisso -na che in etrusco è un sicurissimo indicatore di appartenenza. La forma macstr-na non può quindi equivalere semplicemente a macstr- cioè magister; ma deve piuttosto significare qualcosa come «relativo al magister», «appartenente a magister». Cadrebbero di conseguenza tutte le ipotesi formulate in precedenza, anche dall'autore di questo libro, circa una funziont di potere esercitata dal personaggio Mastarna in Roma con il titolo di magister, sia come comandante militare luogotenente di Tarquinio Prisco, sia come magister populi più o meno di estrazione popolare, o simili. Il magister al quale si riferisce il nome di Mastarna non sembra possa essere altro che Cele Vibenna, quel capo di cui Mastarna era stato sodalis fidelissimus secondo la tradizione claudiana. Proprio questa sodalitas si esprime nella forma che indica grammaticalmente il concetto di appartenenza, e può spiegare in pari tempo la condizione di inferiorità sociale di Mastarna, privo di un nome gentilizio e contraddistinto solo da una qualifica funzionale, e l'intimo legame di personale devozione al suo comandante di cui è testimonianza, oltre al fidelissimus claudiano, la scena della liberazione nel fregio di Vulci. Si può e si deve immaginare uno speciale rapporto di fiducia e di amicizia di Cele verso il suo «scudiero», tale da porre quest'ultimo in una posizione di privilegio, di cui si vedranno forse nel futuro le conseguenze.
Quanto al fatto che il capo etrusco della grande spedizione possa essere stato ricordato con il titolo latino di magister senza dubbio esso costituisce per noi un motivo di perplessità: non però gravissimo se si pensa che il termine latino appare, sia pure in tempi assai più recenti, nella titolatura dei magistrati etruschi (macstrev in un sarcofago di Tuscania, Corpus lnscriptionum Etruscarum 5683), ma ancor più supponendo antiche profonde interferenze fra mondo etrusco e mondo latino in particolari settori del linguaggio tecnico-istituzionale, o la possibilità di usare un termine straniero alla moda, o qualche altra cosa di simile. L'estremo punto d'arrivo dello sconvolgente movimento dei Vibenna calato per la valle tiberina - via che diverrà tradizionale per ogni invasione dal nord - è, come si diceva, Roma; ed a Roma si svolgeranno gli ultimi atti di questa vicenda storica, per quanto sappiamo. Non si può dire se la versione data dalle fonti di Claudio circa la presenza a Roma solo dei resti della spedizione senza più il suo capo sia integralmente accettabile sul piano storico. Nella testimonianza figurata del fregio vulcente il rappresentante di Roma Cneve Tarchunies cade vinto in presenza di Calle Vipinas, il quale dunque è da considerarsi responsabile della sconfitta di Roma simboleggiata in questa scena e potrebbe aver colto il frutto della sua vittoria occupando in tutto o in parte la città nemica. Ne si può escludere la eventualità che realmente al suo nome si ricolleghi quello del Caelius mons come voleva unanimemente la tradizione antica, anche se è più sensato credere con gli storici moderni che si tratti di una falsa etimologia. Comunque l'idea che il capo della spedizione sia personalmente arrivato fino a Roma nel corso delle sue azioni militari non è da scartare. Ciò che conta è quanto accade dopo la sua scomparsa (dovuta alla morte o a una qualsiasi altra ragione) ed è adombrato nel racconto claudiano, cioè il fatto che una parte residua del suo esercito sarebbe rimasta affidata a Mastarna il quale l'avrebbe impiegata per installarsi definitivamente in Roma.
A questo punto il discorso si fa più complesso ed ipotetico. Tutte le notizie che abbiamo raccolto su Aulo Vibenna indipendentemente dagli scenari nei quali egli appare in coppia con il fratello inducono a pensare che egli abbia avuto una propria storia probabilmente da collocare in una fase posteriore alla scomparsa di Cele. E’ facile immaginare che questa scomparsa abbia creato problemi di successione e che, la stretta parentela e la comunanza delle imprese abbiano naturalmente portato Auto ad assumere l'eredità del fratello nel comando della spedizione e dell'esercito. E’ sospettabile che a questa designazione abbia concorso soprattutto la parte «aristocratica» della consorteria, quelli che le fonti storiografiche designano in casi analoghi, come «parenti» ed «amici» del capo. Ma l'esercito di Cele Vibenna comprendeva anche i sodales, le clientele e in genere gli ausiliari, come si indovina in qualche maniera nella stessa scena pittorica della Tomba Francois. Soprattutto esisteva il fatto certissimo (concordemente provato dalla testimonianza claudiana e dalle pitture vulcenti) del rapporto molto stretto di fedeltà e di fiducia tra Cele Vibenna e Mastarna, che può aver procurato a quest'ultimo un potere illimitato evidentemente prolungatosi oltre la morte del capo.
Una fondamentale rivalità ed un finale scontro fra Auto Vibenna e Mastarna sono da immaginare logicamente e oseremmo dire con certezza. In Roma conquistata (per merito di Mastarna) Aulo avrà avuto inizialmente la supremazia, per i suoi diritti familiari di successione al fratello: ne abbiamo qualche indizio nelle fonti già citate a proposito del caput Oli e tra queste il ricordo di una supposta iscrizione etrusca che lo designava addirittura come re. Ma Mastarna, capo di fatto con l'appoggio dell'esercito, avrà finito con il prevalere eliminando il rivale. Di questi ipotetici avvenimenti non esistono testimonianze. Tuttavia un filo tenue di prova potrebbe intravedersi nel citato confuso testo di Arnobio, dove, certo sulla scorta di remote fonti annalistiche (forse dello stesso Fabio Pittore), si accenna come a fatto notorio alle ragioni per cui Olus sarebbe stato ucciso da un servo, «...cur manu servuli vita juerit spoliatus et lumine». Un sicario di Mastarna? o Mastarna stesso designato dal primo relatore del fatto come «servo» per le sue originarie condizioni d'inferiorità sociale?
L'occupazione di Roma da parte degli invasori etruschi, i Vibenna, Mastarna, i loro compagni, le loro truppe, è conseguenza e causa del crollo della monarchia dei Tarquinii. Non abbiamo dati sufficienti per indicarne con precisione la cronologia (e con essa naturalmente la fine del «periodo di Tarquinio Prisco» e l'inizio del «periodo serviano»); tuttavia una proposta che la collocasse intorno al 570-560 non sarebbe forse troppo lontana dal vero. La caduta di Cneve Tarchunies nella scena di combattimento della Tomba Francois fa pensare logicamente a scontri cruenti e alla soppressione violenta del potere della dinastia regnante, con una eventuale sostituzione dei nuovi dominatori nel ruolo e nel titolo regio. Sarebbe questa la spiegazione dell'« Olo (Aulo) re» della favolosa iscrizione del Campidoglio (pur ricordata da fonte tardissima e incerta); si potrebbe cioè immaginare che Aulo Vibenna sia senz' altro salito sul tropo degli spodestati Tarquinii (anche se il suo nome, obliterato o cancellato, non apparirà nella lista canonica dei re di Roma); e potrebbe essere che in questa posizione e in questo periodo Aulo Vibenna offrisse un suo donario nel santuario di Veio. Ma si può pure pensare, in modo diverso, che la sovranità dei Tarquinii non sia stata subito e del tutto annullata e che, pur sotto la dominazione o la soverchiante presenza degl'invasori, essi abbiano continuato a portare il titolo regio e a conservare una loro sede in un settore della stessa città, con vicende alterne di convivenza e di conflitti (di cui potrebbe darci qualche idea la stessa tradizione a proposito dei rapporti fra i Tarquinii e Servio Tullio).
Ci chiediamo se nell'insediarsi a Roma degli epigoni delle imprese di Cele Vibenna possano essere emersi, ed aver acquistato rilievo, quei motivi di irrequietezza sociale e di tendenza ad un riformismo in senso antioligarchico diffusi in Etruria, di riflesso dal mondo greco, che abbiamo già sospettati presenti all'inizio del movimento dei Vibenna. E’ possibile che proprio in queste fasi finali della occupazione di Roma l'originario carattere «gentilizio» del movimento stesso sia andato attenuandosi e gli elementi di estrazione subalterna abbiano preso sempre maggiore risalto nella conduzione delle milizie.
L'affermazione di Mastarna e la ipotetica ma verosimile eliminazione di Aulo Vibenna possono essere considerate come le manifestazioni più appariscenti di queste tendenze. Lo stimolo sovvertitore o almeno perturbante proveniente dall'esterno può aver avuto importanti ripercussioni anche sugli ambienti locali di Roma. Rivendicazioni e innovazioni possono aver trovato il loro terreno più favorevole nelle zone di Roma più aperte ad influenze straniere e alle sfere del commercio e del lavoro, in particolare come è naturale attorno al porto tiberino (è un fatto interessante che proprio qui nel santuario di S. Omobono si sia trovata tanta ceramica etrusco-corinzia di produzione vulcente: un rapporto con la patria dei Vibenna?). La politica conservatrice restò probabilmente legata alla tradizione dei Tarquinii e ai loro circoli. Immagineremmo volentieri la loro roccaforte su quel monte capitolino sul quale si avviava a sorgere il grande tempio di Giove (dedicato da Tarquinio Prisco, compiuto dal Superbo secondo gli storici romani), massima espressione della pietà, della magnificenza e della potenza della dinastia. 
Resta ora da affrontare il problema che ci si attenderebbe come conclusione a questo punto: quello della identità di Mastarna e di Servio Tullio affermata dalle fonti etrusche di Claudio. In realtà non possiamo sfuggire, ne sfuggì un certo settore dell'erudizione antica, alla suggestione di coincidenze rilevantissime. Mastarna è a Roma uno straniero privo di nome gentilizio e perciò appartenente ad una classe inferiore; Servio Tullio è ricordato dalla tradizione come straniero e apolide, cioè originariamente senza diritti di cittadinanza. Mastarna si impone a Roma a seguito di eventi che implicano la sconfitta e presumibilmente l'uccisione di un Tarquinio; Servio Tullio salirà al trono, o piuttosto si impossesserà del regno dopo l'uccisione di Tarquinio Prisco. Si può aggiungere che le riforme attribuite a Servio Tullio comprendono la creazione di un sistema di rappresentanza (e pertanto una fonte di potere politico), cioè i comizi centuriati, essenzialmente basato sopra una struttura militare: ciò che fa pensare alla importanza che potrebbe aver avuto per la vita pubblica di Roma la presenza di un esercito organizzato come quello di cui, dopo la scomparsa. di Cele Vibenna, era diventato arbitro Mastarna.
Sembra dunque lecito argomentare senza eccessivo sforzo di fantasia che Mastarna, rimasto ormai solo a capo delle milizie stanziate in Roma dopo l'eclissi dei due Vibenna, abbia inteso progressivamente stabilizzare il suo potere, assumendo un nome gentilizio e cercando localmente una legittimità a quella dignità regia alla quale forse con effimera esperienza si era accostato Aulo Vibenna. Ma in ultima analisi che i fatti si siano svolti in un certo modo e che propriamente Servio Tullio sia la stessa persona di Mastarna è non solo non dimostrabile con cettezza, ma forse anche irrilevante per il nostro giudizio storico finale. Ciò che conta è che esiste un possibile e logico legame di continuità fra ciò che rappresentano nelle loro rispettive sfere le figure di Mastarna e di Servio Tullio.
MECENATE Caio Cilno
 
Caio Cilno Mecenate, nato ad Arezzo nel 69 a.C. e discendente da una schiatta regale etrusca, divenne il personaggio più famoso della corte augustea. La famiglia dei Cilni risaliva al IV secolo a.C. Militare, nella prima parte della sua vita, e politi­co, Mecenate fu testimone della trasformazione definitiva di Roma e del passaggio dalla Repubblica all’Impero. Eletto "vicario" da Ottaviano per la grande fiducia che era riuscito ad ispirare, seppe accontentarsi del titolo di "eques", proprio degli appartenenti all'ordine equestre, classe sociale definita da Orazio "la più eletta del popolo per squisitezza di gusto" (Sat. 1,10,76).
Ritiratosi dalla vita politica, visse delle ricchezze familiari che gli provenivano da certe fabbriche di vasi che fiorirono in Arezzo dal 30 a.C. in poi. Nella vita privata si dedicò solo ai piaceri dello spirito scrivendo, conversando e "banchettando" alla maniera etrusca. Seppe, con oculatezza rara, scegliersi gli amici. Nel suo ruolo di "scopritore di talenti" Mecenate si era creato una cerchia di amici di notevole sensibilità: Virgilio, Properzio, Gallo, Orazio, Marziale. Con intuito e riservatezza tipicamente etruschi, tra questi ne preferì due che hanno dato fama al suo nome: Virgilio e Orazio.
Virgilio, privato dei campi in riva al Mincio dalle riforme di Augusto e con la speranza che gli sarebbero restituiti, il Poeta arrivò a Roma. Asinio Pollione, governatore delle terre sul Mincio, lo presentò a Mecenate. Virgilio già autore delle Bucoliche dove si esaltava la vita pastorale, piacque all’"etrusco" che intercedette presso Augusto. Ma il centurione Arrio, divenuto nel frattempo proprietario di quei campi, minacciò di "accoppare" il Poeta. Mecenate allora, come risarcimento dell'esproprio subito, assicurò a Virgilio un podere in Campania. Nel "fundus" napoletano, solitario e lontano dal viavai cittadino, il Poeta poté astrarsi, meditare e riscoprire la stessa pace dei campi mantovani. E nacquero le Georgiche che trattano della bellezza dei campi.
Le umili origini di Orazio sono note a tutti. Figlio di un liberto e nato in un piccolo centro sulla via Appia, Venusia o Venosa, vicino a Potenza, in Basilicata. Per i sacrifici del padre, Orazio ebbe un'educazione letteraria degna di un nobile. La povertà e la cattiva sorte lo perseguitarono a tal punto che dovette accontentarsi di un mo­desto ufficio di scrivano quando Virgilio lo presentò a Mecenate. Il lungimirante etrusco trovò essenziale, al vivere, il buon senso e 1'avversione ad ogni gesto irrazionale del Poeta. In seguito si stabilì tra i due uomini una stretta amicizia che proseguì fino alla morte avvenuta per entrambi nello stesso anno: l' 8 d.C.. Mecenate aveva donato al fedele amico una villa in Sabina. Qui Orazio si ritirava nei suoi ozi meditativi spesso raggiunto dallo stesso Mecenate. Le Satire e le Odi, tra le opere di Orazio, sono le più significative per il nostro argomento. Il ricco e raffinato etrusco non disdegnava sedere alla parca mensa dell'amico a mangiare olive e bere il vino modesto che la terra sabina - corrispondente, oggi, in parte alla provincia di Rieti e in parte al territorio di Roma - offriva. Nel descrivere la villa di Mecenate, Orazio ammirava le ghirlande composte di fronde verdi, miste a frutta e fiori, che pendevano dalle pareti dei triclinii.
OCRESIA
 
Ocresia era un’ancella che Tanaquilla aveva scelto tra molte fanciulle tarquiniesi per portarla con sè a Roma. Oppure, come dicono alcuni, una semplice serva; o, come affermano altri, una schiava condotta come bottino di guerra nella reggia romana, dopo la morte in battaglia di suo marito, il re di Cornicolum, dal quale aspettava un figlio. Comunque siano andate le cose, Ocresia entrò presto nel potente cerchio magico e divinatorio della regina Tanaquilla e diventò così un personaggio chiave nella tormentata storia della monarchia etrusca nell’Urbe, perché fu madre del sesto re di Roma. Sulla nascita e la giovinezza di questo re si raccontano fatti straordinari: “Un giorno – apprendiamo da Plinio – apparve tra le fiamme di un focolare della reggia di Tarquinio Prisco un membro virile e Ocresia che lì sedeva ne fu resa incinta. Il figlio che nacque da questo concepimento magico si chiamò Servio Tullio”. L’insolito evento era stato quasi dimenticato col passare del tempo, “quando – è Livio che ora racconta – avvenne un altro fatto mirabile. Tutti videro lunghissime fiamme ardere intorno alla testa di Tullio giovinetto”.
Tanaquilla chiamò il re e, avendo accanto Ocresia, profetò: “Il figlio di questa donna e del nume che per lui si manifesta con il fuoco, sarà nei momenti oscuri il salvatore degli etruschi in Roma. E come ora splendono queste fiamme che gli avvolgono il capo, così da lui verrà molta luce alla casa dei Tarquinii”.
Il giovane, protetto dai vaticini, fu allevato con tale regalità che Tarquinio Prisco, non conoscendo un romano che reggesse il suo confronto, quando giunse l’ora gli dette in sposa sua figlia. I ritrovamenti archeologici più recenti contrastano nettamente con queste leggende e dimostrano in modo inequivocabile che in realtà Servio Tullio era Mastarna, l’eroe di Vulci che si recò a Roma non per difendere i Tarquinii che riteneva arroganti e tirannici, ma per combatterli a favore del popolo e riorganizzare gli ordinamenti pubblici.
A lui si deve, infatti, la Costituzione Serviana che eliminava i privilegi della nobiltà del sangue e assegnava per la prima volta i diritti politici e la possibilità di entrare nelle milizie a tutti i cittadini, anche romani. Ma per le leggende, dure a morire, il suo destino regale nacque, si snodò e si compì nella reggia dei Tarquinii, manovrato dalla ferrea volontà di Tanaquilla. Infatti quando Tarquinio Prisco venne ucciso in una congiura di palazzo sulla quale tutto è lecito ipotizzare, fu lei a tenere nascosto per molto tempo il cadavere del marito e a regnare in sua vece nel chiuso della reggia. Solo quando tutte le fazioni si furono piegate ai suoi disegni e tutte le opposizioni furono sedate nel sangue, Tanaquilla apparve solennemente al popolo per comunicare che il vecchio re era appena morto. Poi annunciò con voce ferma e autorevole che il nuovo re di Roma era Servio Tullio, figlio di Ocresia e del Fuoco, considerato dagli stessi Dei un Tarquinio perché nato prodigiosamente nella loro reggia.
PORSENNA
 
Lucumone della città etrusca di Chiusi verso la fine del V sec. a.C. Secondo la tradizione romana, sollecitato da Tarquinio il Superbo, cercò con le armi di ricondurlo a Roma, donde era stato cacciato. Per la giovane repubblica romana  non erano tempi facili, la battaglia appena vinta contro i veienti non era che il preludio di una grande guerra che avrebbe opposto la città dei sette colli ad una lega di popoli etruschi costituita su sollecitazione di Tarquinio il Superbo e comandata da un certo Lars Porsenna, lucomone della città di Chiusi. Ad incoraggiare gli etruschi c’erano sicuramente la particolare situazione politica di Roma, dilaniata dai conflitti sociali, e le forti tensioni esistenti tra la stessa e le altre città del Lazio. L’avanzata degli Etruschi fu inesorabile e gli stessi riuscirono a penetrare nel territorio romano fino ad occupare il Gianicolo, sulla sponda destra del Tevere. Ma proprio quando erano pronti ad invadere l’Urbe attraverso il ponte Sublicio, l’eroico comportamento di un comandante romano, Publio Orazio detto il Coclite (perché cieco da un occhio), evitò la disfatta; rimasto solo sulla sponda destra del Tevere riuscì ad impegnare le sbigottite truppe etrusche, dando il tempo ai suoi soldati di abbattere il ponte. I soldati etruschi erano realmente sorpresi dalla furia e dalle urla con cui questo valente guerriero accompagnava i suoi fendenti. Lanciarono contro di lui i loro giavellotti, che finirono inesorabilmente contro il suo scudo.
Finalmente il ponte crollò alle sue spalle, Roma era momentaneamente in salvo, ma il destino del Coclite sembrava segnato avendo lui perso la sua unica via di fuga. Ma lui non si perse d’animo, si gettò nel Tevere con tutta l’armatura e riuscì ad attraversarlo, rientrando in quella città a cui aveva evitato, con il suo eroico gesto, un infausto destino. Roma gli dimostrò la sua gratitudine dedicandogli una statua e regalandogli un appezzamento di terreno.
Ma il pericolo non era certo finito. Le truppe di Porsenna non erano riuscite ad entrare in città ma l’avevano posta in assedio, tagliandole ogni possibilità di rifornimento. A Roma già cominciavano a scarseggiare i viveri quando un giovane aristocratico romano, Muzio Cordo, propose al Senato un piano che prevedeva l’uccisione del lucomone etrusco. Ottenuta l’autorizzazione passò immediatamente all’azione: armato di un pugnale, penetrò nelle linee nemiche fino a raggiungere l’accampamento dove Porsenna, assistito dal suo segretario, era intento a distribuire la paga ai soldati. Muzio aspettò che l’operazione finisse e quando il suo obiettivo rimase solo lo uccise con un colpo di pugnale. Ma il suo era stato un tragico scambio di persona: aveva ucciso il segretario del re. Catturato dai soldati e portato al cospetto di Porsenna, l’aristocratico romano non tentennò neanche un attimo: “Ero qui per uccidere te. Sono romano e il mio intento era quello di liberare la mia patria, ma ho fallito e quindi punisco quella parte del mio corpo resasi colpevole di questo imperdonabile errore”. Così dicendo mise la sua mano destra in un braciere dove ardeva il fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno e per l’eternità questo coraggioso nobile romano avrebbe assunto il nome di Muzio Scevola (il mancino).
Porsenna rimase molto impressionato da questo gesto, che faceva il paio con il comportamento di Orazio Coclite, e decise di liberarlo. Fu allora che Muzio inventò una storia destinata a cambiare il destino di Roma, dimostrando di essere anche molto astuto oltreché coraggioso. “Per ringraziarti della tua clemenza, voglio rivelarti che 300 giovani nobili romani hanno solennemente giurato di ucciderti. La sorte aveva stabilito che io fossi il primo e ora sono qui davanti a te perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri 299 riuscirà nell’intento”. Questa falsa rivelazione spaventò molto il principe etrusco ed anche suo figlio, il meno convinto di quella spedizione.
Lo stesso affermò che era molto più importante salvaguardare il futuro del re di Chiusi piuttosto che preoccuparsi del destino dei Tarquini. Fu così che Porsenna prese la decisione di intavolare trattative di pace con i romani, della cui valenza era rimasto particolarmente colpito. Per dare inizio alle trattative chiese in cambio degli ostaggi tra i quali si trovava la giovane Clelia. Questa riuscì ad organizzare una fuga attraverso il Tevere con la quale riportò a Roma, sane e salve, tutte le fanciulle romane. L’episodio fece molto arrabbiare Porsenna che minacciò di interrompere le trattative se le ragazze non fossero tornate nel suo accampamento. I romani decisero per la restituzione delle giovani, un atto particolarmente doloroso anche per Publicola considerando che tra le ragazze c’era anche sua figlia Valeria. Ma ancora una volta il comportamento dei romani impressionò Porsenna che acconsentì alla definitiva liberazione delle giovani che stavolta tornarono a Roma accompagnate addirittura dai giovani maschi.
La guerra tra Roma e la lega etrusca guidata da Porsenna terminava, almeno secondo i racconti degli antichi romani in un modo onorevole ed in fondo indolore. E’ probabile che le cose non andarono proprio così. Pur dando per assodato che il conflitto si concluse attraverso una soluzione negoziale è abbastanza probabile che Roma dovette pagare un pegno, rinunciando a gran parte dei territori conquistati in precedenza ai danni di città etrusche e rinunciando soprattutto ad ogni velleità di conquista. In questo senso va interpretata la “legge del ferro” imposta da Porsenna, una sorta di disarmo unilaterale, per cui a Roma si poteva lavorare il ferro solamente per costruire attrezzi agricoli. Un altro segnale in questo senso, potrebbe essere l’accordo stipulato con Cartagine (tradizionale alleata degli etruschi) sempre nel 508 a.c., per il quale Roma rinunziava ad ogni pretesa sulle isole della Corsica e della Sardegna. Roma dovette accettare anche una sorta di protettorato che prevedeva la presenza nell’Urbe di un contingente etrusco. Di contro Porsenna rinunciò al suo progetto di restaurazione monarchica e questo mandò su tutte le furie Tarquinio il Superbo che si rifugiò nella città di Tuscolo presso suo suocero Ottavio Mamilio da dove riuscì nell’intento di coalizzare le altre città latine (Ariccia, Ardea, Tivoli, Pomezia, Lanuvio …). Obiettivo di questa nuova Lega Latina era quello di combattere contro questa forte presenza etrusca nel cuore del Lazio e recuperare molti dei territori che i romani avevano conquistato nei 244 anni che erano passati dalla sua fondazione. I rappresentanti della Lega Latina si riunivano nel tempio di Diana a Nemi e lì prendevano le più importanti decisioni.
Sembra proprio che una disastrosa sconfitta patita dall’esercito etrusco ai danni della Lega Latina, convinse Porsenna a tornarsene nella sua città di Chiusi, abbandonando Roma al suo destino. La battaglia si svolse presso Aricia, ed accanto agli eserciti della Lega Latina si schierarono anche i greci di Cuma. In questa battaglia Porsenna perse suo figlio, Arunte, e questo tragico fatto contribuì a far maturare la scelta del lucomone di ritirarsi nella sua città, determinando in qualche modo il fatale destino della civiltà etrusca.  Secondo la tradizione etrusca, derivata dalla leggenda di Mastarna, con il quale dovrebbe essere quindi identificato egli invece, occupata Roma, vi avrebbe dominato a lungo. Per alcuni infine, Porsenna non sarebbe un nome proprio, ma il titolo corrispondente a un'alta carica etrusca.
RAVNTHU
 
Ravnthu appartenne a due delle più grandi famiglie tarquiniesi: per nascita a quella dei Thefrinai e per matrimonio a quella ancora più prestigiosa e storica degli Spurinna. Quando morì fu deposta con gli Spurinna nella regale Tomba dell’Orco, dove ancora s’intravede dipinta in una nicchia, sullo sfondo di un paesaggio agreste. Indossa una tunica bianca ed è distesa con meravigliosa scioltezza in banchetto, accanto al marito Velthur il Grande, l’eroe che al comando di due eserciti etruschi partecipò come alleato di Atene all’assedio di Siracusa. Le sue quinquereme combatterono magnificamente nella battaglia di Lisimelia, ma quella fu l’ultima azione militare di vasta portata in cui, nel meridione, apparvero le forze navali di Tarquinia. Perché, come era stato scritto inesorabilmente, il tempo concesso dagli Dei alla nazione etrusca stava per concludersi e nel silenzio del cielo sereno era già risuonato lo squillo terrificante della tromba sacra che ne annunciava la fine.
Roma invadeva le terre, atterrava le rocche, devastava i porti, ma Tarquinia resisteva e contrattaccava. Ogni volta, a difendere la libertà della città santa al nomen etrusco c’era uno Spurinna, strettamente legato per vincoli di parentela alla matriarca Ravnthu. Prima scese in campo suo figlio Velthur il giovane, poi suo nipote Avle, che i romani chiamavano Aulus. Avle Spurinna spodestò dal trono Orgolnius, re di Cere, liberò Arezzo dalla rivolta degli schiavi, tolse ai Latini nove città fortificate. Poi carico di orgoglio, di rancore e di sete di libertà, affrontò Roma in campo aperto. Tanta era l’ira di entrambe le parti che nessuna iniziò lo scontro con i giavellotti, gli archi e le altre armi da getto. La battaglia fu subito aperta con la spada, corpo a corpo, e la già inaudita violenza iniziale si accrebbe durante la lotta.
I tarquiniesi vinsero e il prezzo che imposero ai vinti fu durissimo: con un implacabile cerimoniale che si protrasse per giorni e giorni, in un mare di sangue che inondò il Foro di Tarquinia, trecentosette prigionieri romani furono giustiziati davanti all’Ara della Regina. Nella seconda battaglia per la libertà, le truppe etrusche inferiori per numero furono sconfitte. Questa volta fu Roma a non avere pietà. I tarquiniesi vinti furono passati per le armi la sera stessa, sul luogo dello scontro. Trecentocinquantotto tra i più nobili furono invece trascinati nell’Urbe. Qui, in un crescendo di orrore che superò quello dell’eccidio dell’Ara della Regina, furono pubblicamente massacrati. I ricchi oliveti, i vigneti, i campi della città vinta furono bruciati e gli impianti idraulici insabbiati. Tarquinia non morì subito, anzi conobbe altri anni di effimero splendore. Poi, pian piano, uscì dalla storia.
Mezzo millennio più tardi, però, un cittadino della Roma Imperiale, che nonostante l’oblìo dei molti secoli trascorsi voleva onorare il ricordo dei suoi antenati etruschi, fece incidere in una epigrafe, gli “Elogia Tarquiniensia”, le lodi degli Spurinna e il racconto delle loro grandi gesta. Tra i nomi degli eroi, con grandissima dignità e rispetto, volle immortalare anche quello di Ravnthu, la donna che orgogliosamente fu al centro della loro gente e della loro storia. L’epigrafe degli Elogia è conservata nel Museo Nazionale Archeologico di Tarquinia.
SERVIO TULLIO
 
Secondo la tradizione sesto re di Roma, che avrebbe regnato dal 578 al 535 a.C. Nato, in base alla leggenda, a palazzo reale da una prigioniera di guerra Ocresia, e dal lare domestico e allevato con ogni cura, dopo che un prodigio aveva preannuncato la sua futura grandezza, con l'aiuto della regina Tanaquilla succedette senza difflcoltà a Tarquinio Prisco, di cui aveva sposato la figlia.
Il suo nome è associato a due fatti: la costituzione serviana e il tempio di Diana sull'Aventino. Non pare invece che si possano attribuire a lui le cosiddette mura serviane, almeno nello stato in cui sono conservate. Il carattere distintivo del suo regno fu il tentativo di fondere nativi ed etruschi. Servio venne educato a Roma nel palazzo reale. Sposò una figlia di Tarquinio. Nel 579 Tarquinio fu ucciso ad opera di persone legate all'ambiente dei figli di Anco Marcio, quarto re di Roma. Tanaquilla, dapprima nascose al popolo la morte di Tarquinio, e poi riuscì a far nominare Servio re di Roma.
L'imperatore Claudio, autore di un storia dell'Etruria, parlando in senato a favore della concessione della cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Comata, per sottolineare la tradizione romana di apertura all'accoglienza degli stranieri, narrò un storia diversa. Secondo Claudio, Servio Tullio, con il nome di Mastarna (vedi paragrafo), avrebbe avuto un ruolo importante nella storia di Vulci, città etrusca. Amico di Celio e Aulo Vibenna, signori di Vulci, avrebbe combattuto al loro fianco senza fortuna. Con i resti dell'esercito si sarebbe posto al servizio di Tarquinio, che per ricompensa gli avrebbe permesso di abitare con i suoi compagni sulla collina a cui diede il nome di Celio, in onore del suo capo. Questa versione potrebbe nascondere un fatto più grave: un esercito, proveniente da Vulci, avrebbe occupato Roma e ne avrebbe cacciato i Tarquini, che sarebbero rientrati alla morte di Servio Tullio, comandante dell'esercito invasore. Mastarna è un nome latino etruschizzato, deriva da magister e significhebbe qualcosa di analogo a "il condottiero". Il termine servus, non di origine indoeuropea e forse etrusco, significava straniero senza diritti, apolide.
In sostanza il sesto re di Roma sarebbe stato conosciuto con un nome etrusco a Roma ed uno latino in Etruria. La costruzione sull'Aventino del tempio dedicato a Diana, l'Artemide greca, fu un atto di politica internazionale. Il tempio di Artemide ad Efeso era considerato il simbolo della federazione delle città della Ionia in Asia Minore. Il culto di Diana e l'idea di federazione dovevano essere assai vivi nel mediterraneo occidentale dopo la rifondazione, avvenuta nel 540 a.C., della colonia greca di Marsiglia. La statua di Diana venne posta nel tempio romano esattamente come Artemide nel tempio di Marsiglia. Il tempio sull'Aventino, costruito intorno al 540 a.C., mirava a riunire politicamente e religiosamente Roma, il Lazio e l'Etruria meridionale, a somiglianza del sistema federale etrusco dei Dodici Popoli. Il tempio venne costruito fuori della città, su di un colle scarsamente abitato. Solo nel 465 l'Aventino diverrà zona residenziale con una legge ascritta al tribuno della plebe L. Icilio. La posizione esterna venne prescelta probabilmente per poter attirare il maggior numero di persone, poveri, immigranti, schiavi, ecc. La fondazione del tempio veniva festeggiata il 13 agosto.
Servio Tullio eresse i templi gemelli di Mater Matuta e della dea Fortuna nel Foro Boario, il mercato in riva al Tevere. Mater Matuta è una divinità italica, con tempio principale a Satrico, città a sud di Roma. La dea della Fortuna, tradizionale divinità latina, era simboleggiata da una statua velata, come quelle degli dei etruschi del Fato. La fondazione dei templi gemelli veniva festeggiata l'11 giugno. Il tempio di Fors Fortuna venne costruito sull'altra sponda del Tevere, fuori della cinta cittadina e alle celebrazioni potevano partecipare gli schiavi.
Servio Tullio divise la popolazione romana in base al territorio, indipendentemente da criteri etnici o di nascita. La cittadinanza venne a dipendere dal luogo di residenza. In tal modo molti immigrati, mercanti, agricoltori etruschi o di altra provenienza poterono divenire cittadini romani, fedeli a Roma prima che alla famiglia o al gruppo etnico. Vennero definite 4 tribù urbane: Suburana (il Celio), Palatina, Esquilina, Collina. Il numero delle tribù extra-urbane, inizialmente 16, arrivò in seguito a 31. L'appartenenza ad una circoscrizione territoriale (tribus), basata sul domicilio, consentì lo sviluppo di un catasto per valutare i beni fondiari ed assegnare i cittadini ad una classe e fissare il tributum relativo.
Il popolo romano fu diviso in cinque classi di cittadini/soldati in base al censo. Ogni classe forniva all'esercito un certo numero di centurie, gruppi di cento uomini. Nella prima classe, la più ricca, si reclutavano 18 centurie di cavalieri e 80 di fanti, Nella seconda, terza e quarta 20 centurie e nella quinta 30. Un sistema di tassazione proporzionale al reddito. Erano esentati dal servizio militare e dalle spese connesse i cittadini con un reddito molto basso (i capite censi). Le centurie all'interno di ogni classe si distinguevano in quelle formate da seniores, la riserva dei cittadini al di sopra di 46 anni, e quelle formate da iuniores, i combattenti effettivi. Le centurie di iuniores e di seniores erano in numero pari.
La prima classe era armata con elmo, scudo tondo, corazza e schinieri, lancia, giavellotto e spada. La seconda classe era armata come la prima, ma senza corazza. Portava uno scudo più piccolo e allungato. La terza classe aveva elmo e armi offensive. La quarta classe aveva lancia e giavellotto. La quinta classe aveva delle fionde.
I diritti politici erano proporzionali ai servizi che i cittadini fornivano all'esercito. Ogni centuria, in quanto unità di combattimento era una unità di voto. I capite censi formavano una sola centuria. Due centurie erano riservate al genio (carpentieri e fabbri) e votavano con la prima classe. Due centurie erano riservate ai musici e votavano con la quarta classe. In totale si avevano 193 centurie, con maggioranza assoluta della prima classe (80+18). Il sistema eliminava i privilegi della nascita o della etnia, e nel contempo evitava gli inconvenienti della tirannia del numero. I Comizi Centuriati costituirono l'assemblea dei soldati e si riunirono all'esterno dei sacri confini della città. Questa assemblea divenne l'entità dominante dopo la caduta della monarchia, sia dal punto di vista legislativo che elettorale. Sarebbe stato infine ucciso dal genero, Tarquinio il Superbo, d'accordo con la moglie Tullia, la quale non esitò poi a passare con il cocchio sul suo corpo nel vicus che dal fatto prese il nome di sceleratus.
SPURINNA (Gens)
A Tarquinia, nel IV sec. a.C., la famiglia più potente ed egemone è quella degli Spurinna (Larth, Velthur, Aulus). I vasti interessi di questa famiglia realizza un' alleanza con la grande potenza ateniese e trascina appresso numerose città etrusche (si potrebbe pensare ad una alleanza stipulata o consacrata al Fanum Voltumnae). In questa alleanza, nel bene e nel male, il popolo etrusco è rappresentato da Velthur Spurinna praetor di Tarquinia e figlio di Larth Spurinna. La carica di praetor è la massima magistratura politico-militare, ma non religiosa, della città stato (simile forse al consul romanus), sembra che Velthur l'abbia ricoperta per ben tre volte. A lui viene affidato il comando della spedizione di soccorso ad Atene impegnata nell'assedio della odiata rivale Siracusa nel 414-413 a.C..  Lo scontro definitivo tra Tarquinia, ancora potente e alla testa della lega delle città etrusche, e Roma, data al 358-351 a.C. e si conclude con una tregua di 40 anni allo scadere della quale, dopo un nuovo scontro armato conclusosi nel 308 a.C., la tregua viene rinnovata per un uguale periodo. Di queste vicende conosciamo la versione romana tramandataci da Tito Livio, ora integrata con la versione etrusca fornita da alcuni frammenti degli elogia relativi alle gesta di Aulo Spurinna, figlio o nipote del capostipite Velthur.
Gli Spurinna ritornano alla ribalta con Giulio Cesare. Il generale romano aveva al suo seguito un indovino discendente della famiglia tarquiniese che gli aveva consigliato di non recarsi in Senato la mattina del tragico eccidio.
TANAQUILLA
 
Nella splendida Tarquinia del VII secolo a.C., Tanaquilla era la donna che più assomigliava alla città. Nobile, ricchissima, ambiziosa, era ammantata di una sacralità speciale, poiché nessuna come lei era esperta nelle dottrine tagetiche.
Sapeva leggere i segni attraverso i quali si manifestavano gli Dei e, come toccata dal divino, aveva il dono di interpretarli in modo da stornare da essi tutto quello che si opponesse alla propria volontà e allontanare ogni significato che ostacolasse i suoi progetti, trasformando così il suo fascino divinatorio in potere personale al quale tutti finivano per piegarsi.
Sposò Luchmon, figlio di una Tarquiniese e del greco Demarato che, fuggito da Corinto con un seguito di ceramisti eccellenti e di pittori squisiti, si era stabilito a Tarquinia, inondandola di bellezza e di ricchezza. Ma a Luchmon, proprio perché figlio di uno straniero sia pure così eminente, non era permesso dalle rigorose tradizioni etrusche di percorrere la carriera politica fino ai massimi livelli. L’esclusione dai giochi del potere sembrò intollerabile a Tanaquilla, che convinse il suo uomo a trasferirsi a Roma, città ancora giovane e in cerca di una propria identità dove tutto poteva accadere a chi era intelligente, intraprendente e ricco. Fu lei, che orgogliosa e impavida sapeva guidare i veloci carri da corsa degli etruschi, a prendere personalmente le redini del pilentum a quattro ruote carico di vasi dipinti e di preziosità di ogni genere con il quale, lasciando Tarquinia insieme al suo compagno, affrontò un destino che avrebbe cambiato la storia.
Sul Gianicolo, il primo colle di Roma che si incontra giungendo dall’Etruria, accadde un evento prodigioso: un’aquila piombando dal cielo ad ali spiegate, ghermì il cappello di Luchmon e dopo aver volato con alti stridi, glielo ripose in capo, come se solo per questo fosse venuta. Infine si rialzò in volo e sparì nel cielo altissimo. Luchmon ritenne infausto il presagio e ne rimase sopraffatto. Tanaquilla, invece abbracciò con riverenza il marito e vaticinò la gloria che lo attendeva: l’aquila scesa da altezze così grandi era il messaggero dei Numi e aveva tolto e rimesso il berretto etrusco sulla sua testa per significare che con lui stava entrando in città un vero capo che, voluto dagli dei, avrebbe reso Roma più grande e più potente.
Infatti Luchmon che era saggio e generoso ma che soprattutto sapeva combattere a cavallo e a piedi più coraggiosamente degli altri, divenne re con il nome di Lucio (Luchmon) Tarquinio (proveniente da Tarquinia) Prisco, il primo dei re etruschi. In quel tempo, Roma non era una vera città: sui colli tiberini esistevano soltanto sparuti gruppi di villaggi e nei luoghi pianeggianti regnava ancora la palude. Tarquinio la drenò, trasformò il terreno prosciugato in mercato, il futuro Foro Romano e di qui fece partire un reticolo di strade lastricate tra le quali la Via Sacra. Poi costruì gli edifici che sarebbero rimasti per sempre il nucleo monumentale dell’Urbe e gettò le fondamenta del tempio di Giove Capitolino. Infine, trasmise ai romani tutti i cerimoniali e i simboli che a Tarquinia significavano l’autorità: i littori con i fasci di verghe e la scure, le porpore ricamate, le corone d’oro, i troni e gli scettri d’avorio sormontati dall’aquila e l’uso di trionfare sul carro aureo a quattro cavalli. Musici, danzatori, atleti, artisti tarquiniesi invasero la città e riuscirono ad incantarla.
Da allora Roma incominciò a rincorrere un sogno: diventare nel tempo raffinata come Tarquinia e superarla in grandezza e splendore. Poi, negarne con crudeltà la dipendenza e cancellarne per sempre il nome dalla storia.
TARQUINIO Lucio PRISCO
Secondo la tradizione quinto re di Roma, che avrebbe regnato dal 616 al 578 a.C. Figlio di Demarato, un esule corinzio stabilitosi a Tarquinia, insieme con la moglie Tanaquilla si sarebbe trasferito a Roma, dove, mutato il nome Lucumone in Lucio Tarquinio e accattivatosi il favore di Anco Marcio, alla sua morte sarebbe riuscito a farsi eleggere re lasciando in disparte i giovani figli del sovrano, che circa 38 anni dopo lo avrebbero fatto uccidere nel tentativo di riconquistare il trono.
La tradizione gli attribuì la nomina di cento nuovi senatori, I'istituzione dei duoviri sacris 1aciundis e dei ludi magni (romani), I'introduzione a Roma di usi e costumi tipicamenie etruschi (in particolare le insegne regali, quali lo scettro, la toga purpurea, la sella curalis, i fasci littori, e il rito del trionfo) I'intrapresa di importanti opere pubbliche (Cloaca massima, circo Massimo, tempio di Giove sul Campidoglio, ecc.) e vittoriose campagne contro Sabini e Latini. Figura di indubbia storicità, al di là dei particolari leggendari e sebbene sia da alcuni storici considerato tutt'uno con Tarquinio il Superbo, è generalmente identificato con il Cnere Tarchunies Rumach raffigurato nelle pitture della tomba Francois di Vulci, che rispecchiano una tradizione diversa (etrusca) da quella ufficiale romana.
TARQUINIO Lucio il SUPERBO
 
Secondo la tradizione settimo e ultimo re di Roma, che avrebbe regnato dal 535 al 509 a.C. Figlio o nipote del precedente, si sarebbe impadronito del trono dopo aver fatto uccidere Servio Tullio, di cui aveva sposato la figlia Tullia. Astuto e senza scrupoli, per ampliare il proprio dominio si servì più che delle armi, come contro i Volsci, di spregiudicati stratagemmi, come quelli escogitati per impadronirsi di Gabi (l'uccisione dei più influenti cittadini cui avrebbe alluso, tagliando i papaveri di un campo) e per assicurarsi la supremazia nell'ambito della Lega latina.
Ma con i suoi metodi tirannici e oppressivi (scarsa considerazione per il senato, arbitraria amministrazione della giustizia, mantenimento di una guardia del corpo, imposizione di corvées) avrebbe suscitato sia tra i patrizi sia tra la plebe gravi malcontenti, sfociati infine in aperta ribellione per la violenza usata da suo figlio Sesto alla nobile Lucrezia. Cacciato quindi da Roma con tutta la famiglia, avrebbe poi tentato invano di ritornarvi, con l'aiuto di Porsenna e dei Latini. La tradizione gli attribuisce inoltre il compimento della Cloaca massima e del tempio di Giove sul Campidoglio. Considerato da alcuni studiosi moderni personaggio storico, è da altri ritenuto un semplice sdoppiamento di Tarquinio Prisco.
TULLIA
 
Tullia, figlia del sesto re di Roma, era una vera etrusca. Per sangue, perché nipote di Tanaquilla e di Tarquinio Prisco; per diritto, perché sposò il più superbo dei Tarquinii; per temperamento, perché ambiziosa e determinata. Era così sfrenatamente assetata di potere che viene ricordata come uno dei personaggi più torvi e crudeli della complessa saga che determinò, nel bene e nel male, la vita di Roma ai tempi della monarchia. In una cupa atmosfera di complotti di palazzo, uccise il suo primo marito che riteneva inadeguato a soddisfare le sue ambizioni. Poi eliminò sua sorella che aveva sposato il nobile Tarquinio, detto il Superbo, un giovane di grande fascino, di eccezionale intelligenza e di illimitata spregiudicatezza. Con Tarquinio e per Tarquinio, di cui diventò consorte e complice, Tullia continuò ad ordire sempre nuove congiure, rivolgendosi infine contro il proprio padre, Servio Tullio, il re colpevole di aver emanato una Costituzione che limitava la signoria unica ed assoluta tanto cara alle nobili famiglie etrusche trasferite a Roma. Aveva imposto anche ai patrizi i tributi da pagare secondo il censo, perché riteneva “conveniente e vantaggioso per la comunità che chi possieda molto, dia molto, chi poco, dia poco”.
Per questo la Factio Tarquinia, cioè la fazione degli aristocratici tarquiniesi che vedevano imbrigliata la loro egemonia su Roma, ribolliva e Tullia, impaziente di prendere il potere, ne inaspriva gli animi con furiosa perseveranza.
Finalmente il regicidio si compì, nel Vicolo Ciprio, dove Tarquinio il Superbo sferrò spietatamente l’attacco da cui il vecchio Servio Tullio non uscì vivo.
Tullia, fremente, non poté attendere chiusa nel suo palazzo l’esito della congiura, perciò, scansato l’auriga, si recò sul luogo del massacro guidando personalmente il suo veloce carro etrusco. Con questo, come invasata, calpestò più e più volte, il corpo del padre. Poi, grondante di sangue paterno, prima ancora che qualcun altro parlasse, gridò che Roma ora aveva un altro re. Finalmente un grande re, suo marito Tarquinio. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, fu davvero grande: sotto di lui Roma divenne una potenza militare imbattibile e schiere di commercianti, ingegneri, idraulici, agronomi e di artisti, interi collegi di musici e danzatori scesero dall’Etruria e vi portarono arte, progresso e benessere.
La stella di Tarquinia che, madre di Roma, irradiava civiltà raffinatezza e bellezza, non brillò mai così fulgida come in quel magico tempo.
Ma presto il regno si trasformò in aperta tirannide: il Superbo, che già disprezzava la plebe, riempì la città di spie e di provocatori per perseguitare chiunque si opponesse al suo arbitrio, non solo i romani ma anche i nobili etruschi che gli avevano dato il potere, persino alcuni Tarquinii suoi familiari. Proprio da questi fu cacciato per sempre da Roma. Nella vicenda che portò alla repentina caduta della monarchia etrusca che sembrava incrollabile, giganteggiò ancora una volta una donna. Si chiamava Lucrezia.
VELIA
  
