La grande vendetta del nipote di Cesare, il dittatore ucciso da Bruto e Cassio.<BR>A soli 19 anni (44 a. C.), attaccò e liquidò i nemici, prese il potere. E diventò… <BR><BR>CESARE AUGUSTO, IL CONSOLE<BR>CHE DI ROMA FECE UN IMPERO <BR><BR>di DIEGO BERTOZZI <BR><BR><BR>"All'età di diciannove anni, con mia personale decisione e a mie spese personali costituii un esercito con il quale restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione": iniziano così le "Res Gestae divi Augusti", le memorie e il manifesto politico-propagandistico del fondatore dell'Impero romano, incise per disposizione testamentaria su due pilastri di bronzo davanti al suo mausoleo a Roma e lette, per espressa volontà del Senato, in tutte le Province. <BR>L'imperatore Cesare Augusto<BR><BR><BR>È il giugno del 44 a.C., a poco meno di due mesi dall'uccisione del dittatore a vita Cesare per mano dei congiurati capitanati da Bruto e Cassio, quando il giovane Ottavio, il futuro Augusto, si presenta a Roma in veste di figlio adottivo per vendicarlo, raccoglierne l'eredità e realizzare ciò che al padre era costato la morte e che i suoi concittadini consideravano da secoli indigeribile: la monarchia. Quella forma di governo dalla quale i romani si erano liberati alla fine del VI sec. a.C. con l'uccisione del re Tarquinio il Superbo per mano, ironia della sorte, di un Bruto. Un risultato che Ottavio costruisce sul sangue di cinque guerre civili, di tribunali speciali e liste di proscrizione, pazientemente tessuto ("festina lente", affrettati con calma, è il suo motto) attraverso compromessi e repentini cambiamenti di fronte e mascherato da restaurazione della repubblica. Sulle basi della sua indiscussa "auctoritas" (misto di carisma e accentramento del potere nel rispetto formale delle regole repubblicane) nasce e si sviluppa il Principato. Per quarantaquattro anni, dal 30 a.C. al 14 d.C., Roma vive nel suo nome, tributandogli gloria e onori mai visti (basti ricordare i 13 consolati, le 21 acclamazioni imperatorie e i titoli di Augusto e di Padre della patria), e si espande, anche se a prezzo di enormi perdite, sia in Europa che in Asia come mai nello stesso lasso di tempo. Al contempo un "baro", come lo definisce Spinosa, e un uomo di stato al cui bilancio i successori non potevano che impallidire, come sottolinea lo storico tedesco Werner Eck, alla sua morte soppravviveranno il principato, la fama e i titoli. I suoi successori saranno tutti Augusti: a lui si richiamerà esplicitamente nel 535 l'imperatore bizantino Giustiniano quando tenterà di riconquistare all'Impero un'Europa in preda ai barbari, e "Augusto" sarà anche Carlo Magno, il rifondatore dell'impero in Occidente, incoronato nel Natale dell'800 da Papa Leone III. <BR>Origini da nascondere e segni premonitori. Gaio Ottavio nasce all'alba del 23 settembre del 63 a.C. in una casa sul colle Palatino. È l'anno 691 dalla fondazione di Roma, l'anno del consolato di Cicerone e del fallito assalto al potere di Catilina. Il padre C. Ottavio, il primo della famiglia degli Ottavi ad essere entrato in Senato, vanta origini "equestri", proviene cioè da quella "borghesia" cittadina dedita a svariate attività produttive e capace di raccogliere ingenti patrimoni. È il serbatoio di quegli "novi homines" che Augusto assocerà alla gestione del potere con l'affidamento di compiti delicati e posizioni di indubbio prestigio. Il nonno paterno aveva esercitato il mestiere di banchiere a Velletri, una cittadina a una trentina di chilometri dalla capitale, ed è probabile che le ricchezze da lui accumulate e poi lasciate al figlio, derivassero da prestiti concessi ad alti interessi. Nobile è invece la madre Azia. In quanto figlia di Marco Azio Balbo, senatore legato a Pompeo Magno e di sangue africano, e di Giulia sorella di C. Giulio Cesare, aveva portato in dono al marito una parentela tale da facilitargli la scalata politica: alla carica di pretore nel 60, sarebbe seguita due anni dopo quella di governatore della Macedonia con tanto di un trionfo per la vittoria sui Bessi e sui Traci. Sarà solo la morte, avvenuta nel viaggio di ritorno verso Roma, ad impedirgli l'ascesa al consolato. <BR>Nel pieno delle guerre civili le origini del futuro imperatore saranno un argomento della propaganda degli avversari che lo accuseranno di aver avuto come bisavolo un liberto cordaiolo, per nonno paterno un incettatore di voti elettorali a pagamento e usuraio e per nonno materno un umile mugnaio africano. Di tutt'altro segno saranno invece, a quanto riporta il biografo Svetonio, le voci circolanti in pieno principato: la famiglia degli Ottavi sarebbe stata ammessa al Senato dal re Tarquinio Prisco e poi elevata al patriziato, <BR>Giulio Cesare<BR><BR>la nobiltà per definizione, dal successore Servio Tullio; la madre Azia, addormentatasi al termine di una cerimonia nel tempio di Apollo, sarebbe stata raggiunta e violata da Apollo trasformato in serpente e dopo nove mesi avrebbe partorito Ottavio, il figlio del dio. <BR>Alla morte del padre, Ottavio ha quattro anni e lascia la madre, sposatasi con il futuro console Lucio Marcio Filippo, per entrare in casa della nonna Giulia dove rimane fino alla morte di quest'ultima nel 51 a.C. Un tragico avvenimento che coincide con la prima uscita pubblica del giovane che pronuncia nel Foro l'orazione funebre, mettendo in risalto le proprie capacità oratorie. Ritorna quindi dalla madre che, insieme al patrigno, ne cura l'educazione improntandola allo studio delle lettere latine e greche. Come tutti i giovani rampolli della nobiltà affronta la retorica, materia indispensabile per la carriera politica, e si diletta nella lettura di poesie, tragedie, opere storiche e geografiche. Nasce una passione che non lo abbandonerà neppure nelle situazioni più critiche. Si racconta infatti che anche in piena battaglia il principe non mancasse di scrivere, leggere e declamare ogni giorno. <BR>Numerosi avvenimenti, apparsi in forma di "prodigia", avrebbero rivelato fin dall'inizio la sua futura grandezza: nel giorno della sua nascita il padre sarebbe arrivato in ritardo in Senato e un suo collega, il matematico e filosofo Nigidio, saputo il motivo del ritardo avrebbe esclamato che era nato il padrone dell'universo; il piccolo Ottavio, sparito dalla culla, sarebbe riapparso il giorno successivo sulla torre più alta di Velletri con la faccia rivolta al sole sorgente; da poco in grado di parlare e infastidito dal gracidare delle rane, avrebbe ordinato loro con successo di zittirsi; nell'indossare nel Foro la toga virile, nel corso di una cerimonia che a 14 anni segnava simbolicamente l'ingresso in età adulta, la sua toga praetexta, simile a quella dei senatori, sarebbe caduta a suoi piedi, facendo capire che un giorno il senato avrebbe seguito ugual sorte. <BR>Sulle orme di Cesare. Quando il 10 gennaio del 49 a.C. Cesare, il conquistatore della Gallia, attraversa il Rubicone alla testa della sua legione per affrontare Pompeo e per imporre a Roma la propria volontà, Ottavio ha 13 anni. La madre Azia, su consiglio del padre, lo spedisce prudentemente in una tenuta familiare nei pressi di Velletri. Il giovane ritorna a Roma soltanto all'indomani dell'ingresso vittorioso di Cesare e comincia la sua scalata al potere. Nel 47 viene nominato "praefectus urbi" (una carica straordinaria con il compito di garantire l'ordinaria amministrazione in assenza dei magistrati) e per la prima volta svolge nel Foro funzioni giudiziarie. Entra nel collegio dei pontefici, carica religiosa di forte prestigio, mettendo così piede nella prestigiosa cerchia del patriziato, la nobiltà romana. A sostenerlo è il dittatore Cesare, privo di figli legittimi - Cesarione è il frutto impresentabile della relazione adultera con Cleopatra - e in cerca di una propria legittima discendenza. Nel 46, dopo la vittoria sui pompeiani in Africa, lo vuole con sé per celebrare il trionfo e gli concede gli onori militari. Successivamente Ottavio raggiunge in Spagna il prozio che ha appena liquidato le ultime resistenze pompeiane e, pur non partecipando ad azioni belliche, mette in mostra le proprie capacità politiche partecipando all'amministrazione della giustizia e alla riorganizzazione della provincia. Negli ultimi mesi del 45 ottiene la prestigiosa nomina di "magister equitum" (capo della cavalleria) in vista della campagna militare che Cesare vuole intraprendere in Oriente contro i Parti. Ottavio parte quindi per Apollonia in Macedonia, luogo prescelto per il concentramento della 6 legioni, in compagnia di Vispanio Agrippa, un coetaneo di origine etrusca, che si rivelerà un compagno fedele e valoroso. Il suo apprendistato militare e la prevista spedizione sono, però, bruscamente interrotte il 15 marzo del 44 dall'assassinio di Cesare per mano di Bruto e Cassio con lo scopo di ripristinare la libertas repubblicana e le prerogative senatorie cancellate dal "tiranno". Ma il prozio aveva già regolato la propria successione: nel testamento compilato nel settembre del 45 adottava il nipote e lo designava erede per i tre quarti del proprio patrimonio. <BR>La notizia dell'assassinio arriva ad Ottavio cinque giorni dopo per mano di un liberto inviatogli dalla madre che, consapevole dei possibili rischi per i parenti del dittatore, gli consiglia di ritornare immediatamente in Italia. Sbarcato nei pressi di Lecce dopo aver attraversato lo Ionio su una piccola imbarcazione, si ferma nel sud della penisola dove ha la possibilità di informarsi sugli sviluppi della situazione politica e di raccogliere intorno a se un esercito utilizzando parte del denaro preparato per la spedizione partica e il tributo annuale della provincia d'Asia, incassato senza alcun diritto. È in questo periodo che consulta a Pozzuoli l'anziano Cicerone, idealmente vicino ai congiurati, ma sempre più deluso dalla piega presa dagli avvenimenti. Infatti a Roma la situazione politica si era tutt'altro che chiarificata. <BR>Bruto, uno degli assassini<BR>di Giulio Cesare<BR><BR>Mentre i Bruto e Cassio si erano riparati nel tempio di Giove in Campidoglio, nella seduta del 17 marzo il Senato aveva ratificato un compromesso, proposto dal repubblicano Cicerone e dal console Antonio, già braccio destro di Cesare, in base al quale veniva concessa l'amnistia ai cesaricidi e si riconosceva validità a tutti gli atti del defunto, testamento compreso. Ma ad agitare la scena e a rendere instabile il fragile equilibrio istituzionale c'era la persistente agitazione dei veterani e della plebe romana che chiedono a gran voce la vendetta contro i congiurati. Richieste che non venivano accolte da Antonio che, dopo aver fatto cacciare dalla città Bruto e Cassio all'indomani dei funerali di Cesare, era impegnato a riportare l'ordine e a consolidare la propria posizione di potere. <BR>Il figlio di Cesare e le guerre civili Quando il 6 maggio entra a Roma per accettare e raccogliere l'eredità di Cesare, Ottavio ha diciotto anni ed è già un politico accorto, capace di valutare con lucidità e freddezza la magmatica situazione politica. Come sottolinea lo storico Augusto Fraschetti si sente ormai "investito come di una missione" per la quale si prepara ad agire con assoluta spregiudicatezza. Come da testamento del padre, distribuisce 300 sesterzi a ciascuno dei membri della plebe cittadina e organizza personalmente i giochi in onore delle vittorie di Cesare, durante i quali la comparsa di una cometa testimonia l'ascensione del padre tra gli dei. Ottavio, divenuto il figlio di un dio, si dimostra capace di costruire il consenso. Fallita una marcia su Roma alla testa dei veterani raccolti in Campania, capisce che per rafforzare la propria posizione è necessaria l'intesa con il senato dominato da una maggioranza repubblicana e, soprattutto, con l'autorevole Cicerone, preoccupato per l'aumento di potere di Antonio che si è fatto assegnare le province della Gallia Cisalpina (Italia settentrionale) e Comata. Per l'anziano senatore la lotta contro una nuova possibile tirannia giustificava un accordo con il figlio del tiranno defunto e con le sue legioni. Viene quindi conclusa nel gennaio del 43, un'alleanza innaturale che permette ad Ottavio di fare il suo ingresso nell'antica assemblea col rango di pretore e di ottenere un "imperium" (comando militare) con l'incarico di muovere guerra insieme ai consoli Irzio e Pansa contro Antonio che assedia a Modena il governatore repubblicano Decimo Bruto. L'operazione si conclude il 21 aprile con la fuga di Antonio verso la Gallia e con la morte sul campo di entrambi i consoli le cui legioni passano ad Ottavio. Quest'ultimo, ora in posizione di forza, decide di marciare nuovamente su Roma e, questa volta, ottiene dal Senato, a soli vent'anni e senza ricoprire alcuna magistratura, la nomina a console. È il 19 agosto e il progetto ciceroniano di salvare la repubblica rivolgendosi al figlio di Cesare si rivela un clamoroso autogol. <BR>Il nuovo console non perde tempo e distribuisce soldi ai veterani, onorando il testamento del padre, e imprime una sterzata alla propria politica: istituisce un Tribunale straordinario contro i cesaricidi e toglie la delibera senatoria che dichiarava Antonio "nemico dello stato". Sono mosse che facilitano la conciliazione all'interno del "partito" cesariano. Così, mentre Bruto e Cassio si rafforzano in Oriente con il beneplacito di Cicerone, nell'ottobre del 43 Ottavio, Marco Antonio e Emilio Lepido (governatore della Gallia Narbonense e della Spagna Citeriore) si incontrano a Bologna e stringono un'alleanza con lo scopo di vendicare Cesare e di riorganizzare la Repubblica (tresviri rei publicae constituendae). Un patto quinquennale, legittimato da una delibera popolare, che riconosce ai triumviri il potere legislativo e che spartisce tra loro l'occidente romano: ad Antonio vanno le Gallie Cisalpina e Comata, ad Ottavio la Sicilia, la Sardegna e l'Africa, mentre Lepido si vede confermate le sue. La messa fuori legge dei cesaricidi e dei loro fiancheggiatori è la premessa di una spietata azione repressiva: come già fece Silla nella sua restaurazione conservatrice, vengono compilate liste di proscrizione segrete (300 i senatori e 2000 i cavalieri inseriti) e per i proscritti sono previste la privazione di ogni diritto, la confisca dei patrimoni, mentre i sicari che consegnano le loro teste ricevono ricompense in denaro. L'élite senatoria di ispirazione repubblicana è duramente colpita e viene sostituita dai fedeli dei triumviri, mentre uomini delle legioni cesariane entrano nelle classi dirigenti locali. Ma la vittima più illustre del terrore è Cicerone, l'indefesso difensore della repubblica, ucciso sotto i colpi dei sicari di Antonio. <BR>La morte del vecchio senatore e la successiva sconfitta a Filippi nell'ottobre del 42 delle legioni di Bruto e Cassio, ultime speranze armate dei repubblicani, segnano definitivamente il tramonto della Roma repubblicana. Il merito della vittoria cesariana è di Antonio, mentre Ottavio, inizialmente sconfitto e assente nella battaglia finale, si limita ad inviare a Roma la testa di Bruto per farla rotolare ai piedi della statua del padre. <BR>L'ammiraglio Agrippa<BR><BR>La vendetta è finalmente consumata e ai vincitori non resta che dividersi l'intera posta: Antonio, il vero trionfatore, si prende l'Oriente, Ottavio le province spagnole, mentre Lepido viene messo in disparte. <BR>Ad Ottavio spetta però il delicato compito della assegnazione delle terre ai veterani e ai legionari ai quali, prima di Filippi, era stato assicurato il congedo. Si tratta di una operazione necessaria per conservare la loro fedeltà e, al contempo, esplosiva perché prevede il ricorso ad espropri (tra i colpiti ci sarà il poeta Virgilio). Le città interessate all'operazione sono diciotto; in alcune si assiste alla espulsione dell'intera popolazione mentre altre devono cedere una parte del proprio territorio. Per tutta la penisola sale il risentimento degli espropriati che trovano nel console Lucio Antonio, fratello del triumviro, il proprio difensore ed ottengono l'appoggio della maggioranza del senato. La risposta di Ottavio è decisa e tremenda. All'inizio del 40, dopo sei mesi di assedio, sconfigge a Perugia i rivoltosi e, lasciato libero Lucio Antonio, procede alla vendetta: saccheggia la città, massacra numerosi cittadini e il 15 marzo, anniversario della morte di Cesare, giustizia ai piedi di una statua del padre ben 300 senatori. L'Italia, presidiata da legionari e veterani gratificati ("il presidio italiano della rivoluzione" come li definisce Santo Mazzarino), è nelle sue mani e per gli oppositori non c'è altra via che la fuga. Alcuni si dirigono verso il repubblicano Sesto Pompeo padrone con la sua flotta del mediterraneo occidentale e quindi in grado di impedire i rifornimenti granari a Roma. Ottavio deve ora ostacolare un possibile accordo tra questi e un Antonio sempre più preoccupato per la situazione in Italia. Agisce con la solita lucidità lungo due direzioni: rinnova nel 40 a Brindisi l'alleanza con Antonio, provvedendo ad una nuova spartizione territoriale (l'occidente ad Ottavio, l'oriente ad Antonio e l'Africa a Lepido) e affidandogli in moglie la sorella Ottavia; sposa Scribonia, figlia del suocero di Sesto Pompeo, e conclude con quest'ultimo nel 39 a Miseno un trattato, accordandogli il controllo di Sardegna, Corsica, Sicilia e Peloponneso, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti all'Urbe. <BR>La lotta finale. Nella quarta egloga delle Georgiche, Virgilio canta l'inizio di una nuova epoca di pace in cui spariranno i delitti, ma la realtà corrisponde solo per breve tempo a questa visione. Se Antonio, sempre più legato alla regina egiziana Cleopatra, è lontano in Oriente e medita la spedizione contro il regno dei Parti, Sesto Pompeo è, invece, un alleato scomodo, potente e troppo vicino. Ottavio, conscio della precarietà dell'accomodamento, prepara il terreno per l'ennesima resa dei conti. Nel 38 ripudia Scribonia per unirsi in matrimonio con Livia che divorzia consensualmente dal marito Tiberio Claudio Nerone, già vicino ai cesaricidi e membro della gens Claudia, una delle più nobili famiglie di Roma. Con questa mossa rafforza la sua posizione nell'alto patriziato e tra i conservatori. Affida ad Agrippa la preparazione della propria flotta e nel settembre del 37 a Taranto rinnova per altri 5 anni il triumvirato. Nell'occasione conclude un accordo militare con Antonio, dal quale ottiene 120 navi in cambio dell'invio di venti legioni per la spedizione contro i Parti. Così rafforzato si lancia contro Sesto Pompeo e, grazie alla capacità dell'ammiraglio Agrippa, lo sconfigge nelle battaglie navali di Milazzo (agosto 36) e Nauloco (settembre 36) nel nord della Sicilia. Ottavio, invece, all'inizio della battaglia riesce persino a cedere ad un colpo di sonno. La vittoria nella "guerra piratica" - così la presenta nelle "Res gestae" per togliere ogni legittimazione all'avversario - gli consente di tornare in trionfo a Roma e di ottenere la "sacrosanctitas", ovvero l'inviolabilità della persona riconosciuto ai Tribuni della plebe. Da questo momento senato e popolo gli garantiscono particolare protezione. Lepido, ormai messo da parte, conserverà fino alla sua morte la carica di Pontefice massimo. <BR>Mentre Ottavio si rafforza a Roma e consente agli "homines novi" al lui vicini l'accesso alle magistrature e al senato, Marco Antonio viene sconfitto dai Parti in una guerra che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto dargli immensa fama (Cesare aveva nutrito lo stesso progetto). E , per di più, delle truppe promesse da Ottavio non era arrivata che una minima parte. Tra i due si respira ormai una atmosfera da "guerra fredda" che Ottavio, maestro nella propaganda, riesce a capitalizzare con successo. Accusa il collega di essersi gettato tra le braccia di una barbara, Cleopatra, preferendola alla moglie romana e di voler svendere grandezza e gloria di Roma. E la prova del tradimento è il testamento di Antonio, sottratto da Ottavio alle Vestali che lo custodivano, nel quale dichiara di voler essere sepolto ad Alessandria d'Egitto e di lasciare i regni vassalli a Cleopatra e ai suoi figli (tra questi c'è Cesarione figlio della regina e di Cesare). Ottavio astutamente, quasi a sottolineare il suo indissolubile legame con Roma, inizia la costruzione del proprio mausoleo in Campo Marzio. <BR>Cleopatra, regina d'Egitto<BR><BR>Il senato, abbandonato da 300 componenti accorsi in Oriente e, quindi, nelle mani di Ottavio, priva Antonio di tutti i suoi poteri, lo retrocede a nemico pubblico e dichiara guerra a Cleopatra. È lo scontro decisivo e Ottavio lo conduce sulla base del giuramento di tutti i cittadini romani ("consensus universorum" nelle Res gestae) che gli affidano il ruolo di "dux", comandante in capo dell'esercito. Il 2 settembre del 31 ad Azio la sua flotta mette in fuga Antonio e Cleopatra. La battaglia decisiva si svolge il 1 agosto del 30 ad Alessandria d'Egitto e si conclude con la vittoria di Ottavio e con il suicidio dei suoi nemici. Antonio si trafigge con la propria spada, mentre Cleopatra, per sfuggire all'ingrato ruolo di trofeo personale del vincitore, preferisce abbandonarsi al morso velenoso di un serpente. Invano Ottavio fa arrivare degli psilli (tribù africana che si pensava capace di incantare i serpenti o di guarire i loro morsi) per succhiarle il veleno dalle ferite. <BR>Dopo quattordici anni di guerre, Ottavio non ha più avversari e Roma, cui porta in dote il ricco Egitto, è ai suoi piedi. Per l'Urbe è l'inizio di una nuova era che viene accolta da tre giorni di festa e trionfo, dalla distribuzione del bottino egiziano e dalla chiusura del tempio di Giano Quirino, simbolica testimonianza della fine delle guerre. Il figlio di Cesare è ormai l'uomo della pace e con la dolcezza di questa, per usare un'espressione di Tacito, conquista il consenso di nuovi e vecchi proprietari desiderosi di tranquillità dopo una interminabile serie di sconvolgimenti. <BR>La monarchia mascherata da repubblica. Per il vincitore è giunto il momento di consolidare dal punto di vista istituzionale il proprio potere. È una operazione delicata, potenzialmente fatale e oggetto di incessanti discussioni nella cerchia dei fedelissimi. Lo storico greco Cassio Dione (III sec. d.C.) ce ne riporta una (si tratta con ogni probabilità di una invenzione) in cui Agrippa consiglia caldamente il ritorno alla tradizionale repubblica, mentre il ricco e colto Mecenate spinge per una aperta costituzione monarchica. Ottavio, che ha ben presente quanto è successo al padre accusato di instaurare un regno, è consapevole che un regime formalmente monarchico è incompatibile con la mentalità romana, e con l'ethos della classe dirigente abituata da cinquecento anni alla repubblica e sospettosa di chi, in quel quadro, concentrava troppo potere. Ancora una volta l'ex triumviro mostra le sue raffinate capacità politiche decidendo di fondare il proprio dominio nella restaurazione "formale" della repubblica, non concentrando su di se più cariche magistratuali, ma limitandosi ad ottenerne solo la sostanza. È una mossa meditata, dietro la quale c'è la consapevolezza di un potere personale ormai vasto: carica di console, potere di creare nuovi patrizi, vaste clientele e seguaci all'interno delle istituzioni, legionari e veterani fedeli ed enormi ricchezze, cui si sono aggiunti onori come l'inclusione del nome in tutte le preghiere dei sacerdoti dello stato. <BR>Il giorno scelto per la "messa in scena" è il 13 gennaio del 27 a.C.; dopo aver già abrogato tutte le misure adottate nel periodo triumvirale, si presenta di fronte ai senatori e dichiara di restituire al senato e al popolo romano tutte le loro prerogative: "Rifiuto integralmente il potere - questa la ricostruzione di Cassio Dione - e vi restituisco letteralmente tutto, gli eserciti, le leggi e le province, non solo ciò che mi avete affidato voi, ma anche quello che in seguito vi ho fatto guadagnare, affinché siano i fatti stessi a provarvi che non ho mai ambito alla signoria, ma che ho voluto realmente vendicare il sanguinoso assassinio di mio padre e liberare la città da grandi e ripetuti soprusi". E il senato risponde decretandogli altri onori e conferendogli nuove prerogative. Nella sede dell'antica istituzione viene posto uno scudo sul quale sono riportate le virtù - coraggio, clemenza, giustizia e pietà - che vengono riconosciute ad Ottavio e la porta di casa sua viene ornata con una "corona civica", concessa per aver salvato la vita dei cittadini romani. Ma sono altre due le decisioni senatorie di maggior peso: attribuzione di un mandato decennale sulle province di Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto con il compito di riportarvi ordine e, infine, conferimento del titolo e nome di "Augusto". Nel primo caso ottiene il controllo di ricchi e prestigiosi territori e, quindi, delle molte legioni ivi stanziate, mentre nel secondo un riconoscimento di superiorità e uno status di natura quasi religiosa. In verità l'attribuzione del nuovo nome - d'ora in poi sarà Imperator Caesar Augustus Divi filius - non era una iniziativa spontanea, ma studiata a tavolino e presentata poi all'assemblea dal senatore compiacente Munazio Planco. In precedenza era stato scartato per opportunità il nome "Romolo" perché avrebbe ricordato l'odiata monarchia. Per la stessa ragione, con un gesto plateale, rifiuterà la dittatura quando ad offrirgliela saranno i cittadini colpiti dalla carestia. In quell'occasione, con un gesto plateale, arriverà a strappare pubblicamente la veste del dittatore. <BR>L'Ara Pacis augustea<BR><BR>La rivoluzione augustea partorisce un regime ambiguo dalla connotazione autocratica ma mai dichiaratamente monarchico. A chiarire ogni dubbio è Augusto in persona: "da allora in poi fui superiore a tutti in autorità, sebbene non avessi maggior potere di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna magistratura". Nel rispetto formale della tradizione si è assicurato il primato, è ormai il "princeps". Nelle sue memorie tace però su altri fondamentali poteri, non legati a cariche ufficiali, che gli vengono riconosciuti. Nel 23 a.C. si dimette dal consolato, ricoperto senza interruzioni dal 31, e riceve un "imperium proconsolare maius et infinitum", vale a dire il potere di intervento sulla gestione di tutte le province dell'Impero, e la "tribunicia potestas", cioè i diritti di un tribuno della plebe: convocare il senato, far votare plebisciti con valore di legge e