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L'ARTE A POSITANO

La MODA

INTRODUZIONE

*Si potrebbe intendere per "letteratura latina" l'insieme delle opere d'intento letterario scritte in latino. Ma questa definizione è eccessivamente vasta e comprende, di fatto, varie letterature differenti l'una dall'altra. L'uso letterario del latino, che comincia ad affermarsi nel corso del III sec. a.C., è destinato infatti a svilupparsi ininterrottamente da allora in poi.
Esiste così una letteratura latina moderna, che fa direttamente seguito a quella dei secoli precedenti. Ma è del tutto evidente che essa non presenta i medesimi caratteri della letteratura del periodo di Cicerone o di Augusto, così com'è certo che la letteratura in lingua latina d'ispirazione cristiana forma, a sua volta, un settore a sé stante: le sue radici, essenzialmente orientali, e il suo fine, di edificazione e conversione, la distinguono dalla letteratura "pagana", il cui spirito è del tutto diverso.
Infine, ultima distinzione, andrebbero considerate a parte, anche all'interno della letteratura antica e "pagana", le opere composte tra il III sec. a.C. e il III o, al massimo, il IV della nostra era. Nel corso di questo periodo, infatti, si manifestano possibilità di rinnovamento che, più tardi, spariranno; la tradizione corre ininterrotta dalle origini; le opere sono direttamente accessibili, se non a tutti, almeno a quanti hanno acquisito i rudimenti della cultura.
*Senza dubbio si può riconoscere, da alcuni indizi, che a partire da questo momento la letteratura tende a divenire materia di scuola, dunque a sclerotizzarsi; ma tale sclerosi diventerà totale solo nel periodo seguente. Fino a che sopravvive, tra gli autori, il sentimento di partecipare a una cultura "romana", è possibile ammettere ancora l'esistenza di una letteratura latina, nel significato in cui, qui, l'intendiamo.
Questa letteratura, infatti, è essenzialmente quella di Roma, della Roma repubblicana e conquistatrice, della Roma imperiale e trionfatrice. E’ animata dallo spirito romano, celebra la gloria di coloro che sono divenuti, con molte sofferenze, i padroni del mondo: ma si sforza anche di definire i valori fondamentali sui quali poggia questa conquista; segue, e talvolta anticipa, l'evoluzione intellettuale, contribuendo in questo modo alla formazione di una civiltà originale, quale appunto fu quella di Roma.
Sarebbe dunque allettante chiamarla "romana", più che "latina", se anche questa definizione non rischiasse, a sua volta, di creare confusione. Tra coloro che hanno contribuito a formarla, com'è noto, pochi autori furono romani di Roma: fin dal principio sono dei sudditi o degli alleati coloro che compongono le prime opere e, via via che la conquista avanza, si vedono provinciali, i barbari della vigilia, arricchire la letteratura dei loro vincitori. Il che lascia intravedere come questa letteratura sia in realtà il prodotto di una convergenza tra uno stato sociale e politico e uno stato linguistico, tra la città romana e la lingua latina. Ciò che dobbiamo tentare di cogliere e definire è una letteratura di lingua latina e di ispirazione romana. Si capisce, allora, perché essa potesse nascere soltanto nel momento in cui, simultaneamente, si trovarono realizzate le due condizioni che le erano necessarie, e perché, inoltre, non potesse sopravvivere alla scomparsa di una delle due.
*Alla sua nascita, era necessario che Roma fosse già affermata e sufficientemente forte come centro politico, e che la lingua latina avesse acquistato flessibilità e ricchezza sufficienti. Al momento del suo declino, fu il crepuscolo dell'Impero, la scomparsa dei valori tradizionali che ne compromisero definitivamente il vigore.
Alla metà del III sec. a.C., il mondo greco è all'apogeo della civiltà ellenistica. Il tempo dei diretti successori di Alessandro (i diadochi) è finito da una cinquantina d'anni, i re della seconda generazione hanno consolidato stabilmente il loro dominio, l'ellenismo si è diffuso nelle regioni interne dell'Asia, la cultura greca, estesa, separata persino da quanto un tempo l'aveva strettamente unita alla polis, si impone come il modello per eccellenza di ideale umano. In questa cultura che si irradia fino a raggiungere l'Occidente mediterraneo, con le colonie della Magna Grecia, in Italia, con Siracusa, prospera e splendida sotto Gerone II, in Sicilia e con le più lontane colonie raggruppate intorno a Massalìa (Marsiglia), la letteratura resta un elemento essenziale.
Per un verso essa conserva, con le opere dell'ellenismo classico, il tesoro comune dei poeti, dei filosofi e degli storici. Ma non è rivolta solo verso il passato: i poeti contemporanei tentano di rinnovare la creazione letteraria, e vi riescono con quella che noi oggi chiamiamo letteratura "alessandrina" (perché si sviluppò soprattutto intorno ad Alessandria, la capitale dei Tolomei).
Callimaco, il più grande dei poeti alessandrini, è il rappresentante per eccellenza di questa nuova estetica di poesia colta, dalla forma perfetta, che ai lunghi poemi preferisce le brevi composizioni, che usa la materia dei miti tradizionali, ma nelle varianti più rare. Accanto a lui, Teocrito, siciliano di nascita, che dà dignità letteraria al genere popolare del canto "bucolico", e trasforma in miniature preziose le improvvisazioni dei bovari e dei caprai. Infine, Apollonio Rodio, autore di una lunga epopea sulle avventure di Giasone e dei suoi compagni. Le sue Argonautiche eserciteranno, due secoli più tardi, un'indubbia influenza sull'Eneide.
D'altro canto, il teatro resta molto vitale. Non c'è città greca che non abbia il proprio teatro, dove in genere vengono riprese le grandi opere del repertorio classico (quelle di Euripide, soprattutto), ma modificate per adattarle al gusto contemporaneo: si conserva il dialogo, ma i cori sono sostituiti da canti che non hanno più alcuna relazione con l'azione drammatica. Rispetto al passato, spettacolo e messa in scena sono più evoluti, e le nuove rappresentazioni che i poeti compongono sono conformi a queste tendenze.
La letteratura ellenistica si propone come fine l'esaltazione degli dèi e, tramite questi, dei nuovi "eroi" che reggono il mondo. Ad Alessandria, naturalmente, celebra i Tolomei, altrove Antigono Gònata, le cui vittorie sui rivali sono glorificate anche dagli scultori (come nel caso dell'autore della Vittoria di Samotracia).
La tradizione omerica, continuata in epoca classica dagli epinici di Pindaro, ispira ancora quella che è talvolta chiamata letteratura di corte: la "Chioma di Berenice", scritta da Callimaco, ne è l'esempio più compiuto. Questa costante attenzione per la gloria ispirerà anche i primi poeti romani che, in una certa misura, sono essi stessi "ellenistici", se non propriamente "alessandrini".
*Verso la metà del III sec., Roma conclude vittoriosamente la prima guerra contro Cartagine. La potenza punica, che fino a quel momento occupava gelosamente il bacino occidentale del Mediterraneo e limitava verso est l'espansione ellenistica, si trova indebolita e deve retrocedere, abbandonando a Roma la zona del mare Tirreno e ai focesi, alleati di Roma, quella della Liguria e della Spagna settentrionale.
Roma, la cui parentela con i popoli e le città elleniche è avvertita da molto tempo (la prima testimonianza certa, quella di Aristotele, risale a circa un secolo prima, ma la tradizione era certamente più antica e voleva che Roma appartenesse al gruppo di città la cui fondazione si collegava ai "ritorni" dei combattenti di Troia), non consentì, certo, di rinnovare l'influenza politica dei greci sull'Occidente, ma favorì, talvolta inconsciamente, talaltra anche però consapevolmente, l'espansione della loro cultura anche all'interno del proprio dominio.
Una testimonianza di questa simbiosi è costituita, appunto, dalla nascita di una letteratura di lingua latina. E’ certo che la letteratura latina è figlia della letteratura greca, ma non dobbiamo credere che, inizialmente, essa non sia stata altro che una copia maldestra, scolastica, delle opere greche. Le sue composizioni sono una trasposizione, rispondente ai bisogni culturali propri di Roma, più della funzione che della materia di quelle opere che i romani vedevano vivere all'interno del mondo greco. Si creano, così, delle epopee e un teatro tragico, che tenderanno a fissare, per Roma, un passato mitico; la stessa commedia si svilupperà intorno a valori morali e sociali, come faceva, in Grecia, da tre quarti di secolo, la "commedia nuova". La prosa, quella degli storici, dei legislatori, dei giuristi, degli oratori, si integrerà anch'essa allo spirito della città, e l'imitazione dei grandi prosatori greci non sarà una schiavitù sterile, al contrario.
E’ vano voler opporre una Grecia creatrice a una Roma che ne sarebbe soltanto l'imitatrice servile: la creatività si sussegue, dall'uno all'altro campo, tanto che l'anteriorità della letteratura greca spiega solo come quella di Roma abbia potuto svilupparsi così rapidamente e prendere una sorta di scorciatoia per giungere alla perfezione.

LA POESIA ARCAICA
*E’ con la poesia che ha inizio la letteratura latina. Essa fa i suoi primi passi contemporaneamente con l'epopea e col teatro. Molteplici sono le ragioni che presiedono a questo sviluppo: alcune sono da ricercare nella situazione della letteratura greca contemporanea, nel ruolo giocato insieme dalla tradizione omerica e dalle rappresentazioni teatrali nella cultura ellenica; altre, invece, dipendono da condizioni proprie di Roma.
Prima della letteratura scritta era esistita una letteratura orale, i cosiddetti "carmina convivalia", canti recitati da giovani, durante i banchetti, per elogiare i grandi uomini del passato. L'influenza della civiltà etrusca aveva diffuso la conoscenza dei miti greci che si erano fusi con le leggende popolari. Abbiamo un'eco di questo repertorio preletterario nei dipinti delle necropoli etrusche arcaiche.
E’ molto probabile che il più antico passato di Roma sia divenuto dunque, assai presto, materia "letteraria": antenati delle gentes, re, e soprattutto Romolo, il fondatore della città, tutti dovevano figurare, con le loro imprese, in questi rudimentali poemi.
Il metro utilizzato era probabilmente il "verso saturnio" (così chiamato a causa della leggenda secondo cui il dio Saturno sarebbe stato il primo mitico re del Lazio), del quale tuttavia non conosciamo che forme relativamente tarde e già "letterarie". Sembra che fosse composto di due membri ineguali, il primo formato in genere da tre parole (di due sillabe le due prime, di tre la terza), il secondo comprendente invece due parole di tre sillabe ciascuna (secondo il modello tramandatoci dal primo verso dell'Odyssia di Livio Andronico: Virum, mihi, Camena / insece versutum (Narrami Camena, l'uomo dalle mille imprese); esistevano tuttavia altre combinazioni possibili, come risulta ad esempio dal verso di Nevio: Fato Metelli Romae / fiunt consules (Al fato si deve se a Roma i Metelli diventano consoli), nel quale c'è una differente ripartizione delle parole di due e tre sillabe.
La recitazione veniva accompagnata con la lira, che scandiva il metro. L'influenza esercitata da questi "canti conviviali" sulla letteratura latina non si lascia cogliere agevolmente. Un tempo si supponeva che essi avessero costituito la prima forma di storia e contribuito a formare le leggende che i critici moderni amavano, in passato, denunciare nella tradizione degli storici posteriori (soprattutto in Tito Livio). Oggi si è concordi nel ridurne l'importanza, e nel ritenere che si siano sviluppati ai margini della storia, senza peraltro sostituirsi ad essa. E’ certo, tuttavia, che essi hanno preparato le varianti nazionali di due generi greci: l'epica romana e la fabula praetexta, rappresentazione drammatica che fa dei romani stessi i nuovi eroi della scena.


IL TEATRO ROMANO
L’ORIGINE DEL TEATRO ROMANO.
Il teatro romano prende origine dalle tradizionali feste religiose etrusche e in particolare dalla recitazione degli attori etruschi. Sempre agli etruschi, o meglio alla città etrusca di Fescennium, è inoltre riconducibile anche la festa campestre fescennino nella quale si rinvengono gli stessi elementi drammaturgici propri alle rappresentazioni che si svolgevano nella città osca di Atella, denominate per questo atellane. Ben presto però, intorno al 240 a.C. in occasione dei Ludi Romani, in seguito ai contatti con la civiltà greca si cominciarono a rappresentare a Roma drammi sul modello greco, che finirono col fondersi con le altre forme drammaturgiche preesistenti. Il retaggio delle antiche forme di spettacolo si rinviene nello spirito e nel gusto per il divertimento, per il motto scherzoso in cui sono presenti oltre che i riti etruschi anche il motteggio sfrenato di quell’antica città osca, Atella, terra delle farse atellane. Niente più che un retaggio comunque e inevitabilmente proprio a causa della loro natura basata sull’improvvisazione, sulla battuta di scherno, senza che ci fosse alcuna testimonianza o documentazione scritta.

GLI AUTORI E LE OPERE.
La mancanza di testi scritti ha reso difficile una ricostruzione certa dello sviluppo della drammaturgia latina. Del resto i generi drammaturgici più antichi, fondamentali per stabilire l’origine della drammaturgia latina, non prevedevano proprio per tipologia, l’esistenza di un testo e tanto meno di un autore. Per questo convenzionalmente la data di inizio della letteratura latina è stata fissata intorno al 240 a.C., anno a cui risalgono cioè le traduzioni e gli adattamenti di derivazione greca di Livio Andronico. Anche del suo contemporaneo Gneo Nevio, a parte il fatto che anche lui si "occupava" di teatro si sa poco altro. I primi autori di cui ci siano rimasti gli scritti sono:
Tito Maccio Plauto
Publio Afro Terenzio
che, a differenza dei loro predecessori che non si specializzarono in un genere in particolare, scrissero solo commedie.
Altri autori romani di commedie nel II I secolo a. C. sono:
Titinio
Afranio
Atta
Autori romani di tragedie sono:
Cecilio Stazio (230 - 220)
Quinto Ennio (239 - 189)
Pacuvio (220 - 130)
Lucio Accio (170 - 85)
Accanto a questa produzione, che potremmo definire aulica, si mantenne una produzione minore oltre ai consueti spettacoli romani: le corse dei carri, i combattimenti dei gladiatori, venationes e naumachie.

IL FESCENNINO.
Il Fescennino é una festa celebrata in occasione delle scadenze principali della vita contadina (la vendemmia, la raccolta del grano ecc.) era improntata sullo scherno, e la canzonatura degli altri vendemmiatori o mietitori. L’etimologia del termine sembra infatti poter risalire anche al latino fascinatium, malocchio, quello gettato agli altri carri incolonnati e carichi di uva in occasione della vendemmia. Da tali atteggiamenti e dalle caratteristiche di questa festa popolare ha preso origine la drammaturgia latina.

L’ATELLANA.
Per atellane si intendono le improvvisazioni di breve durata (forse addirittura semplici chiusure delle rappresentazioni) di contenuto farsesco che si rappresentavano ad Atella, città osca della Campania. Le rappresentazioni erano caratterizzate dalla presenza di personaggi fissi con proprie maschere e propri costumi. Il genere dell’Atellana, di probabile derivazione dalla farsa fliacica, fu introdotto a Roma nella prima metà del III secolo a.C..
Le Atellane riproponevano quattro personaggi fissi in tutte le rappresentazioni:
Pappus, il vecchio sciocco;
Maccus, il tipo dello scemo maltrattato;
Dossenus, il gobbo furbo e imbroglione;
Bucco, insaziabile e maleducato.
Tali personaggi avevano anche una loro maschera e un loro costume caratteristico.

IL MIMO. Il mimo era una forma drammaticata di breve durata che in alcuni casi si trasformava in spettacolo vero e proprio. Molto amato dai romani questo genere rifletteva il gusto del tempo incline alla violenza e alle scene di lotta.

LA COMMEDIA ROMANA.
La commedia romana sembra non discostarsi minimamente dalla commedia nuova greca, se non che per poche innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato solo successivamente dagli editori); l’introduzione dell’accompagnamento musicale, peraltro probabile retaggio della tradizione etrusca.
Questo tipo di commedia veniva definita fabula palliata. Accanto a questa ne esisteva anche un altro la fabula togata, di contenuto e ambientazione romana.

LA TRAGEDIA ROMANA. Il genere della tragedia, molto apprezzato dal pubblico, fu completamente ripreso dai modelli greci e definito dai romani fabula crepidata. Gli unici autori di cui si abbia memoria (ma non i testi) sono Quinto Ennio (239 - 189), Marco Pacuvio (c.220 - c.132) e Lucio Accio (170 - c. 90). Le tragedie romane che ci sono pervenute risalgono ad un periodo successivo, compreso tra il 30 e il 60 d.C., per lo più opera di Seneca.

GLI ATTORI. La professione dell’attore godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia, ma certamente non a Roma, dove sembra venisse demandata agli schiavi che erano al servizio del direttore della compagnia. Questo fu quasi certamente vero almeno fino a quando Roscio, il più grande attore della romanità, non riuscì a riabilitare tale professione. Gli attori comunque si dividevano in due categorie principali gli histriones e i mimi.

I COSTUMI. I costumi cambiavano a seconda del genere teatrale: commedia, tragedia e atellana. Per tutte le rappresentazioni di ambientazione greca gli attori vestivano abiti ateniesi, mentre per quelle di ambientazione romana indossavano la classica toga romana.

LE MASCHERE.
Le maschere romane, sul modello di quelle greche, erano di tela con applicata una capigliatura. L’uso delle maschere facilitava l’interpretazione degli attori che dovevano impersonare più ruoli o personaggi di aspetto simile (I Gemelli o l’Anfitrione di Plauto). Nel teatro dei mimi la maschera invece non esisteva, e vista la popolarità di questo genere man mano la maschera scomparve dal teatro romano.

LA MUSICA.
La musica all’interno delle rappresentazioni romane aveva un ruolo fondamentale, che veniva svolto da un suonatore di flauto a due canne lungo circa 50 cm..
L’accompagnamento del musico aveva delle convenzioni rigide (il pubblico era in grado di capire il personaggio che sarebbe entrato, o casa sarebbe accaduto dalla sola musica di introduzione) e accompagnava lo spettacolo dall’inizio alla fine spostandosi, a volte, insieme ai personaggi.

GLI SPETTATORI. Gli spettatori romani prediligevano rappresentazioni cruente con scene di violenza, spesso realistiche.
In occasione delle feste per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio (Colosseo), per esempio, durante le rappresentazioni avvenne che nelle scene di crocifissione lo schiavo cristiano si sostituì all’attore e quindi moriva realmente. Caratteristiche di verosimiglianza e di violenza completamente inesistenti, invece, nel teatro greco.

L’EDIFICIO SCENICO.
I romani cominciarono a costruire veri e propri edifici teatrali soltanto nel 30 a.C., prima di questa data le strutture che ospitavano gli spettacoli erano provvisorie appositamente costruite per i diversi eventi. I primi teatri stabili, comunque, riproducono più o meno la struttura dei teatri greci anche se con alcune modifiche.
La passione dei romani per generi di spettacolo molto importanti e "ingombranti", rese ben presto necessaria la creazione di luoghi adeguati che potessero ospitarli. Tale necessità è evidentemente all’origine della ideazione e costruzione degli Anfiteatri il cui maggiore esempio è per tutti l’Anfiteatro Flavio da tutti conosciuto con il nome che gli venne dato durante il Medioevo di Colosseo.