E' nota in tutto il mondo come la Fanciulla Velca. Il suo squisito ritratto è considerato uno dei capolavori dell’arte antica ed è il frammento più “classico” di tutta la pittura funeraria etrusca. Si chiamava Velia, Velia Spurinna. Era nipote di Velthur il Grande, che aveva comandato due eserciti etruschi all’assedio di Siracusa e di Ravnthu Thefrinai: era sorella di Avle, l’eroe Tarquiniese che affrontò Roma in campo aperto e la vinse. Sposò Arnth Velcha, appartenente ad un’aristocratica famiglia di magistrati di rango così alto che avevano il diritto di essere scortati dai littori con i fasci di verghe e l’ascia bipenne che, prima a Tarquinia e poi a Roma, furono il simbolo del massimo potere. Dei Velcha conosciamo anche l’aspetto perché molti di essi furono dipinti nelle pareti della loro grande Tomba degli Scudi, che prende il nome dalle armi raffigurate in uno dei suoi affreschi. Qui tra gli altri, appaiono anche i genitori di Arnth che, adagiati sul letto conviviale davanti ad una tavola imbandita, si scambiano l’uovo dell’eterna fertilità mentre una giovane ancella muove per loro un ventaglio di foglie e di piume. Arnth e suo fratello Vel, avvolti in caldi mantelli, stanno invece in piedi vicino ad una porta. Velia, sposando, assunse dai Velcha il nome con il quale è nota in tutto il mondo. Eppure portava in sè così impresse la grazia e la dignità degli Spurinna che questi, straziati dalla sua morte forse precoce, la vollero dipinta nella loro Tomba dell’Orco.
Ora, basta scendere i ripidi scalini di questo regale sepolcro, fare pochi passi e cercare con gli occhi: improvvisamente la fanciulla ci appare in un piccolo affresco sospeso in un mare grigio e indistinto di colori consunti dai millenni. Si presenta di profilo, quel suo famoso profilo netto come una scultura che, reso con grande realismo ma stemperato nella dolcezza dei particolari, ancora suscita stupore e costituisce l’immagine più nota dell’iconografia etrusca. La ragazza veste una morbida tunica e un mantello bordato di rosso. Indossa gli ornamenti preziosissimi ma semplici degni del suo rango: orecchini a grappolo, collane di ambra, la corona di foglie d’alloro dorato sulla chioma. I capelli castani sono in parte trattenuti alla nuca da una elegante reticella, in parte ricadono in morbidi boccoli ai lati del volto. Che è assorto. Il naso è dritto, di linea greca. Le labbra sono piene e sensuali ed evocano perduti contatti d’amore. Perciò si piegano in un sorriso doloroso quasi che il richiamare le gioie della vita appena trascorsa procuri ancora alla ragazza innamorata un rimpianto insostenibile. Gli occhi invece guardano lontano e sembrano già aver trovato nei misteri della morte i motivi per accettare senza dolore tutti i distacchi. Come un’ombra paurosa sta dietro di lei una creatura dalle ali gigantesche. Ha i capelli pieni di serpi, le orecchie di animale e lo sguardo che lampeggia rosso sull’orribile naso a becco d’avvoltoio. È Charun, il traghettatore delle anime nel loro ultimo oscuro viaggio nell’Ade, che brandisce il pesante martello con il quale spegneva la vita dei mortali. Ma questa volta il Demone Etrusco ha perduto, perché la fanciulla dei Velcha ancora oggi, nonostante i millenni, continua ad incantare e a sedurre, sospesa tra la vita che non vuole andarsene e la morte che ancora non vince.
VIRGILIO Publius Maro
 
Publius Virgilius Maro nacque a Pietole [allora: Andes, vicino Mantova] nel 70-, suo padre era un agiato proprietario terriero, fece i primi studi a Mantova e Cremona, poi a 15 anni a Milano e infine a Roma. Seguì i corsi del retore Epidius ma li abbandonò: era goffo e timido, parlava con lentezza e non sapeva affrontare il pubblico. Andò a Napoli, alla scuola del filosofo epicureo Syro: si interessò di astronomia botanica zoologia medicina matematica. Scrisse i primi versi, nel gusto del conterraneo Catullus. Compose a 28 anni le Bucoliche. In questo periodo, durante la distribuzione di terre italiche ai veterani di Filippi, perse temporaneamente i poderi (ne parla dolorosamente nei canti pastorali), poi restituitigli per interessamento di Asinius Pollio che governava la Cisalpina, e di Alfenus Varo. Abitò però sempre tra Napoli e Roma: qui aveva una casa presso i giardini di Maecenas, sull'Esquilino.
Nel 39\37 entrò nel circolo di Maecenate. Sempre discreto e timoroso, quando di rado veniva a Roma a trovare i suoi amici poeti Cornelius Gallus, Horatius, Varius, Tucca ecc., tutti del circolo di Maecenas, era già additato dalla gente, famoso per le "Bucoliche" spesso cantate in teatro da attori di professione. In Campania nel 37\30 compose le "Georgiche", poi si dedicò tutto all'Eneide. Diversamente da quanto, secondo la tradizione, era solito fare (cioè alzarsi presto la mattina, buttar giù molti versi, e poi sillabarseli interiormente durante il giorno) fece prima una stesura in prosa, divise la trama in dodici libri, poi si mise a comporli uno per uno seguendo il suo estro e non la successione dei fatti. Nel 24 ne lesse tre canti alla corte davanti all'imperatore Augusto e a sua moglie Ottavia.
Dopo 11 anni di lavoro, a opera compiuta, non era ancora soddisfatto: molti versi provvisori, discordanze tra un libro e l'altro, voleva visitare i luoghi teatro d'azione della prima parte. A 56 anni partì per Atene: qui, dopo una giornata a Megara sotto il sole infuocato, si ammalò. Incontrò ad Atene l'imperatore proveniente dall'oriente, si imbarcò con lui per mare, sbarcò a Brindisi. Si dice che sul letto di morte volesse avere il manoscritto per distruggerlo, ma non fu accontentato. Spirò qualche giorno dopo, nel settembre 19. La sua salma fu trasportata a Napoli e sepolta sulla strada di Pozzuoli.
VULCA

Nell’ambito del rinnovamento dei santuari veienti nel tardo VI sec. va senz'altro collegato il nome dell'unico artista etrusco tramandatoci dalle fonti, Vulca di Vulci, al quale la tradizione romana assegna origini veienti e la creazione della statua acroteriale del tempio di Giove Capitolino a Roma, all'epoca di Tarquinio il Superbo. La coincidenza tra questi dati delle fonti e l'emergere a Veio, nell'ultimo decennio del VI sec. a.C., di una scuola di maestri coroplasti (cioè scultori in terracotta) autori di grandi statue acroteriali (cioè destinate ad ornare i vertici dei frontoni dei templi) per il Santuario di Portonaccio (ma un'antefissa è nota anche dal Santuario di Porta Caere) è tale da autorizzarci a ritenere autentica la tradizione romana, e ad attribuire a Vulca e alla sua scuola la paternità del celebre Apollo di Veio e delle altre sculture decoranti il tetto del tempio di Portonaccio.
Cronologia Etrusca
Secolo X a.C.
Fasi finali della civiltà del bronzo.
 
Secolo IX a.C.
Fasi iniziali della civiltà del ferro; cultura «villanoviana» nei territori dell’Etruria «propria» e sua espansione verso l’Emilia-Romagna e il Salernitano. Formazione delle comunità di villaggi.
 
Secolo VIII a.C.
Navigazione degli Etruschi nel Tirreno meridionale.
Inizio della colonizzazione greca nella penisola italiana.
775 ca. Stanziamento dei Greci a Pitecusa, nell’isola d’Iscbia.
753 Fondazione di Roma, secondo la tradizione varroniana.
750-725 Fondazione di Cuma.
Inizio della colonizzazione greca in Sicilia.
Sviluppo del «villanoviano in Etruria — differenziazioni sociali — fondazione del centri pre-urbani.
710-705 ca. Fondazione di Sibari, di Crotone e di Taranto. Inizio della cultura «orientalizzante».
Adozione dell’alfabeto greco e introduzione della scrittura in Etruria (e nel Lazio).
 
Secolo VII a.C.
Primo iscrizioni etrusche rinvenute a Tarquinia e a Cere.
Pieno sviluppo della cultura «orientalizzante».
650 ca. Demarato di Corinto si stabilisce a Tarquinia.
Influenze corinzie in Etruria.
Fase evolutiva dell’orientalizzazione.
Inizio della civiltà urbana. Fioritura di Cere.
Thalassocrazia ed espansione commerciale delle città costiere dell’Etruria meridionale.
616   Inizio della monarchia etrusca a Roma: regno di Tarquinio Prisco (fino al 578).
 
Secolo VI a.C.
Espansione etrusca nella pianura Padana.
580 ca. Gli Etruschi sconfitti dai coloni greci nel mare di Lipari.
578 Inizio a Roma del regno di Servio Tullio (fino al 534).
565 ca. I Greci di Focea fondano Alalie in Corsica.
540 ca. Coalizione cerite-cartaginese contro i Focei: battaglia del Mare Sardo. Controllo etrusco della Corsica.
534 Inizio a Roma del regno di Tarquinio il Superbo (fino al 5l0).
Fondazione di Marzabotto e di Felsina.
525 Spedizione fallita degli Etruschi (con Umbri e Dauni) contro Cuma.
510 Distruzione di Sibari ad opera di Crotone.
Fioritura di Capua etrusca.
509 Cacciata di Tarquinio il Superbo e fine della monarchia etrusca a Roma. Espansione di Chiusi nel Lazio: il re Porsenna a Roma.
505 ca. L’esercito di Porsenna sconfitto presso Ariccia do Aristodemo di Cuma e dai Latini. Gli Etruschi sconfitti dai Galli al Ticino.
 
Secolo V a.C.
Thefarie Velianas signore di Cere.
Guerra tra Veio e Roma; strage dei Fabii al Cremera.
474 Gli Etruschi sconfitti nelle acque di Cuma dai Siracusani; fine della thalassocrazia e crisi delle città etrusche meridionali; sviluppo delle città dell’Etruria interna e settentrionale; fioritura dell’Etruria padana e adriatica.
454-453 Incursioni della flotta siracusana nel Tirreno settentrionale. Inizio della pressione sannitica sulla Campania.
428 Guerra tra Veio e Roma.
426 La città latina di Fidenae, alleata di Veio, conquistata dai Romani.
423 Capua occupata dai Sanniti.
Fine del dominio etrusco in Campania.
414-413 Un contingente etrusco (forse di Tarquinia) partecipa all’assedio navale ateniese di Siracusa.
406 Inizio dell’assedio di Veio da parte dei Romani.
 
Secolo IV a.C.
396 Veio conquistata e distrutta dai Romani: il suo territorio incorporato nello stato romano.
390-386 Scorrerie dei Galli nell’Italia centrale: Roma saccheggiata e incendiata.
384 Incursione della flotta siracusana nel Tirreno e saccheggio del santuario di Pyrgi. I Siracusani nell’Adriatico settentrionale.
382 Fondazione delle colonie romano-latine di Nepi e Sutri. Ascesa di Tarquinia e sua egemonia sulla Lega etrusca.
358 Tarquinia (con Cere e Faleri) muove guerra a Roma. Detronizzazione del re di Cere.
353 Pace separata tra Cere e Roma.
351 Fine della guerra e tregua quarantennale fra Tarquinia e Roma. Rivolta «servile» ad Arezzo domata con l’intervento di Tarquinia. Marzabotto e Felsina occupate dai Galli. Spedizioni dei Galli nell’Italia centrale.
314 Navi etrusche in Sicilia in aiuto di Agatocle di Siracusa contro i Cartaginesi.
311 Gli Etruschi in guerra contro Roma. I Romani penetrano nell’Etruria centrale e interna.
307 Gli Etruschi costretti alla pace con Roma.
302 Roselle assediata e occupata dai Romani. Intervento di Roma ad Arezzo in appoggio alla famiglia dei Cilnii. Rivolte «servili» a Volterra e a Roselle.
Completa decadenza di Spina.
 
Secolo III a.C.
296 Gli Etruschi nella coalizione «italica» contro Roma.
295 I coalizzati sconfitti dai Romani a Sentino. Vittorie romane sugli Etruschi.
284 Rivolta «servile» ad Arezzo.
282 Gli Etruschi definitivamente sconfitti dai Romani al lago Vadimone.
280 Vulci eVo1sini si arrendono a Roma. Le città etrusche costrette ad allearsi con Roma: l’Etruria federata. Prefettura romana a Statonia.
273 Colonie romane a Cosa e a Pyrgi.
265 Rivolta «servile» a Volsinii.
264 Volsinii conquistata e distrutta dai Romani. Saccheggio del santuario della Lega. Volsinii ricostruita sulle rive del lago di Bolsena. Colonie di Roma a Castrum Novum, Alsium e Fregene.
241 Faleri conquistata e distrutta dai Romani. Trasferimento della città in altra sede.
225 L’Etruria investita da un incursione di Galli distrutti dai Romani a Talamone. Costruzione della via Clodia.
222 Spedizioni romane contro i Galli, dalle basi etrusche. Costruzione della via Flaminia.
217 Annibale, in Etruria, sconfigge i Romani al Trasimeno.
209 I Romani rinforzano i presidi militari in Etruria.
205 Le città etrusche contribuiscono alla spedizione africana di Scipione contro Cartagine.
 
Secolo II a.C.
196 Rivolta di schiavi in Etruria.
189 Fondazione della colonia romana di Bononia.
186 Repressione del culto «sovversivo» di Dioniso.
183-180 Fondazione di colonie di Roma a Saturnia, Gradisca e Pisa.
177 Fondazione di colonie di Roma a Luni e a Lucca. Costruzione della via Cassia.
Progressiva emancipazione di elementi servili nell’Etruria settentrionale.
135 Viaggio del tribuno Tiberio Gracco attraverso l’Etruria.
133-121 Fallimento dei tentativi di riforme sociali dei Gracchi.
130 L’etrusco Marco Perperna eletto console a Roma.
 
 
Secolo I a. C.
91 Marcia su Roma degli Etruschi contro le proposte di legge riformatrici del tribuno Livio Druso. Secessione e guerra degli alleati italici contro Roma.
90 Interventi militari romani a Fiesole, Arezzo, Chiusi e Volsinii.
89 Gli Etruschi ricevono la cittadinanza romana. Le città etrusche diventano «municipi» dell’Italia romana.
87 Gli Etruschi parteggiano per Mario.
82 Repressioni di Silla contro Fiesole, Arezzo e Volterra e deduzione di colonie di veterani romani.
78 Effimere rivolte «popolari» a Fiesole e in altre città.
63 Catilina si rifugia in Etruria e arruola truppe a Fiesole e ad Arezzo.
49 Gli Etruschi neutrali nella guerra civile tra Pompeo e Cesare.
40 Perugia, occupata dai seguaci di Antonio, conquistata e saccheggiata dalle truppe di Ottaviano.
27 L’etrusco Mecenate tra i consiglieri e i ministri di Augusto.
7  L’Etruria diventa la regione VII dell’Italia romana.
Bibliografia

"La civiltà etrusca" Keller 1981, Garzanti
"Etruscologia" M. Pallottino, Hoepli Milano 1968
“Tarquinia”  Maria Castaldi, Regione Lazio Ass. Cultura , Quasar 1993
“Origini e Storia Primitiva di Roma” M. Pallottino, Ed. Bompiani 2000
“Guida insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi” Chiesa, Facchetti, Newton & Compton Ed. 2002
Schede didattiche - Museo Archeologico Firenze
La Società
 
Caratteristiche e sviluppi della società etrusca 
L' organizzazione politica: città-stato e loro associazioni 
Il potere e le forme istituzionali nei singoli stati 
Il popolo
Le classi sociali
La classe sacerdotale
La famiglia
La donna
 



Caratteristiche e sviluppi della società etrusca
 
Nell'affrontare i problemi dell'organizzazione sociale e politica degli Etruschi la nostra prima e fondamentale notazione è che non si può procedere ad una pura e semplice rassegna descrittiva dei fenomeni senza considerarne l'evoluzione nel tempo che è essenziale per la loro comprensione. Le notizie che derivano da accenni occasionali e sommari degli scrittori greci e latini si riferiscono pressoche esclusivamente al quadro delle istituzioni in alcuni dei loro aspetti esteriori, ed in ogni caso per lo più ai tempi e alle circostanze dei rapporti con Roma. Assai più vasta è la piattaforma delle testimonianze epigrafiche che a partire dal VII secolo a.C. e per tutta la durata della civiltà etrusca ci documentano nomi e formule onomastiche: ci danno cioè, per quanto è stato finora scoperto (e continua ogni giorno a scoprirsi), una sorta di radiografia della società etrusca; mentre le indicazioni biografiche delle iscrizioni funerarie presentano titoli di cariche. C'è poi tutto l'insieme dei resti archeologici che, per epoche anche più antiche, nella forma e nella distribuzione delle tombe e nelle caratteristiche della produzione rivelano consistenza, rapporti, sviluppi dei diversi nuclei e strati sociali.
Difficilmente potremmo sfuggire all'importanza di due opinioni correnti sulla società etrusca: cioè in primo luogo che essa si sia costituita attraverso una progressione da piccole comunità semplici e indifferenziate a raggruppamenti complessi con articolazioni dinamiche e forti emergenze di poteri e di ricchezze; in secondo luogo che le oligarchie abbiano esercitato una funzione dominante e durevole. Ma occorre intendersi sull'una e sull'altra asserzione. È indubbio che nel periodo villanoviano, vale a dire come sappiamo nella prima fase della civiltà etrusca, si manifestano ancora forme di vita proprie delle culture di villaggio preistoriche (quali si riflettono con evidenza nelle figurine e nelle scene dei bronzi di Vulci, di Bisenzio, di Vetulonia) e apparenti rapporti egualitari denunciati dalla relativa uniformità delle tombe: naturalmente in contrasto con quelli che saranno i costumi e gli sfarzi della successiva fase orientalizzante. È però anche vero che sarebbe un errore considerare la società villanoviana come una società primitiva. La moltitudine e profondità di esperienze culturali che si sono succedute nel corso dei tempi che precedono sul suolo d'Italia e nella stessa terra d'Etruria, l'inevitabile osmosi con gl'influssi provenienti dall'evoluto Mediterraneo orientale, la presenza già sottolineata di aggregazioni e di costruzioni evolute nell'età del bronzo con particolare riguardo al bronzo finale (Luni sul Mignone, Crostoletto di Lamone, Frattesina) rivelanti tra l'altro segni di spicco politico-sociale: tutti questi elementi ci convincono che il fenomeno villanoviano deve esser maturato in un ambito di strutture già evolute e dinamiche; ne si può escludere che gli addensamenti e la somiglianza reciproca delle deposizioni funerarie, con particolare riguardo ai pozzetti dei cremati, ubbidiscano ad esigenze rituali comuni (ma non mancano segni anche piuttosto evidenti di distinzioni, per esempio nell'uso delle urne a capanna rispetto ai cinerari biconici, nella presenza degli elmi in funzione di coperchi, delle armi, di corredi di oggetti di accompagno piuttosto abbondanti).
Le attività metallurgiche, artigianali, cantieristiche riflettono necessariamente una specializzazione del lavoro. Le imprese navali a largo raggio già iniziate in questa età presuppongono e comportano accentramenti di capacità finanziarie e quindi formazioni di gruppi di potere. Che poi tali gruppi, anche appoggiandosi ai possessi terrieri e alla loro trasmissione ereditaria, tendano a chiudersi in una cosciente autorità egemonica di alcune famiglie privilegiate, cioè in un sistema oligarchico gentilizio analogo a quello della Grecia contemporanea, con ogni possibile apparato di prestigio e di lusso, questo può considerarsi veramente il processo che, determinandosi nel corso dell'VIII secolo, differenzierà dalla società villanoviana la società orientalizzante.
È probabile, anche se non certo, che su questo processo s'innesti la formazione del sistema onomastico bimembre, che crediamo di origine etrusca, e si ritrova anche nel mondo latino e italico, differenziandosi dalle formule in uso presso altri popoli del mondo antico come i Greci, che indicavano le persone con il semplice nome e patronimico (Apollonio di Nestore), o anche con un epiteto di discendenza (Aiace Telamonio), senza tuttavia esprimere con evidenza il concetto di una continuità familiare. La formula vigente nell'Italia antica è sistematicamente rappresentata da un doppio elemento, e cioè dal prenome personale e dal nome di famiglia o gentilizio: in questo senso esso è l'unico sistema onomastico del mondo antico che anticipi una costumanza affermatasi, per necessità sociali, culturali e politiche, nell'ambito della civiltà moderna. Accanto ai due elementi principali appaiono spesso il patronimico e il metronimico (nomi paterno e materno), talvolta anche i nomi degli avi; al gentilizio può aggiungersi, raramente e per lo più tardivamente, un terzo elemento onomastico che i Romani dissero cognomen, forse di origine individuale ma generalmente adoperato a designare un particolare ramo della gens. È indubitato che l'elemento più antico è il prenome o nome individuale, che fu in origine un nome singolo. Si ritiene che i gentilizi siano derivati dal nome singolo paterno (per intenderci, come il greco Telamonio), mediante l'aggiunta di un suffisso aggettivale che spesso è -no: così ad esempio Velno da Vel.
Ma poi i gentilizi si formarono anche da nomi di divinità (Velfino), di luoghi (Sufrina) o in altro modo talvolta non definibile. L'originalità del sistema sta comunque nel fatto che la nuova formazione resta definitivamente fissata per tutti i membri della famiglia e loro discendenti. Si discute se l'apparizione e la diffusione dei gentilizi siano avvenute nel corso del VII secolo, o già prima, come è possibile. Il numero delle gentes conosciute è grandissimo, possiamo dire illimitato; constatazione interessante che esclude l'ipotesi di una contrapposizione tra un ristretta oligarchia dei membri delle gentes ed una massa di popolazione estranea al sistema gentilizio. A dire il vero si ha l'impressione che in origine tutti i membri delle nascenti comunità urbane etrusche, in quanto cittadini liberi, fossero inquadrati nell'ambito del sistema "gentilizio"; ma non nel senso di una loro aggregazione entro i limiti di pochi e vasti organismi familiari, bensì nel senso dell'appartenenza a singoli e numerosi ceppi familiari ciascuno dei quali era contraddistinto da un particolare nome gentilizio. Si può pensare a qualche cosa di simile a quello che accade nel mondo moderno verso la fine del medioevo, quando nascono i nomi di famiglia, e tutta la popolazione, dalle classi elevate alle più umili, finirà con l'adottare un unico sistema onomastico. È naturalmente possibile - quantunque non provato - che nell'Etruria arcaica esistessero gentes patrizie e plebee, come a Roma durante la repubblica. La vera e propria classe inferiore è rappresentata dai servi, dagli attori e dai giocolieri, dagli stranieri, ecc., che nei monumenti appaiono contraddistinti soltanto da un nome personaIe e sono quindi estranei all'organizzazione gentilizia. Se una società di liberi, suddivisa in piccoli e numerosi aggregati familiari, poteva conciliarsi con una costituzione monarchica di tipo arcaicaca, ciò parrebbe più difficile per lo stato oligarchico attestato dagli accenni degli scrittori antichi per una fase posteriore della civiltà etrusca.
Tuttavia i monumenti epigrafici continuano a presentarci famiglie - di cui per questo periodo più tardo si conoscono ormai complesse genealogie - assai numerose in ciascuna delle città etrusche, e sulla base di un'apparente parità sociale. Ma è possibile anche intravvedere la formazione di aggregati familiari più vasti, contraddistinti da un sologentilizio, ma con numerose ramificazioni anche fuori dell'ambito della città originaria. E’ il manifestarsi della gens nel senso più propriamente noto nel mondo romano; e non di rado ai gentilizi si aggiungono cognomi adottati per distinguere i diversi rami della famiglia. Alle piccole tombe strettamente familiari del periodo arcaico si sostituiscono i grandiosi ipogei gentilizi con numerose deposizioni. Si può osservare un più frequente ricorrere di matrimoni tra membri di alcune gentes, che sono poi quegli stessi che più di frequente rivestono cariche politiche e sacerdotali. Ciò si spiega abbastanza logicamente supponendo che nell'ambito dell'originario sistema sociale gentilizio si sia venuta ulteriormente determinando una netta prevalenza di alcune gentes maggiori che avrebbero costituito la oligarchia dominante. Di ciò si è già fatto cenno nella trattazione storica. È evidente che di quelle oligarchie sono esponenti, ad esempio, a Tarquinia gli Spurina o i Velcha, come ad Arezzo i Cilnii, o a Volterra i Ceicna (Cecina) dai numerosi rami. Più difficile è stabilire la posizione delle gentes minori o plebee nell'ambito dello stato oligarchico; come anche determinare le caratteristiche delle classi proletarie e servili. Sono abbastanza frequenti, specialmente nell'Etruria settentrionale, iscrizioni funerarie appartenenti a personaggi designati con i termini lautni, etera, lautneteri; in alcuni casi essi recano il solo prenome, segno di condizione servile, o conservano un nome di origine straniera. La parola lautni deriva da lautn "famiglia" e significa letteralmente "familiare"; ma è adoperata come corrispondente del latino libertus. Quanto ad etera non si sa precisamente il valore del termine, che qualcuno traduce come «servo».
Un'affermazione politico-sociale delle classi inferiori è ricordata dalla tradizione storica per Arezzo e per Volsinii dove avvenne nella prima metà del III secolo a.C. una vera e propria rivoluzione proletaria con la conquista del potere e la momentanea abolizione delle differenze di casta (per esempio il divieto di connubio) con l'aristocrazia dominante. Resta tuttavia dubbio se e fino a qual punto tali lotte sociali possano interpretarsi anche come un urto tra genti maggiori e minori nell' ambito del sistema gentilizio, analogo alla lotta tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana, ovvero debbano intendersi esclusivamente come una affermazione rivoluzionaria di elementi servili estranei alle gentes. D'altra parte, come è stato recentemente dimostrato da H. Rix, nelle città dell'Etruria settentrionale ebbe luogo, al più tardi nel II secolo a.C., una generale ascesa pacifica di elementi servili, i cui nomi individuali (come Cae, Tite, Vipi) divennero nomi gentilizi. Trattando della famiglia e del sistema onomastico degli Etruschi, si può fare un riferimento al cosiddetto "matriarcato" degli Etruschi. È questa soltanto una leggenda erudita, nata dal confronto fra usanze dell'Etruria e dell' Asia Minore, quali vengono riportate da Erodoto (I, 73), e alimentata dalle notizie degli scrittori antichi sulla libertà della donna etrusca. Il fatto che i fanciulli lidii fossero chiamati con il nome della madre e non con quello del padre è stato posto a confronto con l'uso etrusco - attestato nelle iscrizioni - del metronimico. Ma in realtà nelle iscrizioni etrusche l'elemento prevalente è il patronimico, anche se in molti epitafi sono riportati il gentilizio e talvolta il prenome della madre.
Non vi è dubbio che la donna abbia nella società etrusca un posto particolarmente elevato e certamente diverso da quello della donna greca di età classica. La partecipazione ai banchetti con gli uomini è indizio esterno di una parità sociale, che ricollega anche per questo aspetto la società degli antichi Etruschi a costumi propri del mondo occidentale e moderno. Un ultimissimo cenno a quel tipo di istituzione sociale che, parzialmente su modelli ellenici, ebbe particolare importanza nel mondo italico e specialmente romano: ci riferiamo alle associazioni di giovani, alla iuventus. È possibile e probabile che ciò esistesse anche nel mondo etrusco. Già in età arcaica appare raffigurato il giuoco della Troia (Truia), consistente in abili evoluzioni di cavalieri connesse con la iuventus; e a questa si allude forse con la parola huzrnatre derivata dalla radice hus, huz- che esprime il concetto di “giovane, gioventù”.




 
L' organizzazione politica: città-stato e loro associazioni
 
All'epoca dei contatti dell'Etruria con Roma la vita politica della nazione etrusca poggia essenzialmente sopra un sistema di piccoli stati indipendenti facenti capo a città preminenti per grandezza e per ricchezza. Non sappiamo quali fossero le effettive condizioni del periodo arcaico; ma la coesistenza di diversi centri di grande importanza a poca distanza l'uno dall'altro, come Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, con propri poteri, caratteristiche e costumanze, sembra effettivamente ispirarsi al sistema della città-stato proprio delle contemporanee colonie greche e fenicie d'occidente. Questa struttura politica - estesa anche nel Lazio etruschizzato - è designata tecnicamente in latino con il termine populus, di probabile origine euusca, che appare, in un certo senso, sinonimo di civitas, dell’osco-umbro touto, toto. In etrusco il concetto è reso, probabilmente con diverse sfumature, dai termini spur-, mex e forse anche tufi (dall'italico). Il nome ufficiale dei populi è quello degli abitatori stessi delle città: Veienti, Tarquiniesi, Ceretani, Chiusini, ecc.
È probabile che con il procedere del tempo le singole città sovrane si siano aggregate un territorio più o meno vasto, sottomet- tendo altre città rivali, come vediamo in atto nella più antica storia di Roma; ma non è escluso che alcune delle città conquistate possano aver conservato una parziale autonomia o siano state legate da rapporti di alleanza con i dominatori (ciò che potrebbe spiegare l'esistenza di centri di media importanza specialmente nell'Etruria interna, come Nepi, Sutri, Blera, Tuscania, Statonia, Sovana, ecc., nel territorio delle maggiori città, cioè di Veio, Tarquinia, Vulci). Si consideri inoltre la possibilità di vincoli di dipendenza delle colonie dalle città di origine: per esempio nella espansione etrusca in Campania e verso settentrione. Ma in realtà, per quanto ci consta, il principio dell'autonomia e del frammentismo politico deve aver prevalso anche nella costituzione dei domini etruschidell'Italia meridionale e settentrionale.
Il centro della vita politica e culturale dell'Etruria è dunque da ricercare nelle grandi città dominanti, di cui possediamo gli splendidi resti, e che il computo tradizionale calcola in numero di dodici (solo in età romana si parla di quindici popoli). Quali sono queste città? Certamente all'epoca della conquista romana si contano tra di esse Caere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Populonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, Arezzo, Fiesole, Volterra; Veio era stata annessa al territorio romano già dall'inizio del IV secolo, Alcuni centri minori dovevano essere ancora autonomi nel IV e III secolo a.C., come parrebbe risultare da monete con i nomi di Peithesa, Echetia e di altre città non meglio identificate. Nuclei abitati fiorenti in età arcaica, quali Acquarossa, Bisenzio, Marsiliana d' Albegna (Caletra?) e la stessa Vetulonia, decadono più tardi: altre città si svilupperanno soltanto alla fine della civiltà etrusca, sotto il dominio di Roma, quali Siena, Firenze, Pisa, Luni.
Una fase anteriore a quella dell'organizzazione urbana non è documentabile storicamente: ne possiamo quindi conoscere il sistema politico e i reciproci rapporti dei villaggi protostorici dei quali restano tracce nel territorio etrusco. Accenni indiretti di scrittori e l'analogia con la costituzione primitiva di Roma potrebbero far supporre che la popolazione delle città fosse ripartita in tribù e in curie. Per il resto, cioè per il rapporto fra queste ripartizioni interne e i nuclei territoriali di aggregazione dai quali sarebbero sorte le città stesse, nonche i centri minori dipendenti, regna almeno per ora l'oscurità più completa.
Ogni città-stato o città capitale (caput) di uno stato costituisce un mondo politicamente ed entro certi limiti culturalmente a se stante (si pensi ad esempio allaspecializzazione dei prodotti artistici, per cui tra le altre Tarquinia eccelse soprattutto per la pittura funeraria, Caere per l'imitazione dell'architettura interna delle tombe, Vulci per i bronzi e per la scultura, e così di seguito). Gestione interna, commerci, eventuali imprese navali dovettero essere autonome come nelle poleis della Grecia arcaica e classica. Le notizie delle fonti storiche ci persuadono a ritenere che anche la politica estera fosse decisa con sostanziale autonomia da ciascuna città secondo i propri interessi. Tuttavia esistono altri indizi, sempre delle fonti, che ci indirizzano verso il ricordo di un tipo di associazione delle città etrusche per la quale si è usato modernamente il termine di lega o di federazione. Dobbiamo chiederci quale sia l'effettiva natura di quest'ultima istituzione, che ha dato luogo a discussioni tra gli studiosi. L 'esistenza di forme associative tra diverse comunità autonome è un fatto ben noto nel mondo antico, in Grecia come in Italia, sia pure con diverse caratteristiche a seconda dei tempi e dei luoghi; ne può quindi destare meraviglia. Per l'Etruria gli scrittori antichi non usano, a quanto ci consta, un termine specifico per indicare l'associazione stessa; ma parlano dei duodecim populi, dei duodecim (o quindecim) populi Etruriae o semplicemente di Etruria, di omnis Etruria.
Il numero dodici delle grandi città dell'Etruria propria - alle quali facevano riscontro altrettante della Etruria padana e della Campania - ha probabilmente un carattere rituale: come in altri casi analoghi del mondo antico, e forse, ma non necessariamente, per analogia con le dodici città della lega ionica (considerati gli antichi legami culturali fra Etruria e lonia asiatica). Che si tratti per altro non soltanto di uno schema ideale, ma di una reale istituzione politica, può dedursi da quei riferimenti, principalmente di Livio (IV, 23; V, 1; X, 16, ecc.), nei quali si accenna ad una adunanza di consultazione annuale o comunque periodica (concilium) tenuta dagli stati etruschi e dai loro capi (principes) al Fanum Voltumnae. Ha giustamente posto in rilievo L. Pareti che simili testimonianze non sono sufficienti a provare il carattere continuativo ed un forte potere soprastatale del supposto istituto federale etrusco. Accertata l'esistenza di feste e di giochi annuali panetruschi nel santuario di Voltumna - non altrimenti da ciò che sappiamo relativamente al mondo greco per Efeso, Olimpia, Delfi, Corinto -, si potrebbe infatti supporre che soltanto circostanze politiche di carattere eccezionale, come la minaccia di Roma, possano avere indotto i rappresentanti dei diversi stati etruschi a concertarsi nel santuario nazionale e financo a coalizzarsi in una lega politica e militare. Ma esistono d'altra parte riferimenti che paiono indicare una certa continuità dell'istituto ed una relativa subordinazione ad esso dei singoli stati: ad esempio il passo di Servio (ad Aen., VIII, 475), nel quale è detto che l'Etruria aveva dodici lucumoni, o re, dei quali uno era a capo degli altri, o gli accenni di Livio (l, 8, 2; V, 1) alla elezione di un re da parte dei dodici popoli, ciascuno dei quali forniva un littore per i fasci, e più tardi alla elezione di un sacerdote al Fanum Voltumnae in occasione delle adunanze degli stati etruschi. In sostanza dall'attendibilità delle notizie contenute in questi riferimenti dipende il nostro giudizio sulla lega etrusca.
È interessante notare che in due delle testimonianze si parla di re: ci si riferisce cioè preferibilmente ad epoca arcaica. Ma in altro passo di Livio si parla di un capoelettivo della comunità degli Etruschi, il quale alla fine del V secolo (cioè all'epoca del conflitto tra Veio e Roma) era un personaggio designato con il titolo di sacerdos, e perciò dotato di poteri eminentemente religiosi (o ridotti alla sola sfera religiosa). In alcune iscrizioni latine di età imperiale ricorre il titolo praetor Etruriae che appare anche nella forma praetor Etruriae XV populorum, cioè della comunità nazionale etrusca che in età romana pare accresciuta di tre città. Ora fra le cariche esercitate da personaggi etruschi e ricordate da iscrizioni in etrusco conosciamo il titolo zilat? mexl rasnal. Dal celebre passo di Dionisio (I, 30, 3) in cui gli Etruschi sono designati con il nome nazionale di Rasenna sappiamo che la parola rasna dovrebbe significare «etrusco, Etruria». D'altra parte la magistratura indicata con la parola zilat?, che pare sia la più elevata fra le cariche delle repubbliche etrusche, equivale assai probabilmente al praetor dei Romani. Per mexl si può pensare ad un genitivo della parola mex che ricorre nella iscrizione della lamina d'oro lunga di Pyrgi, e forse tradurre ”dei populi”. Risulterebbe così una corrispondenza del titolo zilat? mexl rasnal con praetor Etruriae (populorum). Si può discutere se questa carica si identifichi con la suprema presidenza elettiva dei populi etruschi, o con una magistratura di rappresentanza dei singoli populi nel concilio federale, come quella dei principes ricordati da Livio. La prima ipotesi sembra oggi la più probabile. Se le notizie relative alla supremazia di uno degli antichi sovrani delle città etrusche non sono del tutto prive di fondamento, si potrebbe arrischiare l'ipotesi che una forma originaria di legame unitario esistesse fra gli Etruschi del sud all'inizio dei tempi storici, sotto la egemonia di una o dell'altra città. Più tardi questa antica unità avrebbe assunto il carattere di associazione religiosa, commerciale e politica, con feste e adunanze nazionali nel santuario di Voltumna presso Volsinii. La elezione di un supremo magistrato annuale è forse il ricordo dell'alta sovranità di un capo sugli altri. Sappiamo da Livio che verso la fine del V secolo il re di Veio poneva la sua candidatura alla elezione - il che conferma implicitamente l'importanza della magistratura nazionale -, ma ne usciva battuto.




 
Il potere e le forme istituzionali nei singoli stati
 
Le condizioni di fatto esistenti nelle città etrusche tra il IV e il II secolo a.C., hanno influito sulla generale interpretazione delle istituzioni politiche e sociali etrusche quale risulta dai riferimenti degli scrittori antichi. Le città appaiono dominate da un' oligarchia gentilizia (solo sporadicamente e per breve tempo soppiantata da altre classi sociali), con magistrati genericamente designati dalle fonti romane come principes. I monumenti confermano in parte la tradizione pre- sentandoci grandiose e ricche tombe gentilizie con numerose deposizioni, iscrizioni riferibili a membri di alcune famiglie strettamente imparentate e soprattutto epigrafi di personaggi che portano titoli di cariche temporanee e probabilmente collegiali, secondo un sistema altrimenti noto nelle costituzioni delle città-stati del mondo antico. Ma tali condizioni non rispecchiano evidentemente il quadro della vita politica etrusca nei secoli più antichi della storia nazionale.
Molte fonti ci parlano dell'esistenza di re nelle città etrusche. Il termine lucumone (lat. lucumo, lucmo, in etrusco probabilmente lauxume, lauxme, luxume) ricorre talvolta quale prenome personale di personaggi etruschi, come nel caso del re di Roma Tarquinio Prisco; ma è generalmente usato come nome comune per designare i capi etruschi. Il commentatore di Virgilio, Servio, in un caso chiama lucumoni i magistrati preposti alle curie della città di Mantova (ad Aen, X, 202), altrove identifica esplicitamente i lucumoni con i sovrani della città (ad Aen, II, 278; VIII, 65, 465). E’ accertato che i lucumoni equivalessero ai principes, designando ambedue i termini null'altro che i capi delle famiglie patrizie. È però probabile che il termine principes indichi, più che una condizione sociale, le magistrature dello stato repubblicano, e forse anche magistrature supreme; tutto porta a credere che il titolo lucumone designi i re etruschi di età arcaica, secondo l'esplicita e ripetuta affermazione di Servio.
Non sembra quindi necessario ricercare, con S.P. Cortsen, la parola etrusca per re nel titolo * pursna, * purtsna, purfne, che sarebbe stato considerato come un nome proprio nel caso del re di Chiusi Porsenna. È d'altro canto probabile che, analogamente a quanto accadde a Roma per il termine rex (sacrificulus), il titolo degli antichi monarchi non sia stato abolito con la trasformazione dello stato in una repubblica aristocratica e si sia conservato accanto alle nuove magistrature, sostanzialmente svuotato del suo contenuto politico e volto a funzioni religiose. Nel testo sacro della Mummia di Zagabria si parla di cerimonie compiute lauxumneti, «nel lauxumna», cioè probabilmente la residenza del lauxume, il lucumone: qualche cosa di analogo alla Regia, residenza dei Pontefici, in Roma. Infine il capo elettivo del Fanum Voltumnae, designato da Livio come sacerdote, non sarà forse stato in origine altro che il re eletto dai dodici popoli e il lucumone più potente ricordato da Servio: sia pure con funzioni sminuite e trasformate dal mutare dei tempi e delle concezioni politiche.
Quale carattere ebbe la monarchia etrusca primitiva? purtroppo ci mancano gli elementi per determinarlo e soltanto l'analogia con quel poco di storicamente certo che ci è noto sulla monarchia romana consente qualche supposizione. Il re doveva avere il potere giudiziario supremo che esercitava, a detta di Macrobio (Saturn., l, 15, 13), ogni otto giorni in udienze pubbliche. Doveva essere il capo dell'esercito ed anche della religione dello stato. Meglio informati siamo sopra alcuni costumi cerimoniali e attributi esteriori della monarchia, che furono ereditati da Roma e considerati dagli scrittori antichi come di origine specificamente etrusca: così la corona d'oro, lo scettro, la toga palmata, il trono (sella curulis), l'accompagno dei fasci e altre insegne del potere, la presenza di uno scriba che registra gli atti sovrani; così forse anche la cerimonia del trionfo.
Particolarmente interessante è il problema delle origini del fascio littorio. La sua origine etrusca è sostenuta esplicitamente dagli scrittori di età imperiale, come Silio Italico (Puniche, VIII, 483 sgg.) e Floro (l, 1, 5). La più antica rappresentazione di fasci senza scure s'incontra in un rilievo chiusino del Museo di Palermo che si data nella prima metà del V secolo a.C.: cade quindi l'ipotesi che i littori e i fasci al seguito dei magistrati etruschi nelle città federate siano una imitazione delle costumanze di Roma. È probabile che in origine il fascio fosse soltanto uno e che il moltiplicarsi del numero dei littori sia dovuto all'estendersi della sovranità su più territori o al moltiplicarsi dei per- sonaggi detentori del potere supremo. Al simbolo materiale dei fasci corrisponde una capacità politica e religiosa, che i Romani designarono con il nome di imperium. A riprova del valore dell'ascia come simbolo del potere sovrano sta il fatto che soltanto l' imperium maius ed alcune particolari circostanze davano diritto al magistrato romano dì inalberare i fasci con la scure. L' imperium, distinguendosi da una generica potestas, è la pienezza dei poteri giudiziari e militari: esso è in sostanza la sovranità degli antichi re di Roma trasmessasi ai magistrati repubblicani. Il concetto di imperium, con le sue sfumature religiose, deriva probabilmente dalla monarchia etrusca.
Nello studio del passaggio dallo stato monarchico allo stato repubblicano in Etruria - passaggio avvenuto tra il VI e il IV secolo a.C. - va tenuta presente la portata internazionale del fenomeno che investe, con linee sostanzialmente analoghe, la storia istituzionale dei Greci, dei Fenici, dei Latini, degli Etruschi, e che dimostra, per certi aspetti sostanziali della vita pubblica, la profonda unità della civiltà mediterranea anche in epoca anteriore all'ellenismo e alla romanità.
Dalla monarchia primitiva a carattere religioso si passa allo stato oligarchico con magistrature elettive, collegiali e temporanee: talvolta il processo si affianca o si sviluppa con affermazioni di potere personale (tirannie) e con soluzioni democratiche. In molte città greche la trasformazione è già in atto in epoca protostorica, durante e dopo l'età micenea; mentre altre città come Sparta conservano, almeno formalmente, l'istituto monarchico fino alla fine della loro storia. Nel mondo greco d'occidente le nuove soluzioni sembrano già in gran parte affermate sin dagli inizi della colonizzazione; mentre a Roma il mutamento ha luogo nel VI secolo. Le molte teorie proposte per spiegare il passaggio dalla monarchia romana alle magistrature repubblicane si orientano da un lato verso il concetto dell'evoluzione continua e necessaria, da un altro lato verso l'idea di una innovazione improvvisa. Quest'ultima potrebbe effettivamente ricollegarsi all'imitazione di istituti stranieri (greci, latini o anche etruschi?). È stata inoltre affacciata, essenzialmente da S. Mazzarino, la proposta che agli inizi dello stato repubblicano,  prima dell'affermarsi delle magistrature collegiali sia da ricostruire una fase di magistrature singole o preminenti, a carattere prevalentemente militare, quasi dittature stabili, sostituitesi alla regalità arcaica. In tal senso sono state interpretate tradizioni relative a titoli come, in Roma, quelli del magister populi o del praetor maximus; e si è anche creduto di poter riconoscere un simile tipo di potere nel personaggio etrusco Mastarna, il cui nome Macstrna (senza prenome nella tomba Franr;ois di Vulci) sarebbe null'altro che un titolo derivato dal latino magister: tanto più che Mastarna era stato da alcune fonti identificato con il re di Roma Servio Tullio, alle cui riforme costituzionali si faceva risalire l'origine stessa della repubblica (Livio, I, 60). L'esistenza di forti poteri personali nelle città etrusche e latine tra la fine del VI e il principio del V secolo s'inquadrerebbe nel diffuso costume delle tirannie che caratterizza le città greche d'occidente in quel medesimo periodo (si pensi ad esempio ad Aristodemo di Cuma), per una sorta di mimetismo politico. Le laminette d'oro in scritte in etrusco e in punico trovate a Pyrgi recano un nuovo prezioso contributo alla discussione di questo problema, dato che esse ci presentano la figura del dedicante Thefarie Velianas, designato in punico come "re di Caere" o "regnante su Caere" (ma in etrusco probabilmente già come zilac, cioè praetor), con tutte le caratteristiche di un capo di stato investito di potere unico e personale.
Oltre a ciò va detto che probabilmente non esiste in Etruria una netta contrapposizione cronologica tra fase monarchica e fase repubblicana anche per un'altra ragione, e cioè perche la monarchia, di nome oltre che di fatto (se le fonti non mentono), sopravvive o riaffiora almeno in due casi posteriori a quella fase tardo-arcaica nella quale dovrebbero collocarsi i mutamenti istituzionali più o meno nello stesso periodo delle origini della repubblica romana. Ci riferiamo alla creazione di un re a Veio sul finire del V secolo e alla menzione di un "redei Ceriti" nell'elogium di Aulo Spurinna in un contesto cronologico che si riporta verso la metà del IV secolo. Nell'uno come nell'altro caso c'è una palese ostilità di altri stati etruschi, che farebbe pensare a fatti eccezionali in un mondo di ormai prevalenti assuefazioni istituzionali repubblicane.
Il sistema che doveva essersi generalizzato negli ultimi secoli di vita autonoma delle città etrusche è, come si è detto, quello delle repubbliche oligarchiche, per la cui conoscenza abbiamo purtroppo soltanto pochi indizi diretti offerti dalle iscrizioni e qualche cenno delle fonti storiche, oltreche l'analogia con Roma. Possiamo dedurne l'esistenza di un senato formato dai capi delle gentes; probabilmente di assemblee popolari; di una magistratura suprema temporanea, unica o collegiale; di altre magistrature collegiali a carattere politico e religioso. In ogni caso si avverte la tendenza a spezzettare il potere, a sminuirlo e a porlo sotto un costante reciproco controllo, allo scopo di evitare l'affermarsi del potere personale. Questo irrigidimento delle istituzioni oligarchiche sembra più accentuato in Etruria che a Roma. Una differenza traspare anche nei riguardi dei movimenti di rivendicazione pubblica delle classi inferiori, che in Etruria non hanno generalmente la possibilità di inquadrarsi, come a Roma, in uno sviluppo progressivo delle istituzioni verso l'avvento al potere della classe plebea; ma si risolvono, a Volsinii, ad Arezzo e forse altrove, in parentesi di anarchia popolare. Ciò non esclude tuttavia un progressivo assorbimento di elementi extragentilizi nel sistema gentilizio specialmente nell'Etruria settentrionale intorno al II secolo a.C., come si è già accennato: con loro probabile conseguente accesso almeno ad alcune delle cariche pubbliche.
I titoli delle magistrature etrusche, nelle loro forme originarie, ci sono noti dai cursus honorum (cioè dalle elencazioni delle carriere) delle iscrizioni funerarie, alcune delle quali dovevano esser redatte nella forma di veri e propri elogio poetici del defunto, come ad esempio le iscrizioni romane degli Scipioni. Non è facile tuttavia interpretare la natura delle cariche, i loro reciproci rapporti, la differenza di dignità e la corrispondenza con le magistrature del mondo latino ed italico. Il titolo più frequente è quello tratto dalla radice zii-, di origine ancora oscura ed imprecisata (ma già presente a Caere almeno all'inizio del V secolo), nelle forme zii, zil(a)c o zilx, zilat. Alle forme nominali corrisponde un verbo zilx- o zilax- che significa «essere zilc o zilat». Già sappiamo che zilat corrisponde in qualche caso al titolo romano praetor. È indubbio che si tratta di un'alta carica, forse la più alta dello stato; ma spesso il titolo appare accompagnato da specificazioni (zilat o zilx parxis; zilc marunuxva; zilx cexanen) che possono indicare una specializzazione di funzioni (cfr. il latino praetor peregrinus).
Un'altra carica importante, che taluno considera il più alto grado di un supposto collegio di zilat, è indicata dalla radice purt-, che non si è mancato di ricollegare con il titolo di probabile origine preellenica noto anche nelle città greche dell'occidente e forse da queste trasmesso alle città etrusche. Frequente è inoltre il titolo maru, marniu, marunux, i cui richiami sacrali sono resi evidenti dalla sua connessione cori il titolo sacerdotale cepen e da specificazioni, che contengono i nomi degli dèi Paxa (Bacco) e Cafa. Appare anche in Umbria con il collegio dei marones (e fu cognomen del mantovano Virgilio!). Si è supposto che corrisponda al latino aedilis. Altre cariche amministrative o militari sono espresse dai termini camfi, macstrev(c) (dal latino magister), ecc.
Trattando degli ordinamenti dello stato etrusco un ultimo cenno dovrebbe esser fatto alle leggi e al diritto. Ma purtroppo di questa materia noi possediamo nozioni limitatissime ed incerte delle fonti letterarie antiche, essenzialmente collegate con la disciplina etrusca e in particolare con i libri rituali. L 'ipotesi dell'esistenza di un ius terrae Etruriae, cioè di una legislazione della proprietà terriera, sostenuta da S. Mazzarino, dove comunque sarebbe nominato un ius Etruriae. L'estrema importanza della normativa riguardante i confini (molti dei quali contrassegnati da cippi con la parola tular) sembra del resto confermata anche da altri documenti. Ma siamo in ogni caso, sia per questa materia civile come per il diritto penale, prevalentemente nella sfera del sacro, cui si farà riferimento nel capitolo successivo.