usare il diritto di veto. Ed è sull'ultima, sulla sua capacità di incidenza politica, che fonda maggiormente il suo dominio. Santo Mazzarino parla, a questo proposito, di principato come "epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico", tanto che i principi successivi dateranno il loro regno proprio a partire dall'assunzione di questa. <BR>Il processo di accentramento del potere riceve negli anni successivi la sanzione finale. Nel 12 a.C., alla morte dell'ex triumviro Lepido, viene eletto dai comizi popolari, affollati come non mai, Pontefice massimo, aggiungendo così un carattere sacrale al proprio dominio; è lui l'intermediario fra gli dei e Roma. Trascorrono dieci anni e gli viene attribuito il titolo di "Padre della Patria"; titolo che Augusto rifiuta una prima volta quando gli viene tributato ad Azio da una delegazione della plebe, ma che accetta, con forte commozione, dopo che in senato Valerio Messala - già alleato di Crasso - lo invoca per bocca di tutti: "Le mie parole siano un presagio di bene e di felicità per te e per la tua famiglia, Cesare Augusto! Così noi crediamo di invocare eterna prosperità e gioia perenne per lo Stato: il Senato con il consenso del popolo romano, ti saluta padre della patria". Nessuno può ormai oscurarne la fama; i successi di Roma sono successi di Augusto. Dal 19 a.C. infatti nessun generale vittorioso, se non i figli del principe, poteva più celebrare in città il proprio trionfo, ma doveva accontentarsi di una cerimonia più discreta - gli "ornamenta triumphalia" - e di una statua di bronzo che andava ad arricchire il Foro di Augusto. <BR>Con la decisione del 27 a.C. Ottavio aveva restituito al senato prerogative e poteri, ripristinando il normale funzionamento dell'agone politico romano e la rincorsa elettorale alle magistrature. Ma l'assemblea aveva subito profondi cambiamenti quali la scomparsa nelle guerre civili di molte delle antiche famiglie e l'immissione di molti seguaci dei triumviri prima e di Augusto poi, espressione di popolazioni italiche ancora lontane dal potere e di province come la Gallia e la Spagna. Ingrossatosi fino a 1000 componenti - "folla indecorosa e senza prestigio" sottolinea Svetonio -, il senato subisce nel 18 a.C. un drastico processo di selezione che lo riporta a quota 600. Falliti i meccanismi di autoselezione affidati ai senatori stessi, l'operazione viene condotta personalmente da Augusto e Agrippa che possono inoltre sbarazzarsi degli ultimi oppositori. Svetonio racconta come il principe si presentasse in quei giorni alle sedute protetto da una corazza, con un pugnale alla cintura e circondato da una guardia del corpo composta da dieci dei senatori più robusti. D'ora in poi chi vuole intraprendere la carriera senatoria deve averne la dignità e, parte di questa, è misurata in sesterzi, esattamente nel requisito minimo di un milione. La distinzione con la classe dei cavalieri è netta (questi devono avere almeno un patrimonio di 400.000 sesterzi) e l'appartenenza all'ordine senatorio diventa una questione ereditaria: ai senatori e ai discendenti viene proibito di sposarsi con liberti o con persone dalle professioni "indegne"e la striscia di porpora - il latis clavus - ne diventa il simbolo esteriore. Contemporaneamente alla revisione Augusto si preoccupa di garantire la persistenza nel tempo dei ceti dirigenti. Con la "lex Iulia de maritandis ordinibus" cerca di indurre i cittadini più facoltosi, senatori e cavalieri, ad unirsi in matrimonio e di procreare più figli ponendo, in caso contrario, restrizioni in materia di eredità. Ad essere premiate sono le famiglie numerose cui sono assicurati percorsi privilegiati nella carriera militare e in quella politica. <BR>Il senato cessa di essere un organo di indipendente iniziativa politica. Augusto può controllare il processo elettorale imponendo alcuni candidati come propri e nel 2 d.C. istituisce due commissioni, composte da senatori e cavalieri, con il compito di operare una scelta preventiva tra i candidati alle magistrature. La possibilità di discussione è limitata dalla presenza di una commissione in parte rinnovabile - formata da Augusto, Agrippa, 1 console, 1 pretore, 1 tribuno, 1 edile, 1 questore e 15 senatori - nella quale vengono preliminarmente discusse le più importanti questioni politiche. L'Egitto, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea<BR><BR><BR>Tutto questo non preclude una forte partecipazione del senato alla gestione dell'impero. Da questo, oltre che dai cavalieri, sono tratte infatti le risorse per i più importanti settori amministrativi, sia per quelli tradizionali che per quelli introdotti dall'opera razionalizzatrice di Augusto. <BR>Il governo di Roma e dell'impero. Con l'attribuzione ad Augusto nel 27 a.C. della responsabilità diretta su alcune importanti province, viene stabilita la modalità di gestione dell'impero e delle sue articolazioni periferiche. Da quel momento si delinea la distinzione tra "province del popolo" e "province del Principe". Mentre le prime sono amministrate da senatori con rango proconsolare estratti a sorte dal senato e con mandato annuale, le seconde, quelle in cui staziona la gran parte delle legioni, sono amministrate da senatori personalmente nominati dal Principe, detti "Legati Augusti propraetore", con un mandato generalmente triennale. Un'unica e importante eccezione è costituita dell'Egitto, la conquista personale di Augusto. Questa, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea e i senatori non possono neppure accedervi senza l'assenso del principe. Le legioni ivi stanziate sono anch'esse comandate da legati di rango equestre nominati dal principe. Si tratta di una soluzione legata alla "eccezionalità strategica, economica e politica di un paese difficile da conquistare e facile da difendere, che era contemporaneamente il granaio di Roma" (Adam Ziolkowski). Nelle proprie province Augusto inviava dei "procuratori" di rango equestre con compiti legati al controllo della riscossione dei tributi e responsabili esclusivamente verso di lui. Ma l'influenza di Augusto si fa sentire anche sulle province del popolo: secondo la ricostruzione di Cassio Dione, al momento dell'insediamento di tutti i governatori, l'imperatore invia delle direttive, dette "mandata", nelle quali sono elencate precise istruzioni da seguire. <BR>Per quanto riguarda l'amministrazione di Roma, Augusto non apporta alcuno stravolgimento di competenze, ma avvia una riorganizzazione, che si prolunga per tutta la durata del suo dominio, basata su criteri di razionalizzazione che rispondono ai problemi di una città con più di mezzo milione di abitanti ai quali occorre garantire approvvigionamenti e sicurezza. E anche in questo caso suddivide le responsabilità tra senatori e cavalieri, provvedendo direttamente alla nomina degli incaricati. Nell'8 d.C., in periodo di carestia e dopo soluzioni solamente contingenti e che avevano visto il principe impegnato in prima persona, viene nominato un "praefectus annonae" di rango equestre stabilmente responsabile dell'approvvigionamento alimentare. Sempre di rango equestre è il comandante dei vigili del fuoco, organizzati in sette reparti da 500-1000 componenti ognuno, con il compito, a partire dal 6 d.C., di tenere sotto controllo gli incendi facili a divampare nei vicoli romani. Ai senatori sono invece affidati l'approvvigionamento idrico della città, la manutenzione degli edifici pubblici e, soprattutto, il ruolo di "praefectus urbi". Quest'ultimo, che in precedenza sostituiva i magistrati assenti dalla città, si occupa stabilmente della sicurezza pubblica e della repressione della criminalità, avendo a disposizioni tre coorti di 500 uomini ciascuna. A due cavalieri è affidato il delicato e importante ruolo, soprattutto per le vicende politiche successive, di "Prefetto del pretorio", una guardia personale del principe formata da nove coorti con uno stipendio che Augusto aveva subito raddoppiato rispetto a quello dei semplici legionari. All'esercito, alle legioni romane, il puntello armato del proprio potere, il principe rivolge una attenzione particolare e non si ritrae dal sottolinearlo: "Stanziai colonie di soldati in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due province di Spagna, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. L'Italia ha poi vent'otto colonie stanziate per mia decisione, le quali durante la mia vita furono intensamente popolate e prospere". Le guerre civili avevano dimostrato come il controllo e la fedeltà delle truppe fossero indispensabili per l'ascesa al potere e Ottavio, fin dalla sua comparsa sul palcoscenico della politica romana, l'aveva ben compreso, non esitando a mettere mano al proprio patrimonio per elargire premi e acquistare terreni per la colonizzazione. Dopo Azio, erano state sciolte molte delle 60 unità impegnate su entrambi i fronti, riducendole a 26-28 per un numero di circa 170.000 effettivi, cui si dovevano, però, aggiungere le unità degli "auxilia", reclutate tra i popoli sottomessi, e quelle messe a disposizione dagli alleati. Si trattava di un organismo che succhiava molte delle risorse finanziare romane e che pesava dal punto di vista fiscale, soprattutto, sulle province. La situazione si complica nel momento in cui Augusto decide di pagare la pensione ai veterani non più con l'assegnazione di terreni ma con pagamenti in denaro. Non potendo aggravare il peso sostenuto dalle province, chiede un sacrificio ai romani: nel 6 d.C introduce la "vicesima hereditatum", una tassa del cinque per cento che colpisce le eredità e i lasciti dei cittadini romani. Le risorse ottenute, a cui si aggiungono i versamenti personali del principe, vanno ad alimentare l"aerarium militare", una cassa per l'esercito amministrata da tre prefetti di rango senatorio nominati da Augusto. <BR>La pace di Augusto. La fama di Augusto non è certamente legata a spiccate doti militari. Augusto non aveva<BR>certamente spiccate<BR>doti militari. <BR>Il generale doveva<BR>i suoi successi<BR>ad Antonio <BR>e, soprattutto, <BR>al fedele Agrippa<BR><BR><BR>Lui, il generale acclamato vittorioso per ben ventuno volte, nelle guerre civili doveva i suoi successi ad Antonio e, soprattutto, al fedele Agrippa. Ma è nel suo nome che Roma, come ricorda Eck, acquisisce "un territorio maggiore di quanto non avesse guadagnato in passato in un lasso di tempo paragonabile": il nord della Spagna, l'arco alpino con la Rezia e il Norico, l'Illirico e la Pannonia e anche l'intera regione a nord dell'Acaia e della Macedonia, fino al Danubio; in oriente divengono province una parte del Ponto, la Paflagonia, la Galizia, la Cilicia e la Giudea. Alle conquiste si aggiungono, come tiene a ricordare Augusto, una serie di "prime volte" come le visite da lui ricevute di ambasciatori indiani, e le spedizioni in terre lontane come il regno etiopico e quello dei Sabei nella penisola arabica sud-orientale. <BR>Sono questi i risultati della "Pax Augustea", di un'epoca di pace da interpretare in una prospettiva esclusivamente interna all'impero e che viene simbolicamente rappresentata, oltre che con al chiusura del Tempio di Giano Quirino, con l'erezione nel 13 d.C. dell'ara Pacis Augustae (altare della pace augustea): le uniche guerre finite sono quelle civili. Non tutto è il risultato di campagne militari, ma anche dell'uso sapiente dell'influenza e del potere romano, capace di sfruttare discordie e divisioni, e di ponderate azioni diplomatiche. E, fatta eccezione per la Spagna dal 26 a.C., a condurre le spedizioni non è Augusto, ma Agrippa ed i figliastri Tiberio e Druso (figli di primo letto della moglie Livia). <BR>In oriente c'era da rimarginare una ferita che da troppo indispettiva l'orgoglio romano: le sconfitte inferte a Crasso nel 53 a.C. e ad Antonio nel 36 a.C. dai Parti che tenevano nelle loro mani le insegne delle legioni sconfitte. Augusto, per riparare l'onta, preferisce all'azione armata in un territorio lontano e contro un nemico potente la trattativa diplomatica, tenendo comunque all'erta l'esercito stanziato in Siria. A condurre in porto la trattativa è Druso che, nel 20 a.C., riesce ad ottenere la restituzione delle insegne. Per il principe è un'ulteriore occasione di propaganda: il senato e il popolo fanno erigere a Roma un arco sul quale, oltre ad Augusto sul carro trionfale, sono rappresentate le insegne. Le operazioni militari vere e proprie si svolgono in Europa, sui fronti renano e danubiano. Dopo la conquista di Rezia e Norico, che hanno creato un cordone protettivo intorno all'arco alpino, partono nel 18 a.C. le offensive di Druso contro i germani a destra del Reno e di Tiberio contro le popolazioni pannoniche. Quest'ultima campagna viene portata a termine quattro anni dopo, mentre nell'anno precedente le legioni romane sono giunte all'Elba. L'anno seguente Druso muore a seguito di un incidente a cavallo e al comando gli succede il fratello. Ma il dominio romano è messo a dura prova dalle ribellioni delle popolazioni sottomesse. Nel 5 d.C., mentre si prepara la spedizione contro il regno boemo di Maroboduo, scoppia la rivolta in Pannonia. Il pericolo è grande, Augusto fa sorvegliare la capitale, recluta schiavi frettolosamente liberati e procede a leve forzose. La situazione