LE SCENE.
Le notizie relative alla scenografia romana si basano sulle testimonianze del trattatista latino del I sec. a.C., Vitruvio. Da queste sembrerebbe che il teatro romano non presentasse una scenografia molto complessa, ma piuttosto erano gli attori che con i loro dialoghi evocavano ambienti e circostanze diverse. Di sicuro gli elementi scenografici sempre presenti erano: la scenae fronts, i periaktoi e l’auleum.
La scenae fronts è costituita da un’architettura simile alla facciata di un edificio, nella quale si aprono diversi ingressi utilizzati dagli attori. I periaktoi, di derivazione greca, erano prismi triangolari ruotabili con i lati dipinti, secondo Vitruvio, con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo.
L’auleum era un telo simile al nostro attuale sipario che consentiva di rivelare improvvisamente, lasciato cadere dall’alto, una nuova scena. Negli anfiteatri gli effetti speciali erano realizzati con l’utilizzo di macchine teatrali, anche queste di derivazione greca. Uno degli effetti più sensazionali e graditi erano le scene di massa affollate da personaggi e animali.

LE RICORRENZE PRINCIPALI DEL TEATRO ROMANO.
Anche a Roma, come in Grecia, la maggior parte dell’attività teatrale si svolgeva nel corso delle feste di carattere religioso e, anche se più raramente, in occasione di vittorie militari, consacrazione di pubblici edifici, o per i funerali di importanti personalità.
Gli antichi romani, per la verità non molto diversamente dai romani "moderni", dedicavano alle diverse divinità alcuni giorni fissi dell’anno durante i quali organizzavano spettacoli e celebrazioni.
Definivano tali periodi Ludi accompagnati da un aggettivo che derivava o richiamava in qualche modo la divinità che si celebrava, come ad esempio i Ludi Florales, i Ludi Apollinares, Ludi Megalenses e Ludi Cereales durante i quali veniva peraltro dato particolare rilievo agli spettacoli teatrali. C’erano poi durante i mesi di settembre e novembre i Ludi in onore di Giove rispettivamente denominati Romani e Plebei anche questi occasione di festa, divertimento e quindi spettacoli.


Livio Andronico
(Taranto III sec. A.C.)
VITA.
Le date di nascita e di morte ci sono sconosciute, sappiamo soltanto che era un ex schiavo originario di Taranto e che partecipò alla guerra tra Taranto e Roma al seguito del suo protettore, il senatore Livio Salinatore, che l'affrancò dopo avergli affidato l'educazione dei figli e dal quale L. prese anche il prenome. Due sono le tappe importanti della sua carriera: 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma (è da questo momento che si fa cominciare la storia della letteratura latina); 207, quando compose un partenio in onore di Giunone.
Riconosciuta fu la sua "associazione professionale", il "collegium scribarum histrionumque".

OPERE E CONSIDERAZIONI.
L. si può giudicare l'iniziatore della letteratura latina: abbiamo 9 titoli di tragedie dedicate alla guerra di Troia (Achilles, Aiax mastigophorus, Equos troianus, Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Tereus, Danae e Ino), una palliata ("Gladiolus", ovvero "sciaboletta"), il "partenio" (di cui però nulla conserviamo); ma il suo capolavoro è la traduzione, o forse è più esatto dire l’adattamento artistico, "letterario", in lingua latina e in versi saturni, dell'Odissea di Omero ("Odyssa") e ciò ebbe una importanza storica enorme. L'operazione aveva infatti finalità sia letterarie che culturali: l'Odissea rappresentava un testo fondamentale della cultura greca ed è per questo la traduzione di L. non era letta solamente in ambito scolastico.
Il merito di L. non fu tanto di introdurre a Roma la letteratura greca, quanto di concepire la possibilità di una letteratura in lingua latina, sul modello delle opere greche. Egli, come visto, compose al tempo stesso tragedie, commedie e un'epopea, fondando così tre generi che avrebbero dato origine, molto presto, a una straordinaria fioritura con le opere dei suoi contemporanei e degli immediati successori, Nevio, Plauto, Ennio e Pacuvio.
Non avendo una tradizione epica alle spalle, L. cercò di dare per altre vie solennità e intensità al suo linguaggio letterario. All'inizio della traduzione L. rende la "Musa" di Omero con l'antichissima "Camena", divinità italica delle acque. Tuttavia, alcune dei passi scritti da Omero non erano concepibili per i romani e L. si trovò a dover modificare spesso l'Odissea (eroe pari agli dei).
Tipica della sua poesia è anche la ricerca del pathos, della tensione drammatica, della solennità: non disdegna, così, arcaismi, o di ricorrere al formulario religioso. I modelli tragici cui s’ispirò, a tal proposito, furono verosimilmente testi attici del V sec. (soprattutto Sofocle ed Euripide).
Di questa Odyssia, noi non possediamo che pochi frammenti isolati e molto brevi, ma la scelta del soggetto lascia intravedere lo scopo che L. si proponeva. Mentre l'Iliade, "libro sacro" per eccellenza della cultura greca, era centrata sull'Egeo, l'Odissea, al contrario, guardava verso l'Occidente. Una tradizione di commentatori situava la maggior parte dei suoi episodi sulle sponde italiane e siciliane.
E’ in Italia che sono situati gli sviluppi della leggenda di Ulisse. Un particolare degno di nota era costituito inoltre dal fatto che la figura di Ulisse aveva incontrato larga fortuna nelle regioni etrusche; i figli che, a quanto si raccontava, egli aveva avuto da Circe, erano ritenuti i fondatori di numerose città dell'Italia centrale (Tivoli, Ardea). Dietro l'epopea di L. possiamo indovinare i racconti leggendari etruschi e l'epopea "orale" del Lazio etruschizzato. Inoltre, in quella seconda metà del III sec., accadeva che Roma fosse impegnata negli affari dell'Illiria e si preoccupasse delle coste adriatiche, che aveva raggiunto da molto tempo, ma che, fino a quel momento, non erano entrate nel suo immediato orizzonte politico.
Ben presto, in questa regione, Roma appare come la protettrice degli elleni contro i pirati barbari. Ora, uno degli eroi delle guerre d'Illiria era precisamente proprio un L. Salinatore, forse la stessa persona che aveva affrancato L., forse il figlio e, in tal caso, l'antico allievo del poeta. Adattare l'Odissea in latino non era forse rendere delicato omaggio ai romani che, dall'Italia centrale, ritornavano da liberatori alla patria di Ulisse?
Delle origini italiche della letteratura latina, dunque, l'epopea di L. conservava molto: non soltanto il metro (l'Odyssia era scritta in versi saturni), ma l'interesse per leggende nelle quali, da lungo tempo, ci si compiaceva di riconoscere i prolungamenti occidentali dei cicli epici


Gneo Nevio
(Campania? 270 ca – Utica 201 a.C.)

VITA.
Combatté nella prima guerra punica (264-241). Probabilmente era un plebeo di nascita e questo spiega il fatto delle frequenti politiche antinobiliari: non abbiamo inoltre indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici come Ennio-Nobiliore ed Andronico-Salinatore. Si sospetta che fosse stato incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi: morì in esilio a Utica.
N. è il primo letterato latino di nazionalità romana, e ci appare anche come il primo letterato latino vivacemente inserito nelle vicende contemporanee. Fece recitare la sua prima rappresentazione nel 235, cinque anni soltanto dopo quella che aveva segnato gli inizi di Livio.

OPERE. Di N. conosciamo: 2 praetexte, il "Romulus" e il "Clastidium"; il "Bellum Poenicum"; almeno 6 tragedie mitologiche: "Equos troianus" (l'argomento piaceva ai romani), "Lesiona" (altra leggenda relativa alle catastrofi troiane), "Hector proficiscens", "Iphigenia" (probabilmente un'"Ifigenia in Tauride"), "Danae" e "Lycurgus", (rappresentazione dionisiaca senza alcun dubbio in rapporto col diffondersi del culto di Bacco nell'Italia meridionale e nel Lazio durante gli ultimi decenni del III sec.; 1 commedia, la "Tarentilla" ossia il ritratto di una ragazza civettona.
Il capolavoro è, ovviamente, il "Bellum Poenicum", scritto in saturni, probabilmente durante la vecchiaia intorno al 209 (nel momento in cui l'Italia era per gran parte occupata dalle truppe di Annibale o, quanto meno, minacciata dalle imprese del cartaginese) e comprendente circa 4000/5000 versi, riguardante la prima guerra punica.

CONSIDERAZIONI.
I frammenti che possediamo dell’opera sono brevi, ma relativamente numerosi, e consentono di farsi una qualche idea dell'insieme.
Ne evinciamo che il poeta non si limita a trattare in poesia le vicende della guerra cartaginese, ma con un salto temporale non indifferente, affonda nella preistoria di Roma: N. parla, nei primi canti, con certa ampiezza dell'impresa di Enea, considerato il fondatore di Roma, e dei suoi amori con la regina Didone, la fondatrice di Cartagine. Il nostro utilizzò questa storia drammatica per spiegare la rivalità mortale che opponeva Roma a Cartagine. Il suo scopo è di mostrare che il fato è dalla parte di Roma; ciò assumeva grande importanza negli anni oscuri della II guerra punica. Roma riceveva dal suo poeta una duplice certezza: che gli dèi erano con lei, e che le passate vittorie su Cartagine garantivano il successo finale.
Pur mantenendo di fondo un'ispirazione nazionale del poema, N. non si stacca troppo dalla tradizione letteraria greca: nel "Bellum Poenicum" si intrecciano, come visto, una storia di viaggi e una storia di guerra, quasi a simboleggiare l'Odissea e l'Iliade. Sicuro è che non vi era, però, narrazione continua: mito di fondazione e storia "contemporanea" si fronteggiavano dunque in blocchi distinti.
Anche certi aspetti, come ad es. le figure di suono, presuppongono un'originale mescolanza di cultura romana e greca nel testo.
Mentre l'"Odyssia" di Livio era ispirata dalla tradizione italica, il "Bellum Punicum" è più profondamente romano. Sono cambiate le circostanze: Roma non è più l'arbitro dell'Italia, ma una città che lotta per la sua stessa esistenza, e questo restringimento dei suoi orizzonti provoca un accesso di nazionalismo, di cui l'esaltazione storica degli eroi nazionali è una manifestazione. E’ il momento, come vedremo, in cui si forma la tragedia "praetexta".


Tito Maccio Plauto
(Sarsina, Umbria 259/251 – Roma 184 a.C. ca)

VITA.
P. si dedicò solo ad un unico genere letterario, alla composizione di commedie. Operò una sintesi della commedia greca nuova e di elementi attinti dalla farsa italica. Sappiamo poco di P. e le notizie che possediamo sono poco attendibili. Tali notizie ci sono pervenute da A. Gellio e S. Girolamo IV sec. d.C.: da loro sappiamo che egli si dedicò alla recitazione con successo, investì il capitale in commercio e fallì, si ricoprì di debiti e si guadagnò da vivere in un mulino girando la macina.
In questo periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" (il pancia piena), in cui narra della sua precedente condizione di agiatezza, e l’"Addictus" (schiavo per debiti), in cui narra della sua attuale condizione di schiavitù e una terza commedia dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio. Alieno della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo, visse interamente della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo.
Cicerone nel "De senectute", citando diversi personaggi che avevano continuato a svolgere attività culturali al termine della vita, cita anche P. e afferma che compose da senex alcune commedie fra cui lo "Pseudulus" (il bugiardo), scritta nel 191 a.C., era quindi già vecchio. Sempre Cicerone nel "Brutus" dice che morì nel 184 a.C. La sua produzione si svolse durante la II guerra punica.
I codici che contengono le commedie di P., ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito Maccio P.. Tito e Maccio sono nomi fittizi: Maccio, infatti, deriva da Maccus (maschera dell’atellana); Plautus può significare o piedi piatti oppure orecchie lunghe e penzoloni. Molto probabilmente si tratta di nomi d’arte che aveva usato durante l’attività di attore.

OPERE. Alla sua morte, entrarono in circolazione una serie di commedie a suo nome rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.C. circolavano 130 commedie. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, studiò le commedie ("De comoedis Plautinis") e ne considerò false 90, le altre originali e sicuramente vere. L’autorità di Varrone fu tale che continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. La XXI ci è giunta lacunosa.
Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine e oggi perdute: così Commorientes, Colax, Gemini lenones, Condalium, Anus, Agroecus, Faerenatrix, Acharistio, Parasitus piger, Artemo, Frivolaria, Sitellitergus, Astraba.
Sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e dello "Pseudulus" (191 a.C.); la cronologia delle altre è definibile in base ad elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale s’è affermato nettamente).
Provando comunque ad ordinarle cronologicamente, esse sono: Asinaria (212), Mercator (212-10), Rudens (211-205), Amphitruo (206), Menaechmi (206), Miles gloriosus (206-5), Cistellaria (204), Stichus (200), Persa (dopo il 196), Epidicus (195-4), Aulularia (194), Mostellaria (inc.), Curculio (200-191?), Pseudolus (191), Captivi (191-90), Bacchides (189), Truculentus (189), Poenulus (189-8), Trinummus (188), Casina (186-5); in più la Vidularia pervenuta assai mutila. Si ricordi che, tuttavia, nei codici le commedie sono disposte in ordine alfabetico.