Il popolo
 
Sotto la classe padronale o gentilizia - la cui ricchezza si era creata con l’agricoltura, il commercio, la pirateria - si formò col tempo, a partire dal VII secolo, una sorta di ceto medio anch’esso composto da agricoltori, artigiani mercanti (non pochi di costoro erano stranieri, che prendevano fissa dimora nei centri dove li portavano i loro traffici e magari sposavano donne del posto). Non è pur troppo facile ricostruire l’esistenza di questa gente e di quella che stava al livello più basso della scala sociale, i servi. È evidente che questi servi non costituivano un blocco omogeneo, e che (erano fra loro differenze anche notevoli in relazione alle funzioni che svolgevano. Certo erano molto numerosi. Le fonti di approvvigionamento del personale servile furono dapprima le scorrerie piratesche, poi le guerre (i prigionieri di guerra finivano, come è noto, in schiavitù): e va da sé che schiavi erano i nati da genitori di condizione servile. Mercati di schiavi c’erano poi dappertutto (alcuni internazionalmente noti), e c’erano trafficanti specializzati che facevano soldi a palate trattando questa merce. I prezzi variavano naturalmente secondo la qualità (caratteristiche etniche, nazionalità, età, sesso, forza, bellezza, salute, conoscenza di arti e mestieri, cultura, ecc.).
Pare che le case dei ricchi Etruschi pullulassero di schiavi, adibiti alle più svariate funzioni, non di rado pretestuose. Fra gli schiavi che servivano durante i banchetti, c’erano quelli che mischiavano nelle anfore il vino e l’acqua, quelli che versavano le bevande nelle coppe, quelli che tagliavano le carni, quelli che distribuivano i cibi, e così via. I servi erano, come in tutte le società antiche, alla mercé dei padroni. In Etruria erano, sembra, trattati un po’ più familiarmente e mitemente che a Roma, ma non mancavano certo i padroni capricciosi e crudeli. Le punizioni - frustate per lo più, ma si arrivava alla tortura e alla morte - erano all’ordine del giorno. Non c’erano deterrenti legali contro padroni cattivi o addirittura sadici: si può supporre tuttavia che valesse come freno la disapprovazione sociale. E poi gli schiavi rappresentavano un patrimonio e strumenti di lavoro che si aveva interesse a proteggere e a sfruttare. Lo spettro dei servi era l’ergastolo (il lavoro cioè nelle miniere, nelle cave di marmo quando si cominciò a sfruttarle sistematicamente, nelle paludi per opere di prosciugamento), che si svolgeva in condizioni disumane. Con il costituirsi di grosse ricchezze terriere e l’estendersi del latifondo si andarono spopolando le campagne. I contadini, che già prima stentavano la vita, sfruttati e vessati dai proprietari, cercavano scampo nei centri urbani. A sostituirli erano gli schiavi, che costavano meno anche se il loro rendimento non era esaltante.
Come dappertutto, gli schiavi in Etruria potevano emanciparsi, grazie al peculio che riuscivano ad accumulare o semplicemente grazie ai meriti che acquisivano. L’affrancamento dipendeva comunque dalla volontà del padrone, nei confronti del quale il liberto (lautni com’era chiamato in lingua etrusca) conservava obblighi importanti. Il liberto aggiungeva al suo nome il gentilizio del padrone, faceva pur sempre parte della famiglia, ma aveva una vita propria, lavorava per sé, poteva sposare una libera o un libero, arricchire, fare carriera.
Basandoci sulle testimonianze figurative e letterarie possiamo farci un’idea di com’erano fisicamente gli Etruschi. Con molta cautela, senza dimenticare il lavoro di idealizzazione degli artisti e i loro modelli culturali: è dall’Asia Minore e dalla Grecia, per esempio, che gli scultori avevano preso la fronte sfuggente, il naso dritto, l’occhio a mandorla e quel sorriso particolarissimo che poi venne assunto a simbolo dell’arte etrusca. Non parleremo quindi semplicisticamente di un “tipo etrusco” sulla scorta di un famosissimo sarcofago di terracotta (metà del VI secolo) proveniente da Cere (Cerveteri), su cui è rappresentata una coppia di coniugi adagiati fianco a fianco sul letto del banchetto funebre, con un viso lei da kore attica, lui tendente al triangolare, con occhi obliqui resici familiari dall’arte egeica.
Catullo e Virgilio hanno parlato rispettivamente di obesus etruscus e di pinguis tirrhenus, varando un’immagine degli Etruschi goderecci e mangioni. che trova del resto qualche riscontro nella scultura, soprattutto in tre sarcofaghi. Uno, proveniente da San Giuliano nei pressi di Viterbo ci presenta sul coperchio una figura coricata sul dorso con un ventre spropositato; un altro, di Tarquinia, mostra un vecchio dalle carni piene che contrastano con guance e collo flaccidi e rugosi; il terzo, conservato nel Museo di Firenze, ci presenta un panciutissimo individuo coronato di fiori (un cavaliere, si direbbe dall’anello all’anulare della mano sinistra), dalla testa semicalva e dagli occhi spalancati, che regge nella mano destra una coppa. Ma possiamo considerare questi personaggi rappresentativi della media degli Etruschi o piuttosto del ceto ricco, godereccio, infiacchito dal benessere e dall’ozio? Prendendo in considerazione un centinaio di iscrizioni comprese fra il 200 e il 50 a.C. sulle quali figurano le età dei defunti, gli studiosi hanno ipotizzato (con qualche incertezza per la perdurante difficoltà a interpretare alcuni numerali che vi compaiono) una durata media della vita degli Etruschi di 40,88 anni, non disprezzabile per i tempi, ma che non tiene conto della mortalità infantile, allora elevatissima.
Gli Etruschi dovevano essere piccoletti, se vogliamo credere agli scheletri (circa un metro e mezzo per le donne, una decina di centimetri in più per gli uomini). Ma lo erano anche i Romani e molti popoli dell’epoca. Basta guardare nei musei armature ed elmi per rendersene conto. Da quando si intensificarono i contatti con i Greci, gli Etruschi si ispirarono alla loro moda per l’abbigliamento, che ci appare nei documenti figurativi nel complesso piuttosto vivace ed elegante (poche informazioni ricaviamo dagli autori romani, e solo per gli aspetti dell’abbigliamento che Roma importò dall’Etruria). È ovviamente difficile distinguere l’abbigliamento di tutti i giorni da quello festivo e cerimoniale. Gli uomini, specie i giovani, stavano spesso seminudi, in casa soprattutto ma anche fuori, accontentandosi del perizoma, un panno annodato intorno ai fianchi a formare come delle braghette. Oppure mettevano un giubbetto. Le persone mature indossavano più spesso la tunica leggera lunga fino ai piedi, pieghettata e ricamata, e quando faceva freddo il mantello di stoffa pesante e colorata. Le donne si sbizzarrivano di più: tuniche, gonne, corpini, giubbetti, casacche, mantelli colorati ricamati. Soprattutto le gonne colpiscono per loro grazia, con le loro pieghettature, increspature, inamidature, e con le forme svasate che lasciano sospettare cerchi di sostegno. Tutti questi capi di vestiario subirono una evoluzione le cui tappe non è sempre possibile precisare. Alla metà circa del VI secolo risale, per esempio, l’introduzione del chitone di lino, indumento decisamente unisex, anche in una versione corta al ginocchio (più tardi, in epoca ellenistica, si impose fra gli eleganti il chitone attillato con cintura). Vivace fu anche l’evoluzione del mantello: quello classico, di derivazione greca, era rettangolare, ma andò molto di moda anche uno semicircolare che si portava di traverso lasciando una spalla scoperta. Uno dei capi di vestiario più famosi e di più lunga vita è il tebennos. che possiamo ammirare su delle piastre di terracotta provenienti da Cere e conservate nel Louvre (VI secolo): vi è raffigurato un re seduto su una sedia curule che indossa sopra una corta tunica bianca orlata di rosso un mantello purpureo che gli lascia scoperta la spalla destra. Adottato a Roma dai sacerdoti e dai militari, il tebennos evolvette nella toga.
Nella tomba bolognese degli Ori si è trovato un tintinnabulum di bronzo su cui sono raffigurate fasi della lavorazione dei tessuti (cardatura filatura tessitura). Le fibre più usate erano la lana e il lino. Gli Etruschi amavano i colori intensi e le decorazioni, incorporate o applicate. Ai piedi sandali con suole leggere e cinghie incrociate (ce n’erano con suole di legno anche molto alte, montature metalliche e lacci dorati; altri, semplicissimi, avevano suole di legno basse, fasce a semicerchio e un cordone fra l’alluce e le altre dita). C’erano zoccoli, c’erano stivaletti del tipo che oggi diremmo alla polacca. Derivarono da calzature etrusche gli stivali indossati dai senatori romani (calcei senatorii), con linguette e corregge, che vedono in molte statue romane ma già nella statua dell’Arringatore. Le più tipiche calzature etrusche erano però quelle che i Romani chiamarono calcei repandi, babbucce curve e colorate, forse di panno, con le punte volte in su e la parte posteriore anche molto rialzata. Sta di fatto che i calzolai etruschi godevano di gran fama anche fuori del paese. I copricapi erano molto in uso in Etruria, più che in Grecia dove si andava prevalentemente a testa scoperta. Ne conosciamo alcuni: a larghe falde adatti a proteggere dalle intemperie, ad ampia tesa con la parte superiore conica (qualcosa di simile al sombrero). E poi berretti, di lana e pelle. Risale all’età arcaica il cappello conico femminile chiamato tutulus, nome un po’ impreciso, applicato anche a un berretto di lana degli auguri e a una pettinatura femminile (capelli avvolti intorno a un nastro). Per le donne tutta la gamma, in pratica, delle pettinature odierne - nodi, trecce, chignons, riccioli - e dei marchingegni per tenerle insieme (reti, spil loni e così via). Farsi i capelli biondi faceva fino.
Sempre dai Greci gli uomini presero l’abitudine della barba rasa e dei capelli corti. Chi poteva permetterselo si adornava con ogni sorta di gioielli e monili (spille, diademi, collane, pettorali, bracciali, braccialetti, anelli ciondoli). In guerra gli uomini si vestivano e armavano come quelli degli altri paesi. Le armi erano lance, giavellotti, spade lunghe e corte, sciabole ricurve, pugnali, asce (magari a doppio taglio), mazze, archi, fionde. Per proteggersi elmi e scudi di varia forma, corazze (dapprima in tela con borchie bronzee tonde o quadrate, poi interamente in bronzo), schinieri. Un periodo cruciale dell’evoluzione dell’armamento fu il VI secolo, con il passaggio dalla tecnica di combattimento di tipo eroico (corpo a corpo) a quella che implicava l’uso di masse (fanteria oplitica e cavalleria). I modelli greci allora prevalsero nettamente su quelli centroeuropei: elmo conico di tipo ionico o calcidese: scudo rotondo in lamina bronzea; schinieri di bronzo a proteggere le gambe spadoni di ferro a scimitarra. Nei secoli successivi la tecnica di combattimento della falange e della cavalleria si consolidò, e le armi si perfezionarono: si diffuse l’elmo a calotta con paranuca e paraguance, le corazze adottarono la forma anatomica e gli spallacci (bretelle), lo scudo mantenne la forma rotonda ma aumentò di dimensioni.
Quanto al carattere degli Etruschi, non possiamo non registrare le testimonianze degli antichi scrittori, tenendo però presente l’invidia che la potenza e il benessere degli Etruschi potevano suscitare e lo sconcerto suscitato da alcuni aspetti singolarmente liberi e spregiudicati del loro costume. Li si considerava, e probabilmente erano, crudeli: ma la crudeltà era di casa nel mondo antico. Certo non contribuivano a migliorare la fama degli Etruschi, sotto questo profilo, l’avere essi esercitato su larga scala e molto fruttuosamente la pirateria e fatti come quello che abbiamo riferito, la lapidazione in massa dei Focesi catturati nella battaglia di Alalia. Virgilio dice peste del re di Cere, Mesenzio, che si divertiva a legare faccia contro faccia uomini vivi a cadaveri lasciandoli morire nel fetore e nella putredine. Crudeltà insomma spinta al sadismo. Oltre che crudeli, gli Etruschi erano accusati in antico d’essere goderecci, lussuriosi, ghiottoni. Una delle fonti più citate in questo senso è Teopompo (IV secolo a.C.) - riportato da Ateneo (II-III secolo d.C.) nel suo Dipnosofisti - considerato peraltro anche anticamente una solenne malalingua. Ciò che sembra particolarmente colpirlo è la condotta delle donne, liberissima.
Avevano grande cura del corpo, sfoggiavano seminudità o nudità, bevevano a più non posso. Quanto agli uomini, erano donnaioli sfrenati e accettavano la promiscuità sessuale, non disdegnavano i ragazzetti, facevano l’amore in pubblico senza pensarci due volte, si depilavano. Il filosofo Posidonio di Apamea (II secolo a.C.) - riportato da Diodoro Siculo (I secolo d.c.) nella sua Biblioteca storica - dà un giudizio degli Etruschi un po’ più equilibrato. Anch’egli tuttavia parla di lusso eccessivo e di mollezza di costumi: si fanno imbandire due volte al giorno tavole sontuose, si fanno servire da nugoli di schiavi, alcuni bellissimi e vestiti con sconveniente eleganza. Questo infiacchimento dei costumi è secondo Teopompo imputabile alla illimitata feracità del territorio etrusco. È da Posidonio che apprendiamo l’origine etrusca della tromba (detta “tirrenica”), del fascio littorio, della sedia d’avorio, della toga con orlo purpureo, e la perizia degli Etruschi nelle scienze naturali e nella teologia. La famiglia etrusca non differiva sostanzialmente dalla romana e dalla greca (più simile semmai alla romana per l’indiscussa autorità del pater familias), tranne per la posizione delle donne. Era questo che stupiva e scandalizzava (abbiamo citato in proposito Teopompo) le altre nazioni. Si desume, l’importanza maggiore delle donne dal fatto che sempre nelle iscrizioni il loro nome è preceduto dal prenome e per tutti, maschi e femmine, si dà non solo la paternità, ma la maternità.
Certo è che le donne etrusche non stavano chiuse nel gineceo, la loro virtù non era misurata solo sulla pudicizia, sulla bravura nell’accudire alla casa e nel filare. Partecipavano a tutti gli aspetti della vita privata e pubblica (ai banchetti, ai giochi, alle cerimonie), e attivamente alle carriere dei mariti. Tito Livio racconta per esempio il ruolo che ebbe Tanaquilla, donna di nobile famiglia, nella fortuna del marito Lucumone (figlio di un greco immigrato). Lucumone divenne, niente meno, re di Roma, con il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Ma ancora dopo la morte di Tarquinio, Tanaquilla ebbe parte determinante nell’elezione a re del proprio genero, Servio Tullio. Un’altra di queste donne energiche e influenti, Urgulanilla, moglie di un certo Plauzio di cui non sappiamo nulla, frequentò la corte di Augusto sfruttando la grande amicizia con l’imperatrice Livia. Una sua nipote sposò un nipote di Livia, Claudio, un giovane infelice (miisellus lo definiva preoccupato l’imperatore), considerato più o meno l’idiota della famiglia. Questo misellus però mise a frutto i rapporti che grazie al matrimonio stabilì con l’ambiente dell’aristocrazia etrusca, ebbe accesso agli archivi di molte famiglie importanti, e divenne, oltre che imperatore, un valente etruscologo. Se ci fosse rimasta la sua storia degli Etruschi in venti libri - purtroppo andata perduta - il mondo etrusco presenterebbe per noi molti meno misteri.




 
Le classi sociali
 
Agli albori della storia di questo popolo, nel periodo Protovillanoviano (età del Bronzo) e nel successivo Villanoviano iniziale (età del Ferro), non si notano segni di una distinzione in classi all’interno della società; essa invece appare evidente nel Villanoviano evoluto, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., quando i corredi funerari cominciano a mostrare netti segni di differenziazione: aumentano gli oggetti di corredo in quantità e qualità, appaiono vasi ed ornamenti d’importazione. Qualcosa è cambiato nella società etrusca e lo si vedrà amplificato alla fine dell’VIII secolo a.C. e nel successivo, quando appare lo splendore della società Orientalizzante, con all’apice le ricche aristocrazie dalle grandi tombe a tumulo e dai sontuosi corredi, che basavano il proprio potere e prestigio sul controllo dei commerci con l’Oriente e delle attività agricole e pastorali.
La nascita di un ceto “medio” avviene nel’età Arcaica, nel VI secolo a.C., quando artigiani e mercanti iniziano a prendere coscienza delle proprie capacità, operando per proprio conto e non più per i ricchi principi. Fanno parte della stratificazione sociale anche i lautni, gli schiavi, importati come merce da paesi lontani o catturati durante le numerose battaglie per il predominio sul commercio tirrenico: a volte si rinvengono i luoghi di sepoltura di questi esponenti della classe servile, cremati e posti in recipienti di terracotta, tumulati in piccole nicchie scavate nelle strutture sepolcrali dei padroni.



 
La classe sacerdotale
  
Il ruolo della classe sacerdotale comincia a definirsi più chiaramente nella città-stato etrusca a partire dal VI sec. a.C. Attributo distintivo del sacerdote era il lituo, un bastone di piccole dimensioni e ricurvo a un' estremità, del quale si ha testimonianza fin dalla prima metà del VI sec. a.C. Si tratta di un'insegna già conosciuta dagli storici degli Annales: l'augure che accompagnò a Roma il re Numa Pompilio stringeva nella mano destra, secondo la descrizione che ne viene fatta, proprio questo "bastone". Personaggi così raffigurati si trovano di frequente in Etruria a cominciare dalla fine del VI sec. a.C., riprodotti sia in bronzetti votivi che sulle stele funerarie. Nelle lastre architettoniche della "dimora" di Murlo (SI) il lituo è un attributo distintivo del capo-signore, che evidentemente era investito - oltre che del potere politico- anche di quello religioso.
Possiamo formulare l'ipotesi che questo nuovo "ceto sociale" (sacerdotale) sia venuto fonnandosi nelle città quando il potere del "re" cominciava a sgretolarsi, come diretta emanazione quindi della classe aristocratica. Possiamo inoltre supporre che, col tempo, si sia costituita anche una gerarchia all'interno del sacerdozio. Nel III sec. a.C. compare una serie di monete che recano, sul diritto, l'immagine di una testa di aruspice (netsvis) con berretto conico (tùtulus) e, sul rovescio, la scure e il coltello, ossia gli strumenti sacrificali. I sacerdoti addetti al culto erano chiamati cepen: è probabile che fra di loro vi fosse una gerarchia dotata di cariche specifiche (spurana cepen: sacerdote pubblico). Come a Roma i sacerdoti erano depositari di varie fonne di scienza, così presumibilmente accadeva anche per quelli etruschi. Sappiamo infatti da Censorino, erudito latino del III sec. d.C., che nei Libri rituali era contenuta anche una dottrina specifica per il computo del tempo (saecula) non solo degli esseri viventi, ma anche degli stati: il massimo tempo concesso all'Etruria sarebbe stato di dieci saecula. Il numero di anni compreso in un saeculum non era fisso, ma stabilito da prodigi spesso astronomici. La ninfa Vegoia aveva profetizzato che nell'VIII secolo qualcuno, per avidità, avrebbe cercato di aumentare i propri possedimenti; tale "secolo" sembrerebbe corrispondere agli inizi del I sec. a.C.: i sacerdoti etruschi avrebbero dunque previsto la fine dell'Etruria con poco margine di errore.




 
La famiglia
         La struttura della famiglia etrusca non è dissimile da quella delle società greca e romana. Era cioè composta dalla coppia maritale, padre e madre, spesso conviventi con i figli ed i nipoti e, tale struttura è riflessa dalla dislocazione dei letti e delle eventuali camere della maggior parte delle tombe. Conosciamo alcuni gradi di parentela in lingua etrusca grazie alle iscrizioni, come papa (nonno), ati nacna (nonna), clan (figlio), sec (figlia), tusurhtir (sposi), puia (sposa), thuva (fratello) e papacs (nipote).



 
La donna
 
Merita un cenno la condizione sociale della donna che, a differenza del mondo latino e greco, godeva di una maggiore considerazione e libertà: se per i latini la donna doveva essere lanifica et domiseda, cioè seduta in casa a filare la lana, e su cui, nelle età più antiche, il pater familias (il capofamiglia) aveva il diritto di morte qualora fosse stata sorpresa a bere del vino, per gli Etruschi ella poteva partecipare persino ai banchetti conviviali, sdraiata sulla stessa kline (letto) del suo uomo, o assistere ai giochi sportivi ed agli spettacoli. Questo era scandaloso per i Romani che non esitarono a bollare questa eguaglianza come indice di licenziosità e scarsa moralità da parte delle donne etrusche: addirittura dire “etrusca” era sinonimo di “prostituta”. Ma la condizione sociale della donna nella civiltà etrusca era veramente unica nel panorama del mondo mediterraneo, e forse ciò derivava dalla diversa stirpe dei popoli, pre indoeuropei gli etruschi, indoeuropei latini e greci.
La donna poteva trasmettere il proprio cognome ai figli, soprattutto nelle classi più elevate della società. Nelle epigrafi talvolta il nome (oggi diremmo il cognome) della donna appare preceduto da un prenome (il nome personale), segno del desiderio di mostrarne l’individualità all’interno del gruppo familiare a differenza dei Romani che ne ricordavano solo il nome della gens, della stirpe. Tra i nomi propri di donna più frequenti troviamo Ati, Culni, Fasti, Larthia, Ramtha, Tanaquilla, Veilia, Velia, Velka, i cui nomi appaiono incisi sul vasellame migliore di casa od accanto alle pitture funerarie.
Le Attività
L’alimentazione
La cucina etrusca
Il vino
Fornelli, stoviglie e altri utensili per cucina
La filatura e la tessitura
Aspetti della vita, economia e tecnica
Le armi e l’abbigliamento
La medicina





L’alimentazione
 Le fonti letterarie conservateci che trattino questi soggetti risultano davvero scarse; le notizie che abbiamo ci sono infatti riportate da autori greci e latini, i quali -colpiti in modo negativo dal "lusso" dell'aristocrazia etrusca - non possono considerarsi una fonte attendibile, anche perche risultano di molto posteriori al periodo di fioritura della civiltà etrusca. Posidonio di Apamea, per esempio, racconta che gli Etruschi apparecchiavano le loro tavole "ben" due volte al giorno: del resto, anche i Greci consumavano due pasti al giorno, ma il pranzo era molto frugale. Il dato archeologico, che in genere è così importante, nel caso dell'alimentazione non è direttamente determinante; infatti, solo recentemente gli scavi degli abitati sono stati affiancati da indagini paleonutrizionali; oltre a ciò, relativamente rari risultano gli avanzi di pasto rinvenuti. Comunque utili notizie possono essere dedotte dagli utensili ritrovati negli ambienti adibiti a cucina, ma soprattutto dagli affreschi che decorano le pareti di alcune tombe, soprattutto quelli della "Tomba Golini I" di Orvieto, che mostrano immagini relative alla preparazione del banchetto.
 Da un famoso brano dello storico Tito Livio (Historiae XXXVIII, 45) sappiamo che in Etruria si coltivavano copiosissime messi (in particolare grano e farro); esse dovevano costituire l'alimento-base sulla mensa di tutti i giorni, sia sotto forma di pani e focacce, che di minestre e zuppe. Dalla citata notizia di Livio, inoltre, possiamo indurre che i bovini fossero allevati non solo per la carne, ma anche perche necessari per il lavoro dei campi, soprattutto per l'aratura. Gli avanzi di pasto rinvenuti durante gli scavi ci testimoniano, d'altra parte, la presenza sulla tavola etrusca di altri animali domestici quali ovini, caprini e suini, in proporzioni diverse a seconda del tempo o luogo in cui ci si trovasse; altra fonte di alimentazione, inoltre, era la selvaggina, come ci testimoniano gli autori antichi e alcuni famosi affreschi (la citata "Tomba Golini I" di Orvieto o la "Tomba della Caccia e della Pesca" di Tarquinia). Per quanto riguarda l'alimentazione ittica, ancora più rari risultano (dalla ricerca archeologica) gli avanzi di pasto, a causa della deperibilità degli scheletri dei pesci e del guscio dei molluschi; rimangono, comunque, come testimonianza archeologica, ami da pesca, aghi e pesi da rete. Gli Etruschi dovevano conoscere diverse varietà ittiche diffuse nel Mediterraneo, come mostrano i cosiddetti "piatti da pesce" in cui appaiono raffigurate, sulla superficie esterna, numerose specie manne.
 L’alimentazione del mondo mediterraneo antico è condizionata, ovviamente, dai prodotti che la natura offre e le condizioni climatiche simili nel mondo greco, latino ed etrusco, hanno generato una dieta ed una cucina per molti versi assai simili tra loro. Per l’età preistorica si hanno dati scientificamente molto interessanti per il villaggio del Gran Carro di Bolsena, scoperto sotto le acque del bacino lacustre e databile attorno al IX secolo a.C, nella fase di passaggio dunque tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro.
Il setacciamento dei fanghi che ricoprivano le antiche strutture, eseguito nel 1974, portò alla luce una rilevante quantità di noccioli di frutta selvatica tra cui corniolo (Cornus mas), prugna selvatica (Prunus spinosa) e prugna damascena (Prunus insititia), nocciolo (Corylus avellana) e ghiande (Quercus sp.), ed anche vite (Vitis vinifera) che presto, grazie alle conoscenze trasmesse dai navigatori provenienti dall’Egeo, sarebbe stata trasformata in vino e non consumata solo come frutta. Tra i cereali sono presenti cariossidi di farro (Triticum dicoccum), tra i legumi resti di fave (Vicia faba). I cereali ed i legumi potevano essere consumati abbrustoliti o macinati per farne frittelle e minestre; la frutta poteva essere consumata fresca o fermentata in bevande a scarso tenore alcolico. Tra i resti faunistici (scavi 1980) ricordiamo la presenza di numerose specie domestiche (68 % del totale dei resti ossei rinvenuti) e selvatiche (32 %). Sono stati segnalati resti di caprovini, suini, bovini, equini, cani; tra i selvatici cervo, cinghiale, capriolo ed orso bruno.
I dati disponibili dagli scavi condotti dall’Istituto Svedese di Roma a San Giovenale (Blera) abbracciano un arco cronologico molto ampio che va dall’età del Bronzo all’età romana: essi rivelano come attraverso i secoli il principale alimento siano stati i suini, gli ovini ed i bovini, talvolta integrati da esemplari cacciati come il cervo, il capriolo e la lepre. Se cerchiamo analogie con il mondo romano di cui si possiedono numerose notizie in più rispetto all’etrusco, apprendiamo che si tendeva al consumo soprattutto di suini, mentre i caprovini erano destinati alla produzione di latte e lana, i bovini al lavoro nei campi. La carne era arrostita su lunghi spiedi (in greco obeloi) che, in epoche premonetali, cioè quando ancora non si usavano monete e si ricorreva allo scambio di prodotti e di metalli a peso, costituivano nel Mediterraneo un elemento di scambi assai frequente. Ma poteva essere anche bollita in grandi calderoni da cui veniva estratta con uncini.
 A San Giovenale sono stati rinvenuti fornelli e pentole di terracotta che testimoniano la quotidiana vita dell’abitato: molti dei materiali archeologici provenienti soprattutto dagli abitati arcaici della Tuscia (San Giovenale ed Acquarossa) sono esposti in un'interessantissima mostra permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Viterbo (Rocca Albornoz). Lo scavo di un insediamento agricolo etrusco del IV - III secolo a.C. condotto dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a Blera in località Le Pozze (scavi 1986-87), ha permesso il rinvenimento di 570 semi e noccioli di frutta, tra cui segnaliamo corniolo, nocciolo, ghiande di quercia, olivo (Olea europaea), vite, fico (Ficus carica), pero (Pyrus sp.) ed orzo (Hordeum sp.). Tra i resti di animali, presenti i suini, la capra, i bovini, le galline. Indagini paleonutrizionali, cioè sulle modalità alimentari del passato, condotte sulla popolazione etrusca, hanno rivelato che dal VII secolo a.C. all’età romana l’economia alimentare sia rimasta a base agricola; un consumo maggiore di carne e latticini, rilevabile dall’aumento di Zinco nelle ossa, si ha nell’età arcaica (VI secolo a.C.-inizio V secolo a.C.): con il passaggio all’età classica ed all’ellenistica si nota una graduale diminuizione del consumo di prodotti di origine animale, forse conseguenza di quella forte crisi economica che avrà il suo inizio nel V secolo a.C. e che si protrarrà con la conquista romana.




La cucina etrusca
 
Le raffigurazioni pittoriche della tomba Golini I di Orvieto (l'antica Volsinii) databili alla seconda metà del IV secolo a.C., ci offrono una visione interessante delle attività di cucina di un'importante famiglia dell'aristocrazia: sulle pareti sono rappresentati i servi che fanno a pezzi la carne con una piccola ascia, altri che preparano i cibi sotto lo sguardo attento di una donna: preparano focacce, cuociono le cibarie nel forno, mesciono le bevande nelle brocche. Nelle altre pareti appaiono i loro padroni, seduti o sdraiati sulle klinai, i letti tricliniari del banchetto, in compagnia delle proprie donne dalle ricche vesti, illuminati da alti candelieri di bronzo lucente, serviti da schiavi nudi ed allietati da suonatori di lira e tibicines (flauti doppi).
 Ma cosa si mangiava nell'antica Etruria? Oltre alla frutta e verdura di cui abbiamo fatto cenno, quali erano le pietanze, i cibi preparati ? Nei tempi più antichi erano frequenti le minestre di cereali e legumi, come le gustose zuppe di verdura: ne è un ricordo eccezionale l'acquacotta, uno dei piatti della tradizione culinaria viterbese. Le sfarinate di cereali erano utilizzate per fare frittelle e focacce. La carne era bollita ed arrostita: sono frequenti nei corredi delle tombe gli alari, gli spiedi e le pinze per maneggiare i tizzoni di brace. Condimento ideale per ogni cibo era l'olio d'oliva, di qualità eccellente, esportato in tutto il Mediterraneo come testimonia il rinvenimento di anfore etrusche: anche oggi la qualità dell’olio viterbese lo denota come prodotto tipico, così come il vino. La mancanza di una letteratura specifica non ci aiuta nella conoscenza di ricette e preparazioni tipiche, lontane dalla raffinata e forse confusionaria cucina d’età romana: ma non è difficile immaginare che i piatti più tipici della tradizione gastronomica toscana e viterbese, così legati alla sana e semplice cultura contadina, siano il perpetuarsi della cucina etrusca.




 Il vino
 
Già nel VII secolo a.C. la vite e l'olivo erano coltivati intensivamente in Etruria ma, per quest'ultimo, la produzione non fu mai considerata importante dagli autori antichi; del vino etrusco, invece (anche se in senso talvolta negativo), scrivono sia Orazio che Marziale. Il vino bevuto nell'antichità era molto diverso da quello d'oggi: denso, fortemente aromatico, ad elevata gradazione alcolica. Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il liquido veniva lasciato riposare, schiumato per circa sei mesi e a primavera, infine, poteva essere filtrato e versato nelle anfore da trasporto. Il liquido così ottenuto non veniva bevuto schietto ma mescolato, all'interno di crateri, con acqua e miele, e travasato nelle coppe dei cornrnensali, servendosi di attingitoi e sìmpula. Sulla mensa, il vino era contenuto in brocche e vasi a doppia ansa (stàmnoi), mentre per l'acqua si utilizzavano spesso piccoli secchi, denominati sìtule.
 Non potevano mancare, in una cucina ben attrezzata, i colini. Questi instrumenta sono presenti in tutta l'area mediterranea, dall'Egeo alla Gallia Meridionale, a iniziare dal VI secolo a.C. fino all'età romana imperiale. Gli esemplari più antichi (II millennio a.C.) sono stati trovati in Grecia, nell' isola cicladica di Santorino, realizzati in terracotta. Potevano essere ottenuti anche in altro materiale (argento, bronzo, rame, ceramica) e diverse risultano le varianti della forma a seconda dell'uso. Alcuni colini appaiono provvisti di un imbuto (nome latino infundìbulum), collegato al colino stesso, altri ne sono privi, altri infine si denotano semplicemente per un "bulbo" ricavato al centro della vasca. Alcuni di essi rivelano, sul lato opposto al manico, un sostegno rettangolare orizzontale destinato a reggere il colino stesso sull'imboccatura del vaso in cui veniva versato il liquido; in un secondo momento, il colum poteva essere lasciato appeso all'orlo del recipiente, pure tramite questa sorta di gancio. I colini provvisti di imbuto venivano usati per filtrare il vino e altri liquidi in tipi di recipiente contraddistinti da strette imboccature.





Fornelli, stoviglie e altri utensili per cucina
 
Gli Etruschi, di solito, non avevano, all'interno delle loro abitazioni, un vano adibito a cucina quale lo intendiamo oggi; spesso si cuoceva all'aperto, ma comunque esistevano sistemi di cottura che utilizzavano dei particolari "fornelli". Ne esistono sostanzialmente di tre tipi, provvisti ognuno di relative varianti: il tipo più antico è di forma cilindrica e munito sulla superficie superiore di una piastra forata e, sulla parte inferiore, di un' apertura per l'alimentazione del fuoco; verso la fine del VII sec. a.C. compare un secondo fornello semicilindrico, a forma di ferro d cavallo, con tre parti sporgenti verso l'interno per sostenere la pentola; c’è infine un ultimo modello, simile a una piccola botte aperta per appoggiarvi il recipiente per la cottura e, in quella inferiore, per il carico del combustibile.
 Il secondo tipo era già conosciuto nella Magna Grecia e doveva risultare migliore del primo modello, in quanto permetteva una cottura più veloce. In diverse zone dell'Etruria, per esempio a Poggio Civitate, Murlo (SI), sono state trovate specie di campane di terracotta provviste di un 'ansa alla sommità, sotto le quali venivano posti i cibi da cuocere; intorno veniva messa la brace per consentire la cottura, simile dunque a quella sub testo dei Romani. Altri utensili per cuocere i cibi sono gli spiedi (in greco obelòi), usati per arrostire la carne. Li troviamo talvolta conservati nelle tombe, forgiati in bronzo o ferro, lunghi anche 1 m e associati a graffioni. Quest’ultimo tipo di strumento ha più volte attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno tentato di definirne l'uso. Prevalgono oggi due interpretazioni: la prima tende a identificare questo oggetto con un porta-fiaccole, i cui rebbi sarebbero stati destinati a sostenere materiale combustibile; la seconda, avvalorata anche da fonti letterarie (strumenti simili sono infatti descritti, con tale uso, dalle testimonianze romane, contraddistinti dal nome latinizzato di hàrpago), lo considera un utensile domestico, anzi culinario, usato per infilzare e cuocere pezzi di carne, recuperarli dai calderoni e togliere pietanze "dal fuoco". Nel medioevo, per es., si usavano uncini per impedire che i cibi in cottura venissero a galla.
Tra gli instrumenta domestica vanno anche annoverate le "teglie" (simili nella forma alle odierne padelle), alcune del tipo monoansato, in bronzo. Si tratta di utensili domestici adibiti a contenere i cibi in fase di cottura e chiamati anche pàtere o bacinelle, di cui esistono diverse varianti a seconda del modo in cui risultino forgiati orlo e ansa. La medesima classe di recipiente si trova replicata, nel corso del III secolo a.C., nella cosiddetta "Ceramica a Vernice Nera" di produzione volterrana, che ispira le sue fonne a prototipi di vasi in metallo, ottenendo così contenitori a un costo inferiore di quello raggiunto dagli originali.  Un altro oggetto d'uso domestico che compare tra le suppellettili da cucina è la grattugia, in genere ricavata in bronzo, ma talvolta anche in metallo pregiato. Il termine latino ràdula è usato da Columella (De re rust. XII, 15,5) per un oggetto che doveva servire a raschiare la vecchia pegola dai vasi, prima di spalmarvela nuovamente. Non siamo certi, tuttavia, che si tratti del medesimo oggetto, in quanto Columella non lo descrive. Omero già la menziona (Iliade XI, 638), usata per grattugiare il fonnaggio; era infatti usata per fare il kykèion, bevanda composta da vino forte, orzo, miele e fonnaggio grattugiato, bevuta dagli eroi omerici. Non sappiamo se anche gli Etruschi avessero una bevanda simile.




 
La filatura e la tessitura
 
A parte la preparazione e la cottura dei cibi, le attività domestiche peculiari della donna etrusca (anche di elevato ceto sociale) erano la filatura e la tessitura della lana e delle fibre vegetali (lino). Già in epoca villanoviana, i corredi delle tombe femminili contengono frequentemente rocchetti e fuseruole di ceramica e, talvolta, fusi di bronzo. L'attività della tessitura, del resto, è documentata negli scavi degli abitati da numerosi pesi da telaio, di norma realizzati in terracotta in forma troncopiramidale, oppure costituiti da semplici ciottoli (il telaio vero e proprio era invece interamente di legno). Alcune antiche scene figurate, per esempio sul tintinnàbulo di bronzo di Bologna (VII sec. a.C.), riproducono le diverse fasi di lavorazione delle fibre tessili, in particolare della lana. Dopo essere stata cardata, cioè pulita e pettinata, quest'ultima veniva attorcigliata in fili grezzi e poi filata con il fuso (in legno, osso o bronzo); il filo così ottenuto, avvolto sui rocchetti, era quindi utilizzato per la tessitura, eseguita per lo più mediante telai verticali, nei quali i fili erano tenuti in tensione, a gruppi, dagli appositi pesi.