viene portata a normalità nel 9 d.C. da Tiberio che, a prezzo di enormi perdite, soffoca la rivolta. Passa poco e a ribellarsi sono i germani ad est del Reno agli ordini di Arminio, un cherusco che aveva servito nell'esercito romano come prefetto degli auxilia. I germani riescono ad annientare nella selva di Teotoburgo le tre legioni comandate da Quintilio Varo. Per Roma, per le sue stremate risorse finanziarie ed umane, è un duro colpo e Augusto stesso è tramortito. Racconta Svetonio come si mostrasse costernato, con barba e capelli lunghi, e sbattesse la testa contro le porte esclamando "Quintilio Varo, restituiscimi le mie legioni". Nonostante le successive operazioni di Tiberio e Germanico, figlio di Druso, il dominio romano al di là del Reno resta un progetto incompiuto. E le sue acque segneranno, in definitiva, la frontiera di Roma sul "barbaricum". <BR>Il funerale e l'ingresso tra gli dei. Augusto muore a Nola, nella stessa casa in cui era spirato il padre, il 21 agosto del 14 d.C., lo stesso giorno del suo primo consolato, all'età di quasi 76 anni e dopo aver governato per 44 anni. A vegliare su di lui ci sono la moglie Livia, che ha fatto isolare e circondare la casa, e il figlio Tiberio. Prima di morire si limita a chiedere se "avesse ben recitato fino in fondo la farsa della vita". Il suo corpo viene portato via da Nola dai notabili di ogni città attraversata fino nei pressi di Roma dove viene preso dai cavalieri che lo portano in città col favore della notte. Il giorno successivo si riunisce il senato: vengono letti il testamento, nel quale designa suoi eredi la moglie e il figlio, le indicazioni lasciate per il funerale, il resoconto di tutte le sue imprese, le relazioni sull'esercito e sulla situazione finanziaria e alcune raccomandazioni rivolte a Tiberio. Tra queste c'è quella di non proseguire nelle conquiste perché l'impero, già ampio, sarebbe stato difficilmente controllabile. <BR>Il giorno del funerale i soldati vengono spiegati in servizio d'ordine e il feretro, fatto d'avorio e d'oro, viene trasportato dal Palatino al Campo Marzo dai magistrati designati per l'anno successivo. Con le immagini del defunto sfilano anche quelle dei suoi avi e dei grandi della storia di Roma, che in questo modo, sembrava congiungersi nella persona del principe. Dopo il discorso rievocativo di Tiberio, che ricorda come Augusto avesse come un buon medico restituito guarito il corpo ferito dello stato, i magistrati sollevano il feretro e lo conducono attraverso la porta trionfale e la salma viene deposta sulla pira dove accorrono i sacerdoti, i cavalieri e la fanteria di guarnigione. Tutta Roma è presente. I centurioni, come da decisione del senato, prendono le fiaccole e accendono la pira. In quel momento un'aquila si stacca dalla pira e si alza in volo: è il segno che l'anima di Augusto è stata accolta in cielo. Come Cesare, anche lui è entrato nel consesso degli dei e a testimoniarlo c'è l'ex pretore Numerio Attico che giura di averlo visto salire in cielo e, per questo, riceve un premio in denaro da Livia. Al suo culto vengono dedicati dei riti sacri e dei sacerdoti, tra i quali c'è la stessa moglie. <BR>Ma durante il funerale, come tiene a sottolineare un critico Tacito, non tutti si mostrano concordi sull'operato del primo imperatore. Accanto ai tanti, sinceri od opportunisti, incensatori, c'è chi si meraviglia di come "un vecchio principe, con alle spalle un lungo potere, dopo aver lasciato i mezzi di dominio sullo stato già collaudati anche per gli eredi, si trovava nella condizione di essere protetto dall'aiuto dei soldati, perché la sua sepoltura avvenisse senza incidenti", e chi sostiene che, non l'amore per il padre e la cura per lo stato lo avevano spinto all'azione, ma la sete di dominio e di denaro. Ma, ormai, il principato è diventato normalità, in questo quadro è nata e vissuta una intera generazione, e quasi nessuno di quelli che avevano visto l'antica repubblica era ancora in vita. Il potere passa, senza scosse e nel segno di una monarchia ereditaria, a Tiberio, il figlio adottato nel 4 d.C., e che nel 13 d.C aveva ottenuto, grazie ad una legge popolare, un "imperium" parificato a quello di Augusto. <BR><BR><BR>BIBLIOGRAFIA <BR>Augusto, di Augusto Franceschetti, pp.174, Editori Laterza, 1998 <BR>Augusto e il suo tempo, di Werner Eck, pp.148, il Mulino, 2000 <BR>Augusto il grande baro, di Antonio Spinosa, pp.220, Mondadori, 1996 <BR>L'Impero romano, di Santo Mazzarino, Vol. 1, pp. 430. Editori Laterza, 1973 <BR>Res Gestae, di Ottaviano Augusto, a cura di Luca Canali, pp. 98, Mondadori, 2002 <BR>Vite dei Cesari, di Caio Tranquillo Svetonio, pp.382, Garzanti <BR>Storia di Roma, di Cassio Dione, Libri LII - LVI, pp. 611, Bur 1998 <BR>Annali, di Tacito, vol. 1, pp. 463, Garzanti 2000
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L'IMPERO DI AUGUSTO

LA STORIA ROMANA - AUGUSTO

L'Impero di Augusto
29 a.C.: Ottaviano rientra a Roma, celebrando un triplice trionfo per le vittorie nelle campagne di Dalmazia, di Azio e dell’Egitto.
29-28 a.C.: Ottaviano procede ad una prima revisione delle liste dei senatori.
27 a.C.: restaurazione della Repubblica. Il senato assegna ad Ottaviano il compito di governare le province non ancora pacificate, per dieci anni, e gli conferisce il cognome di Augustus.
27-25 a.C.: Augusto si reca in Gallia e nella Spagna settentrionale. Operazioni contro gli Asturi e i Cantabri.
25 a.C.: sottomissione dei Salassi della Valle d’Aosta.
23 a.C.: dopo una grave malattia, Augusto depone il consolato, che aveva ininterrottamente rivestito dal 31 a.C. Ottiene tuttavia dal senato l’imperium proconsulare sulle province assegnategli nel 27 a.C. e i poteri propri di un tribuno della plebe. Ad Agrippa viene assegnato un imperium proconsulare sulle province orientali.
22 a.C.: grave carestia a Roma; Augusto rifiuta la dittatura, ma assume la cura dei rifornimenti alimentari di Roma.
22-19 a.C.: le trattative diplomatiche condotte da Augusto consentono di recuperare le insegne delle legioni di Crasso e di Antonio catturate dai Parti.
20 a.C.: dal matrimonio fra Agrippa e Giulia, figlia di Augusto, nasce un figlio, Caio Cesare.
19 a.C.: ad Augusto vengono assegnati i poteri dei censori e alcune prerogative del consolato.
18 a.C.: l’imperium proconsulare di Augusto e Agrippa viene rinnovato per altri 5 anni. Anche ad Agrippa viene assegnata la tribunicia potestas. Nasce il secondo figlio di Agrippa e Giulia, Lucio Cesare. Seconda e più radicale revisione delle liste dei senatori, il cui numero viene riportato a 600.
17 a.C.: Augusto adotta Caio e Lucio Cesare. Celebrazione dei ludi saeculares.
16-15 a.C.: i figliastri di Augusto, Tiberio e Druso maggiore, completano la conquista della Rezia, della Vindelicia e del Norico.
14-9 a.C.: campagne per la conquista della Pannonia.
12 a.C.: muore il pontefice massimo Lepido; Augusto viene eletto suo successore. Muore anche Agrippa.
9 a.C.: Druso maggiore conquista la Germania fino all’Elba, ma trova la morte durante la campagna; Tiberio prosegue le campagne militari in Germania.
6 a.C.: Tiberio si ritira a Rodi.
2 a.C.: il senato, i cavalieri e il popolo assegnano ad Augusto il titolo di padre della patria.
2 d.C.: muore Lucio Cesare.
4 d.C.: scompare prematuramente anche Caio Cesare. Augusto richiama da Rodi e adotta il figliastro Tiberio, designandolo come suo successore. Tiberio a sua volta adotta Germanico, figlio del fratello Druso.
6 d.C.: viene costituita una cassa speciale per pagare i premi di congedo ai veterani; la cassa è finanziata con i proventi dell’imposta sulle eredità. In Germania e in Pannonia scoppiano rivolte contro il dominio romano.
8 d.C.: Augusto istituisce un servizio stabile per l’approvvigionamento di Roma, con a capo il prefetto dell’annona.
9 d.C.: nella foresta di Teutoburgo tre legioni romane vengono annientate. La frontiera del dominio romano viene arretrata al Reno. La rivolta in Pannonia viene domata da Tiberio che rende la regione provincia romana.
QUADRO CRONOLOGICO
Parte IV L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo
13 d.C.: Tiberio celebra il trionfo sui Germani e riceve un imperium pari a quello di Augusto.
14 d.C.: Augusto muore in Campania. Tiberio accetta con riluttanza i poteri che erano stati del padre adottivo.
16 d.C.: Germanico ottiene significativi successi in Germania, vendicando la disfatta di Teutoburgo; viene poi inviato in Oriente.
19 d.C.: Germanico muore in circostanze misteriose presso Antiochia. Il governatore di Siria.
Cn. Calpurnio Pisone è accusato di essere il mandante dell’omicidio.
20 d.C.: Pisone si suicida prima che sia emessa la sentenza sull’uccisione di Germanico.
23 d.C.: il prefetto del pretorio Seiano inizia a costruirsi un potere personale.
26 d.C.: Tiberio decide di ritirarsi a Capri, lasciando a Seiano campo libero a Roma.
29 d.C.: Agrippina, vedova di Germanico, viene esiliata.
31 d.C.: viene scoperta una congiura ordita da Seiano; il prefetto del pretorio viene messo a morte.
33 d.C.: l’Impero è colpito da una grave crisi finanziaria.
37 d.C.: Tiberio muore. Gli succede il pronipote Gaio, detto Caligola, figlio di Germanico
e Agrippina, allevato dalla nonna Antonia, vedova di Druso e figlia di M. Antonio.
39-40 d.C.: contrasto con i Giudei di Alessandria e della Palestina.
41 d.C.: ucciso Caligola, gli succede lo zio Claudio.
42 d.C.: annessione della Mauretania, riorganizzata in due province.
43 d.C.: la Britannia meridionale viene ridotta a provincia.
48 d.C.: Claudio tiene un discorso per la concessione del diritto di accesso al senato ai notabili
della Gallia Comata. Messalina, terza moglie dell’imperatore, accusata di aver organizzato una congiura, viene messa a morte.
49 d.C.: Claudio sposa la nipote Agrippina Minore, figlia del fratello Germanico e di Agrippina Maggiore.
50 d.C.: Claudio adotta il figlio di Agrippina, L. Domizio Enobarbo, che prende il nome di Nerone Claudio Druso.
54 d.C.: Claudio muore, forse avvelenato da Agrippina, che riesce ad assicurare il trono a Nerone.
58-63 d.C.: campagne contro i Parti e gli Armeni di Cn. Domizio Corbulone.
59 d.C.: Nerone fa uccidere la madre Agrippina, ripudia Ottavia e sposa Poppea.
62 d.C.: muore Afranio Burro, prefetto del pretorio e consigliere di Nerone, Seneca viene allontanato. Viene nominato prefetto del pretorio Ofonio Tigellino.
64 d.C.: riduzione del peso e del fino del denario. Incendio di Roma, del quale sono accusati i cristiani.
65 d.C.: congiura pisoniana.
66 d.C.: il re d’Armenia Tiridate giunge a Roma per farsi incoronare da Nerone. In Palestina
scoppia una grave rivolta, a sedare la quale viene inviato Vespasiano.
67 d.C.: viaggio di Nerone in Grecia. Il legato della Gallia Lugdunense, C. Giulio Vindice, si ribella a Nerone.
68 d.C.: la ribellione si estende al governatore della Spagna Tarraconense, C. Sulpicio Galba. Abbandonato anche dai pretoriani, Nerone si suicida. Galba viene proclamato imperatore.
69 d.C.: anno dei quattro imperatori: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, che emerge vincitore dalle sanguinose guerre civili.
L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo Parte IV
Parte IV L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo
70 d.C.: Tito, figlio di Vespasiano, conquista Gerusalemme e distrugge il Tempio. In Gallia viene sedata la rivolta di C. Giulio Civile.
71 d.C.: Vespasiano si associa al potere il figlio Tito.
73/4 d.C.: viene presa la fortezza di Masada, dove si erano asserragliati gli ultimi ribelli ebrei.
79 d.C.: Vespasiano muore; gli succede il figlio Tito. Un’eruzione del Vesuvio distrugge le città di Pompei ed Ercolano. Morte di Plinio il Vecchio.
81 d.C.: Tito muore dopo un brevissimo regno; gli succede il fratello Domiziano.
85 d.C.: i Daci, guidati dal re Decebalo, attaccano l’Impero.
88 d.C.: controffensiva romana contro i Daci, al comando dello stesso Domiziano.
89 d.C.: la rivolta del legato della Germania superiore, L. Antonio Saturnino, impedisce a Domiziano di cogliere il frutto delle sue operazioni contro i Daci; viene conclusa una pace provvisoria con Decebalo.
96 d.C.: Domiziano cade vittima di una congiura. Accede al trono l’anziano Nerva.
97 d.C.: in risposta ai problemi politici ed economici che colpiscono l’Impero, Nerva adotta
e associa al potere il senatore spagnolo M. Ulpio Traiano, comandante delle legioni del Reno. Legge agraria per l’assegnazione di terreni ai nullatenenti.
98 d.C.: alla morte di Nerva gli succede sul trono Traiano.
99 d.C.: l’imperatore entra finalmente in Roma, dopo aver provveduto al consolidamento della frontiera renana.
100 d.C.: Plinio il Giovane pronuncia il Panegirico di Traiano.
101-102 d.C.: prima guerra dacica: Decebalo è costretto ad accettare che una guarnigione romana si installi nella sua capitale Sarmizegetusa.
105-106 d.C.: seconda guerra dacica: Decebalo si suicida e la Dacia è ridotta a provincia romana. Nello stesso periodo il territorio dei Nabatei viene trasformato nella provincia d’Arabia.
111-113 d.C.: Plinio il Giovane governatore di Bitinia.
114-117 d.C.: Traiano intraprende una grande campagna contro i Parti, che porta alla conquista dell’Armenia, dell’Assiria e della Mesopotamia. I Giudei di Cirene e della Palestina si sollevano contro i Romani.