TRAME. "Amphitruo" (Anfitrione), l’unica a soggetto mitologico: Giove si innamora di Alcmena, moglie di Anfitrione. Giove approfitta dell’assenza di Anfitrione, impegnato in guerra, per assumerne le sembianze. Si presenta da Alcmena e trascorre con lei una lunga notte d’amore. Mercurio accompagna Giove e sta di guardia assumendo le sembianze di Sosia, servo di Anfitrione. Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna Anfitrione che si fa annunciare da Sosia che, arrivato alla reggia si incontra con Mercurio sotto le sembianze di Sosia. Da questa situazione nascono una serie di inevitabili equivoci.
"Asinaria" (La commedia degli asini) Il giovane Argirippo è innamorato di Filenio, figlia dell’avara Cleareta che pretende in giornata la somma di venti mine, altrimenti darà la figlia al rivale Diabolo. Sarà lo stesso padre a venire in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di casa di procurarsi il denaro a danno della sua ricca e avara moglie. Uno dei servi fingerà di essere l’amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere le venti mine che un mercante deve a quella per l’acquisto di certi asini.
La commedia è giunta assai mutila e con un certo numero di contraddizioni interne: ad es. il contratto concluso da Argirippo ai versi 299 sgg. Appare poi nelle mani di Diabolo ai versi 752 sgg.: si è voluto appianare le difficoltà sostituendo nelle scene I, 2 e 3 il nome di Diabolus a quello di Argyrippus; altri invece, rilevando anche certe contraddizioni nel carattere di Filenio, preferisce ritenere che nell’originale greco di Demofilo (dall’Onagos "L’asinaio") P. abbia introdotto alcune scene da un secondo modello greco, in cui la protagonista era di nascita libera.
Dall’Asinaria deriva il P., commedia in tre atti di Nepomucene Lemercier (1771-1840), la cui unica originalità consiste nell’aver introdotto tra i personaggi P. stesso. Elementi dell’Asinaria sono anche nella Cassaria dell’Ariosto e nel Martello del Cecchi.
"Mercator" (Il mercante). E’ la commedia della rivalità tra Demifone e Carino - padre e figlio - per una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha condotto da Rodi dove si era recato per commercio. Demifone - che ha avuto un sogno premonitore della vicenda - fa comprare al porto la fanciulla dall’amico Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando dell’assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna, l’equivoco deve essere per forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto al figlio. Deriva dall’Emporos (che in greco significa appunto mercante) di Filemone (nato a Siracusa nel 361, morto nel 263 o 262).
"Rudens" (La gomena). Un lenone, dopo aver promesso una bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da cui ha ricevuto un lauto anticipo, decide di fuggire velocemente durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta fa naufragare la nave, che ributta sulla riva i partenti. La ragazza si rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza dal quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria figlia. Segue naturalmente il riconoscimento: la ragazza, sottratta all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato.
Derivato da una commedia di Difilo il Rudens si svolge in un’atmosfera e in un ambiente diversi da quelli di tutte le altre commedie di P.. Basti dire che la scena, anziché la solita piazzetta su cui s’affacciano le case dei principali personaggi, ci presenta una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un ambiente di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro che è al principio del secondo atto (importante perché è l’unico coro che si trovi nella Commedia latina). Quanto all’atmosfera, il comico è del tutto assente nel Rudens, in cui predomina un tono tra il patetico e il solenne, che sfiora in qualche punto la tragedia.
"Menaechmi" (I Menecmi). E’ la gioiosa commedia degli equivoci dovuti all’incredibile somiglianza di due gemelli, Menecmo I e Menecmo II, separati fin dalla fanciullezza. La vicenda si svolge ad Epidammo, dove Menecmo II è capitato nel corso di un viaggio di ricerca del fratello. Gli equivoci a ripetizione, in cui sono coinvolti prima l’amica di Menecmo I, Erozio, ed il suo cuoco, poi il parassita di Menecmo I, Penicolo, ed infine la moglie dello stesso, conferiscono all’azione un’irresistibile tensione comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge ormai ai medici, essi si trovano l’uno dinanzi all’altro davanti alla casa di Erozio e tutto si chiarisce. La lunga serie di peripezie rende questa commedia tra le più animate del teatro classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute, di botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni, senza un solo attimo di stasi. Benché non si conosca l’originale greco da cui il Menaechmi plautino sia derivato, si sa che una non piccola schiera di commediografi greci (Menandro, Antifane, Posidippo, per non citare che i più noti) s’ispirò a questo motivo dell’identità di due persone. Del resto, il motivo non è nuovo neppure in P.: si pensi solo al Mercurio-Sosia e al Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo. L’elenco delle imitazioni, dei rifacimenti, delle traduzioni del Menaechmi plautino è lunghissimo. I più importanti Sono la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, i Due gemelli veneziani di Goldoni e La commedia degli equivoci di William Shakespeare.
"Miles gloriosus" (Il soldato fanfarone). Il giovane Pleusicle ama la bella Filocomasio. Durante un’assenza del giovane, la ragazza viene rapita dal miles Pirgopolinice, un soldato smargiasso e fanfarone, a cui il parassita Artotrogo fa credere di essere irresistibile con le donne. Palestrione, servo di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato proprio al miles. Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione, si fa ospitare da Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa contigua a quella del miles. Palestrione pratica una breccia nel muro di confine tra le due case, consentendo agli amanti di incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si baciano, e costringe Palestrione a escogitare una serie di inganni per salvare i due amanti, fingendo che esista una gemella di Filocomasio. Palestrione organizza una feroce beffa ai danni di Pirgopolinice: gli fa credere che la moglie di Periplectomeno sia pazzamente innamorata di lui. Il miles licenzia in un sol colpo Filocomasio e Palestrione, dando loro la libertà. Entrato nella casa di Periplectomeno per un appuntamento galante trova un marito furibondo e i servi pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero.
Gran parte della trama proviene dalla commedia greca Alazon (Il vanaglorioso), ma è probabile che P. abbia largamente applicato la contaminatio, assumendo da un altro dramma il motivo del foro nel muro e della sorella gemella.
"Cistellaria" (La cassetta). Il giovane Alcesimarco ama Selenio, una trovatella allevata da una cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza, figlia del vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta molti anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni. Dopo varie vicissitudini, si scopre che la ragazza abbandonata è Selenio, che ora Alcesimarco può sposare con l’assenso del padre. Nonostante una lunga lacuna (più di seicento versi) l’intreccio di questa commedia è abbastanza chiaro. L’originale greco sembra di Menandro.
"Stichus" (Stico). Due sorelle da tre anni non hanno più notizie dei loro mariti, partiti oltremare per ricostituire un patrimonio in rovina. Il padre vorrebbe farle risposare, ma le donne insistono per serbare la loro fedeltà. Non manca un parassita, Gelasimo, che da tre anni patisce la fame. Giunge finalmente in porto la nave dei due uomini, carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro c’è anche il servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro affari. Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e comicamente continua a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo Stichus deriverebbe dall’Adelphoe di Menandro.
"Persa" (Il persiano). Il servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo una ragazza che ama. Poi traveste da orientale la figlia di un parassita e finge di venderla a Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo di aver comprato una ragazza libera. La commedia si conclude con una grande festa, durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza. Tossilo può giustamente trionfare.
"Epidicus" (Epidico). Il giovane Stratippocle si innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al servus Epidico l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio Perifane, padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma quando i suoi raggiri stanno per essere scoperti, una delle due ragazze viene riconosciuta figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che ripiega sull’altra cortigiana mentre Epidico viene affrancato per meriti d’ingegno.
L’intreccio è più complicato del solito. Ma l’interesse della commedia sta soprattutto nella figura d’Epidico: il più abile, il più astuto, il più diabolicamente scaltro dei servi che il teatro abbia dato.
"Aulularia" (La commedia della pentolina). Un vecchio avaro, Euclione, ha trovato in casa sua una pentola piena di monete d’oro. Per timore che gliela possano rubare, egli la nasconde nel tempio della Buona Fede e successivamente nel bosco di Silvano. Ma Strobilo, servo del giovane Liconide, avendo seguito le sue mosse, se ne impadronisce. Il vecchio è fuori di sé dalla disperazione, tanto più che Liconide confessa di aver messo incinta Fedria, sua figlia, che egli aveva promesso in sposa al vecchio Megadoro, suo vicino. Qui la commedia si interrompe, ma la conclusione è scontata: in cambio dell’oro, Euclione concede la mano della figlia a Liconide, che a sua volta darà la libertà al servo Strobilo.
L’originale greco è ignoto, ma è probabile che fosse una commedia di Menandro in cui l’avaro aveva nome Smicrine. L’Aulularia ispirò l’Avaro di Moliere e quello di Goldoni.
"Mostellaria" (La commedia del fantasma). Mentre il padre Teopropide, un ricco mercante di Atene, è assente da lungo tempo per affari, il giovane Filolachete si dà alla pazza gioia assieme all’amico Callidamate, assistito dall’ingegnoso e sfrontato servus Tranione, che ha anche dovuto procurarsi un prestito rilevante per riscattare la bella Filemazio, una cortigiana amata dal padroncino. Torna inaspettatamente il padre, mentre è in corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per impedire a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata da un fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito, e Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il denaro è servito a comprare un’altra abitazione. Teopropide chiede di vederla, e il servo escogita nuovi geniali trucchi per mostrargliela, ingannando anche il vero proprietario. Infine la verità viene a galla, e solo l’intervento di Callidamate che promette di soddisfare personalmente a ogni debito, salva Tranione dall’irosa furia di Teopropide.
Si pensa che la Mostellaria derivi dal Phasma di Filemone o di un autore minore, Teogneto.
"Curculio" (Gorgoglione o Pidocchio). Il giovane Fedromo è innamorato della cortigiana Planesio e cerca di riscattarla dal lenone Cappadoce con l’aiuto di Pidocchio. Il parassita, che veste anche la parte del servus currens, scopre che un miles ha già comprato la ragazza, e ha depositato presso un banchiere la somma pattuita: tale somma verrà pagata a chi presenterà una lettera sigillata con l’anello del soldato. Pidocchio, travestito da soldato, si impadronisce ai dadi dell’anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la ragazza. Nel frattempo sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia recitante timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a Pidocchio. Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello del miles quello che era solito portare il padre, dal quale era stata un giorno rapita: il soldato viene riconosciuto come suo fratello, e Fedromo può felicemente sposare la donna.
La commedia prende il titolo dal parassita protagonista Gorgoglione, il cui nome è tutto un programma d’insaziabile voracità: il curculio è il verme roditore del frumento. Il Curculio contiene la famosa " serenata dei chiavistelli " (atto primo, scena terza), che il giovane Fedromo rivolge alla porta dell’amata, perché dischiuda i suoi battenti.
"Pseudolus" (Pseudolo). Il giovane Calidoro ama la cortigiana Fenicio, che il lenone Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Calidoro si affida all’ingegno furfantesco e creativo del servus Pseudolo, che si mette all’opera, sgominando progressivamente ogni ostacolo e vincendo addirittura un’impossibile scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine a Simia per una scommessa perduta.
La commedia è ben costruita e rivela la grande arte di P. e l’abilità dell’autore (ignoto) del copione greco. Pseudolus è una delle commedie predilette dall’autore, come scrisse Cicerone nel De senectute: "Quanto si compiaceva della sua Guerra Punica Nevio! quanto del Truculento P., e quanto dello Pseudolo!".
"Captivi" (I prigionieri). Durante una guerra fra Elei ed Etoli, il ricco Egione ha perso il figlio, fatto prigioniero dagli Elei. Per riscattarlo, acquista dei prigionieri Elei, con lo scopo di operare uno scambio. Fra di essi, c’è il nobile Filocratre con il servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare le parti. Credendo di inviare in Elide il servo, Egione manda invece il padrone. Scoperto l’inganno, getta in catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con il figlio di Egione ormai libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è figlio di Egione, rapito in tenera età venduto come schiavo in Elide. Captivi è una commedia anomala rispetto alle altre, priva di vicende amorose e fondata sul tema dell’amicizia e della lealtà: non compare alcuna donna, particolare che in P. si ritrova solo nel Trinummus. Captivi fu imitato da Ariosto nei Suppositi, da Calderon nel Principe Costante e da Jean de Rotrou ne Les Captifs.
"Bacchides" (Le Bacchidi). Due sorelle gemelle, entrambe di nome Bacchide ed entrambe cortigiane, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco, di passaggio a Samo, s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. Mnesiloco dà incarico di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo averla trovata si fa sedurre dalla seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di essere stato tradito dall’amico, dà intanto al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro necessario per riscattare l’amata: il servo per ben due volte riesce a spillar denaro al padre di Mnesiloco. Gli equivoci si diradano e le situazioni sembrano risolversi felicemente: i giovani Mnesiloco e Pistoclero si ritrovano a banchettare allegramente con le due Bacchidi. Giungono però furenti i due padri, decisi a trascinarsi a casa i figli gozzoviglianti, ma anch’essi vengono "tosati" dalle due spumeggianti ragazze e si abbandonano assieme ai figli ad un allegro festino.
Deriva dalle Evantides di Filemone o da Il doppio inganno di Menandro.
"Truculentus" (Truculento). La commedia, largamente lacunosa, prende titolo dal nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore che è vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato Stratofane, della sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio. L’intreccio si lascia intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di Diniarco e di una libera cittadina ateniese.
"Poenulus" (Il cartaginese). Rapiti in tenera età nella loro patria, Cartagine, vivono a Calidone di Etolia un giovinetto, Agorastocle, e le sue due cugine, Adelfasio e Anterastile: ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello sfruttatore Lico. Una ben architettata trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e recitata dal villico Collibisco offre il modo di citare lo sfruttatore in tribunale. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone: egli si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in casa di Lico dove può riconoscere e riabbracciare le figliuole. Modello della commedia è stato il Carchedonios di Menandro. Una prima redazione del Poenulus aveva titolo Patruos (Lo zio).
"Trinummus" (Le tre dracme). Mentre il vecchio Carmide è in viaggio d’affari, il giovane figlio Lesbonico continua a dissipare il suo patrimonio, e finisce per vendere perfino la casa ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un leale amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno dell’amico un tesoro sepolto nella casa. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la sorella di Callicle, e chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo un giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare in dote alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Per evitare che tutto il patrimonio vada perduto, Callicle inventa allora uno stratagemma: assolda un messo a cui, per tre dracme dà l’incarico di giungere in città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà Callicle ha prelevato dal tesoro. Carmide è inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati dal commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude con due matrimoni: di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico con quella di Callicle. L’originale di Filemone prendeva titolo dal "tesoro" nascosto in casa.
"Càsina". Di Casina, una trovatella, si sono invaghiti il vecchio Lisidamo e il figlio di lui, Eutinico. Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio, che conosce le intenzioni del marito, prende le parti del figliolo assente. Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere alla sorte. Questa favorisce il fattore. Si preparano le nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero, travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della stanza in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo.
Casina è certo tra le più libere commedie di P., ma, bisogna riconoscerlo, tra le più ricche di comicità, e quindi tra le più riuscite. Deriva da una commedia di Difilo, Clerumenoe, cioè I sorteggianti.
"Vidularia" (La commedia del baule). I circa 120 versi superstiti di questa commedia lasciano intravedere un intreccio simile al Rudens: il giovane Nicodemo viene riconosciuto dal padre per mezzo degli oggetti conservati in un baule scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore

PERSONAGGI.

I personaggi di P. non sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse e per questo già note al pubblico nel momento stesso in cui si presentano in scena. Anche i nomi propri che P. attribuisce ai personaggi non servono a conferir loro un’individualità e un carattere, ma a ribadire la fissità del loro ruolo scenico.
*L’ "adulescens": Il giovane innamorato (adulescens) è uno dei protagonisti della palliata, sempre languido e sospiroso, perduto in un amore che lo travolge e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri alti della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici ("Son sbattuto, son straziato, / tormentato, punzecchiato, / sulla ruota dell’amore rigirato ed annientato." - da Cistellaria 206-208). P. non prende mai sul serio la sua storia né i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo a subire i lazzi spiritosi del servus (FEDROMO: Palinuro, Palinuro! / PALINURO: Spiegati, che hai da chiamare Palinuro? / FE: Che fascino! / PA: Fin troppo. / FE: Mi sento un dio. / PA: Ma no che sei un uomo, e di poco valore. / FE: Hai mai visto o vedrai mai un essere più simile agli dei? / PA: Vedo che sei poco sano, e me ne duole" - da Curculio 166-173). L’eccesso di patetismi, di infelicità e di iperbolici disastri annunciati nei suoi monologhi va sempre letto su un registro di parodia scanzonata e burlesca.
*Il "senex": Il vecchio (senex) viene caratterizzato in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato che cerca inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescens (come nella Mostellaria); ma talvolta anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli nella battaglia, senza esclusione di colpi, per la conquista della donna desiderata (come nell’Asinaria o nella Casina). Nelle vesti dell’amico o del vicino, ha a disposizione un ricco ventaglio di funzioni drammatiche: può ad esempio essere alleato dei giovani (come nel Miles gloriosus) oppure fornire un burlesco doppio del senex innamorato (come nel Mercator).
*La "meretrix": Minore importanza rivestono i ruoli femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella Casina) o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è quello della cortigiana (meretrix), una figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata, e che era invece consueta nel mondo greco. Le etère ateniesi erano donne libere e spregiudicate che vivevano una vita lussuosa al di fuori del mondo familiare (cosa inammissibile a Roma). Molte di loro erano colte e spiritose, sapevano danzare e cantare e intrattenevano rapporti con i maggiori filosofi e poeti dell’epoca. Nella palliata plautina possono essere sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è quello di essere riscattate dall’amante. Naturalmente l’espediente dell’agnizione può consentireloro il felice passaggio dalla consizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro sono abilissime e sfrontate (come nel Truculentus), altre dolci e sensibili (ed è il caso più frequente).
*La "matrona": Accanto alla figura dell’etera, risalta per contrasto quella della matrona, madre dell’adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se "dotata" (cioè provvista di dote). Accade che spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’Asinaria). Non manca qualche eccezione: la nobile figura di Alcmena nell’Amphitruo; le due spose fedeli nello Stichus.
*Il "parasitus": Presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della palliata, caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale nella sua mai placata ingordigia , il parassita non lesina lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa scena d’esordio del Miles gloriosus.
*Il "miles gloriosus": Come la cortigiana, anche il miles , il soldato mercenario che si mette al servizio di chi lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all’epoca di P. il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del gloriosus, cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per un grande seduttore: è insomma un conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti della commedia. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si sentissero orgogliosi del proprio valore militare: di mercenari era in gran parte composto anche l’esercito di Pirro, battuto durante la guerra tarentina.
*Il "leno": Anche il lenone, il commerciante di schiave, era una figura sconosciuta presso i Romani. P. ne fa la figura più odiosa, anche perché di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei desideri del giovane innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro plautino non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin dall’inizio: l’odiosità, come l’avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e servus ingaggiano contro il lenone dello Pseudolus.
*Il "servus": La figura più grandiosa, il vero motore delle fabulae plautine è il servus, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità dei formidabili lenoni plautini. Senza di lui non ci sarebbe storia; la storia, anzi, è quasi sempre il risultato delle sue invenzioni e delle sue creazioni: P. lo definisce in vari luoghi come un "architetto" (Palestrione, nel Miles Gloriosus), un "poeta" (Pseudolo, nel Pseudolus), un "generale" (Pseudolo, nel Pseudolus e Palestrione, nel Miles Gloriosus), finendo palesemente per identificarsi nella sua figura.
La sua ingegnosità è accompagnata da una lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone. La sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni, la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse, naturalmente sempre vinte. Su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e delle catene, gli strumenti di punizione dello schiavo, a cui tuttavia il servo plautino risponde con la forza superiore dei suoi geniali raggiri. Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso.
P. ce ne dà anche un ritratto fisico, che corrisponde convenzionalmente alla sua maschera: "rosso di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi" (Pseudolus 1218-1220). La deformità mostruosa del fisico sembra una sfida al destino, e un segno della vitalità trionfante del teatro plautino, che rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i servi trionfano sui padroni e i figli sui padri, sovvertendo ogni codice sociale e facendosi beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più intelligente, e risulta perciò anche il più simpatico, quello per il quale il pubblico "tifa" fin dall’inizio della rappresentazione.
*Personaggi minori: Non mancano, accanto ai ruoli principali, altre figura occasionali: la lena ("ruffiana"), una sorta di doppio femminile del leno, per lo più rappresentata come vecchia e beona; l’ancilla ("ancella"), servetta al seguito della meretrix (più spesso) o della matrona, quasi sempre complice negli affari delle sue padrone; il cocus, il più delle volte ingaggiato per luculliani banchetti; il puer, lo schiavetto generalmente a ruoli di contorno; il fenerator ("usuraio"), sempre pronto ad entrare in scena nei momenti più inopportuni per riscuotere del denaro, naturalmente prestato per riscattare una cortigiana; la fidicina ("citarista"); il medicus.