 
Aspetti della vita, economia e tecnica
 
La ricostruzione della vita che si svolgeva nelle case dei ricchi non presenta eccessive difficoltà. Si è già accennato alla posizione della donna che partecipa ai conviti e alle feste con perfetta parità di fronte all'uomo. In età arcaica le donne e gli uomini banchettano distesi sullo stesso letto: ed è probabilmente a questa usanza che risale l'affermazione di Aristotele (in Ateneo, 1,23 d) che “gli Etruschi mangiano insieme con le donne giacendo sotto lo stesso manto”. Si è anche supposto che Aristotele si riferisca ad una falsa interpretazione di alcuni sarcofagi sui quali appaiono i due coniugi giacenti sotto un manto simbolo di nozze. La cerimonia nuziale presso gli Etruschi comprendeva infatti il rito (conservato tuttora dagli Ebrei) della copertura degli sposi con un velo: come attesta il rilievo, di non dubbia interpretazione, di una umetta di Chiusi. Ma è possibile che l'uso del velo esistesse in realtà anche per i letti conviviali. Si presume comunque che i Greci, per un atteggiamento di incomprensione e di ostilità verso gli Etruschi forse risalente ad antiche rivalità politiche, trovassero argomento di scandalo nella libertà formale della donna etrusca, così diversa dalla segregazione della donna greca almeno nel periodo classico: e fosse quindi facile e quasi naturale attribuire alle etrusche i caratteri e il comportamento delle etère, le sole donne che ad Atene partecipassero ai banchetti con gli uomini. Nascevano così e si diffondevano - con quella facilità nell'accettare e ripetere notizie anche incontrollate specialmente sui costumi dei "barbari", quasi come motivi letterari, che è propria del mondo classico - le dicerie sulla scostumatezza degli Etruschi, sulle quali insiste Ateneo (IV, 153 d; VII, 516 sgg.) e di cui si fa eco perfino Plauto (Cistellaria, Il, 3, 20 sgg.). A partire dal V-IV secolo le donne etrusche non partecipano più ai conviti distese sopra il letto come gli uomini, ma sedute, secondo l'usanza che resterà poi stabilmente diffusa nel mondo romano. Raffigurazioni di banchetti con più letti (generalmente tre, donde il romano triclinio), come quelle delle tombe tarquiniesi dei Leopardi o del Triclinio, ci presentano quadri pieni di naturalezza e di gioiosa semplicità. Non mancano cqnviti all'uso greco, con la presenza di soli uomini, culminanti anche in orge piuttosto sfrenate, con abbondanti libazioni e balli (tomba delle Iscrizioni a Tarquinia). I banchetti solenni, come del resto anche altre feste (giuochi, funerali, ecc.), sono regolarmente accompagnati dalla musica e dalla danza. Le pitture della tomba Golini di Orvieto ci portano anche nell 'interno delle cucine dove si preparano i cibi per il banchetto, anche con la presenza del suono forse magico-propiziatorio di un suonatore di doppio flauto.
Una notevole serie di rappresentazioni si riferisce a giochi e a spettacoli (tombe tarquiniesi degli Auguri, delle Olimpiadi, delle Bighe, del Letto Funebre, ecc., tombe dipinte e rilievi di Chiusi). È evidente che l'influsso ellenico domina su questo aspetto della vita etrusca; ma si ha l'impressione che il carattere agonistico e professionale dei giuochi e delle gare greche tenda a trasformarsi nel mondo etrusco in un divertimento spettacolare. Niente è più suggestivo ed interessante, a questo proposito, del piccolo fregio della tomba delle Bighe a Tarquinia, nel quale il pittore ha immaginato un grande campo sportivo o circo, visto spaccato secondo i due assi lungo e corto, con l'arena e le tribune lignee sulle quali trovano posto gli spettatori; nell'arena sono corridori con le bighe, cavalieri, coppie di lottatori e pugilatori, un saltatore semplice e con l'asta, un corridore armato (oplitodromo), giudici di gara ed altri personaggi vari; sulle tribune spettatori dei due sessi s'interessano nel modo più vivace all'esito delle gare, come mostra chiaramente la loro mimica concitata. Non è escluso che ad agoni sportivi partecipassero anche i membri delle famiglie più illustri. Va ricordato a tal proposito il gioco etrusco della Truia (ludus Troiae), che consisteva in una gara di corsa a cavallo lungo una pista intricata in forma di labirinto: esso è riprodotto nel graffito di un vaso etrusco arcaico e sappiamo che era ancora in uso al principio dell'impero come esercizio della gioventù romana. A gare equestri partecipavano assai probabilmente i giovani membri della stessa nobile famiglia proprietaria della tomba tarquiniese delle Iscrizioni. Il rapporto dei giochi agonistici con il mondo funerario è documentato, oltre che dall'evidenza delle tombe, dal passo di Erodoto (I, 167) relativo alle cerimonie espiatorie compiute dai Ceretani per il massacro dei prigionieri focei.
 Accanto agli spettacoli di natura agonistica debbono esser ricordati anche quelli mimici, musicali, acrobatici e farseschi che erano specificamente attribuiti ad attori etruschi ricordati con il nome di histriones o ludiones (la forma etrusca corrispondente sarebbe tanasa(r), fhanasa) e che furono introdotti a Roma dall'Etruria nel 364 a.C. come «ludi scenici» (Livio, VII, 2-3). Di fatto esistono non poche testimonianze figurate di pitture, vasi dipinti. bronzetti, che raffigurano personaggi in costumi particolari, talvolta mascherati, che partecipano a vere e proprie rappresentazioni: le quali sembrano essere per altro di carattere assai vario, dall'esibizione popolaresca di saltimbanchi ed equilibristi (come nelle tombe dei Giocolieri di Tarquinia e della Scimmia di Chiusi), a qualcosa che può ricordare il dramma satiresco e porsi al limite di un'azione drammatica (ben diversa in ogni caso dal genere della tragedia di imitazione greca, senza dubbi tardivo, di cui si è già fatto cenno). Va poi ricordato un genere di giochi più cruento, nel quale è forse da riconoscere un'anticipazione dei combattimenti gladiatorii, che del resto la tradizione antica considerava di origine etrusca (Ateneo, IV, 153) e comunque provengono in Roma dalla Campania anticamente etruschizzata. Può darsi che i giochi in questione nascano dall'uso funerario, come attenuazione dei sacrifici umani che in molte civiltà primitive accompagnano la morte di principi o di personaggi illustri; giacche nella lotta cruenta è lasciata al più forte o al più abile dei contendenti la possibilità di scampare alla propria sorte. Un combattimento di tal genere sembra rappresentato nella tomba degli Auguri di Tarquinia: un personaggio mascherato e barbato, designato con il nome fhersu (corrispondente al latino persona, da maschera»), con un cappuccio, un giubbetto maculato ed un feroce cane al guinzaglio, assale un avversario seminudo e con il capo avvolto in un sacco e armato di una clava.
Quest'ultimo è presumibilmente un condannato che lotta in condizioni di inferiorità; ma è anche possibile che egli riesca a colpire il cane con la clava e abbia quindi alla sua mercè l'assalitore. Sulla natura e sulla funzione del personaggio con cappuccio, barba e giubbetto maculato - sicuramente un essere umano e non un dèmone come si credette in passato - esistono tuttavia notevoli incertezze dal momento che egli ritorna più volte altrove in figurazioni pittoriche (tombe del Pulcinella, delle Olimpiadi, del Gallo, forse della Scimmia: un nano o un bambino) in atteggiamenti o in contesti che nulla hanno a che vedere con la gara mortale della tomba degli Auguri. Sembra veramente che si tratti piuttosto di una caratterizzazione generica, e che possa addirittura parlarsi della più antica «maschera» della storia dello spettacolo italiano. Passando ora a considerare i problemi della vita economica e produttiva dell'Etruria antica, diremo che è da supporre che in origine le risorse degli abitanti del paese fossero di natura prevalentemente agricola e pastorale (a parte, ovviamente, la raccolta, la caccia e la pesca); ma presto esse dovettero esser rivoluzionate, almeno in alcune zone, dallo sfruttamento delle ricchezze minerarie, ed ulteriormente integrate dall'attività dei traffici terrestri e marittimi.
Un quadro sufficientemente esatto della produzione etrusca nell'ultima fase della storia della nazione ci è offerto dal noto passo di Livio (XXVIII, 45) sui contributi offerti a Roma dalle principali città etrusche annesse o federate per l'impresa oltremarina di Scipione l'Africano durante la seconda guerra punica. Ecco l'elenco delle prestazioni fatte secondo le principali risorse di ciascun distretto in materie prime e prodotti:
Caere       grano ed altri viveri
Tarquinia   tela per le vele delle navi
Roselle      legname per la costruzione delle navi e grano Populonia ferro
Chiusi        legname e grano Perugia legname e grano
Arezzo       armi varie in grande quantità, utensili e grano
Volterra     scafi di navi e grano
 Vediamo definirsi chiaramente nelle zone meridionali e centrali i di- stretti agricoli (Caere, Roselle, Chiusi, Perugia, Arezzo, Volterra), alcuni dei quali avvantaggiati anche dallo sfruttamento dei residui grandi boschi, mentre Populonia appare esplicitamente indicata come centro siderurgico ed Arezzo come città industriale. La zona mineraria etrusca abbraccia prevalentemente i territori di Vetulonia (con le colline metallifere) e di Populonia (con l'isola d'Elba); ma ad essa dobbiamo aggiungere anche il massiccio dei Monti della Tolfa, dove si hanno tracce di antiche miniere non più sfruttate. L 'estrazione dei metalli (rame, ferro, in minor grado piombo e argento) da questi territori risale forse anche in parte alla preistoria, ma fu praticata sistematicamente a partire dall'inizio dell'età del ferro. La sua importanza per la storia dell'Etruria arcaica è grandissima e in un certo senso determinante, come già sappiamo. Alla valorizzazione di queste ricchezze naturali si ricollega presumibilmente lo sviluppo stesso delle città tirreniche; mentre la minaccia e la pressione continua dei Greci sulle coste dell'Etruria è un segno dell'importanza che si annetteva al possesso, all'influenza o soltanto alla vicinanza delle zone minerarie. Non ci sono noti gli aspetti tecnici dell'estrazione e della prima lavorazione dei minerali, se non da pochi indizi di natura archeologica - quali gallerie scavate in alcune località delle colline metallifere e strumenti in esse rinvenute, forni, scorie della fusione del ferro nella zona di Populonia - e da poche notizie antiche, dalle quali ricaviamo ad esempio che Populonia era il primo centro di fusione del metallo grezzo estratto dalle miniere dell'Elba e luogo del suo smistamento e diffusione, ma probabilmente non di lavorazione ulteriore.
La produzione etrusca è in gran parte influenzata della ricchezza di metalli del territorio: ce ne accorgiamo dalle armi, dagli strumenti, dalle suppellettili di bronzo e di ferro che abbondano nelle tombe. Soprattutto notevoli sono le opere di metallotecnica artistica trovate a Vetulonia, a Vulci, a Bisenzio, nei dintorni di Perugia, a Cortona; la fonte di Livio già ricordata designa inoltre Arezzo (da cui proviene la famosa Chimera). Il ferro e il bronzo etrusco erano anche lavorati in Campania, donde probabilmente minerale grezzo e prodotti si diffondevano verso il mondo greco (Diodoro Siculo, v, 13). In Grecia erano rinomate le trombe etrusche di bronzo; un frammento di tripode del tipo di Vulci si rinvenne sull'acropoli di Atenen. Non debbono essere trascurati altri aspetti della produzione artigianale ed industriale, come la tessitura e la lavorazione del cuoio, specialmente per le calzature che erano note e certo largamente esportate nel mondo mediterraneo (Polluce, VII, 22, 86). La produzione corrente di stoffe, oggetti lignei, ceramiche (e soltanto di queste ultime ci resta nel nostro clima la totalità delle testimonianze, come già detto) fu inizialmente limitata ad un circuito familiare o di villaggio. Gli scambi si estesero con il progresso del lavoro artigianale specializzato e con la conseguente necessità di reciproche acquisizioni tra ambienti e centri diversi. Si passò quindi ai commerci esterni, terrestri e soprattutto marittimi, favoriti dalla domanda di oggetti di lusso e di prestigio e dall'offerta delle maggiori fonti di potenzialità economica, cioè dei metalli nell'ambito di una società aristocratica. Ma nel periodo aureo dei grandi traffici internazionali, cioè in età arcaica, la massa degli scambi avveniva, come già in precedenza accennato, essenzialmente per baratto di merci. Pezzi di rame grezzo (aes rude) e poi contrassegnato (aes signatum), come anche oggetti o spezzoni di oggetti lavorati, specialmente asce, poterono costituirsi quali intermediari di scambio; si aggiunga l'argento pesato secondo un piede ponderale originario del Mediterraneo orientale (detto, impropriamente, «piede persiano», di circa grammi 5,70), che rimarrà poi tipico del sistema ponderale delle monete etrusche.
La coniazione di monete, che nel mondo greco risale al VII secolo, resterà fondamentalmente estranea alla concezione dell'economia etrusca: ciò che può considerarsi, se si vuole, un altro segno di primitivismo o di arcaismo. Di fatto le monete greche circolarono precocemente, insieme con gli altri più rozzi strumenti di scambio locali; e di esse si ebbe qualche imitazione, in oro (dubitativamente) e argento, in età arcaica. Ma di una vera e propria monetazione etrusca d'argento e d'oro non si può parlare se non a partire dalla metà del V secolo (cioè nell'età della relativa recessione economica) specialmente a Populonia, sotto l'influenza della monetazione greca dell'Italia meridionale e seguendo i sistemi ponderali etrusco e calcidese. Di fatto è la zona mineraria che sembra comporre in Etruria la moneta, per comprensibili ragioni di accelerazione e moltiplicazione di scambio. Soltanto più tardi, e non prima dell'affermarsi dell'egemonia romana alla fine del IV secolo, appariranno monete di bronzo fuse (aes grave) e coniate.
Sappiamo che gli Etruschi avevano una tecnica progredita nel campo della ricerca, dello sfruttamento, del convogliamento delle acque. La ricerca delle acque era fatta dagli aquilices: specie di rabdomanti. Plinio (Nat. Hist. ,III, 20, 120) parla dei canali scavati dagli Etruschi nel basso Po: ed effettivamente in diverse zone dell'Etruria tirrenica si riscontrano sistemi di cunicoli di drenaggio che risalgono all'età preromana e dimostrano un'intensa applicazione di opere idrauliche a scopo di bonifica e di irrigazione. La vita nelle zone paludose della maremma e del basso Po non si spiegherebbe d'altro canto se fosse già stata diffusa, durante il periodo aureo della civiltà etrusca, l'infezione malarica: la quale dovette appunto cooperare, durante la tarda età ellenistica, ad affrettare la decadenza di molte città etrusche costiere. Al denso manto boschivo che copriva tanta parte dell'Etruria si suppone dovuto lo sviluppo di una tecnica che abbiamo ragione di ritenere caratteristica del mondo etrusco (anche se le fonti letterarie sono meno esplicite che per altre peculiarità): vogliamo dire l'arte della lavorazione del legno per la grande carpenteria architettonica e per l'ingegneria navale. Anche a questo proposito sarebbe errato trascurare i precedenti orientali e greci. Ma la facilità della materia prima deve pure aver avuto la sua importanza. In ogni caso le tombe scavate nella roccia ad imitazione di interni di case, specialmente quelle della necropoli di Cerveteri, suggeriscono le più varie e ardite soluzioni nell'impiego del legno per le costruzioni, soppiantato solo tardivamente dalla pietra. Va però tenuto conto della diffusione dei mattoni crudi nell'alzato delle pareti, in concomitanza con gli elementi lignei dei pilastri, delle porte e delle coperture. Un altro impiego fondamentale del legno è per le navi, da guerra ed onerarie, che costituirono lo strumento della potenza commerciale e politica etrusca, e che appaiono rappresentate in un grande numero di figurazioni di ogni età. Significativo, a proposito della tecnica costruttiva, è il ricordo degli scafi (interamenta) forniti da Volterra a Scipione come già si è visto, evidentemente fabbricati in uno degli scali marittimi volterrani. Per le forme evidentemente, come desumiamo dalle immagini, non ci si dovette scostare dai modelli greci; leggendaria è la notizia dell'invenzione dei rostri da parte di un Piseo figlio di Tirreno (Plinio, Nat. Hist.. VII, 56, 209); ma è curioso, ed unico nel suo genere, il modello di nave con prora a testa di pesce dalle cui fauci fuoriesce una lancia.




 
Le armi e l’abbigliamento
 
Immagini di guerrieri singoli e scene di parate, duelli e battaglie sono frequentissime nei vasi e nei rilievi dell'Etruria arcaica. Insieme con le armi reali superstiti essi costituiscono una vasta documentazione della guerra e dell'armamento. Sull'arte etrusca della guerra assai poco si rileva dalla tradizione, che tuttavia suggerisce che l'organizzazione militare primitiva. dei Romani debba molto all'Etruria. Ma anche per questa materia - soprattutto ove si considerino le testimonianze figurate - l'influenza della tattica e dell'armamento dei Greci sembra essersi affermata in modo dominante soprattutto per quel che riguarda la presenza della fanteria oplitica, cioè dei guerrieri con armi pesanti, che costituì verisimilmente il nerbo dello stato cittadino arcaico. In origine si combatteva sui carri, forse più a lungo che in Grecia, se non c'inganna il carattere mitologico di molte figurazioni; comunque già a partire dal VII secolo appare operante la cavalleria. Tutto ciò premesso, non può trascurarsi l'esistenza di fenomeni che ricollegano il mondo etrusco specialmente nella sua fase più antica a tipi di armamenti presenti piuttosto nell'area europeo- continentale che in Grecia.
Armi offensive sono l'asta pesante con la punta e il saurocter di bronzo o di ferro, l'asta leggera o giavellotto, la spada lunga - il cui uso sembra cessare già in epoca arcaica, e che è soltanto una sopravvivenza dell'armamento della tarda età del bronzo - , la spada corta o gladio, la sciabola ricurva (machaira) in uso a partire dal VI secolo, il pugnale, l'ascia che in epoca antichissima è a due lame e, come già si è accennato, appartiene forse all'armamento dei capi. Armi difensive sono l'elmo di bronzo, lo scudo, la corazza, gli schinieri. Gli elmi primitivi hanno una forma ad apice o a calotta sormontata da cresta, o a semplice calotta, o con apice a bottone; assai per tempo si diffondono gli elmi di tipo greco corinzio. Ma la forma classica di elmo etrusco di bronzo è una sorta di morione talvolta sormontato da penne, di cui molti esemplari si sono rinvenuti nelle tombe etrusche (tipico uno degli elmi apparsi tra gli oggetti votivi del santuario ellenico di Olimpia, con l'iscrizione dedicatoria a Zeus del tiranno di Siracusa Gerone che li dedicò come bottino di guerra dopo la vittoria navale dei Greci sugli Etruschi presso Cuma nel 474 a.C.); con il termine moderno di elmo tipo Negau lo si incontra, con varianti, diffuso largamente anche nell'Italia adriatica e settentrionale e nell'area alpina e slovena. Le corazze erano in origine di tela, con borchie rotonde o quadrangolari di metallo laminato; ma poi furono lavorate interamente di bronzo, del tipo ad elementi staccati o tutte di un pezzo riproducenti a sbalzo la muscolatura del tronco virile. Scudi rotondi di bronzo appaiono così in epoca arcaica come nel periodo più recente; ma alcune figurazioni ci rivelano anche forme di scudi ellittici o tendenti al quadrato, probabilmente di legno o di cuoio. Un cenno va fatto ai bastoni offensivi e difensivi, nei quali è forse da vedere un ricordo delle antiche clave usate nelle culture primitive: di essi appare qualche testimonianza nei monumenti arcaici, mentre il tipo del bastone ricurvo all'estremità, detto lituo, tende successivamente a diventare in modo sempre più esclusivo un'insegna sacerdotale, e come tale passa al mondo romano.  
Per quel che riguarda l'abbigliamento maschile e femminile e le acconciature, in mancanza di materiale direttamente conservato, dobbiamo servirci essenzialmente dei monumenti figurati, del resto abbondanti e ricchi di particolari. Naturalmente il clima influisce sul vestiario non meno delle tradizioni locali; ma la moda dei prototipi diffusi dal mondo greco ebbe anche in questo campo un'azione determinante. La consuetudine prettamente mediterranea della seminudità maschile è ancora viva nell'Etruria arcaica; le piccole figurazioni plastiche del periodo villanoviano ci mostrano anzi addirittura numerosi esempi di nudità completa maschile e femminile, ma non sappiamo fino a che punto essa risponda alla realtà della vita quotidiana (nell'arte essa è assai meno frequente che in Grecia).
 Comunque ancora in piena civiltà del VI e V secolo gli uomini, specie nell'intimità domestica, andavano a torso nudo; e quest'uso tradizionale si riflette nel costume "eroico" del defunto banchettante delle figure scolpite sui coperchi dei sarcofagi e delle urne di età ellenistica. Completamente nudi appaiono soltanto servi ed atleti, ma neppur sempre. Un ampliamento dell'originario perizoma bordato che copriva i fianchi è costituito dal giubbettino che riveste anche il petto, ed è di moda negli ultimi anni del VI secolo. Ad esso poi si sostituirà la tunica, imitata dal chitone dei Greci. Ma il secondo elemento tipico del costume maschile è il manto di stoffa più pesante e colorata, già diffuso in epoca arcaica. Con l'accrescersi dell'entità del vestiario il manto acquisterà un 'importanza sempre maggiore, fino ad aumentare di ampiezza e ad arricchirsi di decorazioni dipinte o ricamate, diventando la veste nazionale degli Etruschi, la tèbennos, dalla quale discende in via diretta la toga romana. Le donne e le persone anziane vestono fin dai tempi arcaici una tunica in forma di camicia lunga fino ai piedi di stoffa leggera pieghettata o decorata sui bordi, alla quale si sovrappone il manto dipinto di stoffa più pesante. È da notare, per un periodo che va dalla fine del VII al principio del V secolo, l'uso di stoffe con un disegno a rete che si suppone lavorato a ricamo e che s'incontra sui monumenti così nelle tuniche (statuetta di Caere al Campidoglio, vasi cinerari chiusini) come nei mantelli (situla della Certosa).
Fin dall'epoca più antica si osservano una cura ed un interesse particolare degli Etruschi per le calzature. Le tombe arcaiche di Bisenzio hanno restituito sandali in forma di zoccolo ligneo snodato con rinforzi di bronzo. I calzari potevano essere di cuoio e di stoffa ricamata. La forma tipica in uso nel VI secolo è quella allungata in alto dietro il polpaccio e con punta rialzata davanti, cioè i così detti calcei repandi di origine greco-orientale, dei quali alcune caratteristi- che sopravvivono ancora nelle ciocie dei montanari dell'Italia centrale. Anche più tardi, accanto ai sandali bassi, sono in uso gli alti stivaletti: queste diverse fogge passano, quasi senza mutamenti, al costume romano.
Sul capo era portato nel VI secolo un tipo di berretto o sacchetto a cupola di stoffa ricamata, comune così agli uomini come alle donne, e con diverse varianti, il così detto tutulus, anch'esso di origine orientale, ionica, ma divenuto caratteristico del costume etrusco; Altre forme di copricapi sono il berretto a punta rigida o a cappuccio di alcuni speciali personaggi (ad esempio il già citato persu della tomba degli Auguri), sacerdoti e divinità; il berretto di lana o di pelle con base larga e punta cilindrica portato dagli aruspici ed attestato in diversi monumenti; e infine il cappello a larghe falde alla greca (pètasos) che sembra particolarmente diffuso nell'Etruria settentrionale (figure di terracotta della decorazione architettonica di Poggio Civitate di Murlo, flautista della tomba della Scimmia di Chiusi), come del resto nell'Italia del nord (arte delle situle). Ma generalmente così gli uomini come le donne andavano a capo scoperto; e questa è l'usanza che diviene predominante a partire dal V secolo.
Dapprima gli uomini sono barbati e portano i capelli lunghi spioventi sulle spalle; ma già dalla fine del VI secolo i giovani vanno rasi e con i capelli corti, secondo la moda greca. La barba scompare quasi del tutto a partire dal III secolo a.C. (e non tornerà di moda in Italia se non quattrocento anni più tardi, ai tempi dell'imperatore Adriano). Le donne nei tempi più antichi (VIII-VI secolo) recano i capelli lunghi pioventi a coda annodati o intrecciati dietro le spalle: successivamente li lasciano cadere a boccoli sulle spalle e infine (VI-V secolo) li annodano a corona sul capo o li raccolgono in reticelle o cuffie. È notevole la probabile moda di sbiondire le chiome, che parrebbe attestata dalle pitture della tomba dei Leopardi di Tarquinia. Nel IV secolo prevale una pettinatura a riccioli cadenti ai lati del volto. Più tardi, in piena età ellenistica, si preferisce il ciuffo annodato sulla nuca, alla greca. Grande importanza nel costume etrusco hanno i gioielli. Alla fine dell'età del bronzo si diffonde largamente per tutto il mondo mediterraneo l'uso delle spille di sicurezza, le fibule, che sono fra gli oggetti più caratteristici delle tombe dell'età del ferro. Quelle usate dagli uomini si distinguono da quelle femminili per l'arco spezzato e serpeggiante. Le fibule si confezionano generalmente di bronzo, ma anche di metalli preziosi e riccamente adorne con pezzi di pasta vitrea e d'ambra: alcuni esemplari di età orientalizzante, come la fibula aurea a disco della tomba Regolini-Galassi, sono di proporzioni colossali e sfarzosamente decorate.
L'uso delle fibule si attenua nel VI secolo e cessa quasi del tutto dopo il V: si conserva soltanto in costumi tradizionali, come quello dei sacerdoti aruspici. Altri tipi di gioielli sono i diademi, gli orecchini, le collane, i braccialetti, gli anelli. Nel periodo orientalizzante lo sfarzo del loro impiego ha un aspetto barbarico: e lo stesso si può dire per l'età ellenistica. Il solo periodo in cui i gioielli furono impiegati dagli Etruschi, e specialmente dalle donne, con parsimoniosa eleganza è la fase aurea del VI-V secolo: ad essa si attribuiscono magnifici esemplari di collane con bulle o ghiande ed orecchini lavorati con la raffinata tecnica della granulazione.




 
La medicina
 
La perizia degli Etruschi nell'Arte Medica era celebre e gli antichi scrittori Greci e Romani ne parlano soprattutto riguardo alla conoscenza delle proprietà officinali delle piante. Per conoscere il grado di preparazione raggiunto dai “medici” etruschi ci viene in aiuto l'Archeologia: il rinvenimento di numerosi ex voto in terracotta o bronzo raffiguranti anche organi interni del corpo umano denota chiaramente l’estrema abilità anatomica di questo popolo; così come la presenza di numerosi ferri da chirurgo e da dentista nel corredo di alcune tombe. Nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia è conservato un teschio umano che reca una protesi dentaria in oro, prova dell’abilità dei dentisti. Grande importanza avevano poi le acque termominerali, di cui la Tuscia è ancora oggi ricchissima: gli Etruschi conoscevano bene le proprietà medicamentose di ogni sorgente, sacra e dedicata a divinità diverse, così come i Romani i quali, con la conquista di queste terre, eressero spesso grandi impianti termali alimentati dalle preziose acque di queste sorgenti.
L'Arte
La letteratura ed i libri
Le musiche e la danza
La scultura
La pittura
Finalità, condizionamenti e tendenze
Arte profana
I monumenti architettonici
Il problema dell' «arte etrusca»





 
La letteratura ed i libri
 
Per molti aspetti la civiltà degli Etruschi, pur appartenendo ad un'età pienamente storica, deve essere considerata e studiata alla stregua di una civiltà preistorica, vale a dire essenzialmente nelle sue testimonianze esteriori e materiali. Manca infatti la luce diretta di una grande tradizione letteraria originale che ci consenta di penetrare profondamente nel pensiero, nei sentimenti e nelle concezioni di vita di questo popolo, come invece è possibile per altre genti del mondo classico. Le notizie indirette, collaterali o tardive, che scrittori greci e romani ci hanno lasciato sull'Etruria antica e gli stessi documenti scritti etruschi (che consistono per lo più di brevi iscrizioni, non tutte facilmente interpretabili) offrono senza dubbio preziosi elementi di informazione: lo si è visto a proposito dell'organizzazione politico-sociale e della religione. Ma essi non possono in nessun modo compensarci della mancanza di una letteratura nazionale con opere poetiche, storiche, filosofiche, quali ci sono state conservate per la Grecia e per Roma.
Ciò per altro non significa che gli Etruschi non abbiano avuto una loro propria letteratura. Il fatto che essa non sia giunta fino a noi non è un argomento valido per escluderla. Noi possediamo la letteratura greca e quella latina quasi esclusivamente perche esse ci furono tramandate attraverso una tradizione ininterrotta, di copista in copista, durante i secoli del medioevo (i testi antichi su papiri dissotterrati dagli archeologi e i documenti epigrafici hanno una importanza relativamente secondaria). Ma se le opere degli scrittori classici furono copiate e trasmesse fino ai tempi moderni, ciò si deve al fatto che esse erano scritte in lingue universalmente note e vive (a parte ogni altra considerazione sull'importanza essenziale di queste opere per la costruzione stessa della cultura del mondo occidentale). Viceversa gli scritti originali dei popoli dell'ltalia preromana, tra cui gli Etruschi, avevano perduto ogni interesse sin dall'età romana imperiale, essendo redatti in lingue non più parlate e presumibilmente incomprensibili a tutti, fatta forse eccezione per qualche erudito. È chiaro che a nessuno poteva venire in mente di ricopiarli e conservarli per le generazioni future.
Una certa forma di attività letteraria degli Etruschi è, in vero, testimoniata positivamente, per quanto in modo indiretto, dal ricordo che ne sopravvive nelle fonti greco-latine. Si tratta di notizie frammentarie che riguardano soprattutto I' esistenza di libri a contenuto religioso, conosciuti attraverso traduzioni o compendi negli ambienti sacerdotali ed eruditi romani. Sappiamo che essi erano classificati in tre fondamentali raggruppamenti, sotto il nome di Libri Haruspicini, Libri Fulgurales e Libri Rituales. I primi trattavano della divinazione mediante l'esame delle viscere degli animali; i secondi contenevano la dottrina dei fulmini. Quanto ai Libri Rituali, sembra che essi abbracciassero una materia assai più vasta e complessa, riguardante le norme del culto, le modalità per la consacrazione dei santuari, per la fondazione delle città, per la divisione dei campi, gli ordinamenti civili e militari, ecc.; comprendevano inoltre scritti speciali sulla divisione del tempo e sui limiti della vita degli uomini e dei popoli (Libri Fatales), sul mondo dell'oltretomba e sui riti di salvazione (Libri Acherontici) e infine sulla interpretazione dei prodigi (Ostentaria).
 La tradizione etrusco-romana tende ad attribuire a queste opere una origine antichissima e veneranda: tanto che una parte di esse era addirittura riferita agli insegnamenti del genietto Tagete (Libri Tagetici: corrispondenti, per quanto sappiamo, ai Libri Aruspicini e agli Acherontici) o a quelli della ninfa Vego(n)ia o Begoe, cui si assegnavano i Libri Fulgurali e gli scritti di agrimensura contenuti nei Libri Rituali. In sostanza si credeva in una loro ispirazione divina, facendone risalire l'origine ad una specie di primordiale "rivelazione" che si identificava con le origini stesse della civiltà etrusca. E non è da escludere che la raccolta dei libri sacri, quale si conosceva neg.i ultimi secoli della vita del popolo etrusco e quale fu, almeno parzialmente, tradotta in latino, comprendesse elementi di formazione assai antica. Ma nel complesso il carattere essenzialmente normativo degli scritti sembra riflettere piuttosto una fase evoluta e forse finale dello sviluppo spirituale e religioso della società etrusca. Si può immaginare che la loro elaborazione definitiva e, per così dire, "canonica" abbia avuto luogo nell'ambito di ristrette cerchie sacerdotali, come l'ordine dei sessanta aruspici fiorente ancora a Tarquinia in età romana: un mondo al quale senza dubbio appartenne quel Tarquitius Priscus (o Tuscus ?), al quale la tradizione romana attribuiva la composizione, la volgarizzazione e la traduzione in latino di diversi libri sacri. Con questo siamo portati a considerare la natura stessa della letteratura religiosa etrusca. Essa aveva probabilmente un aspetto vario ed eterogeneo, con parti poetiche o almeno redatte metricamente (carmina) ed altre minuziosamente rituali e prescrittive: delle quali ultime è possibile formarsi direttamente un'idea considerando testi originali etruschi superstiti, quali il manoscritto della mummia di Zagabria o la tegola di Capua.
Si è già, anzi, accennato ad un' eventuale connessione fra il rituale funerario di Capua e i Libri Acherontici. Nel suo complesso il corpo dei libri sacri doveva avere una ispirazione fondamentale religiosa, ma nello stesso tempo anche un certo carattere giuridico. Era un trattato di dottrine sacrali e insieme una costituzione ed una collezione di leggi, anche profane (ius Etruriae). Carattere del tutto particolare, profetico e insieme etico-giuridico, ha il frammento di testo tramandato dai gromatici latini con l'insegnamento della ninfa Vegoia (cioè la Lasa Vecui) ad Arunte Veltimno (che sarà stato in etrusco un Arnth Veltimna, presumibilmente di Chiusi o di Perugia), in cui si parla di punizioni per appropriazioni di terre altrui mediante lo spostamento dei segnali di confine, da parte di servi o anche con l'acquiescenza dei loro padroni: punizioni consistenti nell'insorgere di morbi e in catastrofi naturali, minacciate verso la fine dell'VIII secolo (naturalmente etrusco, che secondo attendibili computi di altre fonti sarebbe da collocare nell'anno 88 a.C.). Il passo termina con l'esortazione: Disciplinam pone in corde tuo (metti nel tuo cuore la disciplina). Si suppone che lo scritto sia stato ispirato in età sillana da ambienti conservatori etruschi di fronte al pericolo di riforme agrarie e di sovvertimenti sociali.
 Resta il problema se gli Etruschi abbiano avuto altre forme di attività letteraria e sino a qual punto tali manifestazioni si siano svolte in modo autonomo rispetto alla letteratura sacra. L'esistenza di documenti annalistici o storici sembra accertata dal ricordo di Tuscae historiae citate da Varrone (Censorino, de die nat., 17, 6). Mancano invece del tutto riferimenti ad una narrativa epica o mitologica: pur non escludendosi la possibilità che questo genere sia stato coltivato in Etruria, giova rilevare che la mentalità degli Etruschi non sembra portata alla feconda inventiva mitografica propria dei Greci. Salvo rare eccezioni, l'arte figurata imita e rielabora soltanto le saghe divine ed eroiche accolte dal mondo greco. Che i carmi conviviali e le satire fescennine (la cui origine si riportava alla città falisca di Fescennio) avessero paralleli in Etruria è possibile, ma non documentabile con certezza. Di elogi cantati in onore di personalità defunte s'intravvedono invece riflessi in alcune iscrizioni funerarie più lunghe e forse a struttura metrica o ritmica. La poesia drammatica, cui si riporta il ricordo di una certo Volnio autore di tragedie etrusche, nasce probabilmente soltanto in epoca tarda come imitazione del teatro greco.



 
Le musiche e la danza
 
Si è più volte rilevata, nei testi etruschi, la presenza di raggruppamenti regolari di parole e di sillabe, ripetizioni, allitterazioni, rime, ecc. , che denunciano una forte disposizione alla forma ritmica. Non abbiamo invece finora dati sicuri per la individuazione di una metrica quantitativa, come nei versi greci e latini. Ma è in ogni caso assai probabile che le iscrizioni dedicatorie, specialmente arcaiche, ed alcune iscrizioni funerarie fossero verseggiate, come era uso frequente presso i Greci e i Romani.

danzatrice etrusca Ovviamente metrici e cantati erano i carmi sacri, inni o preghiere, e forse anche quelli di contenuto profano. La musica accompagnata dal canto, ma specialmente quella senza canto, deve aver avuto grandissima importanza nelle cerimonie e nella vita pubblica e privata degli Etruschi, a giudicare dalla testimonianza concorde delle fonti letterarie e dei monumenti figurati.

Gli strumenti (e di conseguenza anche il ritmo, l'armonia, le disposizioni melodiche) sono manifestamente gli stessi che troviamo nel mondo musicale dei Greci: una identità che non sorprende, se si tien conto degli stretti rapporti di dipendenza che legano le città etrusche alla civiltà ellenica per tanti altri aspetti.
Fra gli strumenti a corda, rappresentati o ricordati, sono la cetra, la lira, il barbiton; fra gli strumenti a fiato, il doppio flauto (tibiae) e la tromba diritta (salpinx, tuba) o ricurva (cornu); fra quelli a percussione, i crotali delle danzatrici. Il duo del suonatore di cetra (o lira, o barbiton) e del suonatore di doppio flauto costituisce, come in Grecia, un accoppiamento normale: lo vediamo rappresentato con particolare frequenza nelle scene di banchetto o di danza delle pitture funerarie. Eppure, nell'ambito di una comune civiltà musicale l'Etruria deve aver avuto, così nei generi come nella pratica, certe sue particolari tendenze e tradizioni. Non può trascurarsi l'insistenza con la quale gli scrittori antichi parlano dell'impiego del doppio flauto presso gli Etruschi, quasi di uno strumento nazionale derivato dalla Lidia e poi trasmesso dagli Etruschi ai Romani: il flautista o auleta si chiamava a Roma, con nome derivato dall'etrusco, subulo. In verità l'auletica è un genere largamente diffuso in Grecia, ma attribuito originariamente ai Frigi ed ai Lidi: esso risponde ad un gusto musicale per il patetico e per l' orgiastico.
Anche in questo caso, come in altre manifestazioni della civiltà artistica, gli Etruschi avrebbero accolto dalla complessa esperienza ellenica certi elementi più vicini alla loro sensibilità, orientandosi specialmente verso le forme elaborate nelle città greco-orientali dell'Asia Minore. Logicamente dobbiamo supporre che la musica etrusca preferisse quei «modi» che i teorici greci definivano lidio, ipolidio, frigio e ipofrigio, con i relativi sistemi tonali, in contrapposizione con la grave e solenne musica dorica. D'altro canto la tradizione greca, antica e concorde (Eschilo, Eumen., 567 sgg.; Sofocle, Aiace, 17; Euripide, Fen., 1377 sgg., ecc.), attribuisce agli Etruschi la tromba: salpinx. Pur non significando che questo antico strumento sia stato inventato realmente in Etruria, ciò vuol dire che esso era caratteristico delle costumanze militari e forse anche religiose etrusche, ed eventualmente fabbricato ed esportato da botteghe di bronzisti etruschi (ma i monumenti figurati rappresentano di preferenza la tromba ricurva, il corno, o diritta con la sua estremità ricurva come il lituo). In ogni caso il favore accordato agli strumenti a fiato corrisponde ad un notevole sviluppo delle pratiche musicali distaccate dal canto.
La musica non soltanto si collega con la danza e con la mimica nelle grandi celebrazioni religiose e nelle manifestazioni sceniche, ma sovente accompagna singoli momenti del rito ed azioni della vita pubblica e privata, come le gare sportive, la caccia, la preparazione dei banchetti e persino la fustigazione degli schiavi. Questo rapporto della musica piuttosto con il gesto che con la parola trova il suo parallelo nelle forme peculiari degli spettacoli scenici etruschi, che avevano, per quanto sappiamo (Livio, VII, 2, 4 sgg.), carattere di mimo ed erano rappresentati da attori-danzatori mascherati (histriones o ludiones), talvolta anche con allusioni buffonesche e satiriche. Ciò non esclude la possibilità di vere azioni drammatiche dialogate, certamente favorite, a partire dal IV secolo, dall'influsso delle forme del teatro greco (come attestano i frequenti modellini di maschere comiche trovati nelle tombe etrusche).
La danza ci è nota soprattutto dalle figurazioni funerarie del VI e del V secolo. Sembra di regola eseguita da ballerini professionali: danzatrici singole accompagnate da un suonatore di doppio flauto; danzatori a coppia; ma soprattutto cori di uomini e donne procedenti in fila distaccati e con movimenti individuali, guidati da musici (suonatori di cetra o lira e flautisti) forse in funzione di corifei. I musici partecipano ai passi della danza. Qualche volta si colgono nell'atto di ballare anche personaggi della classe gentilizia alla quale apparteneva la famiglia del defunto. I movimenti saltellanti delle gambe e i gesti accentuati e presumibilmente rapidi delle braccia e della testa rivelano un genere di danza fortemente scandito, agitato se non addirittura orgiastico, che si ispira presumibilmente alla greca sikinnis di origine dionisiaca. Ma i documenti limitati nel tempo e nell'ambito dell'arte funeraria non sono sufficienti a provare che questo genere sia stato il solo coltivato in Etruria. Esso, comunque, si accorda con i «modi» musicali che abbiamo supposto dominanti nel mondo etrusco.





La scultura
 
Primi e assai caratteristici documenti della plastica etrusca sono, già a partire dal VII sec., i canopi, ossia vasi cinerari di bronzo e di argilla dal corpo panciuto, con il coperchio interamente a foggia di testa umana. Talvolta al vaso erano applicate due braccia, in luogo delle anse, ed il tutto era collocato su di una sorta di tronetto circolare. Abbiamo poi i grandi sarcofaghi fittili, in forma di letto conviviale, sul quale si trovano una o due persone recumbenti, in atto di partecipare al proprio banchetto funebre. Nel Sarcofago degli Sposi sono visibili alcuni elementi di derivazione ionica: l'acconciatura dei capelli, la finezza dei volti, la levigatezza delle superfici. Ma tutto è interpretato in maniera anticlassica.
La posizione stessa della coppia sposta il peso verso destra, rompendo l'equilibrio della composizione. Tutto è spigoloso: i volti triangolari, i menti aguzzi, gli occhi a mandorla. Il sorriso, invece dell'impertubabile serenità greca, esprime piuttosto qualcosa di ironico. Anche l'Apollo di Veio mostra rapporti con la scultura ionica, non solo nell'acconciatura dei capelli e nel sorriso, ma anche nella veste pieghettata.

Apollo di Veio
Lupa Capitolina

Ma le somiglianze sono solo esteriori. La veste, a pieghe larghe e pesanti aderisce al corpo, sembra frenare il passo veloce del dio, il quale nel volgersi, compie, con la gamba sinistra uno sforzo muscolare tale che il polpaccio si avvolge come una molla pronta a scattare. La linea ionica, persa la sua eleganza raffinata, diventa mezzo per esprimere violenza. Lo stesso sorriso, per lo spessore delle labbra taglienti, si trasforma in un ghigno beffardo. Una delle opere di più alto valore della scultura bronzea etrusca è la Lupa Capitolina. In essa, l'animale, ferocemente ringhiante, è rappresentato saldamente poggiato sulle quattro zampe, con la testa rivolta verso lo spettatore. Sono poche le somiglianze con una lupa autentica, non soltanto per la forma anatomica, ma perfino per l'assenza quasi totale del manto peloso, che permette di far risaltare la potente struttura ossea, lo smagrimento del ventre, la vena gonfia sul muso, le mammelle. Il pelo, limitato a una striscia che riveste il collo possente, non è morbido, ma bensì squamoso e duro ed esalta perciò l'asprezza che emana da tutta la statua.

Chimera di Arezzo     

Bruto Capitolino
Vaso Canopo

Un'altra scultura bronzea di grande importanza è la Chimera di Arezzo, il mitico mostro con il corpo di leone, la coda anguiforme e, sporgente dal dorso, una testa di capra ferita. La bestia è rappresentata con il muso minaccioso rivolto in alto, verso l'avversario. Tutti i muscoli sono tesi, le costole sporgono dal torace, le unghie, allungate come artigli, fuoriescono dalle dita. I peli, anche qui limitati a rivestire solo alcune zone del corpo, si drizzano come aculei. Tra la ritrattistica scultorea abbiamo il Bruto Capitolino, che per alcuni è etrusco, per altri romano.,Il ritratto è fortemente tipizzato ed esprime la severità morale del personaggio. Il movimento delle ciocche ineguali dei capelli e della barba non curata, i piani facciali irregolari e chiaroscurati per le forti sporgenze e rientranze e, soprattutto la terribile intensità degli occhi fissi, rendono la complessa psicologia dell'uomo. Accanto al Bruto Capitolino, di cui ci è pervenuto solo il busto, l'unico esempio intero di ritratto bronzeo etrusco è il cosiddetto Arringatore del Trasimeno. Egli non è il giovane armonicamente strutturato dei greci. Le rughe che solcano il volto sulla fronte e alle estremità degli occhi, indicano un uomo di mezza età. Il viso, relativamente piccolo e sostenuto dal collo robusto e lungo, è sobrio, concentrato nel pensiero e nell'esposizione verbale. Il braccio alzato e la mano proporzionalmente più grande del naturale sottolineano l'importanza di un passo del discorso: l'oratore parla a un vasto uditorio che, attraverso il suo gesto, deve intuire i concetti, prima ancora che comprenderli con la ragione.




 
La pittura
 
La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. La pittura è planimetrica: pochi colori, privi di chiaroscuro, distesi in superficie, staccati dal fondo, con la conseguente prevalenza della linea che li campisce, quasi come se fosse una decorazione vascolare. Quanto ai temi, poiché lo scopo delle figurazioni è quello di circondare il morto con le immagini della vita, prevalgono le scene di costume, con musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad artisti greci immigrati. Tra queste i più antichi affreschi sono quelli della Tomba dei Tori a Tarquinia, con l'agguato teso da Achille al giovane troiano Troilo presso la fontana sacra ad Apollo; tra le figure, definite linearisticamente e campite con chiari colori, compaiono fiori stilizzati, ed altri elementi paesistici, quali alberelli e cespugli spinosi. Nella tomba della caccia e della pesca a Tarquinia le figure dei pescatori, rappresentate con grafia semplificata e leggera, assumono un carattere squisitamente decorativo al pari degli uccelli e dei pesci che popolano sparsamente gli ampi spazi celesti e marini. Il fascino di queste ed altre consimili figurazioni consiste in buona parte nella disposizione irrealistica dei colori: secondo una convenzione derivata dalla pittura vascolare le figure sono tinteggiate in rosso se maschili, in bianco se femminili: nè mancano talvolta audaci invenzioni e arbitrii cromatici, come cavalli rossi ed azzurri.
Altre pitture interessanti sono quelle della Tomba del Barone.
Sulle pareti della piccola camera funeraria sono cavalli e figure umane, intervallate da arboscelli. I colori (nero, rosso, grigio, verde, bruno-violaceo) sono stesi su un sottile velo di preparazione. Il rapporto fra i pieni e i vuoti è perfettamente bilanciato, così come sono calcolati gli equilibri fra le immagini di un lato e quelle dell'altro, le proporzioni delle figure fra loro e delle singole parti con tutto il complesso. Il disegno è sottile, raffinato, adeguato all'eleganza delle figure. Nel IV sec. si stringono nuovi contatti con la civiltà greca.
Lo confermano le pitture della Tomba dell'Orco a Tarquinia fra le quali emerge la testa di una fanciulla della famiglia Velcha, partecipante a un banchetto funebre. Il fondo verde scuro, dai contorni irregolari, rappresenta forse una nuvola nera, richiamo all'oltretomba. Questo piano di fondo dal colore compatto fa risaltare il profilo puro della giovane e permette di evitare la tradizionale linea di contorno. Manca però il chiaroscuro. Il valore dell'immagine si affida al rapporto fra i due colori fondamentali: quello del fondo e il bianco-rosa del bel volto di profilo, le labbra lievemente dischiuse, il grande occhio aperto a contemplare la scena infernale, i capelli inghirlanditi, il collo ornato da una doppia collana. La visione dell'oltretomba si va facendo drammatica. A contrasto con la fanciulla Velcha sta l'immagine paurosa del demone Charu (Caronte), dal colorito verdastro, il naso adunco, la barbetta irsuta, i capelli anguiformi, le grandi ali, il bastone. L'aldilà non è più il luogo dove prosegue tranquilla la vita, ma bensì il luogo di tormenti per tutti gli uomini. 