117 d.C.: una rivolta in Mesopotamia vanifica le vittorie ottenute da Traiano contro i Parti. L’imperatore muore in Cilicia dopo aver adottato come successore P. Elio Adriano. Adriano decide di abbandonare le province orientali create da Traiano e di affidarle a re clienti.
118 d.C.: Adriano inizia la costruzione della sua grande villa a Tivoli.
121-125 d.C.: primo grande viaggio di Adriano in Britannia (dove intraprende la costruzione del celebre vallo), in Gallia, in Spagna in Africa, in Asia Minore e in Grecia.
128 d.C.: viaggio di Adriano in Africa.
129-134 d.C.: secondo grande viaggio di Adriano, che tocca la Grecia e le province orientali.
132 d.C.: scoppia in Palestina una grave rivolta, guidata da Simone Bar Kochba, a seguito della fondazione sul sito di Gerusalemme di una colonia romana di nome Elia Capitolina.
136 d.C.: Adriano adotta L. Ceionio Commodo, che prende il nome di L. Elio Cesare.
138 d.C.: Elio Cesare muore prematuramente. Adriano sceglie come successore il senatore
della Gallia Narbonese T. Aurelio Antonino, che adotta a sua volta il figlio di Elio Cesare, che assume il nome di L. Aurelio Vero, e un suo cugino, M. Annio Vero, il futuro Marco Aurelio.
Alla morte di Adriano inizia il lungo e pacifico regno di Antonino.
142 d.C.: in Britannia viene eretto il Vallum Antonini.
152 d.C.: viene domata una ribellione nella Mauretania.
161 d.C.: alla morte di Antonino gli succede Marco Aurelio, che condivide il potere con il fratello adottivo Lucio Vero. Scoppia una guerra contro i Parti; il comando è affidato a Lucio Vero.
166 d.C.: Lucio Vero conclude vittoriosamente una campagna contro i Parti; l’esercito romano torna dall’Oriente portando con sé la peste. Commodo, figlio di M. Aurelio, riceve il titolo di Cesare.
167 d.C.: i Quadi e i Marcomanni oltrepassano il Danubio e invadono le province di Pannonia, Rezia e Norico, giungendo fino ad Aquileia.
169 d.C.: muore Lucio Vero.
175 d.C.: dopo una serie di lunghe e difficili campagne, Marco Aurelio riesce a respingere al di là del Danubio i Quadi e i Marcomanni. Il governatore di Siria Avidio Cassio si proclama imperatore, ma viene ucciso dalle sue truppe.
177 d.C.: Marco Aurelio si associa al trono il figlio Commodo. Persecuzione contro i cristiani a Lione.
180 d.C.: alla morte di Marco Aurelio gli succede Commodo.
182 d.C.: il prefetto del pretorio Tigidio Perenne assume di fatto il controllo del governo.
185 d.C.: Perenne viene ucciso; il suo ruolo è assunto dal liberto Cleandro.
189 d.C.: Cleandro viene fatto giustiziare da Commodo per placare il malcontento della plebe.
192 d.C.: Commodo viene eliminato in una congiura; gli succede P. Elvio Pertinace.
L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo Parte IV
Augusto
1.1 Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del Principato
Nel 31 a.C. Ottaviano, grazie alla vittoria conseguita ad Azio su Antonio
e Cleopatra, si trovò ad essere padrone assoluto dello Stato romano. La
conclusione delle guerre civili lasciava tuttavia aperta la difficile questione
della veste legale da dare al potere personale del vincitore. L’ipotesi
di un regime apertamente monarchico, che sostituisse e rinnovasse
completamente le istituzioni repubblicane, era forse stata progettata da
Cesare, ma il suo assassinio in senato aveva decretato il fallimento di
questo disegno.
La soluzione adottata da Ottaviano, restauratrice nella forma ma rivoluzionaria nella sostanza, segna una cesura fondamentale nella storia
romana. Convenzionalmente con il 31 a.C. si fa iniziare il Principato, vale
a dire il regime istituzionale incentrato sulla figura di un reggitore unico
del potere, il princeps.
Arrivava così a compimento il processo di personalizzazione della politica
che aveva visto, come effetto della crisi sociale e della spinta
espansionistica, l’emergere, nella tarda Repubblica, di figure di politici e
generali che avevano affermato il proprio potere personale, grazie alla
disponibilità di eserciti fedeli, alle guerre di espansione e allo sfruttamento
economico delle province.
Il problema di una nuova sistemazione dei rapporti tra Roma, l’Italia
e il Mediterraneo aveva segnato l’ultimo secolo della Repubblica e spesso
l’amministrazione dei territori conquistati aveva costituito la principale
fonte di risorse per finanziare la carriera politica dei magistrati del ceto
dirigente e le compagnie di appaltatori, trasformate in strumento di
potere e oggetto di contrasti all’interno della politica di Roma.
La razionalizzazione dell’amministrazione attuata da Augusto e dai suoi
successori, la progressiva integrazione in senato delle élites delle diverse
regioni dell’Impero e il ruolo politico e sociale degli eserciti dislocati nelle
province, faranno sì che la «storia romana», a partire da Augusto, divenga
sempre più «storia dell’Impero», intesa come storia del rapporto e
dell’integrazione di territori e popolazioni rispetto al centro del potere.
1.2 Il rapporto con gli organismi repubblicani
e il potere del principe: la restaurazione della Repubblica del 27 a.C.
Il ritorno in Italia di Ottaviano, nel mese di agosto del 29 a.C., fu segnato
dalla celebrazione di tre trionfi: per le campagne dalmatiche del 35-33
a.C., per la vittoria di Azio del 31 a.C. e per la vittoria sull’Egitto del 30
a.C. (vd. supra, Parte III, § 4.5, p. 158). Il processo di riconoscimento
giuridico della nuova forma istituzionale iniziò in realtà solo nel 27 a.C.
All’inizio dell’anno Ottaviano entrò nel suo settimo consolato, avendo
come collega l’amico e fedele collaboratore Agrippa. In una famosa seduta
del senato, che ebbe luogo il 13 gennaio, Ottaviano rinunciò formalmente
a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un imperium
proconsolare per dieci anni sulle province non pacificate: la Spagna, la
Gallia, la Siria, la Cilicia, Cipro e l’Egitto. Qualche giorno dopo il senato
lo proclamò «Augusto», un epiteto che lo sottraeva alla sfera propriamente
politica per proiettarlo in una dimensione sacrale, religiosa (il termine
«Augusto» va ricollegato etimologicamente al verbo latino augere,
che significa ‘innalzare’). Si aggiunsero la concessione della corona civica
fatta di foglie di quercia, che gli venne assegnata per essersi prodigato
per la salvezza dei cittadini, e l’onore di uno scudo d’oro, che fu appeso
nell’aula del senato, sul quale erano elencate le virtù di Augusto:
virtù, clemenza, giustizia e pietà verso gli dei e verso la patria.
Per comprendere meglio i fondamenti del potere di Ottaviano Augusto
dopo il 27 a.C., conviene cedergli la parola e riportare quanto scritto
da lui stesso in un documento di eccezionale interesse che va sotto il
nome di Res Gestae (‘le imprese’), vero testamento politico che egli redasse
verso la fine della sua esistenza e fece affiggere in varie città dell’Impero:
«Successivamente fui superiore a tutti per autorità, pur non
possedendo un potere superiore a quello degli altri che mi furono colleghi
nelle magistrature». È evidente la sottolineatura, da parte di Augusto,
dell’alone carismatico che circondava la sua persona e che ne faceva
davvero il ‘principe’, ovvero il primo uomo dello Stato.
L’architettura istituzionale da lui adottata si rivela ispirata alla prudenza
e al compromesso con la tradizione senatoriale repubblicana. Non si
deve dimenticare però che essa traeva origine dalla drammatica esperienza
delle guerre civili e che non era più immaginabile che si ponesse
in discussione l’opportunità che il potere venisse detenuto da un solo
individuo. La nuova organizzazione dello Stato rappresentava il definitivo
superamento delle istituzioni, ormai non più adeguate, della città-stato.
Il principe si poneva come un punto di riferimento e di equilibrio fra
le diverse componenti della nuova realtà che, a buon diritto, poteva ormai
dirsi «imperiale»: l’esercito, le province, il senato, la plebe urbana.
Era chiaro, infatti, che il benessere materiale di Roma dipendeva anche
dalla prosperità delle province.
1.3 La crisi del 23 a.C.
Tra il 27 e il 25 a.C., a regime non ancora stabilizzato, Augusto si recò
in Gallia e poi nella Spagna settentrionale, dove combatté contro gli
Asturi e i Cantabri che non si erano sottomessi al dominio romano. In
questo modo dimostrava di provvedere con solerzia alla pacificazione
dei territori provinciali che gli erano stati assegnati dal senato e, nello
stesso tempo, rafforzava il contatto con l’esercito e con i veterani insediati
nelle province, che costituivano uno dei fattori del suo potere reale.
Anche negli anni successivi Augusto alternerà dei periodi circa
triennali di permanenza nelle province a periodi circa biennali di permanenza a Roma, in modo che l’assestamento del nuovo ordine potesse
compiersi gradualmente e in modo da rispettare, per quanto possibile,
l’usuale prassi secondo la quale a Roma governavano il senato,
il popolo e i magistrati, mentre lui, come promagistrato, si recava nelle
province da pacificare.
Nel 23 a.C. si verificò una grave crisi. In Spagna Augusto si era seriamente
ammalato e si sentì in fin di vita. Uno degli aspetti più delicati
del principato augusteo, non solo dal punto di vista istituzionale e politico,
ma anche da quello personale, riguardava la successione del
principe. Il regime presupponeva che alla testa dello Stato ci fosse una
sola persona, di fatto un monarca, ma la mancanza di precedenti e di
una prassi per la successione creava i presupposti per un vuoto di potere.
Nel 23 a.C. la scomparsa prematura di Augusto avrebbe potuto riaprire
il flagello delle guerre civili. In mancanza di figli maschi egli pensò
al genero Marcello, che aveva sposato la sua unica figlia femmina,
Giulia, e agli eventuali nipoti. Ma Marcello morì e Giulia fu data in moglie
ad Agrippa, il grande e fedele generale, che divenne così il successore
designato.Per questa ragione e per altri motivi che non ci sono del tutto noti, nel nuovo regime furono introdotte delle correzioni che definirono in modo
pressoché definitivo la sostanza dei poteri imperiali. Augusto depose
il consolato, che aveva detenuto ininterrottamente dal 31 a.C., e ottenne
un imperium proconsulare che gli consentiva di agire con i poteri di un
promagistrato su tutte le province, anche quelle che nel 27 a.C. erano
state riservate al senato. Questo potere, che fu definito imperium maius,
non consentiva però ad Augusto, quando si trovava a Roma, di agire nella
vita politica. Per ovviare a questo impedimento il principe ricevette
dal senato il potere di un tribuno della plebe, vitalizio, anche se rinnovato
annualmente. In virtù di esso Augusto diveniva protettore della plebe
di Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto agli altri tribuni e
godere della sacrosanctitas, ovvero diveniva sacro e inviolabile. A tale
potestà tribunizia il senato aggiunse il diritto di convocare il senato. In
questo modo Augusto continuava a detenere dei poteri che, presi isolatamente, erano compatibili con la tradizione repubblicana. Del tutto incompatibile con essa era, invece, il fatto che venissero detenuti contemporaneamente.
Come contropartita, la rinuncia alla carica di console lasciava
piena disponibilità della carica all’aristocrazia senatoria. Inoltre,
con l’introduzione, a partire del 5 d.C., di consoli «suffetti» (supplenti) si
aumentò il numero dei posti da ricoprire.
Quanto alle elezioni, esse erano state ristabilite in forma più o meno
regolare sin dal 27 a.C. In realtà, le elezioni erano controllate da Augusto
attraverso due procedure, la nominatio, cioè l’accettazione della
candidatura da parte del magistrato che sovraintendeva all’elezione, e la
commendatio, la raccomandazione da parte dell’imperatore stesso. Augusto
realizzò, nel 5 d.C., un sistema di compromesso che teneva conto
della nuova realtà politica. Di fatto all’assemblea popolare fu attribuito
un ruolo del tutto marginale, mentre si perseguiva una sorta di equilibrio
tra principe e senato. I comizi ratificavano infatti i candidati scelti
da 10 apposite centurie miste di cavalieri e di senatori, che li designavano
d’accordo con l’imperatore.
Negli anni successivi si aggiunsero altre prerogative. Nel 22 a.C., in seguito
a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e
assunse la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere all’approvvigionamento
di Roma, seguendo il precedente di Pompeo (vd. supra, Parte
III, § 3.5, p. 143). Nel 19 e nel 18 a.C. esercitò anche i poteri di censore,
ottenendo privilegi legati al consolato, tra cui il diritto di utilizzare le insegne
dei consoli: la sella curulis e i 12 littori che portavano i fasci.
Anche Agrippa aveva ricevuto nel 23 a.C. un imperium proconsulare
di 5 anni, grazie al quale si recò in Oriente, mentre Augusto si trovava
a Roma.
Tra il 22 e il 19 a.C., Augusto si portò sul confine orientale, dove era
necessario sistemare la questione partica e armena. Attraverso una trattativa
diplomatica riuscì a recuperare le insegne delle legioni di Crasso e
Marco Antonio. Gli emblemi recuperati furono trasferiti a Roma nel tempio
di Marte Ultore e il negoziato fu celebrato come una importante vendetta
militare delle precedenti sconfitte e come la definitiva pacificazione
dell’Oriente. Intanto Agrippa, ritornato a Roma, sposava la figlia di
Augusto, Giulia, vedova di Marcello.