CONSIDERAZIONI.
*Gli intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, sono molto complicati, ma abbastanza ripetitivi e caratterizzati da elementi convenzionali. 16 su 20 presentano la stessa situazione di base, con protagonista un giovane innamorato, l’adulescens, si tratta di amore ostacolato. Se l’adulescens è innamorato di una giovane cortigiana, l’ostacolo è la mancanza di denaro per ottenerne i favori. L’etera riceve a casa sua i suoi amanti facendoli pagare, oppure è alle dipendenze di un lenone, un trafficante di schiave e sfruttatore di prostitute che, comprava, vendeva o affidava le donne per determinati periodi.
L’adulescens dipende economicamente dal padre e deve carpirgli il denaro necessario per pagare l’etera. Può essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza dote, in questo caso gli ostacoli sono gli impedimenti sociali che ne derivano. L’adulescens lotta per far trionfare l’amore contro qualche antagonista, il padre, il lenone o il miles gloriosus, il mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta l’adulescens viene aiutato da un amico, da un vecchio comprensivo o da un parassita, ma, soprattutto dal servus callidus (scaltro). Spesso la commedia si risolve in una serie di inganni organizzati dal servus callidus per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario all’adulescens. Ogni commedia si risolve con un lieto fine, i giovani vengono perdonati dai padri che si riconciliano anche con i servi. I danni e le beffe spettano ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles gloriosus e il lenone. Spesso il lieto fine coincide con il matrimonio che è reso possibile dal topos del riconoscimento, si scopre n fine che la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati.
Come si vede, in generale lo scioglimento tipico consiste in un "rimettere le cose a posto" (ed è chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all’ordine un particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in scena – al di là degli estrinseci dettagli esotici, che garantiscano un certo "straniamento" – è perfettamente compatibile con l’esperienza problematica e quotidiana della Roma del tempo). Tuttavia, ed è importante, sia chiaro che nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende tipiche.
*Frequenti, poi, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., è frequente l’utilizzazione di similitudini e di metafore di tipo militare: il servo presenta spesso la sua lotta contro l’antagonista (padrone avaro, leone, soldato) come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso, che sconfigge brillantemente il nemico e celebra il trionfo su di lui. L’abbondanza di riferimenti a situazioni militari non stupisce in testi scritti in un periodo storico in cui Roma passava vittoriosamente da una guerra all’altra. Tuttavia, se sono numerosi i riferimenti alla vita militare, non c’è traccia dei grandi avvenimenti dell’epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria , l’Etolia. C’è chi ha voluto vedere qualche allusione storica in alcuni passi delle sue opere; ma si tratta , comunque, di accenni vaghi e velati, tanto che si può dire che egli si mantenne lontano da i grandi affari di stato, e cercò altrove motivi ed ispirazione per le sue commedie.
*Una delle differenze fondamentali con la commedia di Menandro (ma modelli altrettanto validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto concerne le trame, è che, mentre Menandro cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci, P. sacrifica le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento di trarre effetti comici dalla singola scena, per cui non è sempre possibile trovare credibilità e coerenza.
Altra differenza è che mentre il teatro di Menandro è un teatro antropocentrico e i suoi personaggi sono autentici e scavano all’interno della loro interiorità per scoprire le pieghe più nascoste del loro animo, rompe la fissità del tipo, mette in evidenza l’individuo oltre lo stereotipo.
In P. non troviamo queste introspezioni, il suo teatro non è di anime, P. accentua i tratti caricaturali dei personaggi tipici e ne fa maschere grottesche. A P. non interessa la complessità del rapporto fra marito e moglie, fra padre e figlio, fra servo e padrone, il conflitto generazionale è semplificato e ridotto alla speranza che il padre muoia quanto prima per consentire al figlio di raggiungere l’indipendenza economica, oppure il rapporto conflittuale tra padre e figlio di risolve in un antagonismo amoroso, in questa competizione perde sempre il padre che viene beffeggiato come senex libidinosus.
Le mogli in P. si presentano con caratteristiche fisse, come "uxores morosae" (donne intrattenibili) e soprattutto, se hanno una grossa dote, sono sempre autoritarie e temute dai mariti.
I parassiti sono sempre affamati e voraci. Anche i giovani sono poco credibili, mentre Menandro partecipa emotivamente ai sentimenti dei protagonisti delle sue commedie, in P. sono sempre languidi e sospirosi, fino al ridicolo. Si esprimono inoltre sempre secondo i modelli stilistici della poesia erotica venendo quindi parodiati dal poeta.
Insomma, questa è un’altra fondamentale caratteristica del teatro platino: appunto la limitatezza, prevedibilità e ripetitività dei "tipi", inquadrati fin dai prologhi.
*In P., poi, non c’è l’amore come sentimento autentico, ne troviamo la caricatura. Vere e proprie maschere grottesche sono personaggi iperbolici del miles gloriosus. Emblema della figura del miles è Pirgopolinice (distruttore di fortezze e di città), protagonista dell’omonima commedia, un nome questo fortemente allusivo alle caratteristiche del personaggio.
Altro personaggio fortemente rappresentativo è il Baglione che nello "Pseudolus" incarna il lenone. Però il personaggio che risulta essere più congeniale alla vis comica plautina, è quello del servus callidus che, spesso, diventa, in molte commedie, il vero protagonista; non è solo intelligente, ma anche sfrontato, sicuro di se fino all’insolenza e alla sfrontatezza, pronto a prendersi gioco di tutto e di tutti. Quando il servus callidus è riuscito nel suo intento, si abbandona ad autoglorificazioni e si paragona al generale vittorioso che, dopo aver portato a termine l’impresa militare, celebra il suo trionfo. P. utilizza spesso metafore tratte dal linguaggio militaresco, cosa spiegabile con il periodo storico in cui vive. Alleata del servo è, però, la fortuna (Tyche), che ne contempera – e di molto – il merito del successo, e che ha grande valore stabilizzante.
Si parla, infatti, di rovesciamento burlesco della realtà, alla fine della commedia sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti. Con questo P. non vuole mettere in discussione i rapporti vigenti all’interno della società, vuole solo far divertire.
*Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine per cui non possiamo valutare l’indipendenza, l’originalità di P. rispetto ai modelli greci.
Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo alla sua attività, parla di "vertere barbarae" (tradurre dal greco al latino), infatti, P. fa suo il punto di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara. Le commedie plautine non sono semplici traduzioni dal greco, ma libere interpretazioni di modelli greci. P., infatti, ricorre alla cosiddetta "contaminatio", inserisce in una commedia derivata da un originale greco, una o più scene, uno o più personaggi attinti da un’altra commedia sempre greca. Mescola l’originale con altre commedie.
*Altra prova dell’originalità di P., è il fatto che lui dà molto spazio alla musica e al canto (circa i due terzi del numero complessivo dei versi prevedevano il suono del flauto), mentre nelle commedie di Menandro sono molto scarse le parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P. troviamo i "cantica", metri lirici cantati. Altre parti in versi o metri lunghi recitati e accompagnati dal flauto. Nella metrica, insomma, P. è un maestro: egli foggia, seguendo le necessità della lingua latina, i già noti senari giambici e versi quadrati in varietà di forme, peraltro sottomesse a sottili regole. La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme del deverbium (parti recitate senza accompagnamento) e, come detto, canticum (recitativo accompagnato), alternate con estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Particolarmente rilevante, così, è la presenza delle parti liriche e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci: esse occupano complessivamente circa 3000 versi, cioè un settimo del totale, e avevano la funzione di dar rilievo, con il contributo determinante del ritmo e della musica, ai momenti di più forte concitazione e di più intensa emotività. E’ probabile che il potenziamento dell’elemento lirico-musicale sia stato stimolato dalla consuetudine e dalla predilezione del pubblico romano per i tipi di spettacolo in cui la musica, il canto e la danza avevano un ruolo fondamentale.
*Inoltre, P. si inserisce in commedie ambientate in Grecia che hanno come personaggi dei greci, ma con riferimenti a luoghi, usi e costumi romani. Molta della comicità plautina è basata su giochi di parole, comicità assente nel modello greco. P. sottolinea continuamente nelle sue commedie l’aspetto fittizio e ludico dell’evento teatrale, vuole sottolineare che ciò che avviene sulla scena è solo finzione, solo gioco. Vuole così impedire che il pubblico si immedesimi negli eventi scenici, che si crei il transfert (immedesimazione). Vuole impedire che si verifichi quell’illusione scenica per cui attua procedimenti che tendono a rompere l’illusione scenica. Uno di questi è quello in cui i personaggi comici si rivolgono direttamente agli spettatori. Fra i procedimenti adottati per rompere l’illusione scenica, uno dei più praticati era il "metateatro", il teatro che parla di se e si rappresenta. Nella "Casina" (la fanciulla del caso), è portato sulla scena l’antagonismo fra padre e figlio per la stessa fanciulla. Il senex la fa sposare con un suo dipendente per poterne usufruire, la moglie scopre la trama e si vendica. Fa travestire uno scudiero da fanciulla e durante la notte lo fa incontrare con il senex, che prende botte. Alla fine la moglie perdona il marito e dice: "Ti perdono per non prolungare questa commedia poiché è già lunga di per se".
*Altro esempio di metateatro lo troviamo nel "Mercator" altra commedia che pone sulla scena lo stesso antagonismo. Un personaggio ne invita un altro a riferirgli ciò che sa e si esprime così: "Perché aspetti? Forse non vuoi svegliare gli spettatori che dormono?". Nello "Pseudolus", un personaggio chiede a Baglione quali critiche gli siano state rivolte da un altro personaggio e dice: "Mi sono stati fatti i soliti rimproveri da commedia?".
*Un altro aspetto del teatro plautino, è l’atteggiamento nei confronti dei greci; è significativo a riguardo un passo del "Curculio" (nome del protagonista traducibile con Gorgoglione o pidocchio, parassita). L’aspetto più significativo è che questo personaggio, greco, parla male dei greci. Durante la commedia, infatti, sta attraversando una via e gli danno fastidio questi greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino. È chiaro che P. sfrutta a fini comici quel sentimento di ostilità nei confronti dei greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. P. conia addirittura un verbo, "pergraecari", che significa gozzovigliare alla greca, vivere in modo dissoluto come fanno i greci. P. attribuisce ai greci un modus vivendi dissoluto e corrotto, ma, la cosa più assurda è che in commedie ambientate in Grecia, con personaggi greci, siano i greci stessi ad autodefinirsi spregevoli. Alcuni studiosi hanno inserito per questo motivo il teatro plautino nell’entourage catoniano. Questa affermazione pare però poco attendibile, P., infatti, vuole solo risum movere, non schierarsi politicamente, rinuncia a trasmettere qualsiasi tipo di messaggio. La comicità plautina può essere di tre generi:
1.di situazione: basata sugli equivoci e scambi di persone;
2.di carattere: basata sull’accentuazione iperbolica dei difetti dei protagonisti;
3.bassa: basata su battute volgari e sull’esasperazione di sentimenti naturali. Tipico esempio della comicità di situazione è l’"Anfitruo". Alcune battute si avvalgono di una lingua popolare, ma permeata di erudizione e di cultura: questo perché P. la riempie di espressioni greche o grecizzanti, quando addirittura non rinuncia, come in "Poenulus", a servirsi di idiomi perlomeno inusitati, come il punico. A ciò si aggiungano parole mezzo latine e mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie del pubblico (es. pultifagus = mangiapolenta), grecismi con terminazione latina (atticissare = parlare greco), parole formate da più radici (turpilucricupidus = desideroso di turpi guadagni) oltre a neologismi veri e propri (dentifrangibula, riferito ai pugniche rompono i denti; emissicius, che si manda alla scoperta di qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e ridicoli (ipsissimus, stessissimo; occisissimus, uccisissimo). Il sermo dei personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici giochi di parole, identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando gli occhi!" Asin.619), espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su un piano più propriamente stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni sorta di figura retorica.
*Fondamentale, infine, la maestria ritmica, i "numeri innumeri", gli "infiniti metri", la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva una conseguenza importante: lo stile è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, in una forte coerenza. Insomma, si deduce che P. non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti, completa trasformazione del sistema onomastico.
Così, "Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino avrebbero parlato con la lingua di P.") così Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico di Elio Stilone, il primo grande filologo latino del secolo II a.C. . Per non dimenticare, poi, l’epitaffio del poeta citato da Gellio (che lo aveva letto negli scritti di Varrone) dove si dice che, alla morte di P.: "numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli").
Allora, la comicità originale nasce proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di "occasioni" in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo comico" (Barchiesi), in una sfuriata di digressioni esilaranti, battute salaci e/o beffarde, dialoghi scoppiettanti.


Cecilio Stazio
(230/220 – 168 a.C.)

VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
L'opera di S. attenuava, agli occhi degli antichi, il contrasto tra Plauto e Terenzio, così netto e istruttivo ai nostri occhi, poiché ci rivela l'evoluzione della mentalità pubblica tra gli anni della II guerra punica e quelli delle conquiste orientali.,
Gallo di Milano, schiavo, era stato allevato a Roma, poi affrancato. Divenne amico di Ennio, e fu legato all’attore Ambivio Turione.
Di gusti più letterari di Plauto, imitava di preferenza le opere di Menandro, il più conforme ai canoni classici fra i poeti della "commedia nuova". Sotto questo riguardo, anticipava Terenzio, pur conservando alle proprie commedie un "movimento" paragonabile a quello di Plauto (grande ricchezza di metri, vis comica, gusto per il farsesco). Giudicato in seguito scrittore piuttosto mediocre, si pensava che avesse introdotto della profondità (gravitas) nelle sue commedie. Come Terenzio, S. "fa riflettere". Delle sue opere non conosciamo che alcuni titoli, 40 per l’esattezza (in parte greci, in parte latini), tutti di palliate: Meretrix ("La cortigiana"), Portitor ("Il doganiere"), Pugil ("Il pugile"), Epistula ("La lettera"), Exul ("L'esule"), Fallacia, ("L'inganno"), eccetera.


LE ORIGINI DELLA STORIOGRAFIA ROMANA.

In modo abbastanza paradossale, sembra che l'influenza dell'ellenismo abbia avuto sulla formazione della prosa latina un ruolo più importante che nella formazione della poesia. Questa prosa fece la sua prima apparizione in coincidenza con la II guerra punica, allorché si avvertì il bisogno di opporre agli storiografi greci che si trovavano nel campo di Annibale, una storiografia d'impronta nazionale.
E’ significativo, a questo proposito, che il primo storico romano, Q. Fabio Pittore (vissuto all'incirca fra il 260 e il 190 a.C.), abbia composto la sua opera storica ("Rerum gestarum libri": a carattere annalistico, dalla fondazione di Roma alla fine della II guerra punica) sia in greco che in latino (salvo che addirittura l'opera non si limitasse in origine all'edizione greca, e che la versione latina non sia altro, perciò, che un semplice rimaneggiamento successivo): ciò rispondeva alla necessità di raggiungere un pubblico di ambito appunto mediterraneo e significò una rottura con la tradizione della cronaca pontificale, da cui pur erano tratti strutture e materiali.
P. apparteneva alla gens Fabia. Senatore e magistrato, aveva combattuto i Galli Insubri. Ebbe l'incarico di un'ambasciata sacra a Delfi nel 216, dopo la battaglia di Canne, per riannodare i rapporti esistenti da molto tempo fra Roma e il dio (si pensava, sicuramente, che nessuno meglio di lui avrebbe potuto perorare la causa di Roma nei confronti del mondo greco, del quale Delfi era uno dei centri spirituali).
Nella sua opera, dunque, rappresenta il punto di vista aristocratico, da cui l’acceso nazionalismo e il gusto antiquario: notevole così l’interesse per le origini di Roma, per l’età regia e per gl’inizi della Repubblica (epoche alle quali si facevano risalire molte istituzioni, costumi, usanze religiose e civili).
E’ assai verosimile supporre che Pittore e il suo contemporaneo L. Cincio Alimento (di famiglia plebea, senatore e magistrato, combattente della II guerra punica) autore anch'egli di una storia annalistica di Roma dalle origini in lingua greca (storia che si distingue per obbiettività e capacità di analisi), abbiano subito l'influenza della storiografia ellenica, e in particolare quella degli storici siciliani, che a Siracusa, città con la quale a partire dalla prima guerra punica si erano stabiliti rapporti profondi e amichevoli, erano stati numerosi e brillanti.
Timeo di Tauromenio, fra gli altri, può essere considerato uno dei "padrini" della giovane storiografia romana. L'opera dei primi annalisti romani è andata quasi interamente perduta. Le poche notizie di cui disponiamo provengono tutte da citazioni di autori più tardi e dall'uso che delle loro opere è stato fatto da Tito Livio. Su quali documenti operavano questi primi storiografi?
Possiamo unicamente immaginarlo, ed è questa la ragione fondamentale della grande varietà di ipotesi fatte, al riguardo, dagli studiosi moderni. Per alcuni, questi disponevano solo di leggende elaborate dall'orgoglio nazionale o, più di frequente, dall'orgoglio delle famiglie nobili. L'indigenza degli archivi di Stato (che, per giunta, sarebbero andati distrutti durante l'incendio di Roma ad opera dei galli nel 390 a.C. e sarebbero stati ricostituiti successivamente alla meno peggio), l'incertezza stessa dell'elenco dei consoli dei primi secoli, tutto ciò avrebbe contribuito a far sì che i primi storici costruissero vicende in gran parte inventate, colmando le lacune con racconti favolosi forniti dalle epopee popolari (carmina convivalia), con l'aiuto di "ricalchi" immaginati a partire da circostanze posteriori o con anticipazioni anacronistiche. Tale è stata e rimane l'opinione dei moderni "ipercritici". Ma nei casi, piuttosto rari, nei quali l'archeologia ha potuto stabilire un qualche riscontro (come sul problema delle origini di Roma, quello delle tradizioni dei re, eccetera), i fatti tramandati dalla tradizione annalistica si sono rivelati più solidi di quanto si potesse immaginare.


Quinto Ennio
(239 a.C. Rudiae vicino Lecce, Messapia)
 VITA.
Uno dei massimi esponenti del circolo scipionico fu E. che, dagli autori successivi sarà considerato pater. Egli nacque in una città non greca ma messapica: tutta la zona era comunque ellenizzata ed E. si vantava di possedere la "tria corda", tre anime, per la sua conoscenza di tre lingue: latino, greco e osco.
Combattè nella II guerra punica, e nel 204 a.C. era in Sardegna negli ausiliari romani, dove incontrò Catone il censore, che notò il suo spessore culturale e lo condusse a Roma. Catone in seguito diventerà il più feroce antagonista degli scipioni e cercherà di contrastare la dilagante ellenizzazione e di difendere i mos maiorum, i costumi.
Giunto a Roma, E. entrerà in contatto con l’Africano e gli dedicherà un’opera, "Scipio".
Nel 186 a.C., E. seguirà Marco Fulvio Nobiliore contro gli Etoli e assisterà alla conquista di Ambragia. L’intento era quello di narrare ed esaltare le sue imprese, usanza questa tipicamente greca. E. compose anche una tragedia in onore del magnate, "Ambragia".
Nel 184 a.C. il figlio di Nobiliore, Quinto Fulvio, fondò la colonia di Pesaro e concesse ad E. delle terre e la cittadinanza. Con grande orgoglio scriverà: "Nos summus Romani qui fumus ante Rudini". Nell'ultima parte della sua vita si dedicò alla fatica degli "Annales".

OPERE.
*E. compose molte sceneggiature sia drammatiche che comiche (mediocri); fu, tra l'altro, l'ultimo poeta latino a coltivare assieme commedia e tragedia. Nella produzione drammatica, puntava sulla tensione stilistica dei suoi versi e sulla ricerca del pathos. Il modello era Euripide: la rielaborazione dei modelli classici permetteva di creare effetti di scena e di rafforzare gli elementi drammatici della rappresentazione. Un altro punto su cui E. fondava la propria forza era la partecipazione emotiva degli spettatori: le sue tragedia dovevano suscitare nel pubblico processi psicologici di identificazione con i personaggi.
Delle sue opere minori, ricordiamo così: tragedie [tra queste, il ciclo troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander (era il soprannome dato a Paride fra i pastori), Hectoris lytra ("Il riscatto di Ettore"), Iphigenia, Hecuba, Andromacha aechmalotis ("Andromaca prigioniera di guerra"), Telamo e Telephus; aveva, inoltre, trattato leggende di origini diverse: Alcmeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes, rassegna nella quale si riconoscono titoli (e senza dubbio i soggetti) ripresi da Euripide]; 2 praetextae (l' "Ambracia" e le "Sabinae");
lo "Scipio", celebrazione di Scipione l’Africano vincitore a Zama; un "Hediphagetica" (il mangiar bene, poemetto gastronomico in esametri); 3 operette di carattere filosofico (l’ "Epicharmus" e il "Protrèpticus", in settenari trocaici, e l’ "Heuhemerus" – che tratta della relativa dottrina – in prosa); il "Sota"; e infine le "Saturae", 4 libri in versi polimetri, di cui 70 conservati. Scrisse anche epigrammi.
*Tuttavia, sua opera più importante, una delle pochissime opere scritte in età medio-repubblicana, è un poema epico di 18 libri e di ca 30000 versi (ce ne restano 600 ca), gli "Annales", titolo che indubbiamente si rifà agli Annales Maximi, ossia alle registrazioni degli eventi che capitavano di anno in anno. E., come Nevio, coltiva l’epica storica; la poesia che cerca di creare è cioè poesia celebrativa di gesta eroiche: si rifaceva così sia ad Omero, sia alla più recente tradizione ellenistica. Scritta dopo la vittoria che pose fine alla II guerra punica, essa tuttavia non è più opera di combattimento, ma di meditazione sulla grandezza e sulla missione storica di Roma. Apparteneva, dunque, alla generazione successiva a quella di Livio e di Nevio.
Gli Annales sono così un poema epico celebrativo di tutta la storia di Roma, che E. decise di narrare senza stacchi e in ordine cronologico, privilegiando tuttavia alcuni periodi ad altri. Particolarmente sacrificata fu in questo senso la I guerra punica, già trattata dal suo battistrada Nevio (che, quindi, a sua differenza, s’era limitato ad esaltarne un solo episodio). Anche dal punto di vista concettuale E. non fu totalmente equilibrato: si occupò maggiormente di avvenimenti bellici che di vita politica interna. Altra differenza con Nevio è l’utilizzo dell’esametro dattilico, che da E. in poi diverrà tipico della poesia epica. Infine, innovativa fu anche la raccolta della storia in libri, concepiti come unità narrative comprese in un’architettura complessiva (gli ultimi 3 libri furono da lui aggiunti al piano originale che ne prevedeva solo 15).
Per tutte queste ragioni, E. è spesso considerato dai romani come il vero "padre" della loro letteratura, il che non mancò di provocare l'ironia di Orazio, al tempo di Augusto.,
*Ci è pervenuto l’inizio del poema, in cui E. non fa l’invocazione alle Camene romane, come fece Livio Andronico, bensì alle muse greche. Seguiva all’invocazione il proemio con un sogno (nei proemi sono enunciate, in forma programmatica, le idee di poetica del nostro autore): l’anima di Omero apparsagli appunto in sogno gli illustra la dottrina pitagorica della metempsicosi (egli stesso un adepto delle dottrine pitagoriche, che restavano vitali nei dintorni di Taranto e contavano seguaci nell'aristocrazia romana), secondo cui l’anima di Omero si era incarnata prima in un pavone e successivamente in E., l’alter Omerus o Omero Romano. Nel I° libro, E. inizia il racconto dalla sconfitta di Troia con la fuga di Enea e l’arrivo nel Lazio. dalle nozze di Enea con la principessa del Lazio nasce una figlia, Ilia, madre di Romolo e Remo. Uno dei più lunghi frammenti narra il sogno profetico di Ilia. È un passo significativo con uno stile profetico e drammatico.
I libro: Romolo contro Remo per la fondazione di Roma; II: altri re di Roma; III: passaggio dalla monarchia alla repubblica e guerra contro Pirro; VII: un secondo proemio sottolinea la sua distanza dal rozzo Nevio che parlò di saturno e si definì Docti Studiosus, esperto di lingua e arte (E. contesta anche Livio Andronico per l'uso dei versi saturni nella traduzione dell'Odissea: egli infatti riteneva questi versi adatti solamente alle divinità campestri.); VIII: guerre puniche, contro la Macedonia, la Siria e gli Etoli.