Tomba dei Tori:
L'agguato di Achille a Troilo
 Tomba della Caccia e della Pesca:
Scena di pesca

Tomba del Barone:
Fregio con persone e cavalli
Tomba dell'Orco:
Testa di fanciulla





Finalità, condizionamenti e tendenze
 
L’arte etrusca nacque dalla vita quotidiana e rimase sempre sostanzialmente vincolata al soddisfacimento delle esigenze da quella proposte. Essa fu pertanto strettamente legata, da un lato, alla struttura sociale, dall’altro, alla sfera delle concezioni religiose e dell’ideologia funeraria. Non a caso, cioè non soltanto per le fortuite circostanze della loro conservazione e della loro riscoperta, le testimonianze che essa ha lasciato provengono nella stragrande maggioranza dalle aree dei santuari e da quelle cimiteriali. Questo significa che, tranne poche eccezioni, si trattò di un’arte dalle caratteristiche di tipo artigianale (o di artigianato artistico), con tutto quello che ciò comporta e pur tenendo presente che la distinzione tra arte e artigianato non sempre trova valida rispondenza nel mondo antico. In ogni caso, non si può parlare per l’arte etrusca di un fenomeno autonomo né di finalità estetiche, e solo raramente ci si trova di fronte a manifestazioni che si potrebbero dire di “grande arte”, frutto meditato del lavoro di particolari individualità e opera personale di artisti consapevoli o di scuole ben definite e caratterizzate come tali.
Si aggiunga il condizionamento dell’arte greca che fu sempre presente nella maggior parte dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi e dei canoni stilistici. Al punto che, una volta superata la fase dei primordi ancora legata alle tradizioni d’origine preistorica o alle suggestioni ornamentalistiche del periodo orientalizzante, le successive fasi di sviluppo, a partire dal primo arcaismo e fino alla tarda età ellenistica, cioè dalla fine del VII secolo a quasi tutto il I secolo a.C., ripeterono praticamente quelle dell’arte greca. Il condizionamento fu tuttavia di natura prevalentemente formale ed esteriore. Essenzialmente decorativa, attenta al particolare e generalmente di sapore incolto e popolaresco; tesa alla spontaneità e all’immediatezza, disorganica ed espressiva, portata all’enfatizzazione e alla tensione drammatica; conservatrice ma anche incostante, discontinua e incoerente: proprio per queste sue naturali tendenze (oltre che per la necessità di selezionare i modelli onde adattarli ai propri scopi), l’arte etrusca seppe trovare una sua via di fronte all’insegnamento dei Greci. Sicché il confronto, più che soffermarsi sulla qualità, riguarda la diversità degli atteggiamenti e delle realizzazioni, cioè il modo di reagire degli artisti etruschi alle sollecitazioni e ai modelli che giungevano dal mondo greco. A seconda delle necessità e delle epoche, e quindi in relazione alle caratteristiche delle varie fasi dell’arte greca. Così, dei modelli via via disponibili, gli Etruschi alcuni li ignorarono altri li assunsero facendoli propri e talvolta rielaborandoli, magari insistendo su motivi che nella stessa Grecia ebbero scarso rilievo o furono presto superati. Quanto ai canoni stilistici, ci furono momenti di consonanza e di partecipazione, come nel periodo arcaico (e specialmente nei confronti dell’arte ionica) del VI secolo a.C.: momenti di ripulsa e di rigetto o, più semplicemente, d’incomprensione, come nel periodo classico, tra il V e il IV secolo a.C.; momenti di sudditanza e di pedissequa imitazione, come nel periodo ellenistico, dal III al I secolo a.C.
Non mancarono tuttavia atteggiamenti estranei, se non antitetici, alle concezioni figurative greche, soprattutto quando queste non erano congeniali alle tendenze espressive etrusche e quindi non sentite e incomprese. E furono proprio quelle tendenze, insieme alle finalità pratiche del quotidiano, che indussero gli Etruschi a trascurare, o a relegare in secondo piano, certe forme d’espressione artistica, come l’architettura e la statuaria, e a privilegiarne altre, come la coroplastica, ossia l’arte della creta, la bronzistica, a quella connessa, e le cosiddette arti minori, come la piccola plastica, la ceramica, l’oreficeria, la toreutica. Con risultati spesso di notevole perfezione tecnica e non dirado d’elevato valore formale.




 
Arte profana
 
E' proprio nelle arti "minori", nella vastissima produzione di suppellettili, piccoli bronzi fusi e piccole terracotte con funzioni ornamentali, gemme incise e avori intagliati, che si espresse al meglio l'originalità e la creatività degli artisti etruschi. Particolare attenzione meritano gli specchi, trovati a centinaia nelle necropoli. Il modello più comune era quello tondo con il manico. Il retro della suprficie di bronzo era inciso, solitamente con soggetti mitologici provenienti dall'arte greca, oppure coperto di iscrizioni. Ricchissima e meritatamente famosa anche la produzione di monili ed oggetti in oro, nella quale gli etruschi dimostrarono un elevato grado di elaborazione tecnica, capace di sfruttare le possibilità espressive del metallo. Il periodo di massima fioritura fu tra la metà del VII e la fine del VI secolo a.C., a Vetulonia e Vulci. Nella tomba Regolini- Galassi, scoperta a Cere nel 1832, gli archeologi si trovarono davanti ad un gran numero di gioielli; grandi bracciali lavorati, fibule incise, un pettorale in oro sbalzato di 42 cm. conservato ai musei Vaticani.



Specchio riproducente la cerimonia del chiodo Anche nell'orificeria trionfò il gusto per il sovraccarico e gli effetti enfatici, sia con l'incontro di motivi ornamentali vegetali, figurati e geometrici, sia con l'impiego delle diverse tecniche di lavorazione, spesso combinate insieme.
Tali tecniche comprendevano l'incisione, lo sbalzo, la fusione la filigrana e, soprattutto, la granulazione, consistente nell'applicare sulla superficie del metallo piccoli granelli d'oro saldati tra loro, moltiplicando così l'effetto dell'incidenza della luce.

 

Gioielli (V-VI sec)
Collare con teste di Sileno, VI-V sec.

 




I monumenti architettonici
 
Ben altra ricchezza di testimonianze dirette ci si offre per l'architettura e per le arti figurative: si tratta infatti degli stessi monumenti superstiti e dei resti materiali recuperati attraverso le scoperte archeologiche. Nonostante la distruzione di tante opere e manufatti antichi, questi documenti sono tali da offrirci una visione sufficientemente ampia dell'attività artistica degli antichi Etruschi nelle sue tendenze e nei suoi sviluppi.
L'edilizia monumentale non può naturalmente valutarsi sul metro di quella dei Greci o dei Romani. L'impiego esclusivo di strutture murarie a blocchi di pietra s'incontra soltanto nelle opere militari e nelle tombe: per il resto, e cioè per gli edifici sacri e civili, esso appare limitato alle fondazioni, mentre per le parti elevate si adoperavano materiali più leggeri, quali il legno, il pietrame, i mattoni crudi, la terracotta. Ciò significa che di questi edifici non possediamo più che le piante e qualche elemento di decorazione; ma nonostante tutto è possibile raffigurarcene l'aspetto originario, sulla base dei modelli offerti dai sepolcri rupestri e dalle urne che ne imitano le forme o da piccole riproduzioni di destinazione votiva. Le strutture murarie offrono, a seconda dei tempi, dei luoghi e della qualità dei monumenti, una notevole diversità di materiale e di tecnica. Le pietre di più largo impiego sono i calcari, il travertino, le arenarie, il tufo, tutte di estrazione locale: l'assenza del marmo che ha tanta importanza nell'architettura greca, si deve al fatto che lo sfruttamento delle cave di Carrara non avrà inizio se non con l'età romana. Il genere delle murature varia dalla tecnica dei grandi blocchi semilavorati ed irregolari, quale si mostra, ad esempio, nella cinta di Vetulonia, a quella dei fini paramenti con piccoli blocchi squadrati che si riscontra nelle mura urbane delle Città dell'Etruria meridionale ed in altre costruzioni, specialmente funerarie. Ma non c'è in generale un'evoluzione delle strutture più rozze e primitive alle più raffinate: la muratura quadrata regolare si conosce e si impiega sin dalle fasi iniziali della civiltà etrusca; e le differenze paiono dovute piuttosto a particolari condizioni di materiale, di capacità delle maestranze, di fretta nella costruzione, ecc. Contrariamente a certe opinioni già diffuse tra gli archeologi, la tecnica poligonale vera e propria deve considerarsi estranea agli usi costruttivi degli Etruschi e tardivamente introdotta, dai primi coloni militari romani, nelle piazzeforti di Pyrgi, di Cosa, di Saturnia.
L 'uso, almeno parziale, dei mattoni crudi non soltanto nell'edilizia domestica ma anche nell'architettura militare sembra attestato a Roselle sin dalla fine del VII secolo; ciò rientra nel quadro di una tradizione struttiva che si va sempre più rivelando diffusa nel mondo mediterraneo sotto l'influenza greca; ed è probabile che a questa tecnica si riferiscano anche le notizie sulla cinta di mattoni della città di Arezzo.

Notevole diffusione ha in Etruria il sistema delle coperture a falsa volta ed a falsa cupola con filari di blocchi sovrapposti in aggetto, di universale diffusione mediterranea; al quale si sovrappone, nelle fasi più recenti, la tecnica della volta reale a spinte, che appare in porte di città (Volterra, Perugia) ed in monumenti sepolcrali, preludendo alle strutture dominanti dell'architettura romana. In questa predilezione per la copertura a volta l'architettura etrusca continua, perfeziona e trasferisce in sede monumentale motivi di antica origine orientale che l'architettura greca classica tende invece generalmente a respingere come elementi estranei alla sua rigorosa concezione rettilinea, basata sulla struttura ad architravi. Fra i monumenti più notevoli dell'architettura militare ricordiamo le cinte di Tarquinia (e tratti superstiti di quelle, simili, di Veio, Caere, Vulci, ecc.), Volsinii, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia, Fiesole, Arezzo. Queste opere si datano generalmente tra il VI ed il III secolo, con ampliamenti e rifacimenti posteriori, dato che in generale rimasero efficienti durante i tempi romani e in qualche caso anche più tardi. Nonostante la diversità delle strutture, hanno in comune il carattere di muraglie continue, originariamente non intrammezzate da torri: avancorpi e rientranze si osservano soltanto in corrispondenza delle porte.
Queste erano forse da principio architravate; ma nei grandiosi esempi superstiti della Porta dell' Arco di Volterra e della Porta Marzia e della Porta "di Augusto" di Perugia appaiono coperte a volta e presentano in facciata elementi di decorazione architettonica o figurata a rilievo. L'aspetto antico di cinte urbane merlate e con porte ad arco ci è testimoniato anche da figurazioni di urne e sarcofagi. L'architettura funeraria si presenta con manifestazioni piuttosto eterogenee, per il fatto che essa rappresenta l'occasionale complemento o sviluppo costruttivo di tipi di sepolcri di origine od ispirazione diversa. La maggior parte delle tombe, anche a carattere monumentale, risulta infatti lavorata direttamente nella roccia sia che si tratti di vani scavati (che vanno dalle più modeste forme dei pozzetti e delle fosse primitive sino ai grandiosi e complessi ipogei con molti ambienti dell'età più matura), sia che si tratti di adattamenti esterni aventi l'aspetto di tumuli rotondi o corpi quadrangolari con terra sovrapposta o di facciate scolpite nella fronte di declivi rupestri. Tali opere, pur non avendo un carattere architettonico, si ricollegano strettamente all'architettura in quanto imitano spesso fedelmente le forme di edifici reali nel loro aspetto esteriore ed interiore, negli elementi decorativi e talvolta persino nelle rifiniture d'arredo e nelle suppellettili.
Frequente è però anche la presenza di opere murarie, talvolta aggiunte ad integrazione delle pareti e delle coperture di roccia, altre volte costituenti per intero il monumento. Le camere sepolcrali costruite della fase più antica presentano coperture a falsa volta ed eccezionalmente a falsa cupola (come nella tomba di Casal Marittimo nel territorio di Volterra, o in quella recentemente scavata presso Quinto Fiorentino). In età più recente si hanno tombe con volta a botte di bella struttura (per es. la tomba del Granduca a Chiusi e l'Ipogeo di San Mannopresso Perugia). Il tipo monumentale del tumulo rotondo (con tamburo generalmente ricavato nella roccia come a Cerveteri e costruito come a Populonia) diviene a partire dal V secolo assai meno frequente, ma evolve, forse anche in contatto con l'architettura funeraria ellenistica, verso lo schema dei grandi mausolei circolari romani di età imperiale quali l'Augusteo e il Mausoleo di Adriano (per es. la così detta "Tanella di Pitagora" di Cortona). Non mancano sepolcri quadrangolari informa di tempietti, per esempio a Populonia. E va ricordato infine anche il tipo di tomba con basamento a zoccolo sormontato da grandi cippi troncoconici o da obelischi, noto soprattutto attraverso le figurazioni dei rilievi delle urne sepolcrali, ma attestato direttamente fuori d'Etruria, nel così detto sepolcro degli Orazi e Curiazi presso Albano Laziale. Un grandioso monumento di questo tipo con più obelischi adorni di campane è ricordato dalle fonti antiche come esistente a Chiusi, e identificato con la tomba del re Porsenna. I cippi funerari imitano in piccolo queste forme.
L'architettura domestica e quella religiosa hanno origini e caratteristiche comuni. Delle forme assunte dalla casa si tratterà più avanti parlando della vita etrusca. Il tempio che da principio si identifica, come nel mondo paleo-ellenico, con la casa rettangolare con tetto a spioventi e senza portico (documentata da modellini votivi e dai resti di un edificio scoperto sull'acropoli di Veio) assume poi forme più complesse parzialmente parallele a quelle del tempio greco. Il tipo che Vitruvio (de archit. IV, 7) attribuisce agli Etruschi è caratterizzato da una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle, per tre diverse divinità, o da una sola cella fiancheggiata da due alae o ambulacri aperti. Resti di monumenti scavati a Veio, a Pyrgi, ad Orvieto, a Fiesole, a Marzabotto dimostrano che questo schema ebbe effettivamente una vasta e durevole diffusione in Etruria dall'età arcaica sino a quella ellenistica: esso appare anche a Roma nel tempio di Giove Capitolino, la cui prima edificazione risale ai tempi della dinastia etrusca dei Tarquini.
Ma senza dubbio si costruivano anche edifici sacri più vicini, nel loro schema, al tempio greco, e cioè con pianta rettangolare allungata e colonne in facciata (prostilo) o addirittura con colonnato continuo su tutti i quattro lati (periptero): esempi cospicui ne sono il tempio più antico di Pyrgi e quello dell'Ara della Regina a Tarquinia. L' originalità dei templi etruschi non consiste comunque tanto nella loro concezione planimetrica quanto piuttosto nel materiale, nelle proporzioni e nelle forme dell'alzato, nel genere della decorazione.
Si è già detto che, all'infuori delle fondazioni, essi dovevano essere costruiti di materiali leggeri, con impiego del legno per le ossature portanti e per la travatura. Ciò comporta uno sviluppo relativamente limitato in altezza (quale appunto risulta dalle misure del tempio "tuscanico" secondo Vitruvio), larghi intercolumni, tetto ampio con notevole sporgenza laterale delle gronde. La travatura lignea esige una protezione con elementi compatti ma leggeri: donde l'uso universale di rivestimenti di terracotta policroma, che si sviluppano in vivaci sistemi decorativi geometrici e figurati con placche di copertura longitudinale o terminale delle travi, cornici, ornati della estremità dei coppi (antefisse) e delle sovrastrutture del tetto (acroteri). Il frontone era in origine aperto, lasciando visibili in facciata le strutture della gabbia del tetto; solo più tardi si adottò il tipo del frontone chiuso, decorato con una composizione figurata come nei templi greci. Queste varie caratteristiche del tempio etrusco trovano indubbi riscontri nella primitiva architettura greca e, come si è detto, parziali paralleli nel tempio greco arcaico e classico.
La differenza sta nel fatto che il tempio greco sin dal VII secolo a;C. tende a trasformarsi in un edificio monumentale pressoche interamente costruito di pietra, con una sua propria ed inconfondibile evoluzione delle forme architettoniche; mentre il tempio etrusco resta sostanzialmente fedele alle tradizioni dell'architettura lignea sino alla piena età ellenistica, accentuando, se mai, l'esuberanza decorativa dei rivestimenti di terracotta. I quali offrono, specialmente nel VI e V secolo, varietà di concezioni e sviluppi: per esempio nel tipo delle lastre di copertura longitudiriale dei travi che possono formare fregi figurati continui a rilievo di ispirazione greco-orientale (così detta “prima fase” o “fase ionica”) o possono invece presentare una semplice ornamentazione dipinta con forte sviluppo della sovrastante cornice in aggetto, come nei sistemi decorativi fittili della Grecia propria e delle colonie dell'Italia Meridionale e della Sicilia ("seconda fase" o "fase arcaica"). Quest'ultimo tipo si afferma a partire dalla fine del VI secolo, in coincidenza con il momento di maggiore splendore dello sviluppo dei templi etruschi, caratterizzato anche dalle antefisse a conchiglia, dalle decorazioni frontonali a rilievo distribuite sulle placche di rivestimento delle testate dei travi lunghi, dai grandi acroteri figurati: esempi caratteristici il tempio di Veio e i templi di Pyrgi. Lo schema decorativo così formato sarà poi seguito con poche modificazioni nei secoli successivi.

 
La sola novità rilevante è l'introduzione del frontone chiuso decorato con una composizione figurata unica alla maniera greca, di terracotta e in altorilievo; esso appare già forse nel V secolo, ma ci è noto soprattutto a partire dal IV secolo a Tarquinia, a Talamone, a Luni ("terza fase" o "fase ellenistica"). Parlando delle forme e dei rivestimenti del tempio etrusco, non si può trascurare il fatto fondamentale che i medesimi caratteri e sviluppi si riscontrano nei templi del territorio falisco e laziale e, sia pure con qualche differenza, in Campania: può parlarsi di una comune civiltà architettonica dell'Italia tirrenica a settentrione dell'area direttamente toccata dalla colonizzazione greca. L'affermarsi del tipo del tempio di pietra, in sostituzione delle tradizionali strutture lignee (sotto l'influsso greco, ma pur sempre con forme peculiari), avrà luogo progressivamente, sotto l'influsso dei modelli greci, nel corso del IV secolo e dell'età ellenistica.
Il predominio di elementi di ispirazione arcaica anche in opere di età molto recente si osserva del resto in tutti i motivi della decorazione architettonica etrusca, quali appaiono nelle costruzioni di pietra ed in quelle di legno e terracotta, e nelle loro innumerevoli riproduzioni ed imitazioni dell'arte funeraria e votiva. Vitruvio parla di un "ordine tuscanico" distinto dagli ordini dorici, ionici e corinzio dell'architettura greca. Esso era caratterizzato da un tipo di colonna che si vede effettivamente impiegato nei monumenti romani e rappresenta una variante della colonna dorica, con la stessa forma di capitello ma con il fusto liscio e con un basamento. La sua origine etrusca è provata da testimonianze che risalgono all'età arcaica: di questa forma era, verisimilmente, la maggior parte delle colonne lignee dei templi e degli edifici civili. Si tratta in realtà di una sopravvivenza ed elaborazione del tipo detto "protodorico" (fornito di plinto sagomato, con fusto senza scanalature e sensibilmente rigonfio, con capitello a cuscino bombato), che nel mondo greco primitivo era stato prestissimo sostituito dalla colonna dorica vera e propria. Ma accanto a questo tipo vediamo diffuso in Etruria anche un genere di colonne e di pilastri con capitello a volute floreali, semplici e composite, che trova la sua ispirazione nei capitelli orientali siro-ciprioti e nei capitelli così detti "eolici" della Grecia orientale: genere, anch'esso, precocemente scomparso nel mondo greco, con l'affermarsi del capitello ionico.

Modanature di impronta arcaica, con dadi, cordoni, “campane”, “gole”, appaiono dominanti nella sagoma di basamenti e coronamenti di edifici, altari, cippi, ecc. ; mentre la incorniciatura di porte e di finestre sottolinea gli stipiti sui lati del vano rastremato verso l'alto e il sovrapposto architrave sporgente che, in epoca più evoluta, si piega alle estremità nelle caratteristiche “orecchiette”. L'ornamentazione non figurata delle cornici, dei coronamenti e degli altri elementi delle sovrastrutture degli edifici appare domi!lata da motivi a foglie stilizzate, trecce, palmette e fiori di loto, spirali, meandri, ecc., di prevalente ispirazione ionica. Il sistema del fregio dorico con metope alternate a triglifi sembra diffondersi soltanto dopo il IV secolo; ma spesso, in luogo dei triglifi, s'incontrano veri e propri pilastrini.





Il problema dell' «arte etrusca»
  
Considerate le diverse categorie di monumenti artistici, resta da affrontare il problema più grosso, il «problema» per eccellenza: quello del loro significato estetico e storico. Gran parte delle opere che possediamo non ha, ovviamente, il carattere di creazione originale: rientra nel solco di tradizioni artigianali e riflette soltanto alla lontana le grandi linee di sviluppo della storia dell'arte. Ma esistono alcuni monumenti e gruppi di monumenti, nei quali si può ritenere presente l'impronta di una certa personalità artistica, più o meno spiccata. Si tratta di stabilire fino a che punto questa possibilità risponda a realtà, e cioè se veramente ci si trovi, in questi casi, di fronte a piccole o grandi creazioni; o invece si abbia pur sempre a fare con semplici imitazioni di modelli; ed in quale ambiente debbano eventualmente ricercarsi questi modelli.
Il fatto più evidente è che la stragrande maggioranza dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi della produzione artistica etrusca trova i suoi precedenti e la sua ispirazione nel mondo greco; e che tale dipendenza si estende normalmente anche alle forme stilistiche; cosicche lo sviluppo dell'arte in Etruria, dal primo arcaismo sino alla tarda età ellenistica, ripete sostanzialmente le fasi di sviluppo dell'arte greca. Però si notano anche differenze: nel senso che l'Etruria ignora certi motivi della produzione ellenica ed elabora invece diffusamente altri che in Grecia hanno scarso rilievo o appartengono a fasi stilistiche già superate; ne mancano indizi di atteggiamenti estranei, se non addirittura antitetici, alle concezioni figurative greche.
C'è da chiedersi se e fino a che punto gli artisti etruschi abbiano inteso reagire e di fatto abbiano reagito, con soluzioni originali, alle dominanti formule greche. C'è da chiedersi poi se, realizzando una loro propria visione artistica, essi abbiano creato le premesse al formarsi di tradizioni locali distinte dall'arte greca; e su quale ampiezza e per quale durata queste tradizioni abbiano avuto la possibilità di imporsi. In altre parole, posta l'esistenza di spunti autonomi nella produzione-etrusca, ci domandiamo se tali spunti siano fatti effimeri e slegati o se esista tra loro una connessione; e se un'ipotetica «costante» nelle tendenze del gusto in Etruria attraverso i secoli debba attribuirsi a continuità storica o piuttosto ubbidisca ad una profonda predisposizione del popolo etrusco verso orientamenti espres- sivi differenti da quelli del popolo greco. Questi diversi interrogativi si riassumono, tutto sommato, in uno solo: fino a che punto ed in che senso possiamo parlare della esistenza di un' , 'arte etrusca"?.
La posizione della critica nel secolo XIX fu, in proposito, negativa. La produzione etrusca era da considerare come un fenomeno provinciale dell'arte greca, con opere rozze e senza valore; mentre ogni trovamento di un qualche pregio artistico fatto in Etruria si attribuiva senz'altro a mano greca. Ma i nuovi orientamenti della critica e della storia dell'arte, affermatisi col principio del nostro secolo specie a seguito degli studi di A. Riegl, riconoscendo piena validità di espressione ad esperienze artistiche diverse da quella classica, aprirono la strada ad una comprensione di fenomeni stilistici del mondo antico per l'innanzi sottovalutati, quale appunto l'etrusco. Dall'analisi di singole opere d'arte di recente scoperta (come l'Apollo di Veio, come il "Bruto Capitolino") si arrivò, più o meno cautamente, ad affermare l'originalità e l'autonomia dell'arte etrusca rispetto alla greca, per una sua diversa ed inconfondibile visione della forma. che trasoarirebbe evidente anche nell'imitazione degli schemi e dei tipi ellenici. Si parlò, in vero, addirittura di una peculiare disposizione dei popoli italici (non soltanto, quindi, degli Etruschi, ma più tardi anche dei Romani) a concepire la realtà secondo una immagine «illusionistica», «inorganica», immediata e fortemente individualizzata, di contro alla visione «naturalistica», «organica», «tipica» dell'arte greca. A questi punti di vista non sono mancate obiezioni critiche di un certo peso. Più di recente si è tornati anzi ad affermare che non esistono in Etruria vere opere d'arte se non sotto la diretta influenza delle forme greche; e che la «originalità» etrusco-italica si riduce a manifestazioni effimere di colorita abilità artigiana e popolaresca, incapaci di dar vita ad una tradizione (R. Bianchi Bandinelli).
Il problema, dunque, resta ancora sostanzialmente aperto. Ma forse esso fu male impostato così dai negatori come dai sostenitori della originalità dell'arte etrusca. Si considerò infatti generalmente questo fenomeno in blocco, senza tener conto che esso abbraccia manifestazioni quanto mai varie, per la durata di almeno sette secoli, e che le trasformazioni avvenute nel corso di un così lungo periodo non riguardano soltanto l'Etruria e la Grecia, ma hanno una portata decisiva per tutto lo sviluppo dell'arte antica. È evidente che le prospettive mutano a seconda dei tempi; e parrebbe quindi logico esaminare il problema dell'«arte etrusca» riportandoci alla situazione di ciascun periodo, piuttosto che cercarne astrattamente una soluzione complessiva.
Risulterà così che alle origini, più o meno tra il IX e il VII secolo, l'attività artistica dei centri etruschi si svolge parallela a quella di altri paesi mediterranei, compresa la Grecia, in un fluido e complicato accavallarsi di motivi di tradizione preistorica (specialmente evidenti nel vivace realismo della piccola plastica) e di influenze orientali che caratterizzano quella fase del gusto decorativo che chiamiamo appunto orientalizzante. È chiaro che per questi periodi non è ancora il caso di parlare di subordinazione all'arte greca. Diremo piuttosto che l'Etruria partecipa, nella sua posizione periferica verso occidente, alla estrema elaborazione di un'antica esperienza artistica mediterranea, pa!allelamente alla Grecia. Ma fatta eccezione per qualche spunto di originalità nella plastica funeraria (per esempio nelle espressive teste dei canopi di Chiusi), non vi è nessun accenno al formarsi di una valida tradizione artistica locale, o nazionale. Qui appunto sta la differenza decisiva, gravida di sviluppi futuri, rispetto alla Grecia che, precisamente in questa età cruciale, andava superando con vigoroso impeto creativo le formule del vecchio mondo ed aprendo una nuova pagina nella storia dell'arte universale.
Non sorretta da una propria tradizione, fatalmente l'Etruria era destinata a cadere nell' orbita della esperienza artistica greca, la cui capacità di attrazione, oltreche nel fascino innovatore e nella intrinseca superiorità di valori estetici, consisteva anche nella sua amplissima diffusione territoriale dalla madrepatria alle colonie d'Italia e di Sicilia. Ciò avvenne effettivamente almeno dagli inizi del VI secolo; e dobbiamo ritenere che le influenze dell'arcaismo greco sull'Etruria nel campo artistico non consistessero soltanto nella importazione di oggetti e di modelli, ma anche nella diretta attività di artefici greci nelle città etrusche. Eppure proprio in questo periodo, nel VI e nei primi decenni del V secolo, la produzione d'arte in Etruria si manifesta con un rigoglio meraviglioso e, per certi aspetti, insuperato, nell'architettura templare, nella plastica, nella bronzistica, nella pittura, negli oggetti «minori» decorati: con opere numerosissime, di tecnica raffinata e di alto livello stilistico, non prive di un certo «carattere» peculiare che le rende sovente riconoscibili come prodotti etruschi o di ambiente etrusco. Il dilemma originario (dipendenza o autonomia ?) si propone qui ora con aspetti tanto più delicati, quanto più i fatti sembrano condurre verso un giudizio apparentemente contraddittorio, che giustifica le incertezze dei critici moderni: nel senso che queste opere pur essendo «etrusche» non cessano per ciò stesso di esser «greche». Affermazione che potrebbe sembrare paradossale; ma non lo è, purche ci si sforzi di sbarazzarci dello schema mentale di «arte nazionale», che nel caso particolare non è applicabile.
Dobbiamo in verità tener presente che l'arte greca arcaica non rappresenta un fenomeno rigidamente unitario e stilisticamente conseguente; bensì piuttosto il risultato della elaborazione locale di centri quanto mai vari, numerosi e dispersi nello spazio, con correnti vivaci, multiformi, mutevoli che si diffondono, si trasmettono, s'intersecano. In questo quadro, essenzialmente regionalistico, trovano posto anche territori parzialmente ellenizzati o non greci ma sotto l'influenza della civiltà greca: quali, ad esempio, in oriente Cipro, la Licia, la Caria, la Lidia, la Frigia, a settentrione la Macedonia e la Tracia, in occidente l'Etruria. Questi paesi non sono soltanto «province» recettive che subiscono passivamente l'impronta delle creazioni del genio greco; ma partecipano essi stessi, come «regioni» di una vasta comunità civile, alla elaborazione dell'arte arcaica, secondo le circostanze, le particolari esigenze, le capacità: e pertanto con proprie caratteristiche nell'ambito della più vasta unità periellenica. Nel caso dell'Etruria le peculiarità «regionali» della produzione d'arte arcaica potrebbero indicarsi nei seguenti motivi principali:
1)            esigenze religiose e funerarie che predispongono l'attività figurativa ad una rappresentazione concreta, immediata, veristica della realtà;
2)            sensibili persistenze di schemi, tecniche e tradizioni formali della precedente fase «mediterranea» ed orientalizzante;
3)            relazioni dirette e fortissime con le esperienze artistiche del mondo greco-orientale, e cioè dei centri eolici e ionici delle coste e delle isole dell' Asia Minore occidentale: tali da determinare per molti decenni (fra la metà del VI e il principio del V secolo) quella impronta, sostanzialmente unitaria, della cultura figurativa in Etruria che suoI definirsi appunto come arte ionico-etrusca;
4)            manifestarsi, nell'ambito dell'attività artistica locale, di rilevanti personalità, di artisti greci e locali e di scuole di alto livello (bronzisti di Vulci e di Perugia, pittori come il maestro della Tomba del Barone a Tarquinia, modellatori in terracotta di Veio come l'artefice dell'«Apollo» e i suoi seguaci, ecc.), cui difficilmente potremmo negare una autentica, origi- nale ed a volte vigorosissima genialità creativa.

La prospettiva storica muta completamente nella prima metà del V secolo. La Grecia passa dall'arte arcaica all'arte classica con un processo di fondamentale importanza per la storia della civiltà umana. Ma l'attività dei grandi maestri greci tende a farsi stilisticamente più serrata, acquista un carattere più «nazionale», si concentra specialmente attorno ad Atene e alle città del Peloponneso. Anche per motivi d'ordine politico-economico le regioni periferiche declinano. L'Etruria resta isolata. Lo spirito della classicità, in quanto realtà di un momento creativo irripetibile ed inimitabile, non trova rispondenza del mondo etrusco, dove, tra l'altro, le felici condizioni storiche che avevano favorito la fioritura artistica dell'arcaismo sono venute a cessare, con l'inizio di un lungo periodo di depressione e di decadenza. Vediamo così per tutta la durata del Ve fino all'inoltrato IV secolo perdurare motivi e formule di tradizione arcaica o ispirate all'arte greca di "stile severo", cioè della fase di passaggio dall'arcaismo alle forme classiche. Il fenomeno dell'attardamento proprio dei paesi marginali (come, ad esempio, nella contemporanea arte «subarcaica» di Cipro) si manifesta con una certa evidenza. La penetrazione delle influenze classiche è parziale e stentata. In questo ambiente privo di una tradizione unitaria ed accreditata, come già nella fase delle origini, la vitalità artistica si palesa soltanto in qualche effimero spunto di originalità espressiva; mentre nel campo della tecnica artigiana continua, particolarmente attiva, la produzione dei bronzisti.
Una intensa ripresa di contatti artistici fra Grecia ed Etruria ha luogo a partire dal IV secolo e si continua per tutta l'età ellenistica, confondendosi alla fine con il fenomeno, altrimenti ben noto, del trionfo dell'ellenismo nell'Italia romana della fine della repubblica e del principio dell'impero. Ma l'atteggiamento dei figuratori etruschi rispetto all'arte greca non sembra più quello dei tempi arcaici. Non si può più parlare della elaborazione, in qualche modo originale di un patrimonio comune: si tratta piuttosto della imitazione, più o meno fedele e riuscita, di modelli «stranieri». Non si accolgono soltanto forme e singoli motivi tipologici, ma si riproducono intere composizioni, specialmente da prototipi della grande pittura, ad ornamento di edifici e di oggetti. Per quest'ultima fase di produzione potrebbe giustificarsi il concetto dell'Etruria come «provincia» del mondo greco (ciò che equivale alla negazione di una sua originalità artistica).
Occorre però tener conto di un altro aspetto, completamente diverso e di gran lunga più importante, dell'attività figurativa etrusca di età ellenistica. In singoli monumenti o in gruppi di opere, specialmente dell'arte funeraria, vediamo aparire motivi e soluzioni stilistiche decisamente contrastanti con il gusto classico: strutture compatte e geometrizzanti, forme «.incompiute», sproporzioni, esasperazioni di particolari espressivi, ecc. Ci si può chiedere se e fino a che punto queste manifestazioni siano da spiegare come sopravvivenze artigianali di remote formule arcaiche, favorite dall'immobilismo rituale del mondo religioso etrusco, o come improvvisazioni popolaresche senza conseguenze, o addirittura come casuali effetti di una tecnica manuale scadente. Ma si può anche pensare a riflessi seppure indiretti dell'attività di artisti che, accogliendo antichissime assuefazioni locali e reagendo ai modelli greci secondo il proprio temperamento, abbiano tentato nuove forme di espressione. Questa ipotesi diventa certezza nel campo della ritrattistica, che ci si rivela con au- tentiche ed originali opere d'arte (grandi bronzi, pitture, ecc.) e con innumerevoli prodotti secondari (coperchi di sarcofagi, terrecotte), i quali mostrano a loro volta il formarsi di una salda tradizione locale attorno all'attività dei maestri maggiori.
In contrasto con il ritratto greco, al quale pure originariamente si ispira (nel IV secolo) e talvolta si richiama (nel corso dell'età ellenistica), il ritratto etrusco tende a realizzare il massimo della concretezza espressiva per ciò che concerne le fattezze e, in un certo senso, anche il «carattere» individuale, prescindendo dalla coerenza organica delle forme naturali, ma accentuando gli elementi essenziali attraverso l'impiego semplice, rude, discontinuo e a volte violento delle linee o delle masse.
Con questo possiamo dire che è nato un nuovo stile, una nuova tradizione artistica, effettivamente definita ed autonoma rispetto al mondo greco: una tradizione che è «etrusca», ma anche, più genericamente «italica», perchè il suo sviluppo si continua, di là dal tramonto dell'Etruria come nazione, nell'arte dell'ltalia romana e del mondo occidentale sotto l'impero. Tale visione «espressionistica» della realtà, specialmente nel ritratto, ma anche in altri temi d'arte, perdurerà vitale nelle correnti di produzione popolare dei primi secoli dell'impero, si diffonderà nell'arte provinciale europea, riaffiorerà impetuosamente nella grande arte romana aulica della fine del II e del III secolo d.C., costituirà una delle componenti più significative della civiltà artistica della tarda antichità e del medioevo.
La Religione
 
Introduzione
Il pantheon etrusco
Lo spazio sacro
L 'al di là
Forme del culto
Il culto degli dei e dei defunti
La ''disciplina etrusca"
L’interpretazione dei fulmini e delle viscere
L’osservazione dei prodigi
Libri Fulgurales
L'arte della divinazione
Il rito di fondazione
Le pratiche rituali
Il rituale funerario
Il culto dei morti




 Introduzione
Gli autori latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo religiosissimo esperto nell'arte divinatoria. Ebbero infatti un'articolata letteratura religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano una serie di rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli uomini (quella che costituiva la ''disciplina etrusca", ossia scienza etrusca), quindi sul rito e sull'interpretazione della volontà divina. Di queste norme possiamo farci solo un'idea attraverso alcuni passi di Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni che non ci sono pervenute) e tramite rarissimi documenti etruschi come la "mummia di Zagabria" o il "fegato di Piacenza". Sappiamo inoltre che quella etrusca fu una religione rivelata attraverso le profezie di esseri superiori come il fanciullo Tagete e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle origini la divinità appare sempre in modo molto impreciso, sia nell'aspetto che nelle mansioni ed è ragionevole pensare che in principio vi fosse un'unica entità divina che si manifestava in molteplici modi, assumendo connotati diversi. Tra l'VIII e il VI secolo a.C. si assiste alla trasformazione della religione etrusca. Dalla Grecia vennero importate in Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero figura umana e col tempo ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli dèi dell'Olimpo classico.





Il pantheon etrusco
 
Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarconte era il dio della tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell'Etruria - dice Varrone - era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il multiforme, che rappresentava l'eterno mutare della stagioni ed era adorato nel santuario federale di Volsinii. All'antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l'equivalente di Zeus ossia Juppiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell'amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio); Fufluns a Dionisio (Bacco); Sethlans a Efesto (Vulcano); di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce, ecc.. Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l'origine etrusca delle ''triadi" che conosciamo con certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le coppie (''diadi"), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai).
Gli Etruschi credevano nell’ineluttabilità del destino, al limite potevano solo rendere più piacevole la loro permanenza terrena, per questo motivo compivano feste e riti magici. Credevano nell’aldilà, in particolare nell’inferno, che aveva una porta di accesso, detta mundus, sorvegliato dalla terribile figura del demone Tuchulcha, mostro con orecchie d’asino, il muso di avvoltoio e i capelli fatti da serpenti. Questa figura fa maggiormente la sua presenza nella fase di declino della cultura etrusca, caratterizzata dalla presenza di morte e persecuzioni.
Il demone degli inferi era Charun, che accompagna i morti nell’aldilà, da cui si rievoca la figura di Caronte, portava indosso un mantello ed aveva in mano un martello, simile a quello impiegato oggi per la sepoltura del Papa, con il quale si tocca tre volte la tempia del pontefice defunto. Un gioco funebre caratteristico è quello legato al mito di Phersu, da cui ha origine la parola "persona", che aizza un cane contro una persona con la testa coperta da un sacco, che lentamente viene legata. Il cane sbrana la persona e sta a testimoniare l’ineluttabilità del destino. Le tombe rappresentavano le scene di vita quotidiana: gioia, feste, pranzi e, negli ultimi anni, dolore e terrore. Adottarono un calendario introdotto dai Tarquini, con influenze mesopotamiche, e poi modificato da Cesare, con l’aiuto sempre di tirreni. In esso si ricordavano feste e appuntamenti sacri. Suddivisero la loro era in dieci saeculum dopo dei quali ci sarebbe stata la fine della civiltà tirrenica, come in realtà fu confermato dalla storia.




 
Lo spazio sacro
 
Lo spazio “sacro”, orientato e suddiviso, risponde ad un concetto che in latino si esprime con la parola templum. Esso riguarda il cielo, o un'area terrestre consacrata - come il recinto di un santuario, di una città, di un'acropoli, ecc. -, ovvero anche una superficie assai più piccola (ad esempio il fegato di un animale utilizzato per le pratiche divinatorie), purchè sussistano le condizioni dell'orientamento e della partizione secondo il modello celeste. L'orientamento è determinato dai quattro punti cardinali. congiunti da due rette incrociate, di cui quella nord-sud era chiamata cardo (con vocabolo prelatino) e quella est-ovest decumanus nella terminologia dell'urbanistica e dell'agrimensura romana che sappiamo strettamente collegate alla dottrina etrusco-italica.

Posto idealmente lo spettatore nel punto d'incrocio delle due rette, con le spalle a settentrione, egli ha dietro di se tutto lo spazio situato a nord del decumanus. Questa metà dello spazio totale si chiama appunto «parte posteriore» (pars postica). L'altra metà che egli ha dinnanzi agli occhi, verso mezzogiorno, costituisce la «parte anteriore» (pars antica). Una analoga bipartizione dello spazio si ha nel senso longitudinale del cardo: a sinistra il settore orientale, di buon auspicio (pars sinistra o jamiliaris); a destra il settore occidentale, sfavorevole (pars d extra o hostilis). La volta celeste, così orientata e divisa, s'immaginava ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, nelle quali erano le abitazioni di diverse divinità. Questo schema appare riflesso nelle caselle del bordo esterno (appunto in numero di sedici) e nelle caselle interne (ad esse corrispondenti, seppure in maniera non del tutto chiara) del fegato di Piacenza. Tra i numi dei sedici campi celesti, citati da M. Cappella, e i nomi divini in scritti sul fegato esistono indubbie concordanze, ma non una corrispondenza assoluta, perche l'originaria tradizione etrusca pervenne presumibilmente alterata nelle fonti del tardo scrittore romano, con qualche spostamento nelle sequenze. Ciò nonostante è possibile ricostruire un quadro approssimativo del sistema di ubicazione cosmica degli dèi secondo la dottrina etrusca. Esso ci mostra che le grandi divinità superiori, fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli, si localizzavano nelle plaghe orientali del cielo, specie nel settore nord-est; le divinità della terra e della natura si collocavano verso mezzogiorno; le divinità infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si supponevano abitare nelle tristi regioni dell'occaso, segnatamente nel settore nord-ovest, considerato come il più nefasto.
La posizione dei segni che si manifestano in cielo (fulmini, volo di uccelli, apparizioni prodigiose) indica da qual nume proviene agli uomini il messaggio e se esso è di buono o di cattivo augurio. Indipendentemente dal punto di origine, una complicata casistica riguardante le caratteristiche del segnale (per esempio la forma, il colore, l'effetto del fulmine, o il giorno della sua caduta) aiuta a precisarne la natura: se si tratti cioè di un richiamo amichevole, o di un ordine, o di un annuncio senza speranza e così via. Lo stesso valore esortativo o profetico hanno le speciali caratteristiche presentate dal fegato di un animale sacrificato, preso in esame dall'aruspice, secondo una corrispondenza delle sue singole parti con i settori celesti. Così l'«arte fulguratoria» e l'aruspicina, le due forme tipiche della divinazione etrusca, appaiono strettamente collegate; ne fa meraviglia che esse possano essere state esercitate da un medesimo personaggio, come quel L. Cafatius di cui si rinvenne a Pesaro l'epitafio bilingue e che fu appunto haruspex (in etrusco netsvis) e fulguriator (cioè inrerprete dei fulmini: in etrusco trutnvt frontac o trutnvt?). Uguali norme devono aver presieduto all'osservazione divinatoria del volo degli uccelli, come intravvediamo specialmente da fonti umbre (Tavole di Gubbio) e latine. A tal proposito ha speciale importanza lo spazio terrestre d'osservazione, e cioè il templum augurale, con il suo orientamento e le sue partizioni, cui senza dubbio si ricollega la disposizione non soltanto dei recinti sacri, ma dello stesso tempio vero e proprio, cioè l'edificio sacro contenente il simulacro divino, che in Etruria appare di regola orientato verso sud o sud-est, con una pars antica che corrisponde alla facciata ed al colonnato ed una pars postica rappresentata dalla cella o dalle celle. E del pari le regole sacre dell'orientamento si osservano (almeno idealmente) nella planimetria delle città (concreto esempio monumentale è Marzabotto in Emilia), e nella partizione dei campi.
In tutte queste concezioni e queste pratiche, come in generale nelle manifestazioni rituali etrusche, si ha l'impressione, come già accennato, di un abbandono, quasi di una abdicazione dell'attività spirituale umana di fronte alla divinità: che si rivela nella duplice ossessione della conoscenza e dell'attuazione della volontà divina, e cioè da un lato nello sviluppo delle pratiche divinatorie, da un altro lato nella rigida minuziosità del culto. Così anche l'adempimento o la violazione delle leggi divine, nonche le riparazioni attuate attraverso i riti espiatorii, sembrano essere soprattutto formali, al di fuori di un autentico valore etico, secondo concezioni largamente diffuse nel mondo antico, che però appaiono soprattutto accentuate nella religiosità etrusca. Ma è possibile che almeno gli aspetti più rigidi di questo formalismo si siano definiti soltanto nella fase finale della civiltà etrusca, e precisamente nell 'ambito di quelle classi sacerdotali le cui elaborazioni rituali e teologiche trovarono la loro espressione nei libri sacri, forse favorite dal desiderio dei sacerdoti stessi di accentrare nelle loro mani l'interpretazione della volontà divina e quindi la direzione della vita spirituale della nazione.
Un altro aspetto, che si ricollega alla mentalità primitiva degli Etruschi, è l'interpretazione illogica e mistica dei fenomeni naturali, che persistendo sino in età molto recente viene a contrastare in maniera drammatica con la razionalità scientifica dei Greci. A questo riguardo è particolarmente significativo e rivelatore un passo di Seneca (Quaest. nat., II, 32, 2) a proposito dei fulmini: Hoc inter nos et Tuscos...interest: nos putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti,. ipsi existimant nubes collidi, ut fulmina emittantur," nam, cum omnia addeum referant, in ea opinionesunt, tamquam non, quiafactasunt, significent, sed quia significatura sunt, fiant. (La differenza fra noi [cioè il mondo ellenistico-romano] e gli Etruschi... è questa: che noi riteniamo che i fulmini scocchino in seguito all'urto delle nubi; essi credono che le nubi si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo alla divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perche debbono avere un significato...).