Nel 18 a.C. scadevano il mandato di 10 anni sulle province non pacificate
attribuite ad Augusto nel 27 a.C., e quello concesso ad Agrippa nel
23 a.C. Entrambi si videro rinnovare per 5 anni l’imperium proconsulare.
Agrippa, allo stesso tempo, ricevette anche la tribunicia potestas, così
da rendere la sua posizione sempre più vicina a quella del princeps.
Egli aveva già avuto nel 20 un figlio da Giulia, Lucio Cesare, e nel 18 un
secondo, Caio. Nel 17 a.C. Augusto li adottò entrambi, facendone di fatto
i suoi successori designati (vd. infra, § 1.8, p. 180).
Dopo questo momento non vi furono più variazioni di rilievo nei poteri
di Augusto, salvo che nel 12 a.C., quando morì Lepido, che con Augusto
e Antonio aveva costituito il triumvirato ed era sopravvissuto fino
a quel momento rivestendo la carica di pontefice massimo. Fu allora che
ad Augusto fu conferita anche questa carica, che lo poneva alla guida
della vita religiosa di Roma. L’ultima espressione di riconoscimento ufficiale
alla sua posizione di preminenza fu il conferimento del titolo di
pater patriae (‘padre della patria’), che il senato, i cavalieri e il popolo
gli attribuirono nel 2 a.C.
1.5 I ceti dirigenti (senatori ed equites)
L’attribuzione dell’imperium proconsolare e del potere tribunizio, insieme
alle altre prerogative che esaltavano la figura di Augusto, crearono,
a fianco dell’ordinamento repubblicano, un potere personale
non riconducibile alla somma delle magistrature repubblicane da cui
esso era costituito. Sia nell’iniziativa politica a Roma, sia nel governo
dell’Impero, cioè nell’amministrazione delle province, si ebbe una duplice
sfera di competenza: quella tradizionale repubblicana e quella
specifica del princeps.
Il senato, il principale organo della politica romana, negli ultimi anni
della Repubblica aveva visto una profonda trasformazione nella sua
composizione tradizionale, con un notevole aumento dei suoi membri
(da 600 si era arrivati a più di 1.000) in seguito all’ingresso massiccio di
sostenitori di Cesare e poi dei triumviri. Augusto agì su questa situazione
in varie fasi e attraverso diversi provvedimenti, che miravano a ripristinare
la dignità e il prestigio dell’assemblea senatoria favorendo, tra
l’altro, l’accesso delle élites provinciali più fortemente romanizzate, ad
esempio della Gallia meridionale e della Spagna.
Le misure prese da Augusto furono adottate principalmente in due
occasioni, nel 29/28 a.C. e nel 18 a.C. Nella prima, nella sua veste di console,
si fece conferire la potestà censoria e procedette alla lectio senatus,
cioè alla revisione delle liste dei senatori, espellendo dall’assemblea le
persone indegne, ovvero quelle la cui origine e il cui censo non corrispondevano agli standard normalmente previsti. Nel 18 a.C., sempre
grazie alla potestà censoria, condusse una più radicale revisione, riportando
il numero di senatori ai 600 previsti da Silla. Augusto, inoltre, rese
la dignità senatoria una prerogativa ereditaria.
In età imperiale il cursus honorum senatorio, cioè la successione delle
cariche pubbliche riservate al massimo ordine dello Stato, si sviluppava
di regola secondo le seguenti tappe:
XXvir. Il vigintivirato non è una vera e propria magistratura, ma piuttosto
la denominazione collettiva di diversi collegi magistratuali.
Xvir stlitibus iudicandis (decemviro per il giudizio delle controversie:
stlis, stlitis è in effetti un forma arcaica per il termine lis, litis), magistrato
incaricato di giudicare le cause concernenti lo stato civile dei cittadini.
IIIvir capitalis (triumviro per la pena capitale), ausiliare del magistrato
che amministrava la giustizia ed incaricato in modo particolare dell’applicazione della pena capitale.
IIIvir auro argento aere flando feriundo o IIIvir monetalis (triumviro
per la coniazione dell’oro, dell’argento e del bronzo, o triumviro monetale),
il magistrato incaricato della coniazione della moneta in bronzo
senatoria.
IIIIvir viarum curandarum (triumviro per la cura delle vie), magistrato
che aveva una funzione di sovrintendenza sulle vie della città di Roma,
sotto la supervisione degli edili.
Il numero complessivo di magistrati che detenevano queste quattro
diverse funzioni era appunto di 20 (10+3+3+4), da qui il nome vigintivirato.
Un anno di servizio militare come tribunus militum laticlavius. In età
imperiale abbiamo due diversi tipi di tribunato militare, quello rivestito
dagli appartenenti all’ordine senatorio e quello proprio dei membri
Il cursus honorum senatorio in età imperiale.
Augusto e la composizione del senato
Parte IV L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo
dell’ordine equestre: i diversi tribuni si distinguevano da una particolarità
del loro tradizionale abito, la toga, che aveva una banda purpurea
larga nel caso di un tribuno senatorio (da qui la denominazione laticlavius),
una banda più stretta nel caso dei tribuni equestri (che in effetti
sono noti col nome di tribuni militum angusticlavii). Non era raro
che i giovani predestinati ad una brillante carriera politica venissero
nominati Seviri equitum Romanorum, cioè comandanti di uno dei
sei squadroni dei cavalieri romani.
Quaestor. Vi erano diversi tipi di questori, tra i quali:
quaestor urbanus, una sorta di tesoriere del senato;
quaestor propraetore provinciae…, il questore incaricato dell’amministrazione
finanziaria delle province del senato e del popolo romano,
con poteri propretorii, cioè equivalenti a quelli del pretore;
quaestor principis, portavoce dell’imperatore presso il senato;
quaestor consulis, portavoce del console presso il senato.
Tribunus plebis / Aedilis. Le due magistrature erano considerate sullo
stesso piano, un uomo politico poteva cioè rivestire indifferentemente
o l’una o l’altra per poter poi passare al successivo gradino della carriera.
L’edile poteva essere aedilis plebis, una carica riservata ai plebei,
come del resto il tribunato della plebe, o aedilis curulis, magistratura
che poteva essere ricoperta anche dai patrizi. I patrizi potevano saltare
il grado tribunizio/edilizio del cursus honorum per passare direttamente
alla tappa successiva della carriera.
Praetor. Vi erano diversi tipi di pretori, tra i quali:
praetor urbanus, che amministrava le cause giudiziarie che vedevano
coinvolti due cittadini romani;
praetor peregrinus, che amministrava la giustizia nelle cause in cui almeno
una delle due parti non aveva la cittadinanza romana;
praetor aerarii, incaricato della sovrintendenza dell’aerarium, la cassa
statale.
Gli ex pretori erano chiamati a rivestire alcune funzioni proprie del loro
rango; nel detenere queste funzioni essi non erano vincolati dalla
norma dell’annualità e dell’intervallo di tempo che regolava l’accesso
alle magistrature. Tra le funzioni di rango pretorio possiamo ricordare:
legatus legionis, comandante in capo della legione;
legatus Augusti pro praetore provinciae…, governatore di una delle
province imperiali di minore importanza;
proconsul, governatore di una delle province del senato e del popolo
romano di minore importanza.
Consul. In età imperiale i consoli possono essere ordinari (i magistrati
che entravano in carica il 1 gennaio ed avevano la funzione eponima)
o suffetti (i consoli che entravano in carica nel corso dell’anno, sostituendo
i consoli ordinari; in un anno vi potevano essere diverse coppie
di consoli suffetti).
Durante la Repubblica chi possedeva un censo pari a 400.000 sesterzi
e rispondeva ad alcune caratteristiche che ne definivano la dignità (nascita
libera, esercizio di professioni non disonorevoli) apparteneva al ceto
equestre. Quindi anche i figli dei senatori, fino al momento in cui non
accedevano alla questura, erano semplici cavalieri. I senatori si distinguevano
dagli equites solo per aver intrapreso una carriera politica, che
assicurava loro l’ingresso in senato, e avevano la possibilità di mostrarlo
esteriormente portando il laticlavio, una larga striscia color porpora sulla
toga. Nell’ultima fase della Repubblica numerosi figli di cavalieri e senatori
avevano usurpato questo diritto, portando il laticlavio senza essere
realmente membri del senato. Augusto proibì l’uso del laticlavio ai figli
dei cavalieri, mentre lo consentì ai figli dei senatori, che rimanevano cavalieri,
ma potevano così segnalare la loro condizione. Infine innalzò il
censo minimo per entrare in senato a un milione di sesterzi.
In taluni casi Augusto stesso poteva concedere il diritto ad entrare in
senato a chi non apparteneva a una famiglia senatoria. Naturalmente era
necessario rivestire una magistratura, ma Augusto si riservava la facoltà
di intervenire designando a una carica propri candidati. Addirittura poteva
direttamente cooptare delle persone inserendole in senato tra le fila
di coloro che avevano rivestito una determinata magistratura (cioè tra
gli ex pretori o tra gli ex questori), attraverso la procedura dell’adlectio.
In questo modo Augusto realizzò una distinzione netta tra ordo equester
e senatus, creando un vero e proprio ordo senatorius, non vincolato
alla partecipazione effettiva al senato, ma formato dalle famiglie senatorie,
da cui l’assemblea poteva reintegrarsi in modo consistente.
Anche gli ex consoli erano chiamati a rivestire alcune funzioni proprie
del loro rango, per esempio:
Le grandi curatele, come la funzione di curator operum publicorum;
legatus Augusti pro praetore, governatore di una delle più importanti
province imperiali;
Proconsul, governatore di una delle più importanti province del senato
e del popolo romano, quelle di Africa e di Asia;
praefectus Urbi.
Censor. In età imperiale la censura, un tempo vertice della carriera politica,
viene rivestita solamente dagli imperatori. La carica come tale
scompare con Domiziano.
Nella documentazione epigrafica, il cursus honorum può apparire in
ordine diretto, dalla carica più bassa a quella più alta, o in ordine inverso,
dalla più alta alla più bassa, oppure secondo un ordine personalizzato,
per così dire, in cui sovente si colloca in posizione preminente
il consolato e si raggruppano le altre cariche secondo criteri diversi, per
esempio quello geografico. L’ordine cronologico non è mai rispettato
nella menzione delle funzioni sacerdotali, che sono solitamente collocate
in posizione preminente nei testi delle iscrizioni. Le più importanti
funzioni sacerdotali detenute da senatori in età imperiale sono quelle
di augur, flamen, frater Arvalis, pontifex e XVvir sacris faciundis.
D’altra parte anche l’appartenenza all’ordo equester fu codificata attraverso
principi generali e appositi senatoconsulti: anche in questo caso
l’intervento del principe poteva essere determinante per accedere al
ceto equestre.
Si definirono così in modo rigoroso i due raggruppamenti da cui veniva
reclutata la classe dirigente dello Stato romano, gli amministratori
militari e civili e i più importanti ufficiali dell’esercito.
I senatori detenevano tutte le più importanti magistrature a Roma e le
maggiori posizioni di comando civile e militare in provincia. Poiché il
loro numero non era sufficiente, vennero impiegati anche dei membri
dell’ordine equestre, oltre che in ambito giudiziario e negli appalti pubblici,
come già nella Repubblica, anche in campo militare e in cariche
amministrative.
Non è semplice schematizzare la carriera dei membri dell’ordine equestre,
dal momento che questa, nel corso dell’età imperiale, non mostra
i tratti di regolarità che caratterizzano in buona misura il cursus honorum
senatorio. Tuttavia si può affermare che una carriera equestre nei
primi due secoli dell’Impero si svolgeva tipicamente attraverso le seguenti
tappe:
Comandi militari, in genere tre, ovvero:
il comando di un reparto della fanteria ausiliaria (cohors), come praefectus
cohortis;
il comando di un reparto legionario, come tribunus militum angusticlavius;
il comando di un reparto della cavalleria ausiliaria (ala), come praefectus
alae.
Le procuratele, in particolare:
le procuratele finanziarie, con l’amministrazione dei grandi uffici finanziari
centrali, come per esempio quello relativo alla vicesima hereditatium,
la tassa del 5% sulle successioni creata da Augusto, o la gestione
dei beni imperiali in una provincia (o in gruppo di province);
le procuratele-governatorati di alcune province, come per esempio le
province alpine, la Rezia, il Norico, la Giudea, le province della Mauretania
I due diversi tipi di procuratele non venivano rivestiti secondo un ordine
prefissato: poteva dunque accadere che un equestre fosse prima
procurator finanziario in un provincia, poi procuratore-governatore in
un altro distretto, infine fosse chiamato a dirigere uno dei grandi uffici
finanziari di Roma. A partire dall’età degli Antonini le procuratele possono
piuttosto essere classificate in base alla loro retribuzione annua,
indipendentemente dal carattere dell’incarico: i membri dell’ordine
equestre potevano dunque ricoprire, progressivamente, procuratele.
1.6 Roma, l’Italia, le province
Come veniva dunque governato lo Stato e amministrata la vasta compagine
imperiale a seguito delle innovazioni introdotte da Augusto?
Per quanto riguarda Roma, che contava probabilmente già quasi un milione
di abitanti, l’azione di Augusto si può valutare su due piani: quello
monumentale e quello della razionalizzazione dei servizi. In coerenza con
l’ideologia della restaurazione repubblicana, Augusto non diede alcun rilievo
particolare alla propria residenza, se si eccettuano i segni di onorificenza
che gli aveva conferito il senato (vd. supra, § 1.1, p. 165: la corona
civica, gli allori all’ingresso) e il fatto che, con la sua elezione a pontefice
massimo, una parte di essa era divenuta un edificio pubblico, ospitandovi
il focolare di Vesta, di cui sua moglie Livia divenne sacerdotessa. Sempre
accanto alla sua casa sul Palatino fece costruire anche un tempio ad
Apollo, la sua divinità tutelare. Ma egli concentrò la sua attività edilizia soprattutto nel Foro Romano, dove completò i programmi edilizi di Cesare.