CONSIDERAZIONI.
*Grazie a Cicerone ci è pervenuto un frammento gli "Annales" in cui è espressa l’ideologia dell’intera opera: "Moribus antiquis res stat Romana virisque" in cui si giustifica l’espansione romana sulla base della sua virtus. I mores erano i grandi uomini antichi a cui si deve la potenza romana. Pur parlando di guerra, E. non esalta la violenza, bensì la saggezza politica e la dedizione allo stato. Nella guerra fra Roma e Cartagine, Roma corrispondeva a pace e concordia e Cartagine a discordia e violenza, per questo destinata a soccombere.
Così, l’autore tenta di fissare negli Annales non solo racconti di gesta, ma anche valori, insegnamenti, esempi di comportamento e modelli culturali. La visione del mondo che viene comunicata è il trionfo dell'ideologia aristocratica.
*E. è più filosofo che "teologo". Insiste di più sui valori strettamente umani. Due dei suoi poemi (perduti ancor più interamente degli Annales, di cui restano invece numerosi frammenti), l'"Epicharmus" e l'"Euhemerus", lo rivelano occupato in speculazioni cosmogoniche e morali molto lontane dall'atteggiamento religioso tradizionale dei romani. Nel secondo, egli espone, con particolare congenialità, la dottrina di Evemero di Messina, secondo il quale gli dèi e le dee del pantheon tradizionale altro non sono che re e principesse del tempo antico, divinizzati per i servizi resi all'umanità. Ciò consentiva naturalmente di esaltare maggiormente i condottieri romani, le cui imprese dominavano sempre più la storia umana.
*Infine, riguardo allo stile e al linguaggio, è da dire che E. è raffigurato come il primo poeta filologo, cultore della parola, l'unico capace di stare alla pari con la raffinata cultura greca. Si può definire poeta sperimentale per l'immissione di numerosi grecismi nelle sue composizioni quali le innumerevoli pause sintattiche, l'allitterazione e altre figure di suono.


Afro Publio Terenzio
(195 o 185 ca Cartagine - 159 a.C., in viaggio)
VITA.
Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio. A questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro. T. nacque a Cartagine e giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam", per il suo ingegno e la sua bellezza. Divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio; entrò a far parte dell’entourage scipionico e fu portavoce dell’ideale di humanitas da esso elaborato. Questa sua posizione di prestigio suscitò l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T. sorsero calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di essere un prestanome dei suoi importanti protettori che sarebbero i veri autori delle commedie terenziane. Era, infatti, considerato disdicevole per un civis Romanus, impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie (l’unica attività che era concesso coltivare era l’oratoria o la storiografia).
Da questa accusa T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe" (da adelfoi fratelli). Nel prologo, l’autore afferma che ciò che gli altri ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T. risulta debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori, a cui le calunnie e le dicerie non dispiacevano affatto.
Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.

OPERE.
T. compose in tutto 6 commedie, pervenuteci interamente con le didascalie relative alla rappresentazione. La sua carriera drammaturgica non fu facile come per Plauto: non ebbe lo stesso successo perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano. Quella di T. era una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni.
Il circolo scipionico tendeva ad imporre diversi modelli di comportamento, ispirati al costume greco, e il messaggio terenziano risulta emblematicamente contenuto nella famosa frase dell’"Heautontimorumenos" (da timoreo, ossia il punitore di se stesso): "homo sum humani nihil a me alienum puto", "sono uomo e niente di ciò che è umano considero a me estraneo". T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’"Andria" (la ragazza dell’isola di Andrio).
Nel 165 a.C. fece rappresentare una seconda commedia, l’"Hecyra" (la suocera). Il pubblico dopo le prime scene abbandonò il teatro preferendo assistere ad una manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso.
Nel 163 a.C. fece rappresentare l’"Heautontimorumenos".
Nel 169 a.C. furono rappresentate 2 commedie, l’"Eunucus" e il "Phormio". L’"Eunucus" fu il più grande successo di T., perché è la commedia terenziana più simile alla comicità plautina.
Nel 160, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, l’"Adelphoe", nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’"Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i Ludi Romani dello stesso anno e, finalmente, fu rappresentato dall’inizio alla fine, il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre.
*L’"Hecyra". Il protagonista dell’"Hecyra" è il giovane Pamfilo, tormentato e patetico, in perenne conflitto fra amore e pudore. È innamorato di Bacchide, una cortigiana, ma il padre lo costringe a sposare Filumena, una ragazza perbene. Pamfilo è combattuto fra la passione per Bacchide e il rispetto della volontà paterna. Sposa Filumena senza amarla e si rifiuta di avere rapporti intimi con la moglie, scarica su di lei le sue delusioni. Filumena accetta con umiltà i torti del marito che, dopo averla conosciuta meglio e confrontata con le altre donne, impara ad apprezzare il pudore della moglie e dalla stima nasce l’amore; un sentimento più profondo dell’attrazione per Bacchide. Ad un certo punto, Pamfilo parte per un viaggio di affari; la moglie lascia la casa del marito, dove viveva con la suocera Sostrata, e torna a vivere dai genitori. Nessuno sa con precisione le cause di questo allontanamento. Un servo riferisce che Filumena ha giustificato il suo allontanamento con motivi di salute, una malattia l’avrebbe costretta a tornare a casa. Tutti gli altri personaggi ritengono che la causa dell’allontanamento siano stati i conflitti con la suocera. È soprattutto il marito di Sostrata ad accusarla di aver reso la vita impossibile a Filumena e di averla costretta ad allontanarsi da casa. Sostrata si ritiene innocente e in un monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che vogliono tute le suocere ostili alle proprie nuore. Nessuno conosce i motivi reali che l’hanno indotta a lasciare la casa, ma tutti i personaggi avanzano supposizioni infondate. Il messaggio che T. vuol trasmettere è che non bisogna giudicare dalle apparenze e lasciarsi guidare dai soliti pregiudizi. La realtà è spesso ben diversa dalle apparenze. Ritorna Pamfilo dal viaggio e viene informato dell’accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie per constatare di persone le condizioni di salute di Filumena. A casa di Filumena, Pamfilo scopre la verità, ben diversa da ciò che gli altri pensavano. Filumena ha lasciato la casa perché sta per partorire un figlio non di Pamfilo, ma che è stato concepito prima del matrimonio, frutto di una violenza notturna subita da Filumena durante una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo e patetico, Pamfilo rivela al pubblico questa verità e mette a nudo i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in lui fra amore e pudore. Sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita vuota, però sa che l’onore e la società lo costringono a separarsi dalla moglie e a non considerare come suo l’alienus puer. Pamfilo non rivela però il vero motivo per cui divorzia per non compromettere il buon nome di Filumena. I due suoceri, all’oscuro della verità, pensano che pamfilo voglia ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con lei. Vanno a parlare con Bacchide che rivela ai due che non ha più rapporti con Pamfilo dal giorno del matrimonio. Pur essendo una cortigiana, Bacchide accetta un compito che nessun’altra al suo posto avrebbe accettato: andare da Filumena per dirle che Pamfilo la ama. Bacchide è uno dei personaggi più peculiari del teatro di T., si contrappone allo stereotipo della cortigiana, agisce contro i suoi interessi perché affezionata a Pamfilo e vuole la sua felicità.
Bacchide va da Filumena e la madre nota al dito della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia e che Filumena portava la notte in cui aveva subito la violenza e che le era stato strappato dal giovane. Bacchide rivela che l’anello le era stato dato da Pamfilo, il giovane stupratore era quindi il marito. La commedia si conclude con il ristabilimento dell’unione che una serie di equivoci avevano minato.
*Altre commedie interessanti sono l’"Heautontimorumenos" e gli "Adelphoe". In queste commedie, il tema principale è il problema pedagogico del rapporto fra genitori e figli e di quale sia il migliore metodo per educare i giovani. Protagonista della prima, è un vecchio genitore, Meneremo, che con la sua severità ha costretto il figlio a lasciare la sua città e ad arruolarsi come soldato, iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi, vende tutti i suoi beni, va in campagna sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro anziano, Cremete, che ha un campo vicino al suo, nota il comportamento di Menedemo e lo invita ad aprirsi con lui, a confidarsi. È Cremete a pronunciare il famoso verso"homo sum humani nihil a me alienum puto".
Negli "Adelphoe" sono protagonisti 2 fratelli, Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica, rigido e austero che ha due figli, uno dei due lo educa personalmente secondo i sistemi tradizionali, l’altro, invece, lo affida al fratello Micione, che, non sposato, vive in città e ha idee moderne. È padre per libera scelta e decide di educare il figlio adottivo con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori. Non bisogna costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta personale, sua spunte e non per metus (Timore).

CONSIDERAZIONI.
Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei: solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono commedie di Apollodoro di Caristo, un altro commediografo greco che non conosciamo.
Cesare definì T. "Dimidiatus Menander", ossia un Menandro dimezzato; giudizio questo che svalutava T. rispetto al greco. Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T., come Plauto, ricorreva alla contaminazione, ovvero non traduceva alla lettera i testi greci. Rispetto a Plauto, T. mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani. T. elimina quasi completamente i cantica, facendo invece uso abbondante dei versi lunghi. Altra notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: non troviamo in T. l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie dello stile tragico; evita vigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T. è insomma uno stile sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità.
Anche in T., al centro della vicenda comica troviamo amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli della commedia nea, giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; troviamo anche qui i soliti stereotipi della nea equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli " Adelphoe ". Sempre 5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’"Hecyra " troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati.
T. tende a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli adulescens sono quindi 2 e sono 2 i senex. Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena. Altra differenza importante con Plauto e Menandro, è l’abolizione del prologo informativo. T. trasforma il prologo informativo in un prologo a carattere letterario; nel prologo parla di sè, del suo modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. Plauto e Menandro si servono del prologo per informare il pubblico dell’antefatto e anticipano spesso la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la vicenda, il cui intreccio era spesso complesso. Ciò rendeva il pubblico superiore ai personaggi della commedia. T. elimina il prologo informativo, perché punta su effetti di suspense, vuole che lo spettatore si immedesimi nel personaggio, vuole che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T. vuole mascherare l’aspetto fittizio dell’evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica. Elimina tutti i procedimenti metateatrali a cui spesso ricorreva Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre Plauto non perseguiva nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T., con le sue commedie, vuole trasmettere un messaggio morale.
T., inoltre, attenua i tratti caricaturali dei personaggi della nea e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro non è più il servus callidus, ma padri e figli. Non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. I padri terenziani sono differenti da quelli plautini, sono disponibili al dialogo con i figli e si preoccupano della loro felicità più che del loro patrimonio e del veder affermata la loro autorità. Nel teatro di T. non esistono personaggi del tutto negativi. Anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi. Il messaggio che vuole trasmettere è quello di aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui, essere tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini.


Marco Pacuvio
(Brindisi 220 – Taranto 130 a.C.)

VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
Introdotto, grazie all'influenza dello zio Ennio, negli ambienti filoellenici di Roma, in particolare nel "circolo degli Scipioni", P. sembra che abbia imitato più Sofocle che Euripide, forse sotto l'influsso dei suoi amici romani, il cui gusto si volgeva verso il classicismo attico. Ecco i titoli delle sue tragedie che ci sono stati tramandati: "Antiopa", "Armorum iudicium" (la contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille), "Atalanta", "Chryses", "Dulorestes" ("L'Oreste schiavo"), "Hermiona", "Iliona", "Medus" (storia del figlio di Medea, avuto da Egeo, re di Atene), "Niptra" ("Il bagno" in cui, si narrava, Telègono, figlio di Ulisse, aveva involontariamente ucciso il padre). Sua è anche una praetexta ("Paulus"), allestita forse in occasione del trionfo di Paolo Emilio su Perseo (160 a.C.).
Nella serie dei giudizi tradizionali dati al tempo di Orazio sugli antichi tragici romani, P. passava per un "vecchio sapiente": forse per il fatto che si era sforzato di rinnovare le ispirazioni del suo teatro, ricorrendo a modelli meno ritriti. In ogni caso, le sue opere teatrali vennero riprese ancora molto tempo dopo la sua morte, e persino il pubblico popolare ne conosceva a memoria lunghi brani. I frammenti abbastanza lunghi che ce ne fa conoscere Cicerone lasciano intravedere, in P., un grande vigore di stile, un senso del patetico moderato dalla preoccupazione per la dignità che conviene agli eroi, un senso tutto romano della virus, una conseguente spiccata sentenziosità, una certa predilezione per il macabro (che ne fanno una sorta di precursore di Seneca).
Di conseguenza, la lingua è contraddistinta da parole strane, forme insolite, conii artificiosi.
Fu anche autore di "Saturae", in vario metro, purtroppo perdute.


Lucio Accio
(Pesaro, 170 – 85 ca a.C.)
 
VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
Si tratta di un poeta "moderno" e "dotto". In viaggio a Pergamo, nel momento in cui il regno di Attalo III diventava provincia romana (133 a.C.), era stato iniziato ai metodi della filologia pergamena. I suoi interessi si erano rivolti alla storia del teatro a Roma e anche in Grecia. Oltre ad alcuni scritti "minori" – "Didascalica" (prosimetro, su questioni di storia letteraria); "Pragmatica" (di tecnica teatrale); "Annales" (almeno 27 libri su storie e miti connessi alle festività), "Sotadica" (poesie erotiche) - la cui varietà dimostra la vivace curiosità del suo intelletto e l'estensione della sua cultura, A. ha lasciato numerose tragedie, delle quali ci sono noti circa 45 titoli. Dei testi di queste opere, però, possediamo solo alcuni frammenti (700 versi circa), che non possono darci che un'idea molto generale della sua arte.
Le tragedie di A. trattano in genere di leggende greche già più volte portate sulla scena. I suoi soggetti preferiti sembrano essere quelli che comportano episodi violenti o atroci. La sua fama cominciò verso il 130, con la messa in scena di un Tereus (storia del bambino che la madre fa divorare dal marito infedele).
Com'era facile prevedere, A. trattò in seguito l'intero ciclo dei Pelopidi, con una tragedia dallo stesso titolo, a cui si aggiungevano un Atreus, un Chrysippus, una Clytaemestra, un Aegisthus e una tragedia dal titolo Agamemnonidae, che sviluppavano tutta intera la serie delle atroci violenze che avevano caratterizzato ogni generazione di quella dinastia. Al ciclo troiano appartenevano l'Achilles, l'Epinausimache (la ripresa dei combattimenti nei pressi delle navi, un celebre episodio dell'Iliade), l'Armorum iudicium (la controversia fra Ulisse e Aiace sull'attribuzione delle armi di Achille), la Nyctegresia (la spedizione notturna di Diomede e Ulisse nel campo troiano), Troades, Astyanax, Deiphobus, eccetera.
Alcune di queste opere si ricollegano direttamente all'Iliade, altre alla Piccola Iliade e ad altri poemi ciclici. I soggetti tebani erano rappresentati da Phoenissae, Thebais, Antigona ed Epigoni. I miti dionisiaci erano largamente ricordati con Athamas, Bacchae, Tropaeum Liberi e probabilmente Erigona. Altri soggetti celebri (Medea, Alcestis, Alcmeo, Andromeda, Meleager, Prometheus, eccetera.) completavano infine il repertorio tradizionale al quale A. si ispirava.
E’ stata avanzata l'ipotesi che il poeta non avesse scelto i suoi soggetti senza una qualche finalità recondita e che, in una certa misura, tenesse conto dei problemi di attualità, ad esempio della questione sociale nel periodo dei Gracchi. La cosa è difficilmente dimostrabile nei particolari. In se stessa, tuttavia, l'idea è ben lungi dall'essere inverosimile. Di sicuro c'è che i romani (e in particolare Cicerone, grande ammiratore di A.) trovavano sempre, nelle sue opere, materiali per inattese applicazioni. Il che era agevolato dall'abbondanza delle massime morali e degli sviluppi di idee comuni, come la tirannide, l'esilio, eccetera.
La ricchezza oratoria di A., come traspare anche dai frammenti rimasti, prelude già allo stile delle tragedie di Seneca: il linguaggio ha un tono magniloquente e ridondante, ricco di giochi allitterativi e di composti eruditi.
La celebrità di A. si deve anche alle due tragedie praetextae da lui composte: il "Decius" o Aeneadae e il "Brutus". La prima ricordava le "devozioni" dei Decii, il sacrificio delle loro vite che quei tre eroi avevano compiuto, uno dopo l'altro, per assicurare la vittoria alle armate romane (295 a.C.). Di queste due tragedie, noi conosciamo però molto meglio la seconda, che portava in scena la caduta della monarchia e l'avvento della repubblica. Si assisteva all'attentato contro Lucrezia e alla punizione dei tiranni. Un sogno e la sua interpretazione da parte di un indovino davano luogo a una scena celebre che Cicerone cita testualmente nel De divinatione. Essa rivela un senso della gravitas religiosa e della presenza del divino che sembra smentire le affermazioni dei moderni troppo propensi a considerare la religione nazionale, in quell'epoea, solo come un'accozzaglia di leggende obsolete.
Qualunque fosse la realtà degli dèi, le anime continuavano a essere agitate da sogni, da presagi, e conservavano comunque la loro fede nei riti.
Si è spesso rimproverato ad A. l'eccessiva violenza e ricercatezza del suo stile, quella sua volontà di rimanere nel "sublime" ad ogni costo che, se non impedì il successo delle sue opere, segnò tuttavia l'inizio del declino cui andò incontro il genere tragico dopo di lui.
Fatto sta che la conseguenza più importante delle carriere di A. e Pacuvio fu forse, in definitiva, che la tragedia salì di classe e di tono: la sua pratica, pur continuando a godere del successo popolare, divenne sempre più cosa da gentiluomini.


Marco Porcio Catone
il Censore o il Vecchio
(Tusculum, 234 a.C.)

VITA.
C. visse nel periodo più intenso della storia romana, quello delle guerre puniche e dell’espansione ad oriente. Per le guerre contro la Macedonia e la Siria, s’intensificarono i rapporti tra Roma e la Grecia. L’ala più progressista romana, a capo della quale erano gli Scipioni, si aprì alla cultura greca; C. fu rappresentante invece dell’area più tradizionalista dell’aristocrazia. Di C. abbiamo due immagini contrastanti:
1.Quella delineata da Cicerone nel "Cato Maior seu De senectute" è un’immagine idealizzata, mitizzata. C. diventa cittadino esemplare e incarna i mores, i costumi del passato.
2.L’altra la troviamo nella biografia di Plutarco che, nelle sue "Vite Parallele", fa di C. un personaggio contraddittorio, un uomo che si atteggia a moralista, a censore dei costumi ma che, nella sfera privata, non disdegna di esercitare l’usura o di darsi a speculazioni finanziarie spregiudicate, esoso verso i suoi dipendenti e gli schiavi, un uomo che colpisce le vanità altrui ma che appare egli stesso vanitoso e ambizioso (e forse è questa l’immagine più reale).
Nato da famiglia contadina, C trascorse la giovinezza lavorando le terre in Sabina. La sua origine lasciò un’impronta determinante nella sua mentalità. Fu arruolato nella II guerra punica e rimase sotto le armi per quasi tutta la durata del conflitto. Solo alla fine iniziò il cursus onorum. Egli era un uomo novus, la cui famiglia non aveva mai ricoperto cariche politiche. Per la sua attività politica si avvalse dell’appoggio di Valerio Flacco, aristocratico conservatore.
Nel 204 a.C. fu eletto questore; nello stesso anno Scipione portava la guerra in Africa. C. lo seguì. Il contrasto fra di loro è immediato. C. infatti contestò l’eccessiva prodigalità di Scipione e le eccessive elargizioni alle sue truppe. Quello rispose che non aveva bisogno di un questore così preciso e che doveva dare conto a Roma non del denaro speso, ma delle imprese portate a termine. Tornato in Italia, incontra Ennio e lo porta a Roma.
Negli anni seguenti continua la carriera politica, e nel 195 a.C. Flacco diviene console. Nello stesso anno i tribuni della plebe proposero l’abrogazione della lex oppia, legge promulgata nel 125 a.C. dopo la disfatta di Canne che vietava alle donne di indossare abiti lussuosi e gioielli d’oro che superassero un certo peso; questo perché bisognava concentrare le risorse economiche per le imprese militari. C. si oppose, però la legge venne abrogata.
Nel 190 a.C. era finita la guerra contro Antioco III di Siria che, sconfitto pagò ai romani 15.000 talenti di cui 500 andarono direttamente agli Scipioni. C. colse la palla al balzo e li attaccò sul loro punto debole, l’amministrazione del denaro pubblico. Lo stesso Scipione, in conseguenza dei processi che ne derivarono, preferì allontanarsi in volontario esilio.
Nel 184 a.C. C. divenne censore con Valerio Flacco e lo fece con rigore proverbiale. Si oppose in tutti i modi al lusso eccessivo, al mal costume e alla corruzione di cui davano prova gli esponenti dell’aristocrazia progressista. Nel 180 a.C. muore Flacco e C. smorza i toni aspri della sua polemica, si avvicina a Lucio Emilio Paolo che è diventato l’uomo più rappresentativo del circolo scipionico. Combina il matrimonio fra il figlio Marco e Terzia, figlia di quello. Intanto cerca di arricchirsi con speculazioni finanziarie e con l’usura.
Continua poi la polemica contro i greci. Nel 161 a.C. il senato, sotto sua ispirazione, emanò un decreto di espulsione per tutti i retori e i filosofi greci residenti a Roma. Nel 155 a.C. giunsero a Roma come ambasciatori ateniesi, 3 filosofi greci, Carneade, Diogene e Critolao che, in attesa di essere ricevuti dal senato, tennero a Roma delle conferenze: i romani li andarono a sentire e ne rimasero affascinati. C. consigliò al senato di riceverli il prima possibile per farli andare via altrettanto rapidamente. La paura dei romani per la retorica e la filosofia è basata sull’autonomia e sullo spirito critico che queste comportano; da un lato ne sono affascinati, dall’altro hanno paura che esse possano corrompere i valori e i rapporti sociali tradizionali.
Negli ultimi anni, C. conduce una campagna politica contro Cartagine, città non più un pericolo dal punto di vista militare ma competitiva dal punto di vista commerciale. La III guerra punica fu dichiarata nel 149 a.C. anno della morte di C..