 
L 'al di là
 
La mistica unità del mondo celeste e del mondo terrestre si estende verisimilmente anche al mondo sotterraneo, nel quale è localizzato, secondo le dottrine etrusche più evolute, il reame dei morti. Gran parte delle nostre conoscenze sulla civiltà degli antichi Etruschi proviene, come è noto, dalle tombe (la stragrande maggioranza delle iscrizioni è di carattere funerario; alle pitture, alle sculture, alle suppellettili sepolcrali siamo debitori dei dati fondamentali sullo sviluppo delle forme artistiche e sugli aspetti della vita). Ed è naturale che le tombe ci offrano, più o meno direttamente, indizi sulle credenze relative alla sorte futura degli uomini e sui costumi e sui riti collegati a queste credenze. Ciò nonostante siamo ancora ben lungi dall'avere una idea chiara dell'escatologia etrusca. Motivi complessi e contrastanti denunciano livelli diversi di mentalità religiosa ed influenze eterogenee. Ne risultano problemi tuttora in parte irresoluti, singolarmente affascinanti.
Il carattere stesso delle tombe e dei loro equipaggiamenti, soprattutto nelle fasi più antiche, offre una testimonianza inequivocabile del persistere di concezioni primitive universalmente diffuse nel mondo mediterraneo, secondo le quali la individualità del defunto, comunque immaginata, sopravvive in qualche modo congiunta con le sue spoglie mortali, là dove esse furono deposte. Ne consegue l'esigenza, fondamentale per i superstiti, di garantire, difendere, prolungare concretamente questa sopravvivenza, non soltanto come tributo sentimentale di affettuosa pietà, ma come obbligo religioso non disgiunto, probabilmente, da timore. A questo genere di concezioni appartiene in Etruria, come altrove (e segnatamente nell'antico Egitto), la tendenza ad immaginare il sepolcro nelle forme di una casa, a dotarlo di arredi e di oggetti d'uso, ad arricchirlo di figurazioni pregne, almeno originariamente, di significato magico (specialmente pitture tombali con s.cene di banchetto, di musica, di danze, di giuochi atletici, ecc.), a circondare il cadavere delle sue vesti, dei suoi gioielli e delle sue armi; a servirlo con cibi e bevande; ad accompagnarlo con figurine di familiari; e, infine, a riprodurre l'immagine somatica del morto stesso, per offrire un incorruttibile «appoggio» allo spirito minacciato dal disfacimento del corpo, onde in Etruria (come già in Egitto) sembra nascere il ritratto funerario. Ma quale sia l'effettiva e più profonda natura delle idee religio- se che traspariscono esteriormente in così fatte costumanze e come esse abbiano potuto sussistere ed evolversi accanto ad altre credenze è cosa ancora tutto sommato assai oscura.
All'origine della storia delle città etrusche vediamo infatti dominare pressoche esclusivo un rito funebre, quale è quello della cremazione, che non può non riflettere concetti estranei a quelli del legame materiale tra spirito e corpo del defunto; che anzi, almeno nella piena età storica, esso sembra talvolta significare un'idea di «liberazione» dell'anima dai ceppi della materia verso una sfera celeste. Tanto più curioso è osservare come nelle tombe etrusche del periodo villanoviano e orientalizzante le ceneri e le ossa dei morti bruciati si contengano talvolta in urne in forma di abitazioni o entro vasi che tentano di riprodurre le fattezze del morto (i così detti "canopi" di Chiusi): ciò che rivela, già dai tempi più antichi del formarsi della nazione etrusca, una mescolanza di credenze e forse anche un riaffermarsi delle tradizionifunerarie mediterranee sul costume diffuso dai seguaci della cremazione. Ne si può affermare che l'idea della sopravvivenza nella tomba escluda assolutamente una fede nella trasmigrazione delle anime verso un regno dell"'al di là". Ma è certo che in Etruria quest'ultima concezione si venne affermando e concretando progressivamente sotto l'influsso della religione e della mitologia greca, con l'attenuarsi delle credenze primitive: e si configurò secondo la visione dell'averno omerico, popolato da divinità ctonie, spiriti di antichi eroi ed ombre di defunti. Già nei monumenti del Ve IV secolo, e poi soprattutto in quelli di età ellenistica, la sorte futura è rappresentata come un viaggio dell'anima verso il regno dei morti e come un soggiorno nel mondo sotterraneo. Soggiorno triste, senza speranza, a volte dominato dallo spavento che incute la presenza di mostruosi dèmoni, o addirittura dai tormenti che essi infliggono alle anime. È, in sostanza, la materializzazione dell'angoscia della morte in una escatologia essenzialmente primitivistica. E a simboleggiare la morte sono specialmente due figure infernali: la dea Vanth dalle grandi ali e con la torcia, che, simile alla greca Moira, rappresenta il fato implacabile; e il dèmone Charun, figura semibestiale armata di un pesante martello, che può considerarsi una paurosa deformazione del greco Caronte dal quale prende il nome. Sia di Vanth sia di Charun esistono moltiplicazioni, forse con una propria individualità ed un proprio secondo nome. Ma la demonologia infernale è ricca e pittoresca, e conosce altri personaggi, come l'orripilante Tuchulcha dal volto di avvoltoio, dalle orecchie d'asino e armato di serpenti; accoglie largamente la simbologia di animali ctonii, come il serpente e il cavallo.
Anche per questa fase più tardiva le fonti monumentali, nei loro aspetti frammentari ed esteriori, sono insufficienti a darci un'idea sicura e completa delle credenze contemporanee sull'oltretomba. Stando alle pitture e ai rilievi sepolcrali, parrebbe che il destino dei morti fosse inesorabilmente triste ed uguale per tutti: la legge crudele non risparmia neanche i personaggi più illustri, la cui affermazione di superiorità si limita ai costumi sfarzosi, agli attributi delle cariche rivestite e al seguito che li accompagna nel viaggio agli inferi. Esistono tuttavia nella tradizione letteraria, alcuni accenni più o meno espliciti a consolanti dottrine di salvazione, e cioè alla possibilità che le anime conseguano uno stato di beatitudine o addirittura q i deificazione, attraverso speciali riti che sarebbero stati descritti dagli Etruschi nei loro Libri Acherontici. Un prezioso documento originale di queste cerimonie di suffragio, con prescrizioni di offerte e di sacrifici a divinità specialmente infernali, sembra esserci conservato nel testo etrusco della tegola di Capua, che risale al V secolo a.C.. Non sappiamo fino a che punto allo sviluppo di queste nuove concezioni escatologiche abbia contribuito il diffondersi in Etruria di dottrine orfiche, pita- goriche e, più ancora, dionisiache (il culto di Bacco è, in verità, largamente attestato anche in rapporto con il mondo funerario). Comunque le speranze di salvazione sembrano restare collegate al concetto delle operazioni magico-religiose, proprie di una spiritualità primitiva, piuttosto che dipendere da un superiore principio etico di retribuzione del bene compiuto in vita.




 
Forme del culto
 
Le testimonianze monumentali, i documenti scritti etruschi e i riferimenti delle fonti letterarie classiche offrono numerosi dati per la ricostruzione della vita religiosa e delle forme del culto. Si tratta di costumanze che, almeno per quel che riguarda gli aspetti sostanziali (luoghi sacri e templi, organizzazione del sacerdozio, sacrifici, preghiere, offerte di doni votivi, ecc.), non differiscono profondamente dalle analoghe manifestazioni del mondo greco, italico e, specialmente, romano. Ciò si spiega per un verso considerando i comuni orientamenti spirituali della civiltà greco-italica a partire dall'età arcaica, per altro verso tenendo conto della fortissima influenza esercitata dalla religione etrusca su quella romana. Uno studio delle antichità religiose etrusche non può quindi prescindere dal quadro, ben altrimenti particolareggiato e complesso, che in materia rituale ci presentano la Grecia e Roma: tanto più difficile è determinare i riflessi che le concezioni proprie della mentalità religiosa etrusca ebbero, con motivi peculiari, nella prassi del culto.
Sarà, in primo luogo, da attribuire agli Etruschi quella concreta e quasi materialistica adesione a norme sancite ab antiquo, quel preoccupato formalismo dei riti, quel frequente insistere sui sacrifici espiatorii, che si avvertono nell'ambito delle tradizioni religiose romane come un elemento in certo senso estraneo alla semplice religiosità agreste dei prisci Latini e indizio della presenza di un fattore collaterale che non può non riportarsi ad una antica e matura civiltà cerimoniale, quale è appunto l'etrusca. Questa ars colendi religiones (secondo l'espressione di Livio nel passo sopra citato) risponde in pieno al senso di subordinazione dell'uomo alla divinità, che sappiamo predominante nella religiosità etrusca e presuppone la fede nella efficacia magica del rito, proprio delle mentalità più primitive. La concretezza degli atti cultuali si manifesta nella precisa determinazione dei luoghi, dei tempi, delle persone e delle modalità, entro i quali e attraverso i quali si compie l'azione stessa volta ad invocare o a placare la divinità: quell'azione che i Romani chiamavano nel loro complesso res divina e gli Etruschi probabilmente ais(u)na (cioè, appunto, servizio "divino", da ais "dio"): donde, anche, la parola umbra esono "sacrificio". Essa si svolge nei luoghi consacrati (tempia) dei quali si è fatta già menzione: recinti con altari ed edifici sacri contenenti immagini delle divinità. Sovente questi edifici sono orientati verso sud e sud-est. Il concetto di consacrazione al culto di un determinato luogo o edificio è forse espresso in etrusco dalla parola sacni (donde il verbo sacnisa): questa condizione può estendersi, come in Grecia e nel mondo italico e romano, ad un complesso di recinti e templi, per esempio sulle acropoli delle città (Marzabotto); carattere in certo senso analogo hanno anche le tombe, presso le quali o entro le quali si compiono sacrifici funerari o si depongono offerte.
Speciale importanza deve avere avuto in Etruria la regolamentazione cronologica delle feste e delle cerimonie, che, insieme con le modalità delle azioni sacre, costituiva la materia dei Libri Rituales ricordati dalla tradizione. Il massimo testo rituale etrusco, tramandatoci nella lingua originale -e cioè il manoscritto su tela parzialmente conservato nelle fasce della mummia di Zagabria - contiene un vero e proprio calendario liturgico, Con l'indicazione dei mesi e dei giorni ai quali si riportano le cerimonie descritte. È probabile che altri documenti fossero redatti nella forma attestata dai calendari sacri latini: e cioè come una elencazione consecutiva di giorni contrassegnati dal solo titolo delle feste o dal nome della divinità celebrata.
Il calendario etrusco era forse analogo al calendario romano precesareo: conosciamo il nome di alcuni mesi e sembra che le "idi", circa a metà del mese, abbiano un nome di origine etrusca; ma il computo dei giorni del mese segue generalmente, a differenza del calendario romano, una numerazione consecutiva. Ogni santuario ed ogni città doveva avere, come è logico, le sue feste particolari: tale è appunto il caso del sacni cilfh (santuario di una città non altrimenti identificabile), al quale fa riferimento il rituale di Zagabria. Le celebrazioni annuali del santuario di Voltumna presso Volsinii avevano invece carattere nazionale, come sappiamo dalla tradizione. Tra le cerimonie e gli usi sacri può ricordarsi quello della infissione dei chiodi per segnare gli anni (clavi annales) nel tempio della dea Nortia a Volsinii, ricordato a proposito dell'analogo rito del tempio di Giove Capitolino a Roma. Anche per intendere la natura e l'organizzazione dei sacerdozi siamo costretti ad avvalerci del confronto con il mondo italico e romano.
Abbiamo in ogni caso indizi per ritenere che essi fossero varii e specializzati, strettamente collegati con le pubbliche magistrature e sovente riuniti in collegi. Il titolo sacerdotale cepen (con le variante cipen attestata in Campania), particolarmente frequente nei testi etruschi, è ad esempio seguito spesso da un attributo che ne determina la sfera d'azione o le specifiche funzioni: come nel caso di cepen fhaurx, che senza dubbio indica un sacerdote funerario (da fhaura «tomba»). La dignità sacerdotale in genere o specifici sacerdozi sono designati anche con altre parole: quali eisnevc (in rapporto con aisna, l'azione sacrificale), celu, forse santi, ecc. Si hanno inoltre i sacerdoti divinatori: e cioè gli aruspici (netsvis), rappresentati nei monumenti con un costume caratteristico composto di un berretto a terminazione cilindrica e di un manto frangiato, e gl'interpreti dei fulmini (trutnvt?). Il titolo marun-, è, come già sappiamo, in rapporto con funzioni sacrali, per esempio nel culto di Bacco (marunux paxanati, maru paxafhuras): si osservi il doppio titolo cepen marunuxva, che indica probabilmente un sacerdozio con le funzioni proprie dei maru. Si può ricordare anche il titolo zilx cexaneri, nel quale si è voluto intendere qualcosa come "curator sacris faciundis", (ma è congettura molto opinabile). Probabilmente a confraternite si riferiscono termini collettivi quali paxafhuras,  formalmente analoghi a quelli che esprimono aggregati gentilizi (per es. Velfhinafhuras nel senso dei membri della famiglia Velfhina) o altri collegi.
A Tarquinia esisteva in età romana un arda LX haruspicum veri similmente di antica origine. Uno degli attributi dei sacerdoti era illituo, bastone dall'estremità ricurva, che è però frequentemente rappresentato nei monumenti anche in rapporto ad attività profane, per esempio in mano ai giudici delle gare atletiche. L 'azione del culto è volta ad interrogare la volontà degli dèi, secondo le norme dell'arte divinatoria; e quindi ad invocare il loro aiuto e perdono attraverso l'offerta. È probabile che l'una e l'altra operazione fossero strettamente collegate tra loro; benche sia ricordata dalle fonti letterarie una distinzione tra vittime sacrificate per la consultazione delle viscere (hastiae cansultatariae) e vittime destinate all'offerta vera e propria, in sostituzione dei sacrifici umani (hastiae animales). Del pari intrecciate in complicati cerimoniali sembrano le offerte incruente (di liquidi e cibi) con quelle cruente di animali. Il grande rituale di Zagabria e il rituale funerario della Tegola di Capua descrivevano minuziosamente, in tono prescrittivo e con un linguaggio tecnico specializzato, queste liturgie; ma lo stato delle nostre cognizioni della lingua etrusca non ci consente di stabilire con esattezza il significato di molti 'termini impiegati nella descrizione dei riti e, pertanto, di ricostruirne in pieno lo svolgimento. La preghiera, la musica, la danza dovevano avere larga parte nelle cerimonie. Una scena di culto con offerte è rappresentata nella parete di fondo della Tomba del Letto Funebre di Tarquinia.
I doni votivi offerti nei santuari, per grazie chieste o ricevute, consistono per lo più di statue di bronzo, pietra, terracotta, raffiguranti le divinità stesse e gli offerenti, o anche animali, in sostituzione delle vittime, e parti del corpo umano; inoltre vasi, armi, ecc. Questi oggetti che erano ammassati in depositi o favisse, recano spesso iscrizioni dedicatorie. Essi variano per valore artistico e per pregio (la massima parte è costituita da modeste figuri ne di terracotta lavorate a stampo): ciò che indica, intorno ai grandi centri del culto, una diffusa e profonda religiosità popolare.




 
Il culto degli dei e dei defunti
 
Dopo che i sacerdoti avevano ottenuto attraverso la divinazione la conoscenza del volere divino, si dava attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento, sulla base delle norme che facevano anch'esse parte della ''disciplina etrusca" ed erano oggetto di trattazione nei Libri Rituales. Queste norme si traducevano (e si esaurivano) in una serie impressionante di pratiche, cerimonie e riti rigidamente codificati e ripetuti meccanicamente fino a diventare puro e semplice formalismo. Essi toccavano sia gli aspetti religiosi della vita degli etruschi sia quelli civili, secondo il principio che ''ogni azione umana doveva essere compiuta in conformità della disciplina". E per ogni rito, cerimonia di culto o servizio divino doveva essere stabilito con precisione il luogo, il tempo, il modo, lo scopo, la persona preposta e, naturalmente, la divinità che veniva chiamata in causa. Le funzioni sacre si svolgevano perciò in luoghi rigidamente circoscritti e consacrati (templi, santuari, altari) e il loro svolgimento era codificato fin nei minimi particolari tanto che, se veniva sbagliato od omesso anche un solo gesto, tutta l'azione doveva essere ripetuta da capo. Musica e danza vi trovavano ampio spazio. Oltre all'uso di sacrificare bovini, ovini e volatili, particolarmente diffuso era quello dei doni votivi che potevano andare dagli ex voto (statue e statuine di divinità e di offerenti), alle prede di guerra (armi, carri), agli stessi edifici sacri (dedicazione di un tempio o di un sacello).
Tra le pratiche di carattere religioso quelle destinate ai defunti avevano presso gli etruschi un carattere tutto particolare. Esse erano legate alla concezione (del resto diffusa in altre civiltà del Mediterraneo) che l'attività vitale del defunto, la sua ''individualità" continuasse anche dopo la morte e che questa sopravvivenza avesse luogo nella tomba. Spettava però ai vivi, ai familiari e dei parenti, garantire la sopravvivenza dell'entità vitale del defunto al quale doveva essere data una tomba, cioè una nuova casa, e un corredo di abiti, oggetti d'uso personali, cibi, di cui si serviva simbolicamente o magicamente. Per la stessa ragione vitalità e forza venivano trasmesse al defunto con giochi e gare atletiche che si svolgevano in occasione dei funerali o delle ricorrenze anniversarie della morte. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, la prassi non era dissimile da quella che avveniva altrove: esposizione del cadavere al compianto pubblico e alle lamentazioni di donne appositamente pagate (prefiche), corteo funebre e banchetto presso la tomba. Il culto della ''sopravvivenza" nel sepolcro era ulteriormente sviluppato nel culto degli antenati e in particolar modo del capostipite, specie delle famiglie gentilizie. Tra il V e il IV secolo a.C., però, la fede della sopravvivenza del morto nella tomba cambiò sotto l'effetto delle suggestioni provenienti dalla civiltà greca. Ad essa si sostituì la concezione di un ''mondo dei morti" (simile all'Averno o all'Ade) dove le ''ombre" soggiornavano. Ai defunti vennero allora dedicati particolari riti di suffragio, stabiliti dai Libri Acherontici, e offerte alle divinità infere (in particolare il sangue di alcuni animali) che potevano consentire alle anime il conseguimento di uno speciale stato di beatitudine.




 
La ''disciplina etrusca"
 
Secondo gli etruschi gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana: occorreva quindi ''tradurre" la loro volontà andando in cerca dei segni attraverso i quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a disposizione un codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme precise e costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento atto a soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo complesso di conoscenze fu chiamato dai romani ''disciplina etrusca" i cui principi ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all'intervento rivelatore della stessa divinità. Essa si sarebbe servita di esseri mitici o semidei (come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero ''dettato" le verità soprannaturali e insegnato agli uomini l'arte di avvicinarsi ad esse: in pratica la divinazione. Appositi collegi sacerdotali, che si tramandavano la professione di padre in figlio, erano preposti all'interpretazione dei segni della volontà divine: i fulguratores osservavano le traiettorie dei fulmini, gli àuguri interpretavano i voli degli uccelli, gli arùspici leggevano il fegato delle pecore e di altri animali sacrificati.
Le dottrine divinatorie, e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso e vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della cosiddetta ''disciplina etrusca": i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo Tagete, trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i Libri Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa Vegoe, riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati anch'essi dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta celeste, della gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità per la fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine degli ordinamenti civili e militari. Esistevano poi i Libri Acherontici, svelati da Tagete, che esponevano le credenze nell'oltretomba e dettavano le norme per i riti di salvazione. Infine v'erano i Libri Fatales, nei quali si trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca, e i Libri Ostentaria che trattavano dell'interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.




L’interpretazione dei fulmini e delle viscere

L’interpretazione dei fulmini
L’osservazione e l’interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica alquanto complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui essi apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le varie divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di un solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre.
Il primo era il fulmine “ammonitore” che il dio lanciava di sua spontanea volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che “atterrisce” ed era considerato manifestazione d’ira; il terzo era il fulmine “devastatore”, motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che esso “devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche che private”. I fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C’era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, “o minaccia o promette o avverte”; quindi quello che “fora”, sottile e senza danni; quello che “schianta”; quello che “brucia”, ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un tale groviglio di possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano sbrogliarsi. Plinio il Vecchio arriva ad affermare che un sacerdote esperto poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, riuscire con speciali preghiere, ad ottenerla.
Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c’era l’obbligo di costruire per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un tumuletto di terra, in cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba erano considerati sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio calpestarli, erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali “nefasti da sfuggire”, come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio originario dell’etrusca Volterra.
 
L’interpretazione delle viscere
 
Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette in latino exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato (in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per il sacrificio. Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi e talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore.
Delle viscere dovevano essere prese in considerazione la forma, le dimensioni, il colore ed ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione, erano ritenute “mute” e inutilizzabili; erano invece “adiutorie” quando indicavano qualche rimedio per scampare ad un pericolo; “regali” se promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; “pestifere” quando minacciavano lutti e disgrazie. L’osservazione era più minuziosa nel caso del fegato, dato che in esso, per l’aspetto generale e per la particolare conformazione, veniva riconosciuto il “tempio terrestre” corrispondente al “tempio celeste”. La sua importanza era del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede degli affetti, del coraggio, dell’ira e dell’intelligenza. Ritenuto che nel fegato fosse esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel fegato, le irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le regolarità, e quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che occupava la casella interessata. Per meglio riuscire nell’intento, per l’istruzione dei giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle diverse divinità.




 
L’osservazione dei prodigi
 
La fama di insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale godevano gli Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche esperti conoscitori del significato di ogni genere di prodigi. Il romano Varrone, che desumeva evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i prodigi si distinguevano l’ostentum, che prediceva il futuro; il “prodigio”, che indicava il da farsi; il “miracolo”, che manifestava qualcosa di straordinario; il “mostro”, che dava un avvertimento. Tra i prodigi più frequenti erano annoverati la pioggia di sangue, la pioggia di pietre e quella di latte, gli animali che parlavano, la grandine, le comete, le statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle manifestazioni di carattere straordinario, nelle categorie dei prodigi rientravano anche fatti del tutto naturali: c’erano perciò alberi e animali “felici” o “infelici”, cioè portatori di cattivo o di buon auspicio, piante commestibili che portavano bene e piante selvatiche che portavano male. La casistica era infinita: ad essa tutti prestavano in genere molta attenzione, magari per tradizione o per rispetto della comune opinione.




 
Libri Fulgurales
 
Seneca (II 32 ss.) e Plinio (II,135 ss:) hanno conservato una larga parte di excepta dai libri fulgorales etruschi e della loro minuziosa casistica (soprattutto delle opere del volterrano Cecina). Il principio basilare e' quello secondo il quale: alcuni Dei posseggono le Manubiae, ovvero le potesta' di scagliare i fulmini.(Serv. Aen. I,42.) In particolare 9 dei  (Plin. n. h.,II,138), forse da identificare con i misteriosi dii novensiles o novensides della lista di Marziano Capella, ma noti anche in dediche romane.
I tipi di Fulmine sono 11 per 9 Dei, perche' Tinia (Tin = Giove) possiede 3 manubiae. (Plin. n.h., II, 138; Sen. n.q. II,41) Le 3 manubie possono distinguersi per il loro significato e per il fatto di essere scagliati da Giove da solo o con il "consiglio" degli altri Dei.
Prima manubia           del Solo Tinia
Seconda manubia       di Tinia + i 12 Dei Consentes
Terza Manubia           di Tinai + Dei Involuti
I 3 tipi di fulmini possono essere  di natura fisica (Fest. p. 114 L; Sen. n.q. II, 40) oppure  per alcuni  (Serv. auct. Aen. VIII, 429)
ostentatorium = dimostrativo
(dopo consultazione con i 12 Dei Consentes. Segno di Ira degli Dei.Utile e dannoso serve per impaurire).
peremptorium = perentorio
(Dopo consultazione con i Dei superiores et involuti. Devasta. Indica che tutto verra' radicalmente trasforamato nella vita pubblica o privata.)
presagum = presago
(Di avvertimento per suadere (convincere) o dissuadere (far cambiare idea)).
Da Seneca ..manubia placata est et ipsius concilio iovis mittitur.
oppure per altri  (Serv. Aen. I, 230)
quod terreat  = che atterisce
quod adflet    = che soffia
quod puniat   = che punisce
Degli altri 9 Dei abbiamo  solo degli indizi,dalle fonti letterari, per 5 di essi:
Uni = Giunone
Menerva = (Mnrva,Menrua,Meneruva,Merva,Merua,Mera)= Minerva
Sethlans =   Vulcano  
Mari = (Mars,Maris) Marte
Satres = (Satrs) Saturno
La dottrina romana del fulmine attribuiva i fulmini notturni a Summanus e tenendo conto del fegato di Piacenza e cio' che dice Capella probabilmente il corrispondente etrusco potrebbe essere Cilen - Nocturnus. Mentre l'identita' tra Vetisl etrusco e Vediovis o Veiovis romano farebbe attribuire a questo una manubia infera, anche in considerazione di uno Zeus sbarbato munito di fulmine frequente nella iconografia etrusca. Anche per i fulmini vale la dottrina delle 16 regioni che vale per l'epatoscopia.(Plin. n.h. II, 143)
L'esame del fulmine (e del tuono) da parte dell'aruspice prevedeva una casitica precisa, enunciataci da Seneca (n.q. II ,48 ,2 ):
1- Da parte di quale Dio proviene
2- quale = di che tipo e'
3- quantum = la durata
4- ubi factum sit, cui = l' oggetto colpito
5- quando, in qua re = in che circostanza
 
Per quel che riguarda il tipo:
1 - di che colore era il fulmine
manubiae albae = bianche = forse di Tinia
manubiae nigrae = nere = di Sethlans
manubiae rubrae = rosse = forse di Mari
Provenienti dai Pianeti associati al nome divino e non dal Dio.
I fulmini provenienti da Satres provenivano anche dalla Terra in inverno ed erano detti Infernali.
2 - genus:
l' acre  del fulmine, il grave  del tuono, intensita' e capacita' erano di 3 tipi:
quod terebrat = che perfora,sottile e fiammeggiante.
quod dissipat = che si disperde,passante,capace di rompere senza perforare.
quod urit = che brucia in 3 modi
come un soffio (afflat) e senza grave danno bruciando dando fuoco
 
3 - C' erano fulmini Secchi - Umidi e Clarum (Plinio)
Per quel che riguarda l'oggetto colpito i fulmini possono essere
fatidica = cioe' portatori espressi di segni eventualmente comprensibili (fata)
bruta = privi di significato
vana = il cui significato si perde
l'oggetto puo' essere
schiantato = discutere
non rompersi = terebrare
essere + o - affumicato = urere
restare affumicato = fuscare
 
Per quel che riguarda l'auruspice Seneca dice che il sacerdote procedeva
con l'analisi sistematica = quomodo exploremus
con l'interpetazione dei segni = quomodo interpretemus
con l'espiazione, propiziazione e purificazione = quomodo exoremus
Ma soprattuto il sacerdote non era solo in grado di leggere i segni
ma anche di evocarli con l'attirare (exorare) il fulmine.




 
L'arte della divinazione
 
Il segno più importante, la ''voce" più potente della divinità era il fulmine, che proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l'ars fulguratoria, cioè quella di trarre dalla sua osservazione tutte le informazioni possibili, era quindi al primo posto nella divinazione etrusca. Era regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all'osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c'era un'altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine. Era l'epatoscopia, o lettura del fegato degli animali sacrificati, che i romani chiamavano haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva fosse proiettata la divisione della volta celeste, veniva strappato ancora palpitante dal corpo dell'animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano le regolarità e irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un messaggio. Per questo venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in terracotta sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle divinità. Fra i modelli giunti sino a noi il più celebre è il ''Fegato di Piacenza". Oltre al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come il cuore, i polmoni, la milza.




 
Il rito di fondazione
 
Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l'antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine significativo di templum) all'interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura correva inoltre, tanto all'esterno quanto all'interno, un'ampia fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così come ce l'hanno tramandata le leggende è un'applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del perimetro, profana i sacri confini e ''invade" la nuova fondazione.




          
Le pratiche rituali
 
Dal momento che con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del volere divino, si trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle norme prescritte dalla “disciplina” e oggetto della trattazione specifica dei “libri rituali”. Tali norme si traducevano in una serie interminabile di pratiche, di cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i tempi e i modi nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che veniva chiamato il “servizio divino” (aisuna o aisna, da ais che significa dio), nell’indicazione delle persone alle quali l’azione competeva e, naturalmente, prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi regolati dalla successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi particolari, tanto che, qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo gesto, tutta l’azione avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni trovavano ampio spazio la musica e la danza; le preghiere potevano essere d’espiazione, di ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti riguardavano particolari categorie di animali; le offerte comprendevano prodotti della terra, vino, focacce e altri cibi preparati.
Particolarmente diffusa, tanto a livello di religiosità “ufficiale” quanto a livello di religiosità popolare, era l’usanza dei doni votivi. Nel primo caso poteva trattarsi di statue o altre opere d’arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri; nel secondo caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per lo più di terracotta (ma anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i fedeli compravano nelle apposite rivendite presso i santuari.




 
Il rituale funerario
 
Durante il periodo villanoviano, il corpo del defunto era spesso cremato; le sue ossa combuste venivano raccolte in un apposito vaso che per la sua forma gli archeologi hanno chiamato "biconico", poichè costituito da due coni contrapposti, collegati per le basi (museo archeologico-topografico, sala di Roselle ecc.). In genere, questo contenitore ha soltanto un' ansa (quando ve n'erano due, una veniva ritualmente spezzata). Inoltre, la sua bocca è coperta da una ciotola, anch'essa munita di una sola ansa; oppure, nel caso che il defunto fosse appartenuto alla classe dei guerrieri, è talvolta coperta da un elmo. Il vaso e il corredo funebre, composto dagli oggetti più cari al defunto, vengono deposti in un "pozzetto", scavato appositamente nel terreno; talvolta, le sue pareti vengono foderate con lastre di pietra e l'apertura ne è chiusa con un lastrone. In alcune zone dell'Etruria d'epoca villanoviana i cinerari hanno la forma di capanna, le cosiddette "urne a capanna" appunto (museo archeologico-topografico, sala di Vetulonia), quasi a voler ricostruire per il defunto la sua casa terrena.
Il corredo mostra alcune differenze, soprattutto a livello di sesso: spesso la presenza di un rasoio distingue la deposizione dell'uomo, mentre quella della donna è evidenziata da oggetti usati per la filatura, come un fuso o una fuseruola. Successivamente, nell'VIlI secolo a.C. il corredo che accompagna il defunto diventa più prezioso, aumentano gli oggetti di metallo, soprattutto in bronzo, e compa- provenienti dalla Grecia; cominciano inoltre altri tipi di sepolture, contraddistinte da dimensioni maggiori, come le tombe a fossa, nelle quali viene deposto il defunto inumato. Con l'inizio di questo tipo di sepoltura, il rito cambia; in- fatti, il corpo del defunto non è cremato, ma è deposto in una fossa scavata nel terreno, munita talvolta di pareti foderate con lastre di pietra -Sovana-, come i "pozzetti". In alcune aree dell'Etruria, per esempio a Vetulonia, più tombe di questo tipo vengono riunite entro circoli di pietre, quasi a voler tener uniti i membri di una medesima famiglia.
La differente ricchezza presente nei contesti funebri è un dato molto importante perche segnala, all'interno della società etrusca, il formarsi di una diversa stratificazione sociale rispetto alla più omogenea situazione del periodo villanoviano. Nel periodo orientalizzante, nel VII secolo a.C., troviamo tombe costruite o scavate nella roccia; la scelta fra le due possibilità è dovuta ai diversi tipi di formazione geologica presenti nelle differenti aree e, per molti decenni, i membri di una stessa famiglia (gens) vengono sepolti all'interno di una medesima tomba . I corredi raggiungono talora livelli di ricchezza eccezionali; la tomba assume carattere monumentale, manifestando così la potenza della famiglia a cui appartiene. Un lungo dròmos (corridoio) porta all'interno della tomba, in cui è scavata o costruita la camera funeraria sotterranea; all'esterno la protegge un tumulo artificiale di terra, contenuto da un "tamburo" (un muro circolare) di pietra. Dal VI secolo a.C. diminuiscono le dimensioni delle tombe, scompare il loro aspetto monumentale e si assiste talvolta a una specie di "pianificazione edilizia" all'interno della necropoli, come quella della Necropoli del Crocifisso del Tufo a Orvieto. Il dato archeologico ci fa comprendere, in tale caso, che la grande aristocrazia, quella proprietaria dei monumentali tumuli, ha perso potere in quest'area, lasciando spazio a un ceto medio. Le costruzioni monumentali permangono in uso solo in alcune zone dell'Etruria. A Populonia troviamo nella seconda metà del VI secolo un tipo di costruzione piuttosto origi nale, la cosiddetta "tomba a edicola", il cui esterno è simile a una piccola casa munita di un tetto a doppio spiovente.
Nel periodo ellenistico ci sono ancora tombe di proporzioni monumentali, come quelle di Sovana o di Norchia, le note e affascinanti tombe rupestri scavate nella roccia tufacea. Le loro facciate imitano quelle dei templi o dei palazzi, come si rileva per la tomba Ildebranda a Sovana. S'intendeva evidentemente eroizzare il defunto, deponendo il suo corpo all'interno di un vero e proprio "tempio"; vicino alla tomba vi possono essere altari per le celebrazioni cultuali dei defunti. Nello stesso periodo, a Volterra le tombe vengono scavate nella roccia tufacea; sulle loro banchine, ricavate nella pietra, troviamo urne contenenti le "ceneri" dei defunti di una medesima gens . Tali "urnette", prodotte dalle botteghe locali in alabastro o tufo, sono decorate sulla cassa con rilievi più o meno alti, raffiguranti scene mitologiche tratte dal repertorio greco (Iliade, Odissea, ecc. ) oppure legati al mondo etrusco (il congedo del defunto dai propri cari, mostri dell'aldilà ecc.). Il coperchio "rappresenta" in genere il defunto/a disteso sul letto da banchetto. Il viso della persona effigiata non è inteso quale ritratto nel senso proprio del termine, ma piuttosto una “tipologia” di volto, che raffigura  per esempio una "giovane donna" oppure un "uomo anziano".
Nel II secolo a.C., accanto a questo tipo di urna cineraria, rivolta a una committenza appartenente a un ceto "medio", compaiono urnette in terracotta, provenienti dal territorio di Chiusi, realizzate a matrice e deposte in tombe a "nicchiotto" semplicemente scavate. Furono fatte per una classe sociale economicamente meno rilevante, che tuttavia ebbe notevole fortuna politica nell'Etruria Settentrionale del tempo. In alto, sulla cassa, è scritto il nome del defunto, a testimoniare la diffusione dell'alfabetizzazione, ormai raggiunta anche da ceti sociali "subalterni".
 
L'antropomorfizzazione e le statue cinerario
 
Il Museo Archeologico di Firenze rivela al visitatore un aspetto interessante della civiltà etrusca, talvolta non del tutto conosciuto. Il fenomeno riguarda in particolare la città di Chiusi, le cui manifestazioni connesse all'arte e all'artigianato rivelano, già nel VII secolo a.C., una tendenza all'antropomorfizzazione: i vasi canopi. Sono ossuari realizzati in genere con ceramica di impasto, ma talvolta anche in metallo (bronzo), cinerari che presentano per coperchio una raffigura zione stilizzata della testa del defunto; qualche volta, il "vaso" ha due piccole braccia disegnate a rilievo e può essere collocato sulla rappresentazione miniaturizzata di un sedile (Museo archeologico-topografico, sala di Chiusi). Qualcosa di simile troviamo anche nel periodo Villanoviano, quando per coperchio del vaso biconico è posto un elmo, quasi a voler restituire un 'integrità fisica al defunto.
Successivamente, nel V secolo a.C., questa tendenza diventa ancora più evidente con la presenza, sempre nella città di Chiusi, di statue cinerario: grandi sculture, come quella della Mater Matuta, scolpite in pietra, che ospitano in una cavità interna le "cene ri" del defunto, mentre la testa amovibile della statua funge da "chiusura”.
 
La tomba come casa del defunto
Gli scavi archeologici delle necropoli ci hanno fornito molti dati sulla civiltà etrusca. Un fattore costante nell'ideologia funeraria etru- sca risulta la tomba, sentita come dimora del defunto. Abbiamo già riferito di alcune urne cinerarie conformate "a capanna", ma anche taluni monumenti funerari possono denotare questo aspetto. L'ingresso della tomba può essere costituito da una porta in pietra con tanto di battenti e, a guardia di essa come a custodia di un'abitazione terrena, sono poste statue di animali fantastici, quali sfingi leonine, o più vicini alla realtà, come i leoni; oppure, a testimonianza dell' importanza del defunto, troviamo statue rigididamente composte di prefiche. Talvolta le camere sotterranee delle tombe gentilizie riproducono fedelmente la pianta e l'interno di un'abitazione, il cui "arredo" viene allora "scolpito" nell'interno: sedie, letti, porte modanate, le stesse suppellettili, nonche i tetti a doppio spiovente con l'orditura delle travi del soffitto. Medesima decorazione si riscontra nella forma e nel coperchio di alcune urne cinerarie, che hanno l' aspetto esteriore identico a quello di una casa. Da tutto ciò emerge chiaramente l'immagine di un mondo dell'aldilà molto prossimo a quello terreno. Gli oggetti che facevano parte del corredo funebre testimoniano la volontà degli Etruschi di ricreare nell'oltretomba la realtà di ogni giorno. Un'ulteriore testimonianza di ciò è notoriamente rappresentata dalle pitture delle tombe, che spesso riproducono scene di vita quotidiana e in particolare di banchetto.




 
Il culto dei morti
 
Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto particolare occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei primi tempi, esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la morte di una speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si accompagnava l’idea che quell’attività avesse luogo nella tomba e fosse in qualche modo congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva dalla collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a garantire, agevolare e prolungare per quanto possibile la “sopravvivenza” con adeguati provvedimenti. 
La prima esigenza da soddisfare era quella di dare al morto una tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo veniva quella di fornirgli un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d’uso e, insieme, una scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi. Si poteva così foggiare la tomba nell’aspetto sia pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei momenti più significativi della vita del defunto. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, esse andavano dall’esposizione al compianto pubblico al corteo funebre al banchetto davanti alla tomba. Tutte queste pratiche, insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare. La situazione tuttavia cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco, nel corso del V secolo a .C., alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l’idea di uno speciale regno dei morti. Questo fu immaginato sul modello dell’Averno (o Acheronte) greco, il regno dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e Persefone greci).
ALCUNE OPERE:
ARRINGATORE
Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze
 
Provenienza: Il grande bronzo entrò a far parte, nel 1566, delle collezioni del Granduca Cosimo de' Medici. Scrive a tal proposito Vasari, in una lettera datata 20 settembre 1566, al Borghini: "Il Duca ha avuto una statua di bronzo intera che non gli manca niente, d'uno Scipione Minore" - (l 'identificazione era errata) -"di braccia 3 incirca in atto di locuzione". Non conosciute le circostanze del recupero, il luogo di rinvenimento rimane incerto tra quello tradizionale, Sanguineto (PG) sulla riva settentrionale del lago Trasimeno, e Pila, presso Perugia, località emersa da fonti archivistiche.
 
Stato di conservazione e tecnica: grande statua in bronzo eseguita con tecnica a cera perduta, a fusione cava, in sette parti (testa e collo, tronco in due pezzi, braccio destro, mano sinistra, le due gambe) poi saldate e, nel caso delle gambe, inferiormente piene per maggior robustezza, fissate con chiodi alla toga. Gli occhi, in diverso materiale (avorio, osso e/o pasta vitrea) erano inseriti a parte e sono oggi perduti. Ciocche di capelli, bordi della toga, iscrizione ed altri particolari sono incisi. La mano destra fu spezzata al momento del primo rinvenimento.
 
Datazione: primi decenni del I sec. avanti Cristo.
 
Soggetto: la statua, a grandezza naturale, rappresenta un uomo maturo, con i capelli aderenti alla testa pettinati a ciocche, vestito di una corta toga (toga exigua), praetexta, e, a contatto con la pelle, di una tunica bordata da una stretta banda (angustus clavus; vedi il braccio destro). Indossa dei calzari (calcei). Il suo rango è dichiarato dall' anello che porta alla sinistra.
La destra è alzata, la mano aperta nel gesto del silentium manu lacere: il personaggio è ritratto nel momento in cui, apprestandosi a parlare in pubblico, chiede l'attenzione, di qui il nome con cui la statua è universalmente nota, l"'arringatore".

Il personaggio, un etrusco, come vedremo dall'iscrizione, si atteggia e veste ormai alla maniera romana: la sua veste, pur riportabile alla tebenna etrusca, è ormai accostabile alla toga romana; i calzari presentano la caratteristica linguetta (lìngula) e le corregge (corrigiae) dei calcei senatorii romani.
 
L'iscrizione: incisa su tre righe sul bordo della toga, è un 'iscrizione di carattere "pubblico": la grafia è composta e ben curata, le lettere presentano appendici (apicature) destinate a renderle più belle e ricercate. Il tipo di alfabeto usato è quello presente, in epoca tardo etrusca, nell 'area di Chiusi e Cortona.
 
aulesi .metelis .ve. vesial. clensi cen .jleres .tece .sansl. terine tu ines .chisvlics
 
così interpretabile: "per Aule Metelifiglio di Vel e di una Vesiquesto (oggetto sacro) al dio Tece Padre è posto (o simile) dal pago (o vico) di Chiusuli". Certa è l'interpretazione della prima riga, incerta quella delle altre; quanto basta comunque per capire che ci troviamo di fronte ad una statua comnemorativa di un uomo pubblico, politico, Aulo Metello appunto, offerta in suo onore da una qualche comunità in un santuario della zona di Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno.
 
Il ritratto: l'iscrizione dichiara con evidenza che, con questa statua, si voleva ricordare, e rappresentare, un uomo ben preciso, Aulo Metello. Anche il volto dunque si sarà voluto avvicinare alle fattezze del personaggio, accentuandosi in questo una tendenza stilistica di pronunciato verismo di influenza, ancora, romana. Lungo e dibattuto è il problema del nascere e del fiorire del genere artistico del ritratto, e, soprattutto, il problema di quando si possa parlare, per una testa dipinta o scolpita, di ritratto, nella "moderna" accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le seguenti tappe:
l) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine generica;
2) ritratto tipologico: la genericità dell'immagine si riduce, cercandosi di indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un re, un guerriero, un dio), e la sua età (vecchio, giovane).
La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un'espressione psicologica che meglio ricordi il personaggio: è il ritratto fisionomico, ritratto nella sua accezione moderna, che affonda però le sue radici nei fermenti della Grecia del IV sec., quando, sullo stimolo della sofistica, si abbandonano le più antiche remore ideologiche che avevano fino ad allora impedito dieternare con un tale tipo di ritratto un individuo isolandolo al di sopra della massa di suoi pari, per giungere ora ad un più pieno apprezzamento della individualità del singolo. Se ancora per il sarcofago dell"'obeso" siamo incerti se ci troviamo di fronte ad un ritratto fisionomico, e non piuttosto ad un ritratto tipologico di dominus adagiato sulla sua kline, per la nostra statua è ormai chiara, nella cura minuziosa dei dettagli, la potente influenza del verismo ritrattistico di Roma. Il collo è lungo, la fronte è solcata da profonde rughe, il taglio degli occhi prosegue lateralmente in sottili incisioni e la loro intensità è aumentata dall'ampiezza delle guance, magre e glabre; la bocca, ben disegnata, è sottolineata da un mento piuttosto deciso.
Aule Meteli, un etrusco (lo dichiara, l'iscrizione) che veste, si fa ritrarre alla maniera romana. Un etrusco, dunque, ormai pienamente romanizzato, come giuridicamente romanizzata è, proprio in questi anni, l'Etruria che, con la Lex Iulia e laLex Calpurnia de civitate (90 a.C.), acquisisce la cittadinanza romana. La nostra statua è dunque un monumento che possiamo prendere a simbolo dello scomparire di una civiltà, quella etrusca, lentamente ed inesorabilmente assorbita da quella romana. Con debita prudenza possiamo quasi riassumere in questo bronzo un'epoca: " Aulo Metello, nato etrusco, cittadino romano".
CHIMERA
Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze

 La storia
La Chimera fu scoperta nel 1553 (secondo il Vasari nel 1554), durante la costruzione di fortificazioni medicee alla periferia della città. Il ritrovamento avvenne il 15 novembre 1553 e dopo il rinvenimento fu subito trasportata a Palazzo Vecchio. Questa scoperta sensazionale ebbe larga eco tra artisti e letterati dell'epoca, come ad esempio il Cellini, il Vasari, Tiziano ecc. ela notizia si diffuse assai rapidamente, tanto che nella seconda metà del'500 la Chimera divenne l'interesse precipuo e la mèta di numerosi viaggiatori stranieri che ne parlarono in appunti di viaggio corredati spesso da disegni dell'opera.
Da alcuni disegni più antichi e da notizie sul ritrovamento nell'Archivio di Arezzo risulta che solo la coda, rintracciata dal Vasari, mancava e che non fu ricomposta. Così viene anche a cadere la leggenda che vedeva nel Cellini l'esecutore del restauro integrativo delle zampe che dovevano quindi essere complete seppur danneggiate. Dopo il rinvenimento si cominciò la ricerca di testimonianze iconografiche che garantissero che si trattasse proprio della Chimera di Bellerofonte, indirizzando l'indagine soprattutto sui reperti numismatici. Dal Vasari (Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime, Firenze 1558, ed Arezzo 1762, pp. 107-8) si ricava e si ha testimonianza del metodo seguito per giungere ad affermare che il "leone" scoperto ad Arezzo era proprio la Chimera. Ad un interlocutore che domanda se si tratta proprio della Chimera di Bellerofonte, come dicono i letterati, il Vasari così risponde:
 
"Signor sì, perche ce n'è il riscontro delle medaglie che ha il Duca mio signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in sul collo di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di serpente, e abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que' fragmenti di bronzo con tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite che ella ha addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella prontezza della testa di questo animale...".
 