Nel Foro Giulio Augusto fece costruire un tempio per Cesare divinizzato,
di fronte una tribuna per gli oratori, ornata con i rostri delle navi
battute a Azio, e accanto l’arco partico, su cui erano raffigurate le insegne
di Crasso e Antonio recuperate nel 19 a.C. Restaurò poi la sede del
senato ed eresse in seguito una basilica in nome di Caio e Lucio Cesari,
i figli di Agrippa e Giulia prematuramente scomparsi. Costruì inoltre un
nuovo Foro, il Forum Augusti, con al centro il tempio di Marte Ultore,
nei cui rilievi e statue si celebrava la famiglia Giulia a partire dalla sua
mitica ascendenza nell’eroe troiano Enea.
Trasformò poi l’aspetto del Campo Marzio, edificandovi tra l’altro il Pantheon
e il suo mausoleo, un complesso architettonico che occupava tutta
la parte settentrionale del Campo Marzio, in cui, attraverso immagini
sessagenarie, centenarie, ducenarie e infine trecenarie (che prevedevano,
rispettivamente, uno stipendio di 60.000, 100.000, 200.000 e
300.000 sesterzi all’anno).
Talvolta il comando di una delle due flotte imperiali di Miseno e di
Classe, in qualità di praefectus classis.
Le grandi prefetture, in particolare le cariche di:
praefectus Aegypti, governatore della importantissima provincia d’Egitto;
questa carica, inizialmente, costituiva il vertice della carriera
equestre;
praefectus praetorio, il comando della guardia pretoriana, il cui straordinario
peso politico fece ben presto del prefetto del pretorio il cavaliere
più importante dell’Impero, a scapito dello stesso prefetto d’Egitto
praefectus annonae, responsabile dei servizi di approvvigionamento
della città di Roma;
praefectus vigilum, comandante delle squadre di vigiles addetti alla vigilanza
notturna e allo spegnimento degli incendi.
Il programma di rinnovamento edilizio di Augusto
Parte IV L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo
e iscrizioni, veniva celebrata l’opera del princeps. Davanti al mausoleo
erano infatti incise su pilastri di bronzo le Res Gestae, la già citata autobiografia di Augusto. L’originale di questa importante
iscrizione è andato perduto ma possediamo ancora oggi una
copia proveniente dall’odierna Ankara, in Turchia, che ci consente anche
di sapere che il testo fu trasmesso dopo la morte di Augusto, per sua
disposizione testamentaria, in tutte le province dell’Impero. Le immagini
di Augusto, il ricordo delle sue imprese e della sua famiglia, erano
mantenute vive per tutta Roma.
Durante il principato di Augusto, soprattutto per opera di Agrippa, furono
costruiti o restaurati anche molti edifici pubblici, acquedotti, terme,
teatri e mercati e ci si preoccupò dell’organizzazione di servizi importanti
per l’approvvigionamento alimentare e idrico e per la protezione dagli
incendi e dalle inondazioni che periodicamente devastavano la città. Furono
adottate disposizioni legislative e furono creati appositi servizi, man
mano che le circostanze dimostravano le lacune del sistema precedente.
Augusto Capitolo 1
La carestia che colpì Roma nel 22 a.C. indusse Augusto ad assumere la
cura annonae, e con i propri mezzi finanziari riuscì a fronteggiare l’emergenza
(vd. supra, § 1.4, p. 168). In quell’occasione pare che sia stato assegnato
ad alcuni senatori l’incarico di provvedere alle distribuzioni gratuite
di grano. Solo diversi anni dopo, verso l’8 d.C., in seguito ad un’altra grave
crisi, Augusto istituì un servizio stabile, che doveva provvedere al rifornimento
granario dalle province, con a capo un prefetto di ordine equestre,
il praefectus annonae, che disponeva di un grande potere. Alla morte
di Agrippa, che fino a quel momento si era occupato dei più importanti
servizi dell’Urbe in quanto edile, la cura dell’approvvigionamento idrico,
il mantenimento degli edifici pubblici e sacri, la cura delle strade e delle rive
del Tevere passò a collegi di senatori. Per la prevenzione degli incendi,
dopo diversi esperimenti, Augusto creò un corpo di vigili del fuoco, organizzati
in sette coorti di 500-1000 uomini, ciascuna delle quali doveva proteggere
due dei 14 quartieri in cui aveva diviso Roma. Anche a capo dei vigili,
come già dell’annona, fu messo un prefetto di ordine equestre.
Il governo di Roma era invece attribuito a un praefectus Urbi appartenente
all’ordine senatorio.
L’Italia non fu pressoché interessata da riforme amministrative. Dopo
le guerre sociali e la legislazione cesariana tutti gli abitanti dell’Italia erano
diventati cittadini romani. Le circa 400 città italiche godevano di autonomia
interna, erano dotate di un proprio governo municipale e non
erano soggette all’imposta fondiaria. Augusto divise l’Italia in 11 regioni,
che servivano in primo luogo per il censimento delle persone e delle
proprietà, ma non vi erano funzionari amministrativi responsabili di
queste suddivisioni. I più importanti provvedimenti riguardarono in primo
luogo l’organizzazione di un sistema di strade e di un servizio di comunicazioni, soprattutto a scopo militare, affidato alla responsabilità dei
magistrati municipali e organizzato da un praefectus vehiculorum equestre.
Vi furono inoltre numerose iniziative di rinnovamento edilizio nelle
città dell’Italia: porte, mura, strade, acquedotti.
L’amministrazione delle province invece, pur rimanendo essenzialmente
fondata sul sistema repubblicano, vide un cambiamento di natura
soprattutto politica, che rifletteva la duplicità di sfere delle competenze
che si era determinata nello Stato tra princeps da un lato e senato e
popolo dall’altro (vd. Cartina 10, pp. 226-227).
Le province che ricadevano sotto la responsabilità diretta di Augusto
erano quelle in cui si trovavano una o più legioni. Queste province «non
pacificate», ovvero di frontiera o di recente conquista, crebbero dalle iniziali
5 fino a raggiungere il numero di 13 alla fine del suo principato. Tali
province venivano governate da appositi legati, i cosiddetti legati Augusti
pro praetore, scelti tra i senatori di rango pretorio o consolare (cioè
tra ex consoli ed ex pretori) a seconda del numero di legioni assegnate
a ciascuna provincia: la qualifica di propretore indica che essi erano subordinati all’imperium di tipo proconsolare detenuto da Augusto. I legati,
il cui mandato era di durata variabile a discrezione della volontà del
principe, avevano il governo della provincia e il comando delle legioni,
ma non il potere di riscuotere le tasse, la cui organizzazione era affidata
a procuratori di rango equestre, che si occupavano anche del controllo
dei beni fondiari imperiali, delle miniere e delle cave.
Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, che
arrivarono a dieci all’inizio del I secolo d.C., in genere prive di legioni al
loro interno («province pacificate»), i governatori, seguendo la prassi repubblicana, erano sempre senatori, ma in questo caso erano scelti a sorte
tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Restavano
in carica un solo anno, comandavano le forze militari presenti nella
loro provincia (di solito piccole unità di truppe ausiliarie, visto che solo
in Africa, tra le province del popolo, vi era una legione), assistiti dai
questori. Anche nelle province del popolo Augusto poteva intervenire
in virtù del suo imperium maius (vd. supra, § 1.3, p. 167).
Un’eccezione a questo ordinamento era costituito dall’Egitto che, subito
dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, era stata assegnato a un prefetto
di rango equestre, nominato da Augusto. Il prefetto d’Egitto comandava
le legioni ivi installate ed era responsabile dell’amministrazione e
della giustizia. Si trattò probabilmente di una soluzione dettata dalle particolari
circostanze in cui la provincia venne creata e dalla sua importanza
per l’approvvigionamento granario di Roma. L’Egitto, infatti, rimase
l’unica grande provincia governata da un prefetto equestre. Vi furono alcune
regioni rette da cavalieri, come la Giudea, le Alpi Marittime e Graie
e, a partire da Claudio, la Rezia e il Norico, ma si trattava spesso di piccoli
territori, con caratteristiche particolari o esigenze militari specifiche.
Spesso inoltre i governatori equestri erano soggetti al comando del governatore di rango senatorio della provincia vicina, come nel caso della
provincia di Giudea, il cui prefetto era sottoposto al legato di Siria.
Quella che abbiamo descritto era comunque una situazione in continua
evoluzione. A seconda delle necessità, furono adottate le soluzioni
più idonee: una provincia come la Betica, una volta pacificata, passò
dalla sfera di competenza di Augusto a quella del popolo; altre province,
al contrario, al manifestarsi di fermenti di guerra, passarono sotto il
controllo del principe.
Fu necessario inoltre creare un sistema razionale per l’esazione di imposte
e tasse, che mitigasse lo sfruttamento brutale delle requisizioni
adottate per le guerre civili ed esterne. Per superare i limiti dimostrati
nella tarda Repubblica dall’arbitrio di governatori e appaltatori, Augusto
stabilì nuovi criteri per determinare l’ammontare dei tributi meglio commisurati alle capacità contributive dei provinciali. Il nuovo sistema aveva
come presupposto una misura dei terreni, su cui era imposta la tassa
fondiaria, il tributum soli, e il censimento della popolazione, con cui si
determinava il numero dei provinciali non cittadini romani, che dovevano
pagare la tassa pro capite.
L’esercito, la ‘pacificazione e l’espansione
All’indomani di Azio, gli uomini impegnati nell’esercito superavano di
gran lunga le necessità e i mezzi dell’Impero. La paga dei soldati gravava
sulla cassa dello Stato, l’aerarium Saturni, in cui confluivano le imposte
regolari delle province, ma i costi della liquidazione dei veterani
rappresentavano un peso straordinariamente alto e in un primo tempo
furono sostenuti con il bottino di guerra e con il patrimonio personale di
Augusto. Si trattava di smobilitare gli antichi combattenti – ne furono
congedati in più fasi circa 300.000 – conservandone il favore. In un primo
tempo i veterani ricevettero soprattutto terre, in Italia e in alcune
province. Successivamente ottennero per lo più del denaro. Infatti la
creazione di una cassa speciale nel 6 d.C., l’erario militare, finanziata con
i proventi di una tassa apposita sulle eredità (la vicesima hereditatium),
garantì al soldato che avesse ottenuto l’honesta missio (una sorta di certificato
di servizio onorevole) un premio di congedo.
Con Augusto il servizio militare nelle legioni fu riservato in linea di
principio a volontari, che per lo più erano ancora italici, anche se incominciava
ad essere apprezzabile il contributo dei provinciali. L’esercito,
dunque, era formato da professionisti, che restavano in servizio per venti
e più anni e che ricevevano un soldo di 225 denari l’anno. Si costituì
quindi una forza permanente effettiva composta da 25 legioni, ciascuna
delle quali era designata da un numero e da un nome (per esempio la
III Augusta era stanziata in Africa, vd. Cartina 10, pp. 226-227).
Un’altra innovazione importante fu l’istituzione di una guardia pretoriana
– permanente, affidata al comando di un prefetto di rango equestre.
Si trattava di un corpo militare d’élite composto da nove coorti (circa
9.000 uomini), reclutato prevalentemente tra cittadini romani residenti
in Italia, che godeva di privilegi quali un soldo più elevato e migliori
condizioni di servizio, essendo stanziato presso Roma. Augusto
costituì inoltre dei contingenti regolari di truppe ausiliarie di fanteria e
cavalleria, reclutate tra i popoli soggetti all’Impero e comandate da ufficiali
romani ma anche da capi di tribù locali.
La flotta stazionava in due porti, a Miseno e a Ravenna, ed era sottoposta
al comando di un prefetto equestre.
Innegabili furono i successi di Augusto anche in quella che per semplicità
chiameremo «politica estera», un campo di attività da lui sempre
considerato di sua diretta competenza. Ciò non toglie che durante il suo
regno le acquisizioni territoriali vere e proprie dell’Impero furono limitate,
malgrado guerre lunghe e impegnative un po’ su tutti i fronti. È questione
controversa se questo sia stato il risultato di una scelta consapevole
oppure il prodotto di una somma di circostanze occasionali. Non
va dimenticato che Augusto compì in tre occasioni, nel 29 a.C. (dopo la
vittoria di Azio), nel 25 a.C. (in seguito alla guerra cantabrica) e probabilmente nel 10 a.C. (dopo la spedizione in Arabia), un atto di grande
valore simbolico: la chiusura del tempio di Giano, una sorta di gesto propagandistico per indicare che iniziava una stagione di pace.
Augusto preferì affidare alla diplomazia, piuttosto che alle armi, le
questioni orientali. In Egitto furono estesi i confini meridionali grazie
all’azione del primo prefetto d’Egitto, C. Cornelio Gallo, che concluse
un accordo con gli Etiopi (29-27 a.C.); il secondo prefetto d’Egitto condusse
anche una spedizione fino allo Yemen meridionale, per assicurare
le vie commerciali con l’Oriente (25-24 a.C.). I confini con il regno
partico vennero invece stabilizzati grazie a trattative diplomatiche e
grazie ai rapporti politici stretti con gli Stati contigui ai territori provinciali.