OPERE.
*Per raggiungere le vette del potere politico, C. fu un oratore eccellente: con lui sarà inaugurato il nesso fra politica e arte oratoria, la capacità di tenere discorsi persuasivi. L’oratoria diventa strumento politico. Nel corso della sua vita, a detta di Cicerone, C. pronunciò moltissimi discorsi (almeno 160) e fu anche il primo a scriverli per rielaborarli. Noi possediamo circa 80 titoli e qualche frammento delle sue orazioni. Per C. l’oratore perfetto doveva essere Vir Bonus Dicendi Peritus. C. inoltre dà la precedenza al vir e alla sua integrità morale, ponendo in secondo piano l’abilità nel parlare. Ciò che conta per lui è l’interiorità, senza la quale non si può essere un buon oratore. Altro precetto che ci ha lasciato è la famosa frase: "Rem tene, verba sequentur".
Fra le orazioni di C. ricordiamo il "De sumptu suo": qui C. contrappone il "proprio tenore di vita" a quello dei suoi avversari e traccia l’immagine di sé come di un politico onestissimo che esercita le sue cariche con disinteresse, ligio al proprio dovere. Contrapponeva quindi questa immagine di perfezione a quella degli altri che esercitavano il loro potere per interesse personale, sfruttando il prestigio che avevano.
Altra orazione fu quella del 167 a.C. "Pro Rodiensibus" (In difesa degli abitanti di Rodi). Rodi era alleata romana e durante la guerra tra Roma e Perseo rimase neutrale. Dopo la vittoria fu accusata dai romani di tradimento. Roma la voleva punire e C. intervenne in sua difesa affermando che si possono punire le azioni, non i pensieri. Il senato accettò la tesi di C., ciò nonostante qualche anno dopo Rodi venne punita economicamente: Roma dichiarò la vicina Delo porto franco e i traffici si spostarono da Rodi a Delo.
*Altra operetta è il "Praecepta ad Marcum filium", a carattere enciclopedico e di pronta consultazione; il suo intento era di istruire il figlio, di essere il suo primo maestro e di criticare l’uso che si stava diffondendo di far educare i propri figli dai greci.
L’opera era divisa a seconda della disciplina che voleva insegnare: arte, retorica, medicina ecc.
Vi è un frammento in cui parla al figlio dei greci screditandoli. Secondo C. è necessario conoscere i greci ma non farsi influenzare poiché sono corrotti e corruttori.
*L’unica opera pervenutaci interamente è il "De agri cultura", la prima scritta in prosa della letteratura latina: è un trattato sull’agricoltura. Non è a carattere sistematico: sono 162 capitoli in cui sono esposti consigli circa la conduzione di un’azienda agricola. L’azienda di cui parla è finalizzata non ad un’economia di sussistenza ma di mercato: si contrappone il modello del podere di medie dimensioni al nascente latifondo. C. consiglia il podere da acquistare, i lavori da compiere, insegna la cura delle malattie di piante e animali, i compiti del fattore, insegna come trattare i dipendenti e come comportarsi con gli schiavi che, per lui non sono persone ma res.
Nelle sue intenzioni, l’opera ha anche funzione morale e sociale: C. infatti ritiene che l’agricoltura innanzitutto è l’attività più sicura ed onesta, e che poi è solo col lavoro agricolo che si formano i buoni cittadini ed i buoni soldati.
*C. si cimentò anche nel genere storiografico, e da vecchio scrisse un’opera - "Origines" - di cui abbiamo solo frammenti: le uniche testimonianze unitarie le possediamo tramite Cornelio Nepote. Sappiamo che l’opera era in 7 libri, e seguiva questo profilo: I libro: origini di Roma e periodo monarchico; II e III: storia delle altre città e popolazioni italiche; IV: Iª guerra punica; V : IIª guerra punica; VI e VII: avvenimenti successivi sino al 151 a.C., anno in cui il pretore Servio Sulpicio Galba vinse sulla popolazione spagnola dei Lusitani grazie ad atti di grande ferocia e crudeltà che C. denunciò in un’orazione del 149 a.C. poco prima di morire.
C. Vuole, con questa opera, porre sullo stesso piano Roma e le altre città italiche (per lui la potenza di Roma è frutto anche dell’appoggio delle altre popolazioni); inoltre non cita i nomi dei generali, ma li indica con la carica ricoperta, e lo fa per contestare la concezione individualistica, "carismatica" della storia, cosa evidente nell’epica storica di Ennio e nelle prime opere storiografiche romane, gli Annales. Di contro, C. vedeva invece la creazione e la storia dello stato romano come l’opera collettiva e progressiva del "populus romanus", stretto intorno all’ideologia e agli uomini della classe dirigente senatoria.


LA STORIOGRAFIA DOPO CATONE

*Già nel 149, quando Catone morì, l'ellenismo invadeva Roma o, quanto meno, produceva nelle coscienze un riequilibrio di valori del quale abbiamo già avuto modo di rilevare l'ampiezza, a proposito di Terenzio e di Lucilio. I generi in prosa non si sottraevano a tale influenza. Gli eruditi greci cominciavano a essere conosciuti a Roma parallelamente ai filosofi e, mentre grazie a questi ultimi gli oratori cominciavano a interrogarsi sul valore e sui limiti dell'eloquenza, insieme all'erudizione venivano crescendo anche le esigenze nei confronti della storiografia.
*Da questo punto di vista, è caratteristica la parte avuta dallo scrittore greco Polibio. Alto magistrato della lega achea al momento di Pidna, si trovò compreso nell'elenco degli ostaggi achei rivendicati da Roma dopo la vittoria (167). Ciò spiega la ragione per cui visse a Roma per molti anni. Legato a L. Emilio Paolo, fu precettore dei suoi figli e "guida spirituale" del giovane Scipione Emiliano. Storico egli stesso, cercò di comprendere il fenomeno storico costituito da Roma: in che modo, in meno di una generazione, la repubblica avesse raggiunto i risultati che, nello spazio di due secoli e mezzo, i re orientali non avevano ottenuto, e cioè riportare la pace nel bacino del Mediterraneo e imporre al mondo un potere forte e stabile. Intorno a quest'uomo, l'élite dei giovani romani è portata a riflettere sul ruolo della propria città, e a sottoporre ogni azione alla critica della ragione e della conoscenza.
*Ma dalle lezioni di Polibio trassero profitto soprattutto gli uomini di stato filoellenici e i teorici della filosofia politica; quanto agli storici, bisognerà aspettare fino a Tito Livio, e cioè fino ai tempi di Augusto, per trovare in modo certo un impiego diretto della sua opera. In verità, noi non conosciamo quasi nulla degli annalisti del secondo secolo a.C. Cosa mai contenessero le opere storiche di P. Cornelio Scipione, figlio di Scipione l'Africano, o quelle di C. Acilio o, infine, la storia di A. Postumio Albino, aspramente ripreso da Catone perché, al pari di Scipione e Acilio, era uso scrivere in greco, ci è ignoto. Essi avevano scelto quest'ultima lingua per disprezzo verso il latino, per conformarsi alla tradizione di Fabio Pittore e di Cincio Alimento, o perché si trovavano sotto l'influenza di Polibio? Non lo sappiamo. E’ probabile però che l'impiego del greco permettesse a questi autori di rompere il quadro, essenzialmente romano e quasi rituale, dell'esposizione successiva, anno per anno, degli avvenimenti.
*Gli storici di lingua latina di quest'epoca si adattano, infatti, ancora allo schema annalistico. Così, oltre a L. Cassio Emina e a L. Calpurnio Pisone, uno degli autori più "critici" nei confronti delle antiche leggende, C. Fannio, genero di C. Lelio e membro, perciò, del "circolo degli Scipioni", nel quale s'incarna la tendenza modernista e filoellenica. Pisone e Fannio erano stati gli ascoltatori e, in una certa misura, i discepoli di Panezio, il filosofo stoico che, trasferitosi a Roma, vi era rimasto fino al 130 circa, in contatto anch'egli col "circolo degli Scipioni".
Com'è noto, la dottrina stoica comportava delle riflessioni sulla storia, attraverso le quali essa si sforzava di dare una lettura dei disegni della provvidenza, di quel dio che, a suo giudizio, governa il mondo. La ricerca storiografica delle cause, piuttosto che dalla diretta imitazione degli storici greci, nei quali la nozione di causa (ad esempio in Tucidide) rimaneva piuttosto confusa e relegata nella contingenza, ebbe dunque origine in questo modo.
*Vi furono anche, alla fine del II secolo e all'inizio del I, altri annalisti che si limitarono a dare continuità alla tradizione dei più antichi. Claudio Quadrigario, diffidando dei documenti relativi ai primi passi della repubblica, diede avvio ai suoi "Annales" con l'evento della presa di Roma da parte dei Galli. A quanto pare, tendeva soprattutto ad evidenziare il carattere pittoresco del racconto e a privilegiare le situazioni drammatiche. Il suo contemporaneo, Valerio Anziate, si è meritato invece la cattiva fama d'essere stato un compilatore poco scrupoloso, avendo inventato particolari che non si trovavano nelle fonti ed esagerato le cifre (degli armati, dei caduti in battaglia, eccetera), e avendo scelto sempre, fra le varie versioni di un evento, quella più ricca di elementi fantastici.
*Tuttavia, in questa II metà del II sec., si vede sorgere una forma di narrazione storica che non ha più nulla a che vedere col metodo annalistico, e il cui interesse è rivolto, al contrario, alla trattazione di un periodo o di un evento ben determinati. Così i 7 libri di Celio Antipatro sulla guerra di Annibale, o le "Historiae" di Sempronio Asellione che esaminavano un periodo di cui l'autore era stato testimone diretto (dal 134 al 90 a.C.).
Antipatro e Asellione applicavano, in questo modo, la concezione storica prevalente presso i greci in quello stesso periodo. Il fatto che l'opera di un Posidonio, discepolo di Panezio, sia stata concepita nel medesimo spirito (la ricerca delle cause all'interno
di un periodo definito), lascia supporre che l'origine comune sia da ricercare nella dottrina elaborata dagli stoici già romanizzati e nell'ambiente dello stesso Polibio, il quale aveva a sua volta tratto profitto dall'esperienza e dalla riflessione dei suoi amici sulla gestione pratica degli affari pubblici. E’ significativo inoltre che questi storici abbiano cominciato la loro carriera come uomini d'azione: Sempronio Asellione aveva servito sotto il comando di Emiliano a Numanzia, Polibio, nella sua giovinezza, aveva cominciato con l'essere "ipparco" nella lega achea; Posidonio era stato "pritano" della repubblica di Rodi. Per loro la storia è la prosecuzione dell'azione, non è ancora diventata opera esclusivamente erudita o letteraria.


Gaio Lucilio
(Sessa Aurunca, Campania/Lazio 148/7 – 102/1 a.C)


VITA.
Di origini nobili, fu uno fra i primi romani che abbiano affrontato il viaggio in Grecia per farsi una cultura filosofica e sicuramente fu il primo letterato di buona famiglia a condurre una vita da scrittore, volontariamente appartata dalle cariche pubbliche.
La sua biografia è segnata dall'incontro con gli Scipioni: fu compagno di Scipione Emiliano in Spagna, nel l33, in occasione della guerra di Numanzia. Poco dopo, giovanissimo, esordiva come poeta, riprendendo il genere della "satira". Divenuto adulto, saranno proprio i grandi personaggi del partito scipionico a proteggerlo. Per le sue origini aristocratiche, i suoi rapporti, l'ambiente in cui viveva, L. fu infatti spinto a prendere partito nelle lotte politiche; lo fece con vivacità e persino con violenza. Evoca per esempio i grandi processi del tempo, il che lo porta a rappresentare scene di vita nel foro. Altre volte, affidando ai versi gli avvenimenti della sua vita quotidiana, racconta un viaggio in Campania e in Sicilia, dove lo chiamavano gli affari privati. Quasi nulla si sa, comunque, del periodo più tardo della sua vita.

IL SIGNIFICATO DI "SATIRA".
Le origini della satira sono abbastanza confuse: la connessione col termine greco "satyros" è del tutto falsa: la satira in origine non sembra aver avuto niente a che fare con i satiri e con il teatro comico greco. Sembra invece che "satura lanx" indicasse nell'antica Roma un piatto misto di primizie che venivano offerte agli dei. È probabile allora che il valore di mescolanza e varietà fosse quello originario. Il nome, dunque, non è greco ma romano (come l'atellana), ed è proprio per questo che Quintilliano contrappone la satira agli altri generi di letteratura latina come l'unica veramente e solamente romana.
Per i primi poeti la satira era intesa come spazio personale, in cui si poteva esprimere la voce personale del poeta. Già ai tempi di Ennio la produzione letteraria era abbastanza articolata ma nessuno dei generi canonici dava spazio ai pensieri diretti del poeta. Nelle satire varietà, voce personale e realismo sono le caratteristiche principali: L. decide di specializzarsi nel genere satirico e lo sviluppo della satira negli anni seguenti segnò lo sviluppo di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta, culturalmente avvertito e desideroso di una letteratura che rispecchiasse la realtà

OPERA.
Di L. abbiamo esclusivamente "Satire" (egli stesso le chiama "poemata" o anche "ludus ac sermones", poesie scherzose), in 30 libri, di cui ci restano 900 frammenti ca.
Furono raccolte ed ordinate con criterio metrico: l’autore aveva pubblicato progressivamente i libri XXVI-XXX, contenenti le satire in settenari trocaici e semari giambici e, verso la fine, in esametri dattilici; i libri I-XXI, in esametri (forse sua ultima e definitiva scelta); i libri XXII-XXV, nei quali pare prevalesse il verso elegiaco (sono stati aggiunti al corpus postumi).
I temi delle satire luciliane si possono riassumere nel seguente elenco: la parola del Concilium Deorum: attraverso una parodia di concili e decisione divine, L. prende di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio antipatico agli scipioni (lo farà morire di indigestione); la descrizione di viaggi e il filone gastronomico: vi è un libro di satire (III) in cui si parla di un viaggio in Sicilia e altri in cui sono scritte delle ricette succulenti; l'amore e le questioni letterarie: nel XVI libro L. parla della donna di cui è innamorato.

CONSIDERAZIONI.
*L., dunque, si dedicò esclusivamente alla satira, trattandola inizialmente, come già aveva fatto Ennio, in versi trocaici e giambici, i versi dei generi drammatici; in seguito, nell'ultima parte della sua produzione (quella che, nella raccolta pubblicata, forma i primi 20 libri), userà solo l'esametro, creando in tal modo la forma definitiva della satira, poema "ragionato", più narrativo e meditativo che drammatico, portato gradualmente a quell'ordine formale con cui ci apparirà più tardi.
*Il realismo, il gusto dell'aneddoto che ritroviamo nelle arti plastiche romane, l'interesse per i paesaggi, gli oggetti, i dettagli dell'esistenza reale e quotidiana, tutto ciò traspare nei frammenti rimasti e delinea una tradizione.
Aperto alle influenze elleniche (in particolare, i commediografi greci e la filosofia stoica neoaccademica), L. resta partigiano convinto dei valori romani tradizionali, ma senza essere schiavo dei pregiudizi e della grettezza della generazione precedente. In un celebre passo, proclama che il primo posto si deve dare alla patria, il secondo ai componenti la propria famiglia, e solo il terzo a se stessi, il che significa, in questa morale della saggezza, subordinare la propria felicità a quella degli gli altri, atteggiamento che, dopo Epicuro e Zenone, non è più quello dei filosofi greci.
Con lui vediamo come la mentalità romana, quanto meno nell'élite cittadina, abbia superato la crisi, l'inquietudine di cui l'opera di Terenzio era testimonianza, proseguendo con successo la sintesi di cultura ellenica e tradizione nazionale.
*Infine, dal punto di vista stilistico, la poesia di L. si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio celebrativo dell'epica, come fosse parodia, e fa uso di termini tecnici e retorici che finora non erano mai stati usati.


Neoteroi (I sec. a.C.)
 