Quindi, per risolvere i problemi interpretativi che si erano venuti a creare con il ritrovamento della statua, l'indagine non si limitò alle testimonianze letterarie e mitologiche, ma progredì nella ricerca di documentazioni iconografiche antiche, particolarmente per quello che concerneva la documentazione numismatica. E non si può escludere che la ricerca di medaglie avesse come fine ultimo quello di scoprire un modello per restaurare la statua che mancava della coda. Infatti, furono trovate delle monete d'argento di Sicione recanti l'immagine della Chimera. Queste monete, ora nel Medagliere del Museo Archeologico di Firenze, facevano presumibilmente parte delle Collezioni Granducali. Esse mostrano la Chimera con la giusta posizione della coda, formata dal serpente. La coda con la testa di serpente doveva avventarsi minacciosa contro l'avversario e non mordere un corno della testa della capra: si tratta infatti di un restauro sbagliato eseguito, in epoca neoclassica, da Francesco Carradori nel 1785.
  
I Medici e la Chimera
La Chimera, come abbiamo detto sopra, fu subito portata a Palazzo Vecchio nella sala di Leone X: si trattava di un'operazione non solo artistica (in quanto si adattava al progetto decorativo stabilito dal Vasari) ma anche "strategica"; in questo senso la Chimera, l'opera più importante dell"'etruscheria" toscana, stava anche a simboleggiare le fiere che Cosimo aveva combattuto e domato per costruire il suo regno.
 
Il mito
Chìmaira, in greco, letteralmente significa capra. Ed infatti questo mostro della mitologia greca con il corpo e la testa di leone, talvolta alato, con la coda a forma di serpente, portava nel mezzo della schiena una testa di capra. Omero (II. VI, 181-182) ed Esiodo (Theog., 321-322) narrano che era figlia di Tifone. La Chimera fu uccisa dall'eroe Bellerofonte, ritenuto da alcuni addirittura figlio di Posidone; Bellerofonte riuscì a catturare e domare il cavallo alato Pègaso, con il quale riuscì ad uccidere la Chimera. La statua bronzea del Museo Archeologico di Firenze rappresenta la Chimera ferita in atto di avventarsi sul suo aggressore, mentre la testa di capra si reclina, morente, per le ferite ricevute.
La coda con la testa di serpente, come abbiamo detto, è un restauro non giusto: doveva avventarsi minacciosa contro l'avversario e non mordere un corno della testa della capra. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un gruppo con Bellerofonte sul Pegaso che colpiva dall'alto, come fa supporre la ferita sanguinante sul collo della capra. Però non si può escludere completamente 1 'ipotesi che si trattasse di un dono votivo a se stante.
 
La datazione
Molto si è discusso sull'appartenenza della Chimera all'arte etrusca, tesi ormai accettata senza riserve dagli studiosi. La "maniera etrusca" già notata dal Vasari si riflette in quel misto di naturalismo (nella muscolatura e nelle vene rilevate, rese con calligrafico realismo, del corpo teso del leone) e di stilizzazione (nella testa con fauci spalancate in atto di feroce aggressione e nel pelame della criniera e del dorso, reso con ciocche dette convenzionalmente "a fiamma"); di conservatorismo (negli elementi convenzionali arcaizzanti della testa e della criniera) e di intensa espressività (nell'aggressività feroce del muso del leone e nel patetico abbandono della testa della capra). Altro elemento a favore della etruschità di questa opera d'arte è la iscrizione sulla branca anteriore destra, tracciata sul modello ed eseguita insieme alla fusione. Vi si legge tinscvil, cioè dono votivo al dio Tinia (assimilabile al Giove dei Romani).
Si tratta di un'iscrizione dedicatoria con caratteristiche grafiche appartenenti all'area etrusco-settentrionale, cosa che avvalorerebbe l'ipotesi di una offi- cina nord-etrusca, localizzata ad Arezzo o in zona contigua. Per quanto riguarda la datazione, quella finora consueta della fine del V secolo a.C. è universalmente abbassata ai primi decenni del IV sec. a.C.
 
La collocazione al Museo Archeologico
Come abbiamo detto sopra, la Chimera rimase a lungo, come un simbolo, a Palazzo Vecchio e solo molto tempo dopo, nel 1718, venne trasportata nella Galleria degli Uffizi, proprio come oggetto da esporre in museo. Non a caso fu trasportata agli Uffizi: in questo periodo, la famiglia Medici non era più quella potente di una volta e cominciava anche, lentamente, uno studio più serio sull"'etruscheria", che andava ben oltre la semplice curiosità. Dopo il 1879 ci furono forti pressioni perche tutto il materiale antico fosse collocato nel Palazzo della Crocetta, l'odierna sede del Museo Archeologico. Lo scopo fu raggiunto solo in parte, ma tra le opere trasferite ci furono l'Idolino, la Chimera ed altri bronzi classici (1890).
MATER MATUTA
Provenienza: Chianciano (Siena). Venne scoperta probabilmente nel 1846 o nel 1847 da Luigi Dei in un terreno a 1 krn. a sud di Chianciano, in località 'La Pedata'.

Stato di conservazione: lacunoso, con numerose reintegrazioni.
 
Datazione: 450-440 a.C
 
La statua-cinerario aveva subìto un primo restauro ad opera di restauratori chiusini dell'800, i quali, seguendo il gusto e la moda dell'epoca, avevano integrato le parti mancanti con tasselli, scolpiti nella stessa 'pietra fètida' della scultura (pietra arenaria a grana finissima, tipica delle cave esistenti nelle vicinanze di Chiusi), tenuti insieme da un impasto di polvere di pietra fètida e di gomma collosa di natura organica, in modo da ottenere l'effetto di integrità.

A causa dei danni rilevanti arrecati alla Mater Matuta dall'alluvione del 1966, fu necessario un nuovo intervento di restauro, effettuato con tecnica perfezionata e rigore scientifico, che ha pennesso di discernere le parti autentiche del monumento dai posticci del restauro ottocentesco ( eliminati, quindi, nella nuova ricostruzione).
Il cinerario è in fonna di statua femminile, che regge sul grembo un bambino, avvolto in un panno. La figura è seduta su un trono, di fonna cubica, con i braccioli pieni a fonna di finge accosciata con le ali aperte. La testa, mobile, fungeva da coperchio; ugualmente mobili sono i piedi. Il corpo, che fa un tutt'uno con il tronco, fu probabilmene ricavato da un unico blocco di pietra. Nell'interno della statua, secondo Milani, furono rinvenuti l'oinochòe plastica a testa femminile e lo spillo d'oro con decorazione granulare, conservati nella vetrina adiacente.
 La statua-cinerario di Chianciano, variamente identificata con una divinità (Bona Dea; Tujltha, la dea degli Etruschi protettrice dei morti, Proserpina; o Mater Matuta) con tutta probabilità rappresenta una defunta con il suo bambino. Dal punto di vista stilistico si nota una tale discrepanza tra l'esecuzione della testa e quella del corpo (fenomeno, questo, tuttavia frequentissimo nell'arte etrusca, che si rinnova, anche in epoca posteriore, nelle figure dei defunti sui coperchi delle urne), da far pensare che siano stati prodotti in botteghe diverse. Il corpo, massiccio, si stacca appena dal blocco cubico del trono; il panneggio del chitone e del himàtion è reso con vivo plasticismo e senso volumetrico nelle ampie e pesanti pieghe accentuate soprattutto sulle gambe. Molto bella è la testa, con capelli spartiti sulla fronte, trattenuti da una tenia e ricadenti sulle tempie in bande ondulate; volto ovale con grandi occhi a mandorla, sottolineati da palpebre pesanti; naso diritto; bocca con labbra carnose, leggermente aggettanti, che ne accentuano l'espressione serena e pensosa, che riflette una eco della grande arte greca del V sec. a.C. La datazione è stata molto discussa, oscillando tra la metà del V ed il IV sec a.C. Gli oggetti del corredo (la oinochòe a testa femminile, datata dal Beazley a1470-450 a.C. e lo spillo d'oro granulato, datato nel 2° venticinquennio del V sec.a.C.) ed i dati iconografici sembrano confermare la datazione della Mater Matuta al 450-440 a.C. Per il suo uso come cinerario, la Mater Matuta si collega ai canopi chiusini.
Il canopo (o più propriamente "ossuario antropòide") non è che un 'urna cineraria con copertura a testa umana, tipica e caratteristica della regione chiusina. A sua volta, il canopo si riallaccia ad una lunga tradizione, che sorge nella civiltà villanoviana. Infatti, la copertura ad elmo di alcuni ossuari villanoviani (generalmente coperti da ciotola-coperchio monoansata) non è che un principio di antropomorfizzazione, che troverà il suo pieno sviluppo proprio nell'ossuario antropoide chiusino. Cronologicamente, i canopi vanno dalla metà del VII al principio dell'età ellenistica (IV sec.a.C.). I canopi, come le statue-cinerario, hanno una testa mobile, che chiude il vaso contenente le ceneri; anche essi sono posti su di un sedile di trono, spesso in terracotta, talora in lamina bronzea, più modesto dei troni delle statue-cinerario, ma indicante una chiara intenzione di onorare il ricordo del defunto. Sia i canopi che le statue-cinerario sono peculiari dell'ambiente chiusino e attestano la continuità coerente e costante di una cultura artistica che può aver determinato il fiorire in Chiusi di una scuola scultorea di notevole importanza. Ciò è dovuto prevalentemente al tipo di fiorente economia agraria, che Chiusi sviluppa in modo particolare, ma che si ritrova anche in altre città dell'Etruria interna (a differenza di quanto troviamo nei centri dell'Etruria costiera, la cui florida economia commerciale e marittima subisce un arresto ed una conversione da mercantile ad agraria soltanto dopo la sconfitta etrusca a Cuffia del 474 a.C. e la conseguente perdita del dominio sul mare).
Il SARCOFAGO di LARTHIA SEIANTI
 
Provenienza: tomba a camera della gens Larcna, rinvenuta nel 1877 in loc. Martinella, un km a NE di Chiusi.

 
Stato di conservazione: il sarcofago, pressochè intatto, conserva gran parte della policromia antica, frequente in monumenti del genere, ma spesso sbiadita irrimediabilmente dal tempo e dalle condizioni di giacitura dei reperti. Realizzato in terracotta, fu confezionato in quattro parti distinte (e poi giustapposte) per l'impossibilità di cuocere insieme il grande coperchio e la grande cassa. La figura è stata eseguita a mano libera; per la decorazione della cassa si è probabilmente fatto uso di stampi.
 
Datazione: secondo quarto delll secolo a.C.
 
Soggetto: la defunta è immaginata semidistesa sulla kline, il busto tenuto eretto puntellando il braccio sinistro su due cuscini a bande gialle, bianche e violacee (nell'indicazione dei colori seguiremo anche le descrizioni del pezzo al momento della scoperta, quando essi erano più vivi) dalle lunghe frange gialle e viola. Tiene nella mano sinistra aperta, dalle dita inanellate, uno specchio circolare: la superficie riflettente interna è in azzurro, la cornice perlinata in giallo e deve quindi essere immaginata aurea. La destra discosta dal volto, in un gesto di pudicizia, un lembo dell'ampio mantello bianco, bordato da una striscia violacea tra due minori verdi, che le avvolge le spalle, i fianchi e le gambe, coprendo una tunica, pure bianca, decorata da tre bande verticali (due laterali violacee ed una verde centrale) e da una banda a V che sottolinea la scollatura. Stringe la tunica, poco sotto il seno, una cintura annodata, gialla, frangiata, con motivi rilevati a fulmine ed a dischetto, con punto centrale rosso (forse ad indicare l'inserzione di una qualche pietra dura). I piedi, con calze verdi, calzano sandali con legacci verdi decorati con borchiette gialle. La chioma, a corte ciocche regolari che incorniciano la fronte, reca un diadema (o forse una ghirlanda) di fiori in giallo; ricordano l'oro la collana a girocollo con pendente, la bulla a testa di Medusa sullo scollo, le due armille sul braccio destro. Gli orecchini, a disco con pietre rosse, hanno un pendente a ghianda.
Il fronte della cassa è decorato secondo un chiaro partito architettonico, generato forse dalla particolare ideologia funeraria etrusca (la tomba vista come casa del defunto), o forse, più semplicemente, mediatovi come elemento decorativo. E' ripartito in quattro settori da cinque pilastrini scanalati con capitelli compositi, che sorreggono una fila di ovoli ed un listello piatto su cui è impresso il nome della defunta. I pilastrini inquadrano spazi rettangolari decorati con due rosoni a rilievo violacei e rossi, intercalati a due pàtere umbelicate dipinte di giallo.
 
Il ritratto: come vedremo, l'iscrizione tracciata sul sarcofago al momento della sua esecuzione, venne poi sostituita, prima dell'uso effettivo, da un' altra, con un diverso nome: il fatto rende ancorpiù evidente il problema dell'eventuale valore ritrattistico della figura sul coperchio. In effetti lungo e dibattuto è, in generale, il problema del ritratto, del suo nascere e fiorire e, soprattutto, di quando si possa parlare, per una testa, di ritratto nella "moderna" accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le seguenti tappe: 1) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine generica; 2) ritratto tipologico: la genericità dell'immagine si attenua, cercando di indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un re, un guerriero, un dio, una matrona), e la sua età (giovane, vecchio). La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un' espressione psicologica che meglio connoti il personaggio: è il ritratto fisionomico, il ritratto come oggi lo concepiamo.
Nel monumento, la caratterizzazione del volto è piuttosto scarsa e non sembra andare oltre la generica rappresentazione di una giovane matrona pomposamente recumbente sulla sua ricca kline, nello sfoggio della sua ricchezza. La notevole somiglianza del volto stesso con quello dell'analogo sarcofago di Seianti Tanunia conservato presso il British Museum di Londra, ci convince ad assegnarlo all'ambito del semplice "ritratto tipologico". L’iscrizione: larqia:seianti:s…i:sve…(impressa nell’argilla); ...ti a:lar...lisa: niasa (dipinta sullo stucco che ha coperto la prima): vedi Corpus Inscriptionum Etruscarum 1215.
Impressa sul listello superiore della cassa prima della cottura, quando l'argilla era ancora cruda, l'iscrizione indica il nome della defunta, o forse il nome del personaggio che commissionò il sarcofago, senza poi usarlo. L'iscrizione, in effetti, risultava, al momento della scoperta, parzialmente riempita e ricoperta da uno strato di stucco (alcune lettere sono ancora mal leggibili) sul quale era stato dipinto un secondo nome, diverso dal primo, oggi quasi completamente scomparso. Poco chiaro per questo il reale rapporto tra la defunta seppellita nel nostro sarcofago e gli altri personaggi sepolti nella stessa tomba, sicuramente pertinente alla famiglia larcna.
 
Il corredo: attorno al sarcofago furono rinvenuti i seguenti oggetti. Argento: craterisco in lamina; padella; doppio pettine; tre pàtere; tre spilloni; un cucchiaino per cosmetici; tre aghi (forse frammento di una fibula); un paio di pinzette; vetro: cinque pedine da gioco, di vario colore; alabastro: due anforischi; bronzo: una fiaschetta in lamina; un asse romano.
Possiamo agevolmente distinguere tre gruppi di materiale: il vasellame da mensa miniaturizzato, gli oggetti da toeletta, la moneta. Proprio quest 'ultima, presente nel corredo come obolus Carontis, cioè come offerta che la defunta elargirà al traghettatore degli Inferi al momento di esser trasportata nel mondo dei morti, ci fornisce un utile dato cronologico per la datazione della tomba: il monetiere che ha curato la sua coniazione è infatti M. Titinius, che sappiamo attivo a Roma tra il 189 ed il 180 a.C.. La sepoltura sarà dunque di poco posteriore a tale epoca, visto che la datazione tipologica degli altri oggetti di corredo non può scendere molto nel II sec. a.C. I ricchi oggetti da toeletta non fanno che completare, stavolta con l' oggetto reale, la ricca parure già esibita dalla figura sul coperchio.
Il vasellame da mensa, miniaturistico, rimanda al mondo del banchetto aristocratico: una delle manifestazioni tipiche del vivere gentilizio, esaltata nei cicli pittorici delle tombe di Tarquinia (Tomba del Triclinio, Tomba dei Leopardi...) come anche e soprattutto dalla figura sdraiata a banchetto dei grandi sarcofagi maschili ( cfr. quello dell'obesus ) e delle piccole urne cinerarie. Il particolare pregio del metallo con cui tali oggetti di corredo sono stati realizzati costituisce un'ulteriore prova della estrema ricchezza della defunta. Una ricca signora, dunque, debitamente onorata anche nell ' oltretomba: uno dei tanti indizi della particolare considerazione della donna nel mondo etrusco. Una considerazione spesso esagerata da certi moderni, specie influenzati dalla propaganda "scandalistica" della storiografia greca. Una società rigidamente androcentrica non poteva che stigmatizzare negativamente la libertà ad essa concessa, ancor più se questa lo era da un mondo economicamente in competizione, quale quello etrusco. Al di là di facili esagerazioni possiamo comunque riscontrare numerose prove di un diverso ruolo rivestito dalla donna etrusca rispetto ad altre civiltà antiche, assolutamente androcentriche. Un esempio tra tutti, quello offertoci dall'onomastica. Le formule onomastiche antiche citano il nome del padre, il patronimico; quelle etrusche citano talvolta anche il nome della madre, il metronimico (che però mai sostituisce il primo!). Si veda, come esempio, l'iscrizione tarquiniese CIE 5471:
 
Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc Apatrual..., cioè Larth, figlio di Plecus e di Ramtha Apatrui.
Mentre la donna romana, inoltre, non possedeva un prenome, cioè un nome proprio, diverso dal nome familiare (ossia il gentili zio che, volto al femminile, la designava), la donna etrusca aveva invece il proprio prenome al pari dell'uomo. Il diverso rilievo della donna etrusca nell'ambito delle società antiche ci è poi confermato anche da altri indizi, anche storici: è l'etrusca Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, che, alla morte del marito, impone a Roma il regno di un sovrano ne appartenente alla linea dinastica, ne voluto da (almeno apparenti) forze politiche interne: Servio Tullio (vedi Livio, 1,34).
La Lingua
L'etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di origine greca e affine all'alfabeto latino. Le incognite che ancora oggi la lingua etrusca presenta sono da attribuire alla sua estraneità rispetto ai gruppi linguistici noti. A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di Alicarnasso, la lingua parlata dagli Etruschi era diversa da tutte le lingue conosciute. Dopo la conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal latino, fino ad uscire completamente dall'uso. 
 
Il presunto mistero
Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti
Documentazione diretta
Documentazione indiretta
II processo interpretativo
Alfabeto etrusco
Piccolo vocabolario etrusco
Trascrizione delle iscrizioni
Iscrizioni indicanti alfabeti




 
Il presunto mistero
 
Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua etrusca sono tutt’altro che ‘indecifrati’ o ‘indecifrabili’: scritti con un alfabeto di derivazione greca, di tipo euboico (‘rosso’, cioè occidentale, secondo la divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei Greci), fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma anche in precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni, l’epigrafia aveva rappresentato il capitolo forse più solido nell’intero panorama dell’etruscologia.
Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli Etruschi erano certamente in possesso d’un alfabeto, introdotto in Italia centrale da coloni euboici dell’isola d’Ischia e comprendente ventisei lettere, come si desume da una tavoletta d’avorio, dalla finalità evidentemente scolastica, ritrovata a Marsiliana d’Albegna (Grosseto). Ma quattro lettere non sono effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e la o, che si confondeva col suono u), mentre per il suono f dal VI secolo a.C. è introdotto un segno apposito. La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole. In realtà il problema è un altro ed è un problema d’interpretazione linguistica, non di decifrazione epigrafica: quello d’intendere il significato dei testi, redatti in una lingua che non sembra imparentata con nessun altra delle antiche o moderne proposte alla comparazione, e di elaborare, possibilmente, una descrizione grammaticale, morfologica e sintattica, di questa lingua, che è poi la condizione stessa della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di vista, bisogna ammettere che, nonostante lo sforzo grandioso di molte generazioni di studiosi, i risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e ciò non per insufficienza d’impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati, ma per la qualità medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni etrusche, anche se numerose (circa 10.000), vengono in grandissima parte da necropoli; sono perciò di carattere funerario e generalmente molto brevi. Esse ci danno perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di persona e indicazioni anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte abbastanza facilmente (ma talvolta approssimativamente) traducibili.
I pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria; una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia - suscitano invece gravi difficoltà nell’interpretazione, anche perché non si conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione letterale (del tipo della Stele di Rosetta). Ciononostante la pazienza degli indagatori conduce pian piano a singole acquisizioni che, pur nei limiti quasi invalicabili imposti dalla quantità e dalla qualità dei documenti (ai testi epigrafici bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli scrittori antichi), possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza ben definito. Dopo l’esperienza dei metodi ‘etimologico’ (che presupponeva la parentela dell’etrusco con altre lingue conosciute) e ‘combinatorio’ (rivolto ad analizzare solo per via interna la ‘combinazione’ degli elementi costitutivi del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due nuovi modi d’accostare il problema linguistico: il cosiddetto ‘bilinguismo’, promosso specialmente da Massimo Pallottino, che integra l’analisi combinatoria con l’uso di fonti interpretative esterne (per esempio, il confronto con formule di dedica latine e greche); e lo ‘strutturalismo’ di Helmut Rix, che reputa sufficiente una descrizione della ‘struttura’ dei testi a chiarirne anche il significato. Della grammatica dell’etrusco non è qui il caso di parlare diffusamente, perché c’introdurrebbe in un terreno di ardua e complicata spiegazione. Preferiamo dare al lettore l’esempio di una declinazione di sostantivo ormai sufficientemente accertata (secondo gli schemi di lingue più note, come il greco e il latino e quello di un ‘epigrafe funeraria abbastanza traducibile.
Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che significa ‘nome’): methlumes (‘del nome’); methlumth (‘nel mome’, con valore locativo); methlumeri (‘al nome’). Ed ecco invece l’esempio di epigrafe funeraria (si tratta dell’iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e riportata sia nel Corpus Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070, sia nel nuovo Corpus Inscriptionum Etruscarum, N. 5874): Arnth Churcles [Arnth Churcle], Larthal [di Larth] clan [figlio] Ramthas Nevtnial [(e) di Ramtha Nevtni], zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch [appartenente al collegio dei ‘maroni’] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu [ha esercitato], avils [di anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu [è morto].




 
Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti

Si è già detto che uno dei fondamentali fattori negativi per la conoscenza della lingua etrusca (e potremmo aggiungere più generalmente della civiltà etrusca) è costituito dalla ristrettezza della documentazione. Tuttavia questa documentazione è tutt'altro che trascurabile: si tratta infatti del più ingente complesso di testimonianze scritte di una lingua antica parlata in Italia, e nell'intero Mediterraneo centro-occidentale, a parte il greco, il fenicio-punico e il latino; in età arcaica gareggia per entità con i resti epigrafici di queste stesse lingue; ed è in continuo aumento. Proprio il flusso delle nuove scoperte ravviva la speranza che il futuro, anche prossimo, possa riservarci ulteriori sorprese. È più che probabile che il sottosuolo etrusco nasconda ancora un ricco patrimonio di iscrizioni. Non si può escludere che un' attenta indagine nelle aree dei maggiori centri urbani porti al ritrovamento di testi epigrafici di carattere pubblico, storico-commemorativo o giuridico eventualmente redatti in etrusco e in latino (ciò che è ben possibile per le fasi più recenti dell'Etruria sottomessa o federata a Roma).
Rimarrà naturalmente comunque l'incolmabile lacuna dell'assenza di testi letterari, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere l'etrusco alla stessa stregua delle altre lingue del mondo classico. In teoria documenti letterari etruschi potrebbero scoprirsi nel futuro in papiri dell'Egitto o di Ercolano (se si tien conto del già avvenuto miracolo - che di un vero miracolo dobbiamo parlare - del rinvenimento di un testo etrusco sulle bende di tela di una mummia egiziana); ma si tratta purtroppo di possibilità tanto tenui e remote da potersi definire chimeriche.




 
Documentazione diretta
 
Le testimonianze che attualmente possediamo aifini della conoscenza della lingua etrusca si distinguono in dirette e indirette. Testimonianze dirette sono i testi: in gran parte editi nel C.I.E.. in altre raccolte e rassegne specifiche, ed in varie pubblicazioni monografiche e periodiche; alcuni pochi ineditì (soprattutto quelli che continuamente vengono in luce, nella fase che segue immediatamente la loro scoperta). Si tratta di materiale tutto di carattere epigrafico, cioè di iscrìzioni sopra monumenti od oggetti di scavo, salvo i frammenti del libro della mummia di Zagabria, che ha tuttavia anch'esso una provenienza archeologica.
Quest'ultimo documento è di importanza eccezionale non soltanto per la civìltà etrusca, ma anche più generalmente per le antichità classiche, trattandosi dell'unico libro sacrale su tela (liber linteus) che ci sia stato conservato per il mondo greco ed italico-romano. Aveva originariamente la forma di un panno rettangolare ripiegato, quale è riconoscibile in alcuni monumenti funerari etruschi. Fu poi tagliato in strisce ed impiegato per avvolgere la mummia di una donna egiziana, di età tolemaica o romana, scoperta probabilmente nel medio Egitto (ma il luogo di ritrovamento è incerto). Questa utilizzazione, nella quale andarono perduti importanti frammenti del testo originario, è senza dubbio secondaria; ignoriamo quali precedenti circostanze abbiano determinato la presenza di un libro religioso etrusco in Egitto. La mummia fu portata in Europa da un viaggiatore croato e poi dònata al Museo Nazionale di Zagabria, dove J. Krall riconobbe la scrittura delle fasce come etrusca. Riaccostando tra loro queste bende, si è potuto ricostruire un testo scritto entro i limiti di almeno dodici colonne verticali: esso consta attualmente di circa 1200 parole più o meno chiaramente e completamente leggibili, alle quali si può aggiungere almeno un centinaio di altre parole che si ricostruiscono dal contesto. Data la frequenza delle ripetizioni, il numero delle parole sicure diverse fra loro si riduce a poco più di 500. Comunque il libro di Zagabria è senza paragone il più lungo ed il più importante di tutti i documenti etruschi finora in nostro possesso.
Le iscrizioni, scoperte soprattutto nell'Etruria tirrenica, campana e padana - in minor numero o eccezionalmente nel Lazio, in territorio umbro e fuori d'Italia (Africa, Francia meridionale) -, sono incise o dipinte sopra elementi architettonici, pareti di tombe, cippi, sarcofagi, urne, tegole, statue, arredi, laminette metalliche, vasi, ecc. Esse ammontano ad oltre diecimila; ma solo pochissime sono di entità rilevante. Tra queste alcune hanno il carattere di documenti autonomi non legati alla natura dell'oggetto, nel senso cioè che il loro supporto mobile ha la funzione di una specifica superficie scrittoria (non diversa da quelle di materiale deperibile come i volumi di tessuto o di pelle, le tabelle e i dittici lignei, ecc., che vediamo frequentemente riprodotti nei monumenti figurati etruschi, ma che nella realtà sono andati perduti a causa del nostro clima, mentre il clima secco dell'Egitto ha salvato illiber linteus di Zagabria). La più lunga è inscritta sopra una lastra di terracotta in forma di tegola proveniente da Capua e successivamente passata ai Musei di Berlino: esso consta di 62 righe conservate, divise in dieci sezioni, con quasi 300 parole leggibili; la seconda parte del testo è molto rovinata; la scrittura è tracciata a righe alternativamente rovesciate in modo da imitare il procedimento detto bustrofedico. Un testo graffito su ambedue le facce di un lungo nastro di lamina di piombo, purtroppo trovato in frammenti, è venuto recentemente alla luce in un piccolo santuario presso Santa Marinella (C. I. E. 6310): vi si leggono tracce di almeno 80 parole, di cui solo una quarantina leggibili integralmente; ed è inciso con lettere di proporzioni miniaturistiche. Una laminetta lenticolare anch'essa di piombo rinvenuta a Magliano e conservata nel Museo Archeologico di Firenze (C. I. E. 5237) è caratterizzata da una iscrizione incisa, sui due lati, a spirale con movimento dal margine esterno verso il centro: vi si contano almeno 70 parole (talvolta non è facile distinguere se un gruppo di lettere contiene una o due parole).
Un carattere del tutto particolare, per la loro materia e la loro importanza linguistica e storica, hanno infine le lamine d'oro scoperte nel santuario di Pyrgi, già più volte citate, di cui due scritte in etrusco una in fenicio (C.I.E. 6314-6316); l'etrusca più lunga, di 15 righe e 36 o 37 parole, corrisponde a quella fenicia (nel senso di una bilingue, come già sappiamo); mentre la più breve è di 9 righe e 15 parole). Non mancano altri documenti di un certo sviluppo su lamine metalliche, come le tabellae defixionis (cioè consacrazioni a divinità infere di persone che si vogliono maledire: specialmente quelle di Monte Pitti C.I.E. 5211 e di Volterra C.I.E. 52) e alcune di contenuto non precisabile.
Fra i titoli propriamente epigrafici eccelle il cippo di pietra, pro- babilmente confinario, del Museo di Perugia (C.I.E. 4538), che pre- senta su due facciate una lunga e bella iscrizione scolpita di 46 righe e 136 parole. Tra le iscrizioni funerarie alcune sono estese come quella del sarcofago di Laris Pulenas del Museo di Tarquinia (C. I. E. 5430), tracciata sul rotolo aperto esibito dal defunto scolpito sul coperchio, con 9 righe e 59 parole; ma ne esistono anche altre non meno lunghe e rilevanti, benche più rovinate, dipinte sulle pareti delle tombe di Tarquinia. Esistono inoltre diverse epigrafi di sepolcri, sarcofagi, cippi che presentano alcune righe di testo ed una certa varietà di parole; ma la grandissima maggioranza consta di poche parole ed è redatta secondo formule fisse; non mancano alcune brevi bilingui etrusco-latine. Le iscrizioni dedicatorie su oggetti mobili si distinguono in un gruppo arcaico, con proprie formule ed il nome del dedicante, e in un gruppo più tardo in cui è più frequente il nome della divinità; ma, tolte le leggende piuttosto estese di alcuni vasi arcaici, sono anch'esse generalmente brevi e stereotipe. Dobbiamo ricordare infine le innumerevoli leggende esplicative delle figurazioni tombali, dei vasi dipinti, degli specchi, ecc., le iscrizioni su monete, proiettili di piombo e altri oggetti minimi, le marche di fabbrica, in gran parte con nomi propri. Si aggiungano, per la loro singolarità, i famosi dadi da giuoco di avorio detti provenire da Tuscania e conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, con parolette (certamente numerali) su ciascuna delle sei facce.




 
Documentazione indiretta
 
Fonti indirette per la conoscenza dell'etrusco sono: 1) le glosse, ed altre informazioni offerte dagli scrittori classici e postclassici; 2) gli elementi etruschi passati nel latino e gli elementi comuni etrusco-italici; 3) gli elementi etruschi sopravvissuti nella toponomastica; 4) i supposti frammenti di versioni latine da testi originari etruschi.
Le glosse sono parole etrusche delle quali è data la traduzione latina o greca: citate occasionalmente in testi di autori classici o inserite in veri e propri dizionari. Se ne contano una sessantina; ma il loro valore come elementi traduttori esterni, ai fini dell'interpretazione dell'etrusco, è piuttosto limitato: proprio come nel caso delle bilingui etrusco-latine. Glosse di carattere vario ci provengono da Varrone (de lingua latina), da Verrio Flacco (de verborum significatione), da Isidoro (Etymologicum) e specialmente nel Lessico di Esichio. A speciali categorie di vocaboli appartengono le glosse etrusche con nomi di piante medicinali e con nomi di mesi (Papia, Liber Glossarum di Leida) che pare si ritrovino anche nei testi etruschi: es. Aclus = giugno, cfr. nel testo di Zagabria. Osservazioni di carattere fonetico e grammaticale sull'etrusco, di scarsissimo valore, risalgono a Varrone, all' Ars de orthographia di M. Cappella. Per alcune parole l'origine etrusca è esplicitamente testimoniata dagli scrittori classici (mantisa. histrio. /ucumo. atrium. ecc.); per altre è ipotetica e si può anche pensare ad una formazione analogica, cioè a parole latine che imitino nella terminazione i derivati etruschi, come pure a relitti del generale substrato preindoeuropeo d'Italia, piuttosto che ad imprestiti dall'etrusco nella sua fase storica. Preferibilmente si riterranno o sospetteranno etrusche quelle parole latine di etimologia oscura e di terminazione etruscheggiante che si riferiscono al linguaggio tecnico del culto, delle istituzioni civili e militari, della tecnica, ecc. : teniamo presente il fortissimo influsso culturale esercitato dall'Etruria su Roma primitiva in questi settori. Ne mancano esempi di vocaboli per i quali l'etrusco è stato probabilmente intermediario tra il greco e il latino: per es. groma (nome di uno strumento di orientazione e misurazione dei campi). Non è da escludere neanche qualche limitato influsso dell'etrusco sulla fonetica e sulla morfologia del latino. Il problema in tutto il suo complesso meriterebbe un nuovo più attento esame, anche ai fini dell'ermeneutica etrusca. Ancora meno chiara è la questione di eventuali dirette sopravvivenzelessicali etrusche in volgari italiani; mentre l'ipotesi di una derivazione etrusca dell'aspirazione toscana è accettata da diversi linguisti.
La difficoltà fondamentale consiste soprattutto nel distinguere tra i diversi strati e le diverse aree di diffusione dei toponimi preindoeuropei: ad esempio tra voci toponomastiche di tipo «mediterraneo» o «paleoeuropeo» generale, diffuse anche nell'Italia centrale (come i derivati dalle basi carra-, pala-, gav-, ecc.), e voci toponomastiche che invece derivano dall'etrusco di età storica direttamente o attraverso una forma latina come alcuni nomi di città (per es. Bolsena da Volsinii, etr. Velsna-). Vanno infine menzionati gl'ipotetici esempi di versioni in latino dall'etrusco. Già sappiamo che il corpo dei libri sacri etruschi fu tradotto o compendiato in latino. Nelle congerie di riferimenti indiretti, riassunti, rifacimenti di scritti etruschi, dei quali qualche eco è giunta fino a noi, si notano alcuni brani che ci interessano non soltanto per la conoscenza della letteratura e della civiltà etrusca, ma anche per le forme di espressione che potrebbero riflettere una particolare struttura di linguaggio: per esempio il frammento tratto dai Libri Vegoici e riportato dai Gromatici con insegnamenti della Lasa Vegoia sulla divisione dei campi.




 
II processo interpretativo
 
È evidente che il nostro interesse si concentra soprattutto sulla documentazione diretta, cioè sui testi etruschi, mentre le fonti indirette potranno se mai considerarsi come dati accessori e ausiliari. Il problema che intendiamo affrontare in modo specifico a questo punto è dunque essenzialmente quello dell'interpretazione dei testi (o «ermeneutica» in senso proprio, volendo usare il termine tradizionalmente diffuso negli studi etruscologici), cioè della comprensione del significato dei documenti, indipendentemente dall'obiettivo della conoscenza della struttura della lingua dei cui risultati si darà conto nel capitolo successivo.
Il punto di partenza è la constatazione ormai pacificamente e incontrovertibilmente acquisita in sede scientifica (contro ogni residua disinformazione in materia) che esiste da tempo una generale e basilare capacità di leggere e capire, individuandone la qualità e il senso o il contenuto certo o approssimativo, ogni testimonianza scritta etrusca che costituisca l'illustrazione di monumenti figurati (nomi di divinità e di eroi, di persone, ecc.), o ricordi i defunti menzionandone la genealogia, l'età, la qualità o le azioni, o indichi l'appartenenza e la destinazione di singoli oggetti con particolare riguardo alle dediche votive, e così via; mentre per alcuni testi più lunghi di carattere rituale (è il caso specialmente del manoscritto della mummia di Zagabria, della tegola di Capua, della laminetta di piombo di Magliano si pensi al Cippo di Perugina) possiamo accostarci alla comprensione complessiva del valore del documento, talvolta alla sua articolazione in settori, paragrafi o frasi, e perfino alla interpretazione di singoli brani.
Il fondamentale ostacolo a maggiori approfondimenti eprecisazioni è rappresentato dalla incertezza dei valori semantici di una parte notevole del lessico etrusco, cioè del significato di molte parole e radici, talvolta anche ricorrenti con frequenza e perciò sicuramente riferibili a concetti importanti (per esempio la serie di voci diffusissime ar, ara, aras, arce, art?, ecc. , di cui, nonostante tante autorevoli e motivate ipotesi, non crediamo ancora possibile considerare accertato il senso); ed in questi casi occorrerà onestamente confessare la nostra ignoranza. Di molte parole si sa la rispondenza a concetti generici senza possibilità di precise oggettivazioni: così nei testi rituali ricorrono termini con funzione verbale dalle basi hec-, sac-, acas-, ecc. , indicanti azioni di culto, più o meno nel senso di offrire, porgere, sacrificare, consacrare, forse invocare; mentre termini come fase, cleva, tartiria, acazr, debbono corrispondere a singoli tipi di cerimonie e di offerte a cose concretamente offerte, sacrificate o donate, per altro non distinguibili. Si sa d'altra parte che la nozione generale di offrire, donare, dare (nell'ambito sacro, eventualmente votivo, ma anche presumibilmente in quello profano) è espressa con assoluta certezza dai «verbi» mul-. tur-. al-: il cui reciproco rapporto, di diversa sfumatura o di diverso impiego preferenziale nel tempo o di pura sinonimia, resta tuttavia incerto. Il fatto è che per «tradurre» esattamente non poche parole etrusche occorre, od occorrerebbe, conoscere la realtà dei concetti che ad essi si sottendono sul piano religioso, istituzionale, sociale, tecnico: problema, dunque, non tanto linguistico quanto piuttosto storico-culturale.
Ma i nostri sforzi per intaccare questo grosso nucleo di oscurità del lessico etrusco, per precisare il significato di parole e di frasi vagamente intelligibili, e conseguentemente per interpretare sempre più puntualmente e sempre in maggior numero i testi, sono in continuo, seppur lento e limitato, progresso, soprattutto a seguito dell'ininter- rotto acquisto di nuovo materiale di studio, divenuto particolarmen- te sostanzioso nel corso degli ultimi anni, come già si è rilevato nel capitolo precedente. Si può citare come esempio tra i più istruttivi il caso della scoperta della già menzionata iscrizione ceretana «dei Claudii», che con l'espressione apa-c ati-c, manifestamente significante «e il padre e la madre» ( = latino paterque materque), conoscendosi già con certezza il valore ati = «madre» e l'uso della copulativa enclitica -c, ha consentito di accertare definitivamente il senso della parola apa = «padre», in precedenza vagamente sospettato e per così dire avvicinato e circuito, ma rimasto nella nebulosità dell'ipotesiI6. Analoga considerazione, come ben s'intende, vale per quanto si è detto a proposito della prova del valore ci = «tre», fornita dalla corrispondenza bilingue delle lamine di Pyrgi. I risultati finora conseguiti si estendono naturalmente dal signi- ficato delle parole alle loro funzioni e correlazioni, che danno senso ai contesti. A questo proposito esistono alcune certezze elementari, come il rapporto di appartenenza o discendenza indicato da un suffisso di «genitivo» nelle usuali formule onomastiche: Larces clan «di Larce figlio».
Diremo che esistono due soli principi di evidenza in assoluto: 1) riconoscere comechessia il significato e la funzione di singole parole; 2) constatare la natura del documento e, conseguentemente, desumerne il contenuto complessivo. Si tratta di approcci fondamentalmente diversi e, nei loro sviluppi, addirittura opposti. Il primo è basato su dati analitici, dai quali, attraverso un'indagine linguistica strutturale e combinatoria, si tende alla ricomposizione e ricostruzione del senso generale del testo (o del contesto). Il secondo, al contrario, considera i testi sinteticamente per quanto essi possano voler dire, partendo dalle loro caratteristiche archeologiche e affinità culturali, per poi discendere ai particolari della valutazione linguistica dei singoli elementi che li compongono.
Le prime parole riconosciute e riconoscibili dell'etrusco sono i nomi propri. Essi costituiscono di fatto l'enorme maggioranza delle parole presenti nelle iscrizioni etrusche ed hanno rappresentato il fondamento iniziale di ogni loro tentativo d'interpretazione. Per quanto riguarda l'onomastica personale appariva ed appare immediata l'identità formale con elementi onomastici latini, prenomi (Marce: lat. Marcus) e nomi gentilizi (Vipi: lat. Vibius); si è constatata altresì un'analoga costruzione con formula bimembre (prenome e gentilizio) o trimembre (prenome, gentilizio, cognomen) e presenza del patronimico. Con altrettanta facilità si riconoscono nomi divini comuni al latino e all'etrusco (Menerva: lat. Minerva. Selvans: lat. Silva- nus) e nomi greci di divinità e personaggi mitologici (Alexsantre, Elina, Elinai). Aggiungiamo i toponimi ravvisabili dalla loro forma latina (Pupluna: lat. Populonia) e loro derivati con valore di etnici (rumax «romano» da Ruma- «Roma»).
Diverso è il caso per quel che riguarda tutto il resto del patrimonio lessicale etrusco, estraneo all'onomastica, cioè le parole comuni o appellativi. È qui che s'incontrano le difficoltà di fondo. Non possiamo contare su strumenti diretti di traduzione se non per le scarse e malsicure nozioni fornite dalle glosse. Si vorrebbe perciò ricorrere al confronto con radici e formazioni di parole di altre lingue, supponendo una loro origine comune, nel senso del vecchio metodo etimologico.
Passiamo ora all'esame dell'altra possibilità di cogliere l'espressione di un testo, o di parte di esso, nella sua globalità partendo da indizi esterni. Il tipo del monumento o dell'oggetto inscritto è stato sempre, fin dall'inizio, una guida sicura per delimitarne il senso: tanto ovvia e istintiva da restare per lungo tempo sottintesa (se ne è avuta coscienza critica soltanto con la teorizzazione del metodo bilinguistico). È evidente che l'epigrafe di un sarcofago o di un loculo tombale non può che riferirsi ad un defunto, formulandosi presumibilmente nello stesso schema dei testi funerari latini: ciò che era stato avvertito già a partire dalle osservazioni degli eruditi del Settecento, con tutte le conseguenze relative (onomastica personale, rapporti e termini di parentela come clan = figlio, sex = figlia, e così via). Altrettanto evidente è che sugli oggetti mobili (vasi, statuette di bronzo, ecc.) debbono necessariamente comparire annotazioni di proprietà o di destinazione o, soprattuto se il luogo di provenienza è un santuario, dediche a divinità, implicanti la presenza del nome dell'offerente, dei termini esprimenti l'azione dell'offerta, eventualmente del nome divino, come nelle analoghe iscrizioni greche o latine. Ancora più evidente è che le parole scritte accanto a figure di divinità o di eroi, per esempio in scene di specchi o in pitture, sono didascalie che notificano il personaggio (cosiddette «bilingui figurate»). Le parolette incise su ciascuna delle sei facce dei dadi da giuoco «di Tuscania» rappresentano senza il minimo dubbio le prime sei unità numerali. Ogni scarto da questi elementi di certezza non può che condurre ad interpretazioni aberranti.
L'evidenza «obiettiva» desunta dall'accostamento di testi etruschi a testi di altra lingua in ambienti culturalmente vicini e per casi di dimostrabile o presumibile af- finità di contenuto può estendersi, sia pure con cautela, anche a documenti per i quali sono meno significativi gl'indizi offerti dalla natura archeologica dell'oggetto o del luogo, quale è soprattutto il libro su tela di Zagabria, le cui formule rituali sono state studiate tentando di stabilire paralleli con formule rituali umbre delle Tavole Iguvine, o latine degli Atti dei Fratelli Arvali, del de agricultura di Catone, e altre.
Richiami culturali e storici valgono talvolta a legittimare confronti anche più lontani, come quello fra il titolo di magistratura etrusca zilafh mexl rasnal (ricorrente con lievi varianti formali in iscrizioni del IV-III secolo a.C.) e il titolo onorifico latino di età romana imperiale praetor Etruriae o praetor (Etruriae) quindecim populorum, di cui si è già parlato: esempio significativo di una rispondenza generale che dà l'impressione di un vero e proprio «calco linguistico», ma che è più difficile analizzare nel senso e nel rapporto delle singole parole dei populi etruschi. Lo stesso «principio dei testi paralleli» come fonte primaria d'interpretazione globale vale ovviamente, per le vere e proprie bilingui. Le quali tuttavia, salvo il caso speciale di Pyrgi, sono poche e brevissime. Si tratta di iscrizioni funerarie redatte in etrusco e in latino, che presentano corrispondenze di nomi personali e solo eccezionalmente dati utili per la conoscenza del lessico e della grammatica. Assai più ampio e complesso è naturalmente il contributo che hanno offerto e possono offrire le lamine d'oro di Pyrgi inscritte in fenicio e in etrusco (A), per le quali potrebbe essere discutibile la definizione come «bilingue» in senso tecnico, trattandosi di oggetti distinti (comunque uguali e trovati insieme); ma che a parte alcune indiscutibili divergenze tra i due testi, hanno in sostanza lo stesso contenuto: cosicche la versione etrusca risulta più o meno efficacemente illuminata da quella fenicia, con risultati di grande importanza ermeneutica già in parte rilevati e di cui si tratterà ulterior- mente più avanti in uno specifico esame di queste iscrizioni.
Partendo dalle certezze di base sin qui descritte (valore di singole parole con particolare riguardo all'onomastica e significato d'insieme dei testi), il processo interpretativo si sviluppa ulteriormente, a livello di ipotesi, attraverso più approfonditi tentativi di analisi contestuale e strutturale, nei quali consiste l'essenza di ciò che, più o meno vagamente, suole intendersi come metodo combinatorio: com- plesso di operazioni che non ha, dunque, capacità di rivelazioni ermeneutiche primarie, ma svolge una funzione secondaria di verifica, precisazione ed estensione dei dati acquisiti. Si tratta di controllare la ricorrenza delle singole parole, valutarne la posizione e i rapporti, studiarne le forme, prospettarne le funzioni, distinguere frasi e partizioni dei testi, e così via. Molte volte i risultati di queste indagini ricostruttive sono ovvii o altamente probabili: quasi un semplice prolungamento delle nozioni di partenza, con conseguente ampliarsi delle zone di traducibilità praticamente sicura. Altre volte invece si tende a costruire ipotesi ingegnose, ma non dimostrabili, spesso contrastanti tra loro, o a costruire ipotesi sopra ipotesi, e a sostenerle puntigliosamente, sino a dare l'impressione di una gigantesca macchina girante a vuoto: ciò che costituisce appunto il limite degenerativo di tanta parte dei tentativi «combinatorii» degli ultimi decenni, cui va reagito con un maggiore senso di misura e di prudenza.
Occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che non soltanto tutte le conquiste sino ad oggi realizzate nel processo d'interpretazione dei testi etruschi, ma anche l'intero patrimonio di conoscenze sulle caratteristiche e sulla struttura della lingua etrusca di cui si darà conto nel capitolo successivo derivano in ultima analisi da quei dati di evidenza primaria sui quali si è ritenuto opportuno insistere nelle pagine che precedono. Lo studio linguistico è nettamente conseguente all'originaria certezza dei significati, e non viceversa.
 