Con i sovrani di tali regni (Erode, re di Giudea, Archelao, re di
Cappadocia, e Polemone re del Ponto) furono stretti trattati di amicizia
che li ponevano in un rapporto di patronato-clientela con l’imperatore,
tanto che sono spesso definiti «regni clienti» di Roma. Si creavano in
questo modo alcuni Stati cuscinetto nell’ambito dell’egemonia romana,
che assolvevano a una funzione di controllo su zone poco urbanizzate
al margine del deserto. Al di là dell’Eufrate una zona particolarmente
critica era costituita dall’Armenia, dove gli interessi di Roma
si scontravano con quelli dello Stato partico. Nelle trattative diplomatiche
del 20 a.C., Augusto era riuscito a farsi restituire le insegne delle
legioni romane di Crasso e Antonio da parte di Fraate IV re dei Parti
(vd. supra, § 1.4, p. 168). Nello stesso anno Tiberio, il figlio di primo
letto di sua moglie Livia, riuscì a incoronare re d’Armenia Tigrane II,
che divenne re cliente di Roma. Attraverso questa politica di accordi
Augusto riduceva l’intervento militare e amministrativo in Oriente per
concentrarsi sull’Occidente.
Il vero teatro degli scontri militari del principato di Augusto fu infatti
in Occidente. Nei primi anni di regno gli interventi militari si concentrarono
nella penisola iberica (27-25 fino al 19 a.C.), che fu finalmente
pacificata (vd. supra, § 1.3, p. 166), e nell’area alpina occidentale,
dove nel 25 a.C. furono sottomessi i Salassi della Val d’Aosta e fu
fondata, a presidio della zona, la colonia di Augusta Praetoria, l’attuale Aosta. Nel 21-20 a.C. L. Cornelio Balbo, un proconsole originario di
Cadice in Spagna, estese il controllo romano nell’Africa meridionale e
sud-occidentale contro le tribù dei Garamanti. Fu l’ultimo generale romano
a celebrare un trionfo. Ma fu sul confine renano e danubiano
che, attraverso vicende alterne di vittorie e sconfitte, gli eserciti romani
furono impiegati per lungo tempo e i confini furono ampliati stabilmente
con l’occupazione di nuovi territori. La conquista della Rezia,
della Vindelicia e del Norico, cioè dell’arco alpino centrale sino all’alto
corso del Danubio, fu realizzata nel 16 e nel 15 a.C., dai figliastri di
Augusto, Tiberio e Druso. Pochi anni dopo, tra il 14 e il 9 a.C., fu occupata
la Pannonia (l’attuale Ungheria). La successiva acquisizione
della Mesia (l’attuale Bulgaria) segnò il definitivo consolidamento della
frontiera danubiana.
La propaganda di Augusto non riuscì, tuttavia, a mascherare quello
che innegabilmente fu un insuccesso: la mancata sottomissione della
Germania. L’obiettivo da conseguire, con una complessa serie di campagne
militari, doveva essere la linea del fiume Elba. All’Elba i Romani
arrivarono con Druso nel 9 a.C. e, in seguito, anche con altri generali,
ma il territorio germanico a oriente del Reno non fu mai stabilmente
sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù
germaniche, che riuscirono a far fronte comune contro l’invasore. Nel
9 d.C. si ebbe un episodio decisivo: nella foresta di Teutoburgo Quintilio
Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni risultarono annientate.
Anche se negli anni successivi si condussero altre spedizioni in Germania,
ormai si trattava solo di operazioni di carattere limitato. La
frontiera, come si sarebbe compreso meglio in seguito, doveva rimanere
il Reno.
La successione
I particolari poteri che Augusto aveva via via ricevuto dal senato in diverse
circostanze e che insieme al suo carisma ne avevano creato l’auctoritas
non costituivano, tuttavia, una vera e propria carica a cui dopo la
sua morte qualcuno potesse succedere, né tali poteri e tale posizione
potevano essere trasmessi, secondo un principio dinastico proprio delle
monarchie ellenistiche, con un singolo atto a una persona della sua famiglia
o del suo entourage senza ledere le prerogative dell’ordinamento
repubblicano.
Augusto, che non aveva figli maschi, ma solo una figlia femmina, Giulia,
doveva trovare dunque il modo di far sì che la sua posizione di potere
non andasse perduta con la sua morte, ma rimanesse nella sua famiglia,
senza tuttavia imporre una svolta apertamente monarchica alle
istituzioni.
La prima preoccupazione di Augusto fu quella di integrare la propria
famiglia nel nuovo sistema politico e nella propaganda ideologica, celebrandone
l’ascendenza divina (i capostipiti sarebbero stati Venere ed
Enea), riprendendo così in forma estrema la consuetudine di nobilitazione
degli antenati già propria degli aristocratici romani. Nella sua veste
di pater familias sottolineava inoltre il carattere romano tradizionale della propria gens, e la ampliava con i successivi matrimoni della figlia
Giulia e le adozioni, allargando l’area del suo prestigio anche ai più
stretti amici e collaboratori. Il ruolo di primo piano assunto dalla domus
principis gli consentiva di trasferire al proprio erede anche le clientele
e il prestigio (ovvero le basi del suo potere) che secondo la tradizione
romana appartenevano al patrimonio di una famiglia della nobiltà
gentilizia. La posizione del princeps nello Stato veniva d’altra parte
rafforzata dai meriti e dalle distinzioni via via acquisiti dai suoi figli
adottivi e dalle persone della sua cerchia, come Agrippa. L’erede scelto
all’interno della famiglia avrebbe ricevuto non solo il patrimonio privato
ma, grazie alla particolare posizione, anche una sorta di prestigio che
gli garantiva un accesso privilegiato alla carriera politico-militare e un
ruolo singolare nella res publica. Tramite una carriera magistratuale eccezionalmente
abbreviata e all’attribuzione di poteri straordinari, sul
modello di Augusto, la potestà tribunizia e l’imperium proconsolare in
primo luogo, veniva di fatto designato alla successione alle funzioni
pubbliche del princeps.
Fu attraverso il matrimonio di Giulia con il nipote Marcello, figlio di
sua sorella Ottavia, nel 23 a.C., che Augusto cercò, per la prima volta, di
inserire un discendente maschio nella famiglia, dotandolo inoltre già da
giovanissimo di prerogative quali l’ammissione al senato e il consolato
prima dell’età prevista, per renderlo il più possibile adatto ad assumere
almeno alcune delle proprie competenze, visto che si sentiva vicino alla
morte per la grave malattia che lo aveva colpito in Spagna. Augusto
recuperò la salute e superò la crisi politica, mentre Marcello morì nello
stesso 23 a.C (vd. supra, § 1.3, p. 167).
La seconda personalità a cui Augusto pensò di poter gradualmente
trasferire alcune delle sue prerogative fu Agrippa, il quale divorziò dalla
prima moglie e sposò Giulia, vedova di Marcello, e ricevette l’imperium
proconsolare e la potestà tribunizia. Nel 17 a.C., Augusto adottò i
due figli di Giulia e Agrippa, Caio e Lucio Cesari, preparandoli ad una
eventuale successione al padre. Ma nel 12 a.C. Agrippa morì.
Considerato che i due ragazzi erano ancora minorenni, Augusto si
rivolse ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di
questa con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio e Druso. Tiberio, che aveva
sposato Vipsania, una figlia del primo matrimonio di Agrippa, dovette
divorziare e sposare Giulia nell’11 d.C. Tiberio ricoprì due volte
il consolato, celebrò persino un trionfo per le sue campagne germaniche
nel 7 d.C., ricevette nel 6 d.C. la potestà tribunizia, ma poi si ritirò
dalla vita politica e si autoesilò nell’isola di Rodi, forse a causa del pessimo
rapporto con Giulia o forse a causa della predilezione mostrata
da Augusto per i due figli di Agrippa. In ogni modo Caio Cesare e Lucio
Cesare non poterono diventare reali avversari di Tiberio perché la
morte li colse giovanissimi nel 2 e nel 4 d.C. Già nel 2 d.C. Tiberio era
tornato a Roma e aveva sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno
scandalo a causa dei suoi amanti e condannata all’esilio dal padre stesso;
Augusto infatti aveva proposto a Roma una serie di leggi moralizzatrici
che volle applicare a sua figlia stessa, come esempio della sua
sottomissione allo Stato.
Augusto pretese allora da Tiberio che adottasse Germanico, il figlio di
suo fratello Druso e di Antonia, figlia di M. Antonio e di Ottavia, sorella
di Augusto, anche se Tiberio aveva un suo proprio figlio di nome Druso
(che chiameremo minore, per distinguerlo dallo zio Druso maggiore
morto nel 9 a.C. in Germania, vd. infra, Stemma, p. 185). Tiberio adottò
Germanico nel 4 d.C. e Augusto adottò contemporaneamente Tiberio.
Successivamente a Tiberio fu conferita la potestà tribunizia e l’imperium
proconsolare. Nel 13 d.C. celebrò il trionfo sui Germani e gli venne conferito
un imperium pari a quello di Augusto, in modo che potesse intervenire
in tutte le province e che l’esercito potesse essere interamente
sotto il suo comando. Così, alla morte di Augusto, esisteva già una personalità
con pari poteri in campo civile e militare che poteva in un certo
modo ereditare l’influsso e il carisma che Augusto aveva reso una prerogativa
della propria casa, anche attraverso una diffusa opera di propaganda
culturale.
L’organizzazione della cultura
Abbiamo visto sopra, a proposito di Roma, come il programma edilizio
di Augusto mirasse a completare i progetti di Giulio Cesare e a celebrare
propagandisticamente il ritorno della tradizione repubblicana.
Uno specifico programma figurativo esaltava la
pacificazione e una fittizia discendenza da una progenitrice divina, Venere,
e da un mitico progenitore, Enea. Ma la politica culturale di Augusto
non trovò espressione solo nelle arti figurative e nella trasformazione
architettonica di Roma. La celebrazione della pace e della figura provvidenziale
di Augusto si manifestò anche in pubbliche cerimonie, nella
monetazione, nella letteratura e, in generale, nel coinvolgimento degli
intellettuali nella promozione del consenso al suo programma di restaurazione
morale all’interno dello Stato e di pacificazione all’esterno.
Uno dei documenti che più chiaramente lascia intendere come Augusto
interpretasse la propria opera è sicuramente la sua autobiografia. Nelle Res Gestae Augusto ripercorre tutte
le tappe del proprio operato, sia costituzionale che militare, illustrando
in che modo abbia reso soggetto il mondo al potere del popolo romano e
abbia portato pace e prosperità estendendo i confini del potere romano.
Anche attraverso le opere di storici come Tito Livio o dei grandi poeti
dell’età augustea, tuttavia, possiamo intendere quali fossero i messaggi,
le idee e la politica culturale dell’epoca. Virgilio nelle Ecloghe e nelle
Georgiche canta la pace che il nuovo regno ha garantito e il ritorno della
sicurezza nella tradizionale vita dei campi, nell’Eneide celebra Enea
come antenato di Augusto e profetizza il suo dominio universale.
Così pure in Orazio, Properzio, Ovidio si riflette la propaganda dominante
dell’epoca, con l’estensione del dominio di Roma fino ai confini
dell’ecumene, la sottomissione dei popoli non ancora assoggettati, l’umiliazione del fasto orientale, la vendetta sui Parti, la celebrazione della
figura di Augusto come il provvidenziale salvatore della romanità contro
la barbarie. L’adesione degli intellettuali al programma del principe si
doveva in gran parte a Mecenate. Questi con un’opera di persuasione e,
in taluni casi, intervenendo per aiutare chi, come Orazio o Virgilio, si
trovava in situazioni critiche a seguito delle guerre civili, riuscì a legare
poeti e artisti agli ideali della politica augustea e a coniugare il fiorire di
una raffinata letteratura basata sui modelli della cultura letteraria greca
con l’adesione ai tradizionali valori italici e romani.
Naturalmente però sarebbe del tutto fuorviante pensare a un’adesione
totale degli intellettuali al programma augusteo. Dobbiamo, infatti,
tener conto anche di quanto non ci è pervenuto e che ha subito un processo
di volontaria o involontaria cancellazione, in quanto non consono
all’atmosfera dominante. Sappiamo con certezza dell’esistenza di
voci dissidenti, come quella dell’antoniano Asinio Pollione o dello storico
greco Timagene, e sappiamo anche che un poeta come Ovidio, che
fece parte del circolo di Mecenate. Questi la fine del principato augusteo
fu relegato a Tomi nel Ponto, accusato di aver scritto carmi che non
erano in linea con la riforma dei costumi introdotta dalla legislazione
moralistica di Augusto.
Altri momenti importanti di esaltazione della figura di Augusto e di
diffusione a Roma e nelle province dell’ideologia provvidenzialistica
furono le celebrazioni di particolari ricorrenze e l’istituzione di un vero
e proprio culto della sua persona. Per le prime, possiamo ricordare la
celebrazione dei ludi saeculares, tenuti a Roma nel 17 a.C. secondo gli
antichi riti, per proclamare la rigenerazione di Roma, o le celebrazioni
dei giochi che si tenevano ogni quattro anni a Nicopoli, la città fondata
sul luogo dell’accampamento di Ottaviano ad Azio, per ricordare la vittoria
del 31 a.C.
Per quanto riguarda la celebrazione della persona di Augusto, il suo
nome era inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale dei Salii, il
suo compleanno era celebrato pubblicamente ed era prescritto che al
suo Genio dovesse essere reso omaggio anche privatamente. A ciò si
aggiunse, nelle province orientali, l’istituzione di un vero e proprio culto
dell’imperatore, che veniva celebrato congiuntamente a quello della
dea Roma. In Occidente, invece, il culto di Roma era affiancato a quello
di Cesare divinizzato, oppure venivano dedicati altari o templi al Genio
di Augusto, ma non direttamente alla sua persona. Fa eccezione la creazione
di un altare del culto di Roma e Augusto a Lugdunum (Lione) e di
altri altari in Germania, sul Reno e sull’Elba.