Quello dei n. (o "poetae novi") è un gruppo di poeti, quasi tutti provenienti dalla Gallia Cisalpina, che operò a Roma nel I sec. a.C.
Vennero così definiti polemicamente da Cicerone, nel senso di "quelli alla moda", con allusione al loro gusto ellenizzante e aristocratico, e al loro atteggiamento di innovatori d’ispirazione alessandrina (riflesso della situazione politica – conquiste di Roma in oriente – e della lezione epicurea). "Lepos", "venustas" e "urbanitas" sono dunque le loro parole-chiave, armonizzate in un rapporto ch’è al contempo etico ed estetico.
Legati da reciproca amicizia, liberi e spregiudicati nella vita privata, i n. avevano in comune il culto della letteratura e l’esigenza di esprimersi con spontaneità e insieme estrema consapevolezza d’arte: contrapponevano, cioè, alla letteratura usata solo per fini etico-politici, l'otium letterario individuale: il piacere di scrivere diventa lo scopo e il fine della vita.
Insomma, proclamavano una poesia affermatrice dell’individualismo, che avvertiva i problemi inquietanti della crisi repubblicana e che, se pur si schierava con spirito di fronda contro i nuovi dittatori (Cesare), avversava paritempo – in letteratura – il tradizionalismo (per quanto illuminato – di un Cicerone.
Dichiararono, così, guerra ai lunghi poemi epici di imitazione enniana, privilegiando gli epilli, i "carmina docta" (brevi componimenti di argomento poco noto a imitazione di Callimaco e di Euforione), la diretta confessione lirica e le divagazioni leggere ("nugae") sempre nel più meticoloso rispetto della tecnica metrica.
Cercarono l’ispirazione preferita nel tema amoroso (e in questo punti patenti sono le differenze con l’epicureismo).
Tra gli altri – oltre che ovviamente Catullo – vanno ricordati almeno:
Levio (che, in verità, è più un prenoterico), autore di una vasta raccolta di "Erotopaegnia" (ossia, "scherzi d’amore"), di cui restano frammenti. In essa, trattava, con toni sentimentali e romanzeschi, ma smitizzando il materiale della tradizione epico-tragica, gli amori di personaggi del mito o di eroi troiani. Poeta colto, introdusse in Roma il genere alessandrino dell’elegia narrativa, influendo – coi suoi arditi neologismi, con pittoreschi impasti di lingua colta e colloquiale, coi diminutivi affettivi – la generazione neoterica.
Varrone Atacino, che iniziò con un poema sulla campagna di Cesare contro Ariovisto ("Bellum Sequanicum") e con "Satire" di tipo luciliano, e si fece poi divulgatore della poesia alessandrina rielaborando in latino le "Argonautiche" di Apollonio Rodio, componendo poesie d’amore, una "Chorographia", d’argomento geografico, e un calendario agricolo in versi ("Ephemeris").
Licinio Calvo, oratore di tendenza attica, scrisse anche, oltre ad epigrammi di invettiva politica, epitalami e altri componimenti di soggetto amoroso, nonché un epillio ("Io").
Elvio Cinna, la cui fama è legata soprattutto all’epillio "Zmyrna", sull’amore incestuoso di Mirra per il padre, caratterizzato dalla "brevitas" dello stile, dalla densità della dottrina e dalla mostra di conoscenza della psicologia amorosa.
Furio Bibaculo, di cui restano 2 epigrammi su Valerio Catone, suo maestro, e si sa di altri contro Augusto. Alcuni critici lo identificano con un Furio Alpino, autore di 2 poemi perduti: "Pragmatica Belli Gallici", di carattere storico, e "Aethiopis", di carattere mitologico.


Gaio Valerio Catullo
(SirmioneVerona, 84? – Roma, 54? a.C.)

VITA.
C. apparteneva ad una famiglia agiata, e suo padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda. Trasferitosi a Roma per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie benestanti, trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore ed entrò a far parte dei neóteroi o poetae novi. Il poeta entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote.
C. è stato definito come il poeta della giovinezza per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, che il poeta amò con tutto il cuore. Il vero nome della donna era Clodia (chiamata Lesbia, perchè il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno Clodio, e moglie del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: nelle sue poesie abbiamo diversi accenni allo stato d'animo che C. provava per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all'addio finale.
Deciso, infine, ad allontanarsi da Roma, per dimenticare le sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia. Laggiù, in Asia, il giovane C. entra in contatto con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente. E’ probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per compiangerlo, che compone i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.
Morì a poco più di 30 anni, per il dolore che Lesbia gli dava trastullandosi con i nuovi amanti a Roma.

OPERA.
Il "liber" catulliano di "carmi" (116 e circa 2300 versi) si può dividere, su base metrica, in 3 sezioni:
- (1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o coserelle;
- (61-68) sono definiti "carmina docta": elegie, epilli ed epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l’epitalamio per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi galliambi, strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura callimachea; il celebratissimo carme 64, il vasto epillio per le nozze di Péleo e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una piccola epopea mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della "Chioma di Berenice" di Callimaco, preceduta dalla dedica all’amico Ortalo in distici elegiaci; un’elegia epistolare di gusto alessandrino, che ricorda il tempo felice dell’amore di Lesbia.
- (69-116) sono carmi brevi o "epigrammi" in distici elegiaci.

CONSIDERAZIONI.
*Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è consegnata tutta la storia dell’amore di C. per Lesbia. Le peripezie di questo romanzo d'amore non ci appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni (e per lo meno una notte) di felicità, ma anche molte sofferenze, giacché Clodia, checché se ne dica, nutriva grande attenzione per la sua reputazione e per il suo onore di gran dama, e anche, probabilmente, perché lei e C. non concepivano l'amore nello stesso modo. Egli l'amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull'idea che Clodia fosse per lui "la sposa". A lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava. Clodia, inoltre, era una donna che amava civettare con uno stuolo di giovani al suo fianco. C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere l'unico, in nome degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che non era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in versi atroci, dove pretendeva che Lesbia si prostituisse con chi le capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei. "Amo e odio", le scriveva, "tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e soffro."
*Dunque, il rapporto con Lesbia – cui C. programmaticamente trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi del civis romano (del resto, sebbene vissuto in un'epoca di grandi cambiamenti politici, C. nelle sue opere dimostra tra l’altro una grande indifferenza per le situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e Cicerone) – nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale, o quantomeno ad un "foedus", un ibrido – se vogliamo – dei due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la "fides" e la "pietas". Tuttavia, l’offesa ripetuta del tradimento (il "foedus violato") produce in C. una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale ("amare") e quella affettiva ("bene velle").
*Il II gruppo di carmi, invece, è quello che più lega C. al movimento neoterico e quella che più corrisponde alla variante romana del gusto alessandrino.
Ma la critica recente ha sottolineato come la distinzione tra "nugae" e "carmina docta" non implichi in C. l’impiego di un diverso impegno letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso livello espressivo: si tratta, insomma, sempre di una lirica dotta e aristocratica (come i fruitori dell’opera), secondo i canoni estetici dei neoteroi, anche laddove l’effetto patetico e certe movenze apparentemente dimesse potrebbero far pensare ad un’espressione per così dire popolare (è, invece, più giustamente, "ricercata spontaneità").
La stessa lingua è il risultato di un originale impasto di linguaggio letterario e "sermo familiaris".
*L’opera di C., anche se non è ancora quella di un "elegiaco", è comunque l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo che ha già acquistato diritto di cittadinanza nella poesia. Per ciò che conserva ancora in sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere piuttosto fra i predecessori immediati che fra i poeti augustei che formeranno in seguito il "classicismo" della poesia romana. E’ però l'unico a emergere rispetto alla produzione dei neoteroi, condannata in modo così fermo da Orazio nella sua "Ars poetica" in nome del "ritorno ai valori classici dell'atticismo", che sarà la parola d'ordine (quanto meno ufficiale, ma non sempre seguita) degli augustei.


Tito Lucrezio Caro
(99? – 55? a.C.)

VITA.
Della vita di L. rimane poco o nulla: due righe di san Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente avversi alla dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con ponderatezza. Il silenzio su questo grande poeta, che dovette provocare comunque un certo scalpore nella Roma di Cesare, è tuttavia emblematico della stigmatizzazione che dovette subire il "De rerum natura", lontano com’era sia dagli allora in voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall’esaltazione della politica attiva o della guerra fatta da Catilina e Cesare.
Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario, probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all'aristocratico Memmio non si riesce però ancora a capire se fosse anch'egli un aristocratico oppure un liberto) e altrettanto probabilmente trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi del "De rerum natura". Va, tuttavia, respinta la teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da un filtro d'amore: si pensa infatti che l'accusa sia nata nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta.

L. E L’EPICUREISMO A ROMA. Torna al sommario
A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l'epicureismo era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva i cittadini dall'impegno politico per la difesa delle istituzioni. Inoltre l'epicureismo, negando l'intervento divino negli affari umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la religione come strumento di potere.
Poco si conosce riguardo la penetrazione dell'epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni dell'epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti.
Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, L. scelse la forma del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell'agire di L.: se da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall'altro ne fa uso per divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da L., così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover spiegare anche l'atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l'eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di L. nella sua polemica all'epicureismo.

OPERE.
La sua più grande opera, il "De rerum natura", fu scritta in esametri e suddivisa in sei libri: probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il poema di L. è dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna. San Girolamo asserisce che il "De rerum natura" fu rivisto e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di L..
La data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta nel periodo successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio.
Il poema è chiaramente articolato in tre gruppi di due libri (diadi):
Nel I libro, dopo l'inno a Venere, personificazione della forza della natura, sono spiegati i principi generali della filosofia epicurea. Nel II libro viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo. Il III e IV libro costituiscono la seconda coppia che espone l'antropologia epicurea. La terza coppia di libri prende in esame la cosmologia: il libro V espone la mortalità del mondo, mentre il VI discorre di come la volontà divina non influisca minimamente negli affari degli uomini.
Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante di dissoluzione. All’attacco di ogni libro, invece, c’è una celebrazione di Epicureo, del suo coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui L. evidentemente intende il riferimento anche come rivolto a se stesso).
Come detto, il "De rerum natura" probabilmente non ha ricevuto un'ultima revisione: il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, in corrispondenza con il gioioso inno a Venere, e non con il terrificante quadro della peste di Atene.

FILOSOFIA.
*Religio. Il "De rerum natura" si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra: L. vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe politica romana.
La via che L. trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano. All'inizio del poema L. invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema ne è il sacrificio di Ifigenia): la religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. Si vede, quindi, già dai primi versi come L. offra un nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi timori nascono dall'ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo.
L’accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della filosofia di L.: Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice.
*Natura. Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere cioè la paura per morte, malattia, dolore e dei, L. inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina rerum o genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e cosí persino l’animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle elementari, c’è comunque spazio per la libertà: all’origine dell’universo c’è una deviazione del moto atomico, un clinamen, che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura.
*Morte. Dopo aver descritto la natura della materia l’autore invita i suoi lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi siamo non c’è morte, quando c’è la morte noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide ambizioni (E tu esiterai, e per di piú t’indignerai di dover morire? Tu cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e vedi e consumi nel sonno la parte maggiore del tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l’animo tormentato da vane angosce, né riesci a scoprire qual sia cosí spesso il tuo male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni parte gli affanni e vaghi oscillando nell’incerto errare della mente - III, vv. 1045-1052).
*Sensi e amore. Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano essere turbati. I sensi, per L., non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi (IV, vv. 507-8).
Anche stavolta, dopo aver cercato di trasmette l’atarassia epicurea, L. si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui dedica i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio: Brucia l’intima piaga (l’amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra, se non confondi l’antico dolore con nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori, e ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo (vv. 1068-1073); Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l’ardore degli amanti che non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia (vv. 1076-1083).
Dopo aver condannato l’amore come sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv. 1079-1083), amarezza (v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e segg.), cecità (v. 1153), miseria (v. 1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179), L. cambia tono: "È proprio lei che talvolta con l’onesto suo agire, / l’equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, / ti rende consueta la gioia d’una vita comune. / Nel tempo avvenire l’abitudine concilia l’amore; / ciò che subisce colpi, per quanto lievi ma incessanti, / a lungo andare cede, e infine vacilla". Appare diverso, teneramente malinconico, più paterno ("E spesso alcuni [...] trovarono fuori [di casa] una natura affine, così da poter adornare di prole la loro vecchiaia", vv. 1254-6).
Personalità contrastata fra ratio e furor, L., come scrisse Schwob, "conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, continuò a piangere e a desiderare l’amore e a temere la morte".
*Civiltà e peste. Nel libro seguente il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita della civiltà: I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della civiltà nascono anche l’ambizione e la cupidigia, contro cui L. si scaglia con forza: Lascia dunque che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano sull’angusto sentiero dell’ambizione, poiché sanno per bocca d’altri e dirigono il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo accade e accadrà piú di quanto è accaduto in passato (vv. 1131-1135).
Insomma, L. pone molta attenzione sul progresso dell'uomo e ne delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali.
Anche nel discusso finale dell’opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell’epicureismo, per immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente l’opera non doveva avere questo finale (è comunque appurato che dovesse essere il sesto l’ultimo libro e non moltissimi versi alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi degli dei e la spiegazione di come l’epicureismo possa aiutare ad affrontare persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane comunque emblematico del tormentato animo lucreziano, che in questa descrizione è piú vicino al gusto dell’orrido di stoici come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino.

CONSIDERAZIONI.
Prima del "De rerum natura" la letteratura romana non aveva prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno; d'altra parte, L. si differenzia notevolmente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha come unico scopo quello di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della vita dell'uomo e del mondo, di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua ispirazione negli argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza dell'importanza ella materia e delle informazioni date determina un particolare tipo di rapporto tra L. e il lettore discepolo: questo viene continuamente esortato e minacciato affinché segua con rettitudine i precetti e il percorso di felicità imposti dall'epicureismo.
Un ulteriore differenza tra la poesia didascalica ellenistica e quella di L. sta nel fatto che quest'ultimo ricerca le cause dei fenomeni, e propone al lettore una verità, una ratio sulla quale è obbligato ad esprimere un giudizio, mentre la prima si limita a descrivere in maniera empiristica tali fenomeni. Per L. non vi è nulla di cui meravigliarsi nell'osservazione di questo o quel fenomeno poiché esso è connesso necessariamente con una regola oggettiva: non può trarne stupore chi abbia capito il funzionamento di tale regola. Alla retorica del mirabile egli sostituisce la retorica del necessario (necesse est è una formula molto usata nel poema di L.).
I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono pensati per spronare il lettore a scegliere anch'egli un modello di vita forte e alta: il lettore di L. è chiamato a trasformarsi in eroe, a farsi pronto e forte come la poesia che egli legge. Il destinatario ideale di L. è colui che sa adeguarsi alla forza sublime di un'esperienza sconvolgente: in questo modo la dottrina degli atomi è descritta non solo in sé, ma anche nelle reazioni di vertigine che può provocare nel lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel "De rerum natura" un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare per contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è la rigorosa struttura argomentativa. L. usa anche il sillogismo.
Il libro che testimonia la perizia argomentativa di L. è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. Pur avendo dimostrato scientificamente la mortalità dell'anima, L. si rende conto che ciò non basta per distogliere l'uomo dalla paura di lasciare la propria vita. Al fine di convincerlo L., nella parte finale del libro, dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge all'uomo: se la tua vita è stata bella e piena di gioie ti puoi allontanare da lei come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se invece è stata triste, che senso ha continuare a vivere un'esistenza infelice? In questo libro è evidente il contatto di L. con la letteratura diatribica (ossia l'accorgimento di far parlare dei personaggi fittizi di particolare interesse).
I critici sono molto confusi riguardo al binomio autore e narratore: benché siano la stessa persona non devono essere sovrapposte meccanicamente. Come visto, un'attenta lettura dell'opera induce a constatare che la tensione dell'autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale. L. è fortemente contrario alle insensatezze della passione amorosa poiché questa non è certamente un bisogno necessario e deve essere, di conseguenza, esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all'ideologia erotica dei neoteroi. La volontà di L. è allora, come già detto, quella di ricercare un indirizzo stilistico elevato che accolga nella sua forma sublime gli elementi della satira e della diatriba.

STILE.
Se le teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l’animo, L. la considera come il miele che, cosparso sull’orlo del bicchiere, aiuta il bambino a prendere la medicina (nam veluti pueris abstinthia taetra medentes / cum dare conantur, prius oras pocula circum / contingunt mellis dulci flavoque liquore - lib V vv. 11-13): la sua poesia è scientifica, chiara (obscura de re tam lucida pango / carmina), in netta rottura coi vatum terriloquis dictis di molti poeti che l’hanno preceduto (anche se può sembrare strano che la ricerca della chiarezza si accompagni ad un frequente uso di arcaismi e grecismi).
Il commento di Cicerone riguardo il "De rerum natura" testimonia che egli ammirava in L. non solo l'acutezza del pensatore, ma anche le grandi capacità di elaborazione artistica. Anche lo stile, come l'organizzazione complessiva della materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a una prima vista, potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche. Anche l'invito all'attenzione del lettore è ripetuto spesse volte. Non bisogna trascurare inoltre che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi in grado di esprimere certi concetti della filosofia greca, L. si trovò costretto così a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli: il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri ne crea ex novo. Vi è inoltre un uso abbastanza frequente di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, infiniti passivi in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai e l'uso dell'enjambement.
L. dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell'entusiasmo poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma anche all'invettiva profetica: comunque sempre grandioso.


Marco Terenzio Varrone
(Reate, oggi Rieti, in Sabina, nel 116 – 27 a.C.)

VITA.
Studiò a Roma e ad Atene. Difensore della tradizione, si schierò dalla parte di Pompeo. Cesare gli perdonò e gli affidò la biblioteca pubblica che intendeva instaurare in Roma. Pare sia stato anche consigliere di Augusto per le questioni religiose.

OPERE.
Ancor più che come poeta moralizzante, V. agì sul suo tempo come erudito. La sua riflessione si estese a tutti i campi che si presentavano agli "antiquari" del suo secolo: dal passato della lingua latina ("De lingua latina") alla storia letteraria di Roma (De poetis, De poematis, eccetera, con particolare riguardo per i problemi sollevati dal teatro di Plauto), alla religione romana e alla "vetustà" delle istituzioni e dei costumi profani ("Antiquitates rerum humanarum et divinarum"), fino al diritto (15 libri di diritto civile), alla cronologia generale, alla genealogia delle famiglie nobili, passando ancora per la geografia, l'agricoltura ("De re rustica"), la geometria, l'aritmetica, per concludere infine con un quadro dei differenti sistemi filosofici.
Ecco i contenuti delle opere:
- "De rustica", in 3 libri: il I tratta dell’agricoltura in generale; il II dell’allevamento del bestiame; il III degli animali da villa e da cortile.
Non destinata all’istruzione pratica del fattore (se non nelle apparenze), ma scritta piuttosto per alimentare e compiacere l’ideologia del ricco proprietario terriero – secondo il presupposto del processo di concentrazione delle terre – l’opera in qualche modo "estetizza" la vita agricola.
Sue caratteristiche: la profonda conoscenza della materia, la formula dialogica – spesso briosa ed arguta, quando non è soffocata dall’erudizione – e l’amore per la sana vita dei campi.
- "Antiquitates rerum humanarum et divinarum" (41 libri): da S. Agostino, che ce ne ha conservato lo schema strutturale, apprendiamo che essa si divideva in due parti, dedicate la I alle antichità profane (libri 1-25), la II a quelle sacre (libri 26-41).
La storia – come è qui concepita – è soprattutto storia di costumi, di istituzioni, e anche di "mentalità"; è la storia collettiva del popolo romano, sentito come un organismo unitario in evoluzione.
- "Imagines" o "Hebdomades" (15 libri), 700 ritratti di uomini illustri, latini e greci, accompagnato ognuno da un elogio in versi e da una notizia in prosa, disposti in 7 su un foglio e distribuiti in diverse categorie: capitani, politici, poeti, ecc…
- "De lingua latina". Primo trattato sistematico di grammatica latina, era diviso in 3 parti: sull’etimologia (libri II-VII), la teoria delle declinazioni (VIII-XIII) e la sintassi (XIV-XXV).
Dei libri superstiti (V-X), i primi 3 parlano dunque di etimologia, mentre gli altri della flessione, e in particolare discutono la questione, allora in voga, dell’ "anomalia" e dell’ "analogia". V. propende sostanzialmente per l’ultima.
- "Logistorici" (76 libri), serie di trattatelli: ad es. "Marius, de fortuna", "Catus, de liberis educandi"…
- "Discipline"  (9 libri), una vera e propria enciclopedia delle arti liberali;
- "Saturae Menippeae" (150 libri), in chiave etico-didascalica ad emulazione dei prosimetri di Menippeo di Gàdara, filosofo cinico, severo fustigatore dei corrotti costumi.
V. è uno dei primi e, forse, il più completo degli enciclopedisti romani.