 
Alfabeto etrusco
 
Si riporta brevemente l’alfabeto etrusco, visto nelle diverse fasi del periodo etrusco:

 
Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle principali lingue del mondo classico:
 


Inoltre, si confrontano gli alfabeti delle principali lingue italiche:
 
Etrusco

Osco

Umbro

Volsco







Piccolo vocabolario etrusco
In questo vocabolario, uso le due lettere sh per rappresentare la lettera M Etrusca, scritto normalmente con s'.
ais, plurale
aisar, dio.
am, esser.
an, egli, ella.
apa, padre.
ati, mader.
avil, anno.
clan, figlio.
eca, questo.
fler, offerta, sacrificio.
hinthial, anima.
in, esso.
lauchum, re.
lautun, famiglia.
mi, mini, Io, me.
mul-, offrire, dedicare.
neftsh, nipote.
puia, moglie.
rasenna or rasna, Etrusco.
ruva, fratello.
spur- or shpur-, città.
sren or shran, figura.
shuthi, tomba.
tin-, giorno.
tular, confini.
tur-, dare.
zich-, scrivere.
zilach, un tipo di magistrato.

Numerali:
1. thu
2. zal.
3. ci.
4. sha.
5. mach 6. huth.
7. semph.
8. cezp.
9. nurph.
10. shar.






Trascrizione delle iscrizioni

Le trascrizioni delle lettere etrusche qui adottate sono conformi agli usi più comuni tra gli etruscologi. Ciò a comportato la composizione di segni-immagini appositamente create , , ,   etc. che potessero essere viste con qualsiasi sistema operativo. La soluzione non è molto elegante sul piano tipografico, ma non crea confusioni di lettura rispetto ai simboli tradizionali.
Per la trascrizione delle spiranti si sono impiegati i simboli tradizionali (quelli del Thesaurus Linguae Etruscae e del Corpus Inscriptionum Etruscarum), sebbene vari autori si siano adeguati al sistema del Prof. Helmut Rix, sistema che dà luogo a qualche arbitrarietà, poiché presuppone una precedente ipotesi sulla provenienza dell’iscrizione. I valori delle lettere dell’alfabeto etrusco sono noti da parecchio tempo anche nelle varietà locali. L’unico problema riguarda il suono marcato dal san o tsade   nell’area meridionale che equivale al suono marcato dal sigma comune a tre tratti al Nord e al sigma a quattro tratti  usato a Caere. Il prof. H. Rix ha riportato in auge una vecchia ipotesi di A. Pauli, secondo cui  l’etrusco ha una spirante postden­tale [s] e una spirante palatale [ ] (quella di it. sci, ingl. shape, franc. chou etc.). Questa tesi va acriticamente prendendo piede presso altri etruscologi, sebbene non possa basarsi su alcuna prova epigrafica e linguistica. Secondo un’altra ipotesi, sostenuta da M. Durante (in Studi in onore di V. Pisani, I, Brescia 1969, pp. 295-306) e caldeggiata da M. Cristofani (Introduzione allo studio dell’etrusco, Firenze 1991), i grafemi suddetti marcano /ss/: lo dimostrerebbe il fatto che il suffisso patronimico e gamonimico -sa (al Nord) o - a (al Sud) è trascritto in caratteri latini come -ssa.
 
L’ipotesi che il san meridionale e il sigma settentrionale esprimano [ss] potrebbe essere accet­tata senza grosse obiezioni quando tale grafema non è all’inizio della parola; ma per i numerosi termini “meridionali” che iniziano col san e “settentrionali” che iniziano col sigma occorrerebbe supporre una “tensione dei muscoli orali” (per usare le parole del Cristofani) che contrasta con le regole dell’economia fonetica. È probabile che nell’etrusco recente questo potesse essere uno degli esiti del suffisso suddetto. Occorre però notare che a volte il suffisso è scritto -za sia in caratteri latini che etruschi e che anche altri dati epigrafici (ad es. la serie ut(u)s e / u uze / utu e / utuse) mostrano come i grafemi in questione marcassero un’affricata postdentale o un suono confondibile con essa. A nostro avviso il san meridionale  (Volsinii, Vulci, Tarquinia, Campania), il sigma  al Nord (Chiusi, Perugia, Cortona, Siena, Volterra, Vetulonia, Populonia, Emilia, Adria) e il sigma a quattro tratti  di Caere marcano appunto un suono affricato postdentale, che spesso è l’esito di un incontro s+t o di un originario gruppo st- . Come afferma ad es. André Martinet, in latino i gruppi -ts- originari si risolsero in -ss-. Quindi anche nel tardo etrusco la particolare affricata posdentale marcata dai simboli suddetti, forse più prolungata di /z/, si sarebbe risolta ora in -ss- ora in -zz- (sorda) quand’era in  posizione intervocalica.
             In alcune iscrizioni della zona di Cortona, e in particolare nella Tabula Cortonensis, è usata una e rovesciata  che qui viene riprodotta con lo stesso simbolo.  Dall’esame della Tabula Cortonensis si deduce che essa marca tre diversi suoni:
1) una e con indebolimento verso i, come nei derivati di *pet- (p tkeal, p tr-), in t csinal, s tmnal etc.
2) una tendenza all’atonìa a favore della liquida o nasale successiva (p rkna, t rsna, c n, t n a) o una colorazione verso o (ad esempio i casi in cui si ha lat. ol, rispetto a etr. el : nel gruppo vel- di V l, V lara, V l inal, V l ur, V lusina, V l e e poi in F l ni, liunt , t l; in C latina e anche in pru che pare avere la base di lat. oper-.
3) una  e lunga e chiusa in Sc va < Skaiva, Sc v  < Scevai , An < Anei , sparz te < *sparzaite che corrisponde all’uso del digrafo ei nell’umbro scritto in caratteri latini.

    In alcune iscrizioni dell’area senese e nel Fegato di Piacenza è usata una particolare forma a U o V rovesciato ( ) per marcare /m/. Ad esempio le iscrizioni
 
 si leggono
1 = l . hepni . hermes  2avial             
2 = herme . hereni  2 lar al.
 
Nell’iscrizione 2 sono notevoli le forme di m e di h ; in 1 sono notevoli le legature di lettere che realizzano ep e me.






Iscrizioni indicanti alfabeti

            Si riportano brevemente esempi di alfabeti rinvenuti su reperti archeologici
 

1. a b c d e v z h  i k l m n s  o p ś q r s t u     
2. a b c d  v e z h  i k l m n  o r ś q s t u     
 
1 Alfabeto modello inciso su una tavoletta di avorio, da Marsiliana (agro di Vulci; VII sec. a. C.). Si notino le spiranti   , M, , X.
2 Alfabeto inciso sull’anforetta di Formello (presso Veio; VII sec. a. C.) con le spiranti   , M, , X.
   
3 Parte di alfabeto scritto su un bucchero del VI secolo a. C., trovato a Ferentum.
   a c e v z  i k l

 
4. Alfabeto inciso sul letto funerario di una tomba di Magliano (Toscana), VI sec. a. C.
   a e v z h  i k l m n p  r s t u    f

 
5. Alfabeto inciso su un vaso perugino della seconda meta’ del VI secolo a. C.
    a e v z h  i k l m n p  r s t u   
Dopo l’alfabeto sono scritte 4 lettere, in senso opposto: tafa (altri leggono abat o afat).

 
6. Alfabeto su ciotola proveniente dagli scavi presso Roncoferraro (Mantova). L’alfabetario, che risale
   al IV sec. a. C., rispecchia fedelmente le norme ortografiche dell’Etruria padana, da Spina a Bologna.

a e v z h  i k l m n p  r s t u    f

 
 7. Alfabeto scritto su un fondo di vaso trovato a Poggio Moscini (Bolsena) e datato al II secolo a. C.      ] c e v z h  i l m n p  r s t u  [

Il Cippo di Perugia
  
         E' un cippo rettangolare di travertino, ritrovato nei dintorni di Perugia e conservato ora al Museo archeologico della città.
L'iscrizione corre per 24 righe sulla facciata e continua su una delle supertìci per 22 righe, per un totale di 128 parole.
La scrittura è quella in uso a Perugia tra III e II secolo a.C.
Il testo, a carattere giuridico, e la trascrizione su pietra di una sentenza relativa a questioni di proprietà tra le famiglie perugine dei Velthina e degli Aftuna.
Il Fegato di Piacenza
 
L’argomento è stato già affrontato nella sezione archeologica relativa a Piacenza. In questo paragrafo affronteremo l’aspetto linguistico e la sua interpretazione.
 
 Il fegato etrusco di bronzo ha le seguenti dimensioni: mm 126 x 76 x 60.
 
Per l'esame delle viscere esso veniva capovolto di sotto in su perché la parte inferiore era ritenuta la più importante, su questa si alzano tre protuberanze che sporgono: la più piccola a forma semi mammellare (il processus papillaris), la seconda piramidale (il processus pyramidalis), la terza è la cistifellea.

Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth (Uns), (Nettuno), Vetisi (Veiove), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae (Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di un lobo (Usils = parte del sole), l'altra sull'altro (Tivs = parte della luna). Il fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici caselle contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici caselle corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano il cielo.
 
  
Fegato di fronte e trascrizione
 
Sul fegato etrusco sono stati fatti molti studi, i più importanti furono quelli dei  ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905), Thulin (1906) che misero in risalto l'importanza di questo cimelio archeologico definendolo un documento fondamentale per la conoscenza della religione e della lingua etrusca. Ma a che cosa serviva questa riproduzione bronzea di un fegato di pecora con tante iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo confrontò con il coperchio di un'urna cineraria ritrovata a Volterra che rappresentava un sacerdote (3° secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come quello ritrovato a Ciavernasco di Settima, vicino al ponte della Ragione. Dunque il nostro bronzo è uno strumento originale della “disciplina”; l'aruspice interpretava il volere divino da segni particolari riscontrati nel fegato della vittima sacrificata, cioè poteva prevedere se un'impresa si sarebbe compiuta sotto influssi favorevoli o sfavorevoli, confrontando il viscere ancora caldo col modello bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da prontuario.
 Il Fegato Etrusco risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo (come denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle iscrizioni) e non all'epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana (V - IV - sec. a.C.). Quindi il fegato non è da ritenersi un documento della dominazione etrusca nella provincia di Piacenza, ma un oggetto prodotto successivamente da nuclei etruschi presenti nelle colonie tra Pesaro e Rimini o nella stessa Piacenza, oppure è da ritenersi un oggetto erratico perduto da un auspice che seguiva una legione romana (Ducati). La sua relativa "tardità" nulla toglie all'interesse che desta in noi, perché rappresenta una lunga tradizione conservatasi intatta attraverso i secoli (Terzaghi). Più di quaranta saggi sono stati pubblicati in tutto il mondo sul Fegato piacentino, ciò testimonia la "fama" a livello mondiale del nostro reperto, unico esemplare nella sua forma (esiste un altro Fegato di Alabastro al museo Guarnacci di Volterra); modelli di fegato con le stesse caratteristiche suddivisioni, sono stati ritrovati a Babilonia, nella valle del Tigri e dell'Eufrate e ad Hattusas la capitale degli Ittici. Questi sono in terra cotta ma utilizzati con lo stesso scopo religioso di quello di Piacenza.
 
Esiste anche un’interpretazione geografica del fegato, di cui si riporta una breve descrizione:
·         le scritte sulla parte posteriore della mappa indicano le due regioni principali della mappa, la parte meridionale LIVR (o TIVR, non e' chiara la lattera iniziale) diventa YHDS (oppure T-HDS) che ricorda sia la parola GIUDA che la HADESH (Kadesh) storicamente famosa e attualmente localizzata erroneamente nella Siria mediorientale
·         la regione settentrionale viene invece denominata YSILS che diventa P^HY^, leggibile come PNHYN (in queste scritte le due lettere S etrusche appaiono unificate e quindi c'e' equivalenza tra la N semitica e la sua quasi uguale ^, la lettera "muta"), la regione del monte PAN-Cervino nonche' legata alla questione punica Tra le scritte delle singole regioni appaiono evidenti le seguenti interpretazioni:
·         la montagna a forma di conoide, il monte Cervino, si presenta con la scritta TLUS che diventa TYP^ (TYPN), il nome della divinita' TIFEO (TIFONE)
·         Tifeo-Tifone e' legato storicamente ai vulcani dell'Italia meridionale, dall'area vesuviana al vulcano Etna e difatti nella mappa compare la scritta TYP^ esattamente nel settore che corrisponde alla Campania e nello spicchio esterno corrispondente alla Sicilia
·         tra la regione Sicilia (TLUS che diventa TYP^) e la regione Calabria c'e' un segno lungo che indica chiaramente lo stretto di Messina
·         la regione Calabria, indica con il nome LEThA tale stretto di Messina e la parola diventa YG-ZB
·         a prescindere dal significato suo originale (per esempio Z-B, "questo e' il padre"), ZB e' lo ZEB famoso nelle cronache assire, un fiume che nasce dal Monviso, scorre nell'Adriatico, passa dallo stretto di Messina e arriva a sfociare nell'oceano Atlantico
·         che la parola ZB sia legata a questo fiume appena descritto lo ritroviamo nella parola accanto al Monviso, che anch'essa la si legge come YG-ZB-K (LEThAM etrusco)
·         sappiamo per certo che il fiume ZEB erano due, uno meridionale e uno settentrionale, e difatti troviamo aldila' della catena alpina, dove nasce il fiume Danubio, la parola CAThA che diventa tB-ZB, il "doppio Zeb", o meglio l'altro Zeb da identificare come Danubio
·         nella parte centrale del fegato abbiamo la catena alpina e sotto di essa abbiamo il fiume che nasce dalla protuberanza a sinistra, il Po e il Monviso
·         la catena montuosa alpina si abbassa nella parte occidentale
·         l'ultima lingua della protuberanza rappresenta la striscia morenica all'imbocco della valle d'Aosta (la piu' grande morena glaciale d'Europa, un panorama unico che lo si nota fin da lontano)
·         si raggiunge cosi' la zona della grande piramide, cosi' alta da essere visibile da tutta la pianura
·         finche' siamo in pianura la piramide e' rappresentata dal Monterosa (un riferimento unico per come si distingua nettamente dal resto della catena)
·         girando dietro la morena ed entrando nella valle d'Aosta la vera montagna-piramide la identifichiamo con il monte Cervino
·         la regione Toscana appare come YD^Y, chiaramente legata a Giuda e la parola successiva contiene il DG che contraddistingue la civilta' etrusca, il VEL che diventa appunto DGY, con DG uguale a "pesce" ma anche ai successivi DOGI
·         la regione delle Marche appare come "tHYGL", chiaramente legata ai TIGLAT assiri di cui troviamo tracce nei reperti Piceni
·         la regione degli Abruzzi appare come NGY-DB e sembra legata all'influenza della lingua ungherese (non e' un caso che sia cosi' dato che il popolo Israelitico abitava a fianco di altre popolazioni e gli stessi Edomiti balcanici presero il loro posto durante le deportazioni), SELVA diventa NGY-DB, il "grande dio" ("nagy deba")
·         la stessa scritta NGY-DB la ritroviamo difatti nella zona balcanica a mostrare il collegamento di questa regione italica con quelle balcaniche-danubiane
·         nelle regioni tedesche, nella parte settentrionale della mappa, troviamo riferimenti ai "fasci", P-Sh (con la P che semiticamente si tramuta facilmente in F, come Fenici e Punici)
·         la parte piu' settentrionale, all'incirca la Danimarca, viene scritta come TINSRNE che diventa THLNS-LG, i "luoghi di Atlans" e mi sembra ovvio come questo abbia portato a considerare anticamente Atlante colui che sostiene il mondo (e' questa la regione dove si e' piu' vicini al cielo della stella polare) e anche Atlantide trova qui la sua localizzazione
Le Lamine di Pyrgi
 
Nel 1964, a Santa Severa, cittadina che sorge sull'antica Pyrgi, il porto di Caere, vennero alla luce, durante gli scavi diretti da Massimo Pallottino, tré lamine d'oro: su una era inciso un testo in lingua punica, sulle altre due un testo etrusco. Le lamine erano state accuratamente nascoste, all'epoca della distruzione del santuario, in una vasca scavata fra il tempio A ed il tempio B. Se è vero che il testo in lingua punica non presenta problemi insormontabili, nessuno ci dice che l'etrusco ne costituisca la traduzione. Possiamo solo comparare i nomi propri che figurano nei due testi. Ad esempio, nella lamina punica un personaggio è definito "re delle genti di Caere": ora, sappiamo che in quell'epoca la città non aveva re.
 (scrive il dott. Massimo Pittau, insigne linguista) Il solo dato certo è che le due versioni parlano dello stesso argomento, cioè di un trattato stipulato fra Caere e Cartagine; i contraenti invocano a testimoni del patto le divinità tutelari di entrambe le nazioni. Nei due testi si riconosce il nome del magistrato di Caere, Thefarie Velianas, che avrebbe dedicato un santuario ad Uni. Sappiamo che le cerimonie religiose celebrate a conclusione dell'accordo si svolsero secondo il rito punico. Purtroppo nella lamina in punico non esiste la traduzione di un solo termine etrusco per noi nuovo. Si riporta il testo redatto dal Prof . Massimo Pittau, studioso di lingua etrusca. Circa 40 anni fa, e precisamente nel 1964, si è avuta una scoperta archeologica e linguistica che ha colpito in maniera immediata e notevole il mondo degli studiosi specialisti della civiltà antiche, e non soltanto questi: a Pirgi, cioè nel porto della città etrusca di Cere (attuale Cerveteri), durante gli scavi condotti in un santuario di cui si aveva già notizia per antiche testimonianze storiche, nei resti di un piccolo locale interposto fra i due templi, sono state trovate tre lamine d'oro. Su queste risultano incise delle scritte, due in lingua etrusca ed una in lingua punica o fenicia, le quali sono state riportate alla fine del sec. VI od ai primi anni del V a.C.
 
    
Etrusco                                                             Punico
 La notizia rimbalzò da un capo all'altro nel mondo dei dotti, anche per l'immediata prospettiva che si intravide di avere finalmente trovato iscrizioni etrusche abbastanza ampie con la traduzione in un'altra lingua conosciuta e quindi con la speranza di vedere proiettate sulla lingua etrusca, scarsamente conosciuta, nuove ed importanti cognizioni da parte della lingua fenicio-punica, che invece è conosciuta in maniera discreta. Senonché questa speranza cadde quasi immediatamente, quando si intravide che l'iscrizione in lingua fenicio-punica e quella maggiore in lingua etrusca si corrispondono tra di loro, sì, ma non costituiscono affatto un esatta "traduzione" l'una dell'altra, cioè si intravide che si ha da fare non con un «testo bilingue etrusco-punico», bensì con un «testo quasi-bilingue etrusco-punico», nel quale cioè i due testi si corrispondono solamente a grandi linee.
D'altronde quella speranza cadde in larga misura, anche per la circostanza negativa che pure il testo punico si rivelò subito scarsamente aggredibile in fatto di interpretazione e di traduzione effettiva e minuta. Dopo circa un quarantennio di studio ermeneutico molto intenso delle lamine di Pirgi, condotto sia dagli specialisti della lingua etrusca sia da quelli della lingua punica, le conclusioni alle quali si è alla fine pervenuti sono che da un lato alla conoscenza dell'etrusco sono venute dal testo punico alcune conferme significative, ma purtroppo anche molto ridotte in quantità e in qualità, dall'altro la traduzione dei due testi, condotta in maniera comparativa, implica purtroppo numerosi e grandi punti oscuri sia per l'uno che per l'altro. E la presa di posizione ultima che gli specialisti delle due lingue hanno assunto, in maniera esplicita od anche implicita, è che convenga mandare avanti l'analisi e la interpretazione e traduzione di ciascuno dei due testi in maniera sostanzialmente indipendente l'uno dall'altro, nella quasi certezza che si ha da fare con due versioni alquanto differenti di un identico messaggio relativo ad un certo evento storico: la consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o principe-tiranno di Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea Giunone-Astarte.
Per parte mia premetto che il mio presente intervento sui testi etruschi delle lamine di Pirgi trova la sua motivazione in due importanti circostanze: in questi ultimi quasi quarant'anni che ci separano dalla scoperta delle lamine, la conoscenza dell'etrusco ha effettuato numerosi ed importanti passi in avanti, conseguenti sia al ritrovamento di altro materiale documentario e quindi ad una più ampia e più esatta documentazione della lingua etrusca, sia al conseguente ulteriore approfondimento scientifico che ne hanno effettuato gli specialisti, soprattutto quelli di estrazione propriamente linguistica. Procedo adesso a presentare il testo delle tre lamine prima nella loro effettiva documentazione epigrafica e dopo nel loro ordinamento propriamente linguistico, infine la mia traduzione ed il mio commento storico-linguistico di ciascuna.
 
 1ª lamina con iscrizione in lingua etrusca




cioè

Traduzione: «Questo thesaurus e queste statuette sono divenuti di Giunone-Astarte. Avendo la protettrice della Città concesso a Thefario Velianio due [figli] da Cluvenia, (egli) ha donato a ciascun tempio ed al tesoriere offerte in terreni per i tre anni completi di questo Reggente, offerte in sale (?) per la presidenza del tempio di questa (Giunone) Dispensatrice di discendenti; ed a queste statue (siano) anni quanti (sono) gli astri!».
tmia «thesaurus, tesoro di santuario», da confrontare col greco tameîon «tesoro o tesoreria» (vedi sotto tameresca); si trattava di una di quelle edicole che una città o il suo regnante costruiva accanto ai grandi santuari per esporvi i doni offerti alle rispettive divinità, anche con finalità propagandistiche di immagine esterna nei confronti dei numerosissimi frequentatori dei santuari. ita tmia icac heramasva «questo thesaurus e queste statuette». Il pronome dimostrativo ita «questo» corrisponde perfettamente ad ica «questo», per cui è da escludersi che in questo passo dietro le due varianti esista una qualche distinzione. L'uso così ravvicinato che lo scrivano ha fatto delle due varianti può essere stato determinato, al livello di meccanismo inconscio, dalla attrazione delle consonanti vicine: ita t- e ica-c.
heramasva «statuette», in cui -s(a)- è una variante del noto suffisso diminutivo -za, mentre -va è la ugualmente nota desinenza del plurale (vedi avanti heramve). Probabilmente le statuette erano due, una per ciascuno dei figli di Thefario Velianio, e ancora probabilmente raffiguravano i due bambini oppure due animali che simbolizzavano altrettante vittime da immolare alla divinità.
vatiekhe «sono venuti, sono divenuti», forse da confrontare col lat. vadere; è al preterito debole attivo, in 3ª persona plurale.
unialastres, da distinguere in unial-astres «di Giunone-Astarte», è da confrontare con fuflunsul pakhies «di Funfluns-Bacco» dell'iscr. TLE-TET 336, prove evidenti, l'una e l'altra, di interpretazione od assimilazione sincretistica di dèi stranieri in origine differenti. Una spiegazione unitaria del vocabolo in senso totalmente etrusco è da respingersi perché inspiegabile dal punto di vista morfologico; d'altronde anche l'iscrizione punica nella prima riga richiama esplicitamente Astarte: L'STRT.
vatiekhe unialastres «sono divenuti di Giunone-Astarte», cioè, dopo la dedicazione e la consacrazione ormai «appartengono a Giunone-Astarte».
themiasa probabilmente significa «che ha concesso, avendo concesso», participio passato attivo (LEGL 124), da connettere con thamuce «concesse» della 3ª lamina.
mekh il contesto ci spinge a reintegrare una l morfema del genitivo, cioè mekhl «della città, della città-stato, dello Stato, del Popolo», in questo caso "della città-stato di Cere"; vedi mekhl dell'iscr. CIE 5360 di Tarquinia e della Tabula Cortonensis (capo I).
thuta «tutore, protettore-trice, patrono-a»; cfr. ati thuta «madre protettrice» dell'iscr. TLE-TET 159; è da confrontare col lat. tutor, tutrix, che è privo di etimologia (DELL s.v. tueor) e che pertanto potrebbe derivare proprio dall'etrusco.
thefariei è un prenome maschile, che corrisponde a quello lat. Tiberius; è in dativo asigmatico (LEGL 80, 2°). In velianas non compare la desinenza del dativo a norma della "flessione di gruppo"; invece la -s è quella dell'originario genitivo patronimico ormai fossilizzata (LEGL 78).
sal «due». Non si può affatto escludere che questo sia l'esatto significato di sal con la considerazione che la compresenza di zal e sal nel Liber linteus della Mummia vieterebbe che i due vocaboli avessero il medesimo significato, come ha scritto M. Pallottino, Saggi, 648; infatti l'alternanza zal/sal «due» si riscontra anche nella Tabula Cortonensis (capo I).
cluvenias gentilizio femm. (in genitivo), che trova riscontro in quello lat. Cluvenius (RNG).
munistas «del monumento o edificio o tempio», letteralmente «di questo monumento ecc.», da distinguere in munis-tas (in epoca recente sarebbe stato munists), in genitivo di donazione (LEGL 104, 136).
thuva(-s) probabilmente aggettivo riferito a munistas e pur'esso in genitivo; siccome sembra derivato da thu «uno», probabilmente significa «singolo», «ciascuno», con riferimento a ciascuno dei due templi che costituivano il complesso sacrale di Pirgi.
tameresca (tameres-ca) «e del tesoriere» del tempio, anch'esso in genitivo di donazione; vedi tamera «dispensiere, tesoriere, questore» delle iscr. TLE-TET 170, 172, 195, da confrontare col greco tamías «dispensiere». Per la congiunzione enclitica -ca vedi hamphisca, laivisca del Liber linteus e fariceka dell'iscr. TLE-TET 78.
ilacve «offerte» (plur.) (LEGL 69).
tulerase «in terreni» e sarebbe il dativo sigmatico plur. di tul «confine, terreno, territorio», plur. tular = lat. fines «confine,-i» e «terreno,-i, territorio» (LEGL 80, 1°).
nac «per, in», preposizione che nella frase ci avil khurvar «per i tre anni completi», avente un implicito valore "temporale", mostra di reggere l'accusativo, mentre nella frase seguente nac atranes zilacal «per la presidenza del tempio», avente un implicito valore "finale", mostra di reggere il genitivo.
khurvar siccome richiama il lat. curvus, è probabile che significhi «circolari», ma qui col significato di «completi» (aggettivo plur.) (LELN 122).
tesiameitale, da confrontare con tesinth «curatore, comandante, capo» dell'iscr. TLE-TET 227 (LEGL 124); lo traduco «di questo Reggente» per il fatto che non si riesce a capire quale fosse l'esatta posizione giuridico-istituzionale di Thefario Velianio rispetto alla città-stato di Cere, anche se si ha l'impressione che fosse un "Principe-Tiranno", come quelli che di volta in volta si impadronivano del potere in numerose poleis greche. Inoltre è ragionevolmente ipotizzabile che egli fosse stato aiutato dalla potente Cartagine nella sua conquista del potere a Cere; ed in questo modo e per questa ragione si comprenderebbero bene sia la assimilazione effettuata nella lamina tra la etrusca Giunone e la fenicia Astarte, sia la versione in lingua punica dell'iscrizione etrusca di questa 1ª lamina. In proposito è appena da ricordare la notizia data da Erodoto (I 166, 167; VI 17) della lega politico-militare che si era stabilita fra Cere e Cartagine, la quale aveva attaccato i Focesi della colonia greca di Alalia, in Corsica, nella battaglia navale del Mare Sardo (circa 535 a.C.) e, pur con un esito militare incerto, li aveva costretti a sloggiare dalla Corsica. Il vocabolo è da distinguere in tesiame-itale, con -itale genitivo del pronome dimostrativo ita «questo-a» in posizione enclitica; in epoca più recente sarebbe stato -itle e cioè *tesiameitle (cfr. il seguente seleitala).
alsase «in sale» (?), in dativo sigmatico come tulerase, ma al sing.; in questa supposizione sarebbe da richiamare il greco áls ed il lat. sal, inoltre il nome della città etrusca di Alsium sulla costa tirrenica presso Cere andrebbe spiegato con riferimento alla estrazione del sale. È appena da ricordare il grande valore che aveva il sale in epoca antica, anche per la conservazione delle carni e dei pesci. In subordine prospetto che ilacve alsase significhi «offerte (in terreni) ad Alsium».
atrane(-s) sembra un aggettivo derivato dall'etr.-lat. atrium «atrio» ed anche «tempio», per cui significherebbe «templare, del tempio» (in genitivo).
zilacal (zilac-al) «della prefettura o presidenza» templare o del tempio.
seleitala «di questa Dispensatrice», da confrontare con selace «ha elargito» della 3ª lamina; è da distinguere in sele-itala, con -itala ancora genitivo del pronome dimostrativo ita in posizione enclitica e forse al femm. (cfr. venala dell'iscr. TLE-TET 34); in età più recente sarebbe stato *seleitla (cfr. tesiameitale) (LEGL 107).
acnasvers probabilmente «d(e)i discendenti o successori» (genit. plur.), da confrontare con acnanas «che lascia, lasciando», acnanasa «che ha lasciato, avendo lasciato» (LEGL 123, 124).
itanim (itani-m) probabilmente «ed a questi-e», dativo plur. di ita «questo-a», da confrontare con etan «questo-a» (accusativo; TLE-TET 620, Cr 3.24). Però potrebbe corrispondere al più recente etnam «poi, inoltre, in verità» = lat. etenim «(e) infatti, in realtà, in verità», per cui la frase andrebbe tradotta: «In verità le statue (abbiano tanti) anni quanti (sono) gli astri!». In ciascuna delle due soluzioni si deve pensare ad una frase ottativa, che per ciò stesso spiegherebbe l'ellissi del verbo. È del tutto errato affermare - come ha fatto un archeologo - che non esistono proposizioni ottative che sottintendano il verbo: ne esistono in tutte le lingue, ad es. la locuzione italiana Alla salute! sottintende questo sia o torni alla tua (vostra o nostra) salute!; la frase augurale Auguri agli sposi e figli maschi! sottintende ed abbiano figli maschi!
heramve «statue» (plur.), quelle offerte a Giunone-Astarte da Th. Velianio per i suoi due figli, probabilmente due, cioè una per ciascuno; è da confrontare col greco hérma «erma, base, sostegno, puntello, cippo (anche funerario), cippo con figura di Ermes», dio Hérmes «Ermes», fiume Hérmos della Lidia (finora privi di etimologia, ma probabilmente anatolici e lidî; GEW, DELG) ed inoltre con la glossa etr. Ermius «agosto» (ThLE 416).
eniaca «quanti-e».
pulumkhva «astri, stelle» (plur., LEGL 69), significato assicurato da un corrispondente vocabolo della iscrizione punica.

 2ª lamina con iscrizione in lingua fenicio-punica


«Alla signora Astarte questo sacello ha fatto e donato Tiberio Velianio re di Cere, nel mese di Zebah, come dono nel tempio e nella cella, perché Astarte ha favorito il suo fedele, nel terzo anno del suo regno, nel mese di KRR, nel giorno della sepoltura della divinità. E gli anni della statua della divinità siano tanti quanti (sono) gli astri».
            Questa traduzione della 2ª lamina è stata da me derivata da quelle correnti prospettate da specialisti della lingua fenicio-punica, ma adattata alla mia personale traduzione della 1ª iscrizione in lingua etrusca. Su questa mia traduzione però non intenderei insistere, per il motivo che sono consapevole di non avere una sufficiente competenza su questa lingua, tale da osare di confrontarmi coi colleghi semitisti. L'unica cosa che mi sento di dire è che quasi certamente lo scriba che ha stilato l'iscrizione fenicio-punica era un cartaginese, il quale non comprese bene l'iscrizione stilata dal suo collega etrusco; e soprattutto da questo fatto saranno derivate le discrepanze tra le due iscrizioni.

  3ª lamina con iscrizione in lingua etrusca
 
 


cioè:

«Così Thefario Velianio ha concesso l'offerta del corrente mese di dicembre (ed) ha fatto elargizioni a Giunone. La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la undicesima (rispetto a)gli astri».  Oppure  «Così Thefario Velianio ha concesso l'offerta del corrente mese di dicembre a Giunone (ed) ha fatto elargizioni (al tempio). La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la undicesima (rispetto a)gli astri».
             Sia il cambio di grafia fra le due lamine scritte in etrusco sia la differenza tra la forma del gentilizio Velianas della prima e Veliiunas di questa ci assicurano che ciascuna delle due lamine è stata scritta da un differente scrivano. Probabilmente il nome del committente in realtà suonava Vélinas, cioè con l'accento sulla prima sillaba e con la vocale posttonica indistinta.
thamuce «concesse, ha concesso»; nell'iscr. CIE 5357 compare come thamce, cioè sincopato (vedi themiasa della 1ª lamina).
etan(-al) interpreto «(del) presente o corrente», intendendolo come derivato dal pronome dimostrativo eta «questo».
masan probabilmente «dicembre» oppure, in subordine, «novembre», e corrisponde alla forma sincopata masn del Liber linteus.
tiur «mese». masan tiur sono privi della desinenza del genitivo ai sensi della "flessione di gruppo" (LEGL 83-84).
unia(-s) «(di) Giunone» in genitivo di donazione o dedicazione (LEGL 136).
vacal «rito sacro, cerimonia»; nel Liber linteus figura sincopato in vacl.
tmial «del thesaurus» (genit.); vedi 1ª lamina.
avilkhval (avil-khva-l) «degli anni», in genitivo plur. (LEGL 74).
amuce «fu, è stato».
pulumkhva «per, rispetto agli astri», i quali segnavano il passare del tempo; è un complemento di tempo con morfema zero.
snuiaph «undici»; già Marcello Durante aveva intravisto che si tratta di un numerale. Secondo G. Giannecchini («La Parola del Passato», 1997), indicherebbe il numero «dodici»; io lo escluderei, visto che in etrusco «dodici» molto probabilmente si diceva sranczl (LEGL 96). Comunque questo divario di un numero non implicherebbe alcuna differenza effettiva, per effetto del modo in cui la gente spesso effettua la numerazione, cioè saltando sia il terminus a quo sia il terminus ad quem. Dunque la commemorazione della prima fondazione e dedicazione del thesaurus venne fatta undici/dodici anni dopo, secondo un numero che nei tempi antichi aveva anche una valenza sacrale in virtù delle dodici lunazioni della luna. E per questo motivo si spiega la diversità dello scrivano della 1ª lamina rispetto a quello della 3ª.
Molto notevole è il fatto che in questa 3ª lamina non si faccia alcun riferimento alla fenicia Astarte e che a questa iscrizione etrusca non ne corrisponda una analoga punica: nella verosimile supposizione che ho fatto a proposito della 1ª lamina, evidentemente Thefario Velianio negli undici/dodici anni trascorsi aveva ormai rafforzato il suo potere su Cere, per cui non aveva più bisogno dell'aiuto di Cartagine e tanto meno di ringraziarla pubblicamente.
La Mummia di Zagabria
 
Il manoscritto della "Mummia di Zagabria" è un "liber linteus" eseguito a inchiostro con un pennello su di un drappo di lino. E' suddiviso in dodici riquadri rettangolari ognuno con 34 righe della scrittura. Il drappo veniva ripiegato "a fisarmonica" seguendo le linee verticali dei riquadri che funzionavano dunque come le pagine di un libro.
 Attualmente si conserva al Museo Archeologico di Zagabria ma è stato ritrovato in Egitto, dove era stato "riciclato" tagliandolo orizzontalmente in lunghe strisce, che furono utilizzate come bende per una mummia.

Solo alcune delle strisce sono conservate, per cui il manoscritto ha grosse lacune. Il testo è in assoluto il più lungo tra quelli etruschi, esso consta infatti di 230 righe e di circa 1350 parole. Il testo ha una storia molto curiosa: verso la metà dell'Ottocento un collezionista croato (Mihail de Brariæ, scrittore della Regia cancelleria ungherese) aveva riportato in patria dall'Egitto, secondo l'uso dell'epoca, alcuni oggetti antichi, fra i quali una mummia. Qualche tempo dopo ci si accorse che le bende del reperto erano coperte da un testo scritto con l'inchiostro nero. Solo nel 1892 questo testo, di oltre 1200 parole, venne studiato dall'egittologo Brugsch e identificato come etrusco. Dal 1947 mummia e bende vennero trasferite al Museo di Zagabria. L'ultimo restauro è stato curato da un'équipe italiana nel 1997.
 Si tratta di un calendario rituale che specifica le cerimonie da compiere nei giorni prestabiliti in onore di varie divinità. Le prescrizioni di carattere religioso sono tipiche dell'area tra Perugia, Cortona e Lago Trasimeno. La scrittura, molto precisa e accurata, è quella in uso nell'Etruria settentrionale tra il III e il lI secolo a. C.  Un esempio dalla III colonna, riga 3: " celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri" "Settembre sei venti offerte a Nettuno si dedichino " ossia " il 26 settembre si dedichino venti offerte a Nettuno" Si pensa che questo libro di lino, conosciuto come liber linteus di Zagabria, appartenesse a un aruspice, e che sia stato poi ridotto in strisce per fasciare la mummia.
La Tabula Cortonensis
  
Una delle più lunghe iscrizioni in lingua etrusca, la "Tabula cortonensis" (la tavola di Cortona) del III-II secolo a. C., la cui clamorosa scoperta è stata annunciata all'inizio della scorsa estate a Firenze, ha cominciato a svelare i primi "segreti". Nel testo non si parla di defunti o riti funerari, come succede in genere con i reperti degli Etruschi riemersi dal sottosuolo, ma di un concreto e articolato passaggio di proprietà fra etruschi ben in vita e preoccupati di tutelare le proprie ricchezze. Solo quattro mesi fa Francesco Nicosia, ispettore centrale del ministero dei Beni culturali, ha reso nota l'esistenza di una tavola bronzea, misteriosamente ricomparsa nel 1992, con una fitta iscrizione di 32 righe, spezzata in sette frammenti, la cui decifrazione sta fornendo importantissimi elementi per la conoscenza della ancora in gran parte misteriosa lingua degli Etruschi.
Ora un articolo della rivista "Archeologia viva" rende noti i significativi passi in avanti nella decrittazione delle parole della "Tabula Cortonensis", grazie agli studi del professor Luciano Agostiniani, docente di glottologia all'università di Perugia. L'ipotesi al momento più fondata è che la "Tavola di Cortona" racconti di una transizione tra la famiglia Cusu, di cui farebbe parte il personaggio Petru Scevas, da una parte, e un gruppo di quindici persone, dall'altra. È stato decodificata anche una serie di numeri: il 10 (sar), il 4 (sa) e 2 (zal), che potrebbero indicare quantità di cose o estensioni di terreno. È possibile, secondo Agostiniani, che si tratti dell'atto di vendita di un terreno da parte dei latifondisti Petru Scevas e Cusu a piccoli proprietari compratori.
 
Molti sono gli elementi eclatanti in questa straordinaria iscrizione. Anzitutto la formula di datazione con il nome degli eponimi, attestata qui per la prima volta per l'Etruria settentrionale. Il primo dei personaggi che compare nell'ultimo elenco è accompagnato dall'epiteto della carica rivestita, assai importante e attestata sempre per la prima volta nell'Etruria settentrionale: si tratta dello "Zilath Mel Rasnal", il magistrato supremo dello Stato, che intervenne nella stesura dell'atto di compravendita. Il professor Agostiniani ha ipotizzato, inoltre, in base a numerosi riscontri, l'esistenza sulla "Tavola di Cortona" di tre elenchi di nomi: il primo rappresenta i venditori, il secondo i compratori e il terzo i garanti della regolarità del contratto.
I garanti del contratto erano il magistrato supremo e i figli e i nipoti delle due parti. Ciò significa che nel diritto orale etrusco, chi garantiva la regolarità del contratto e i pagamenti non lo faceva solo per sé, ma anche per i suoi discendenti. Insomma, in caso di disgrazia o di insolvenza, il figlio o il nipote doveva garantire l'esecuzione del contratto.
La Tegola Capuana
 
Il testo della famosa "Tegola di Capua" (conservata al Museo di Berlino) rappresenta la più estesa di tutte le epigrafi etrusche mai ritrovate, se si eccettuano le bende della "mummia di Zagabria", che costituiscono un vero e proprio libro. Si tratta di una lastra di terracotta (di centimetri 60 x 50), scoperta nel 1898 nella necropoli di Santa Maria Capua Vetere e recante una lunga iscrizione graffita, di cui restano leggibili circa treo cento parole.
Suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale, risulta attualmente costituito da 62 righe, alcune in parte perdute, e da circa 390 parole, non tutte conservate per intero. È suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale.
La scrittura è quella in uso in Campania intorno alla metà del V secolo a.C.
Si tratta, come nel caso della Mummia di Zagabria, di un "calendario rituale" dove vengono prescritte cerimonie da compiere in certe date e in certi luoghi a favore di alcune divinità. Nel 1985 ne è stata presentata una bella edizione nel testo di Francesco Roncalli, Scrivere etrusco, che contiene anche il "libro di Zagabria" e il "cippo di Perugia".
Sui problemi dell'interpretazione del contenuto il riferimento più recente e importante è il libro Tabula Capuana (1995), uno degli ultimi lavori lasciati dall'archeologo Mauro Cristofani. La redazione del documento si può datare al 470 a.C., sebbene esso si debba ritenere la copia (o comunque la trascrizione) di un testo certamente molto più antico. In effetti sulla tegola è graffito un calendario festivo risalente all’età arcaica: un calendario di prescrizioni cultuali relativo a celebrazioni pubbliche e diretto, secondo il Cristofani, alla stessa comunità capuana. Il calendario è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci mesi del calendario antichissimo e comincia da marzo (in etrusco, probabilmente, Velxitna). Anche il calendario romano (da cui deriva il moderno) ebbe, in origine, dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è provato al di là di ogni dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e dicembre, che oggi si trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo posto.
Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re Numa; nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano che i mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da cui ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto 304 giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno 30, quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre 30».
Ecco dunque alcuni estratti del calendario festivo di Capua.
   I nomi dei mesi etruschi sono noti sostanzialmente attraverso alcune glosse, la "tegola di Capua" e il "libro di Zagabria" (l'asterisco indica le forme ricostruite, in quanto conosciute soltanto da glosse e non ancora attestate nei documenti etruschi originali): marzo = *velxitna; aprile = apiras( a); maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio = *turane o par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer.

La Stele di Lemno
Come già detto, alcuni autori antichi condivisero l’idea di un’origine orientale degli Etruschi. Ellanico, un altro storico, vissuto nel V secolo a.C., in un brano delle sue storie, sostiene che Ceare (attuale Cerveteri) in origine si chiamava Agylla e fu fondata dai Pelasgi, provenienti dalla Tessalia; quando poi i Lidi, al seguito di Tirreno, assalirono Agylla, uno degli assedianti si avvicinò alle mura e domandò il nome della città; dalle mura, uno dei Tessali, invece di rispondere, lo salutò con la parola "chaere". Così i Tirreni, appena presa la città, le cambiarono nome in Caere. In seguito, gli studiosi sostenitori dell’origine orientale, affermarono che per la trasformazione dei villaggi villanoviani in città fortificate, avvenuta all’epoca dell’inizio della civiltà etrusca, sono state necessarie tecniche e abilità amministrative ben maggiori di quelle dimostrate dai villanoviani stessi; ne consegue che tali competenze furono necessariamente arrivate dall’esterno. Altri riscontri archeologici a favore di questa ipotesi sono le somiglianze trovate tra alcune tombe etrusche e alcune tombe dell’Asia minore, nonché alcuni aspetti della civiltà etrusca che sembrano più orientali che italici: il piacere del lusso, l’amore per le feste e per le danze, alcune pratiche come l’epatoscopia. 
 

 Più che a un’invasione in massa, avvenuta in un unico momento, si può anche pensare al graduale arrivo dall’esterno di gruppi della stessa popolazione, che a poco a poco si integrò con la base villanoviana portando i suoi usi e la sua cultura, in seguito adottati totalmente. Come riscontro archeologico a quest’ipotesi, nell’isola di Lemno, nei pressi della città di Kaminia, si può citare il ritrovamento di una stele funeraria recante un’incisione in una lingua non greca, che è stata interpretata solo grazie alla sua somiglianza con l’etrusco, segno di un collegamento con l’idioma in uso a Lemno nel VI sec. a.C., che pur non essendo la stessa lingua, probabilmente ha delle radici comuni.