CONSIDERAZIONI.
Il suo pensiero è chiaro, sebbene egli abbia la tendenza a usare e ad abusare di suddivisioni sistematiche non sempre rispondenti alla realtà.
Dall'antichità in poi, ha costituito la fonte inesauribile delle informazioni cui hanno attinto tutti gli autori successivi e in particolare sant'Agostino, che da lui ha ricavato moltissimi elementi relativi alla religione romana. (morì, infatti, solo nel 27 a.C.). Virgilio, da parte sua, ha molto utilizzato il suo trattato sull'agricoltura (che è fra le fonti delle Georgiche).
V. fornisce perciò al proprio secolo l'impalcatura delle conoscenze sulle quali aspira ad appoggiarsi una letteratura che si rivela sempre meno una manifestazione di pensiero e sempre più un fenomeno di "stile".


Marco Tullio Cicerone
(Arpino 106 – Formia 43 a.C.)


VITA.
C. nasce da una famiglia agiata equestre: è dunque un "uomo nuovo": egli sarà il primo della sua famiglia ad accedere alle magistrature: lo dovrà al proprio talento, ma anche agli appoggi che, sin dall'adolescenza, troverà presso le famiglie nobili.
C. compie studi di retorica e filosofia a Roma, discepolo del giurista Q. Muzio Scevola e ascoltatore assiduo di Marco Antonio e di Licinio Crasso, i due oratori più apprezzati nel senato e fra il popolo. Nella casa di Scevola, venne a contatto con l'aristocrazia intellettuale romana raccolta intorno al "circolo degli Scipioni" (Scevola era il genero di Lelio), al cui interno erano difesi e salvaguardati i valori della gravitas, della dignità personale, ma anche il gusto della cultura.
Queste impressioni giovanili s'imprimeranno duraturamente nell'animo di C.: verso la fine della sua vita, ogni volta che vorrà animare, in un dialogo, le sue idee più care, metterà in scena le figure di quel mondo che sarà per lui una specie di età aurea della repubblica, un'età della quale egli aveva conosciuto solo il crepuscolo. C. vedeva anche, intorno a sé, il quadro animato degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, dei grammatici venuti dalla Grecia, che a nessuno sarebbe più venuto in mente di bandire, e di cui anzi i più nobili romani ricercavano la compagnia: il poeta Archia, i filosofi Diodoto e Fedro, stoico il primo, epicureo il secondo, Filone di Larissa, rappresentante della "Nuova Accademia", che avrebbe avuto su di lui una notevole influenza.
Questi primi studi furono interrotti dalla Guerra sociale, alla quale C. partecipò nello Stato maggiore di Pompeo Strabone e poi in quello di Silla. Non appena concluso questo servizio militare, obbligatorio per chi volesse avviarsi alla carriera politica, C. cominciò a intervenire ai dibattiti nel Foro: nell'81 debutta come avvocato e un anno dopo difende Sesto Roscio, accusato di parricidio, contro importanti esponenti del regime sillano. Vinse la causa del proprio cliente ma, probabilmente su consiglio di coloro che avevano utilizzato il suo giovane ingegno, partì per l'Oriente per farsi dimenticare e rimanere in attesa che Silla abbandonasse il potere.
Tra il 79 e il 77 compie, dunque, il viaggio in Grecia e in Asia, dove studia filosofia e retorica per migliorare il proprio linguaggio. Nel 75 diventa questore in Sicilia e nel 70 gli verrà chiesto di sostenere l'accusa di concussione dei siciliani contro l'ex governatore Verre ("Verrine"): il processo non era limitatamente giudiziario, ma aveva implicazioni politiche, da to che tramite Verre veniva messo in discussione l'intero sistema del regime oligarchico: C. accettò, correndo il rischio di separarsi dai suoi protettori. Ortensio Ortalo, più anziano di C. e oratore rinomato per il suo talento, assunse il compito della difesa. C. portò avanti le cose in tal modo, riunì testimonianze così schiaccianti, che Verre non osò neppure perorare la sua causa e se ne andò in esilio dopo un solo giorno di dibattimento.
Edile nel 69, pretore nel 66, C. è eletto in ciascuna delle consultazioni a cui gli è consentito di partecipare come candidato, con una schiacciante maggioranza di voti. Per lui, sono ora schierate non tanto le famiglie nobili ma, oltre al popolo, che è sensibile alla sua parola, le famiglie degli equiti, l'ordine equestre del quale è egli stesso originario. Nel periodo in cui è pretore, C. pronuncia un discorso importante, il "Pro lege Manilia", a favore del progetto di conferire a Pompeo poteri straordinari in Oriente, dove la guerra contro Mitridate si prolunga da tempo. Gli aristocratici erano ostili a questa legge, per timore di queste insolite procedure. Ma l'assemblea popolare seguì il parere di C., e la legge fu approvata.
Nel 63 diviene finalmente console, e nel periodo della sua carica si schiera con fermezza contro un altro progetto che ledeva gli interessi dell'aristocrazia, una legge agraria appoggiata sottobanco da Cesare. Le quattro orazioni sulla legge agraria (De lege agraria), di cui possediamo solo una parte, sbarrarono la strada a questa mozione.
Lo stesso anno C. ebbe la responsabilità di difendere l'ordine contro una pericolosa congiura ordita da L. Sergio Catilina ("Catilinarie") con l'aiuto di alcuni altri nobili che speravano di ripetere, a proprio vantaggio, l'avventura di Silla. La situazione a Roma si presentava estremamente complessa. Catilina poteva contare sulla complicità di numerose personalità, alcune delle quali si sottrassero quando si trovarono di fronte al pericolo. Ma fu necessaria tutta l'energia del console (il suo collega era sospetto di simpatie a favore dei congiurati), per evitare che Roma fosse incendiata e le maggiori autorità dello Stato assassinate.
C. ebbe dunque la meglio e, sostenuto da un senatoconsulto, fece giustiziare i congiurati che era stato possibile arrestare. Gli altri, compreso Catilina, perirono sul campo di battaglia ai primi dell'anno successivo.
In quel momento, C. poteva dire di aver realizzato intorno a sé l'unione di tutte le "persone oneste", gli Optimates, ma il trionfo non fu di lunga durata. Dopo il consolato di Cesare (nel 59), le violenze del partito popolare condotto da P. Clodio Pulcro, allora tribuno, portarono alla messa sotto accusa dell'ex console, per aver fatto giustiziare, senza processo, dei cittadini. La coalizione degli Optimates non fu in grado di resistere alla volontà dei triumviri, Cesare, Pompeo e Crasso e, mentre Cesare si avviava verso la Gallia di cui s'iniziava la conquista, C. fu costretto in esilio in Grecia (marzo 58).
Torna tuttavia a Roma l'anno seguente e cerca di allacciare rapporti con il triumvirato. Fu questa, per lui, l'occasione di un'intensa attività oratoria: ringraziamenti ufficiali (Oratio cum Senatui gratias egit, Oratio cum populo), invettive al senato contro coloro che l'avevano tradito (In Pisonem, eccetera).
Ma in una repubblica lacerata da ambizioni feroci, più che altro si dedica a scrivere le sue opere maggiori, non partecipando che marginalmente alla vita politica: nel 55 pubblica il "De oratore", nel 51 portò a termine il "De rupubblica". Nel 51 è governatore in Cilicia.
In seguito allo scoppio della guerra civile, nel 49, dopo molte esitazioni si unirà al partito del senato, capeggiato da Pompeo. Quando quest'ultimo viene sconfitto, C. ottiene facilmente il perdono di Cesare. Nel frattempo, divorzia dalla moglie Terenzia e sposa Publilia. Nel 45 gli muore la figlia Tullia; inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche. Nel 44, morto Cesare, rientra nella vita politica e comincia la sua lotta contro Antonio ("Filippiche"). Ma dopo il voltafaccia di Ottaviano, che stringe il II triumvirato, il suo nome viene inserito nelle liste di proscrizione: muore nel 43 sotto i colpi dei sicari di Antonio.

CONSIDERAZIONI SUL PERSONAGGIO STORICO E SUL SUO PENSIERO POLITICO-FILOSOFICO.

*Degno testimone e protagonista del tramonto della repubblica, C. fu politicamente un conservatore "moderato": l'idea che cercherà di difendere nel corso della sua carriera sarà quella dell'egemonia di un blocco sociale ("concordia ordinorum"), sostanzialmente la classe possidente dei senatori e dei cavalieri: C., grande avvocato e manipolatore delle parole, rivela la sua ars dicendi come una tecnica sapiente e produttiva, funzionale al dominio dell'uditorio e, quindi, ottimo strumento politico. Il fine dell'oratoria e della filosofia ciceroniane è quello di dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante il cui bisogno di ordinare non si traduca in ottuse chiusure (ma rispettasse gl’ideali dell’ "humanitas"), cui l’ossequio per la tradizione antica non impedisca l'assorbimento della cultura greca. Quindi l'intero operato di C. si può interpretare come la ricerca di una difficile situazione di equilibrio fra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione delle leggi tradizionali. La stessa collaborazione con i triumviri fu una risposta al bisogno di un governo autorevole e anche in questo caso C. si preoccupò di mantenere saldo il potere del senato.
A C. mancarono le condizioni per crearsi il seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; inoltre sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi; infine non tenne conto del fatto che i ceti possidenti avrebbero potuto ritenere che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica di Cesare.
*Fedele alla tradizione come visto, C. non può immaginare un mondo dove l'impegno nella gestione della cosa pubblica non sia il valore supremo. Ed è forse qui che si situa il centro e il fine ultimo di tutti i suoi pensieri. Ciò, ad esempio, spiega le sue opzioni filosofiche, la ripugnanza che prova nei confronti dell'epicureismo, non perché Epicuro facesse del piacere il bene supremo, ma perché giudicava la felicità incompatibile con la partecipazione ai pubblici affari. Allo stesso modo, le sue simpatie per lo stoicismo si rivolgevano a quegli aspetti della dottrina che mettevano in luce l'importanza delle virtù sociali, la giustizia, l'umanità, il coraggio civico, la devozione alla patria.
Durante il viaggio in Grecia, C. aveva seguito gli insegnamenti dei filosofi e, fedele alla sua prima vocazione, quello del nuovo capo dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successore di Filone di Larissa. In questo modo diede inizio alla formazione di quella che possiamo definire la sua dottrina filosofica: un "probabilismo pragmatico" che subordinava la conoscenza teorica (giudicata, nella maggior parte dei casi, inaccessibile nella sua perfezione) all'efficacia e soprattutto al valore morale dell'azione. Così egli risolveva, a suo modo, il problema dell'eloquenza, rispetto ai termini della questione posti da Platone: non era più necessario utilizzare tecniche di persuasione troppo sofisticate per arrivare alla verità; la verità equivale a ciò che è onesto (ciò che conviene).
Un'ulteriore elaborazione consentiva inoltre di risolvere lo scetticismo degli accademici, grazie alle soluzioni "medie" immaginate da Panezio, secondo il quale il bene perfetto del saggio stoico, situato troppo al di sopra della portata umana, era sostituito dal concetto di azione "appropriata" e di "dovere".
In seguito, nel suo "De Officiis", C. esporrà questa dottrina di Panezio e ne farà un testamento filosofico dedicato al figlio Marco. E’ evidente, in tal modo, come possa essere giustificato (e, in una certa misura, anche criticato) l'epiteto di "eclettico" affibbiato al C. filosofo, laddove però questo eclettismo non era fatto di elementi presi a destra e a manca, bensì era una sintesi autonoma operata in funzione di bisogni spirituali ben definiti e soprattutto in funzione della necessità di giustificare l'azione.
*In tutto questo, C. resta romano, nonostante la sua immensa cultura greca. Dopo il soggiorno ateniese, recatosi a Rodi, ritrovò il rètore Molone, che aveva frequentato già a Roma e dal quale, facendo tesoro delle esperienze oratorie già fatte, accettò, con maggiore docilità e anche con più largo profitto, alcune lezioni. La sua eloquenza, appassionata e sensibile, era naturalmente incline a una violenza espressiva che l'avvicinava all'asianesimo. A Rodi, e senza dubbio anche sotto l'influenza del pensiero stoico che Posidonio insegnava in quel periodo nell'isola, essa si addolcì, temperò la sua veemenza.
*Un ultima notazione, sullo stile: in generale la prosa di C. risulta sintatticamente assai complessa e aritmicamente scandita, ma insieme limpida ed attentissima alle sfumature di significato. C., del resto, codifica quello che sarà il linguaggio della filosofia e in generale della cultura latina.

OPERE.
*Oratoria. L'attività oratoria di C. si intreccia inevitabilmente con le vicende politiche di Roma negli ultimi cinquanta anni di repubblica. Queste, grosso modo, le tappe:
- nell'81 egli debutta nel foro come avvocato;
- nell'80, durante la dittatura di Lucio Silla, C. si espone accettando di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da alcune potenti figure amiche del dittatore. Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio, liberto di Silla: gli assassini, per avere le mani pulite, decisero di sbarazzarsi del figlio accusandolo di avere ucciso il padre. C. dovette stare molto attento nell'accusare personaggi vicini al potente dittatore e, per non sembrare sovversivo, copriva di lodi Silla: il bravo avvocato non era ostile al buon governo sillano ma, come molti, avrebbe preferito porre un freno agli arbitrî e alle proscrizioni. L'orazione "Pro Roscio Amerino" ebbe successo e Sesto Roscio fu ritenuto innocente.
- nel 70 i siciliani gli proposero di sostenere l'accusa nel processo da essi intentato contro l'ex governatore Verre, che aveva sfruttato la provincia pensando solo ai propri interessi. C. raccolse le prove in tempo brevissimo, il che permise di anticipare i tempi del processo: al dibattito, C. non fece in tempo a esibire tutte le prove che aveva raccolto e organizzato: dopo solo pochi giorni Verre fuggì dall'Italia e venne condannato in contumacia. Successivamente C. pubblicò le "Verrinae" che si rivelarono come un documento storica di grande importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l'amministrazione romana nelle province (diventare governatore di una ricca provincia era un'occasione dalla quale si potevano trarre grandi profitti grazie allo sfruttamento). La vittoria su Ortensio, difensore di Verre, fu anche una vittoria in campo letterario: lo stile delle "Verrinae" è già completamente maturo, C. ha eliminato alcune esuberanze, il periodare è armonioso, architettonicamente complesso, ma la sintassi è estremamente duttile e, se l'occasione lo richiede, C. non fugge dall'uso di un fraseggio coinciso e martellante.
- nel 66 C., pretore nel senato, parla a favore del progetto di legge presentato dal tribuno Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l'Oriente, minacciato tra le altre cose da Mitridate, re del Ponto ("Pro lege Manilia"). Parlando di fronte al popolo in favore di tale legge, C. insisté sull'importanza dei tributi che affluivano dalle province d'Oriente; la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale beneficio se Mitridate avesse continuato la sua azione. In realtà, a essere minacciati dalla situazione che si veniva a creare in oriente erano soprattutto gli appartenenti al ceto finanziario e imprenditoriale, cui C. era legato. C. era completamente contrario a qualsiasi progetto di distribuzione delle terre pubbliche ai ceti meno abbienti; egli cominciava a vedere la via d'uscita dalla crisi che minacciava la repubblica nella concordia tra ceti abbienti, senatori e cavalieri (concordia ordinum).
- C. divenne console nel 63 e soffocò la congiura di Catilina ai danni dello stato: da allora in poi sarebbe stato il teorizzatore di quella "concordia ordinum" che lo aveva portato al potere. Le più celebri orazioni consolari di C. sono le 4 "Catilinarie", con le quali egli svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la sua decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo. Nella I Catilinaria C. fa uso di un artificio retorico chiamato prosopopea (personificazione) della patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con parole di biasimo.
- nel 62 C. compose la "Pro Archia poeta", l'orazione pronunciata in difesa del poeta Archia, venuto a Roma nel 102 e accusato di usurpazione della cittadinanza romana. Essa è celebre per l'appassionata difesa della poesia che contiene e per la rivendicazione della nobiltà degli studi letterari.
- richiamato dall'esilio nel 57, trova Roma in preda all'anarchia: si fronteggiavano le opposte bande di Clodio e di Milone (amico personale di C.). Fu in tale clima che nel 56 C., trovandosi a difendere Sestio ("Pro Sestio"), un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza, espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. La concordia ordinum si era rivelata fallimentare: C. ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell'ordine politico e sociale. I boni, una categoria che attraversa verticalmente gli strati sociali esistenti, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare, saranno d'ora in poi il principale destinatario della predicazione etico politica di C.. Il dovere dei boni è quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma di fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. L'esigenza di un governo più autorevole spinge tuttavia C. a desiderare che il senato e i boni si affidino alla guida di personaggi eminenti e illustri: questa teoria verrà approfondita nel "De repubblica" ed è la principale causa che portò C. ad avvicinarsi al triumvirato. Il bravo C. cerca di fare in modo che il potere dei triumviri non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti delle istituzioni repubblicane.
- tra le orazioni anticlodiane occupa un ruolo particolare quella in difesa di Marco Celio Rufo ("Pro Celio Rufo"), un giovane brillante e amico di C.. Celio era stato l'amante di Clodia e ora lo avevano condannato di tentato avvelenamento nei confronti di quest'ultima. Attaccando Clodia, in cui indicò l'unica regista di tutte le congiure contro Celio, C. ebbe modo di sfogare il suo rancore nei confronti del fratello di lei: la donna è descritta come una persona infima e viene accusata pure di rapporti incestuosi. Tramite la descrizione della vita di Celio, C. ha modo di dipingere uno spaccato della società romana del suo tempo, e si sforza di giustificare agli occhi della giuria i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e che possono destare scandalo solo allo sguardo di moralisti troppo severi e attaccati al passato.
C. qui ci propone un originale modello culturale, teso a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala di valori che continui ad essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccesso di rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo sentito consapevolmente in trasformazione.
- gli scontri tra le bande di Clodio e di Milone durarono ancora a lungo e nel 52 Clodio rimase ucciso. C. si assunse la difesa di Milone, accusato di avere ucciso il rivale. L'orazione composta da C. ("Pro Milone") è considerata uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle parti e l'abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del tirannicidio. C. davanti ai giudici, però, fece un fiasco completo: gli cedettero i nervi a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava la città e così Milone dovette fuggire in esilio.
- dopo la vittoria di Cesare, C. ne ottenne il perdono: nella speranza di rendere il regime meno autoritario cercò forme di collaborazione e accettò di perorare di fronte al dittatore le cause di alcuni pompeiani pentiti. Le "orazioni cesariane" ("Pro Marcello"…) si collocano tra il 46 e il 45 e sono caratterizzate da un'abbondanza di elogi a Cesare la cui completa sincerità è piuttosto difficile ammettere.
- dopo la morte di Cesare, per indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio, C. pubblicò le "Filippiche" (44), in numero forse di 18.
*Retorica. Abbiamo visto in quale misura l'arte oratoria, in C., sia stata legata all'azione; è chiaro, dunque, che nessuno meglio di lui era in grado di elaborare una teoria romana dell'eloquenza, come mezzo di espressione e come strumento politico. Le prime riflessioni al riguardo risalgono alla sua giovinezza; ma, in quell'epoca, egli non ha ancora concepito il problema in tutta la sua ampiezza.
- Ancora troppo vicino ai suoi maestri greci, per i quali l'eloquenza era una "tecnica" fra le altre, aveva scritto un manuale scolastico, il "De inventione".
- Solo nel 55, quando le circostanze lo sollecitarono a riflettere sulla reale funzione dell'eloquenza all'interno della città, compose il "De oratore", un’opera in forma dialogica, "platonica" ma con contenuti romani: Crasso e Antonio sono i principali interlocutori. Il tema non è l'eloquenza in quanto tale né le regole per praticarla, ma la persona stessa dell'oratore, assunto come ideale civico e umano, uomo politico della classe dirigente, guidato dalla "probitas" e dalla "prudentia": egli dovrà servirsi della sua abilità non per scopi demagogici, ma per invogliare alla volontà dei "boni". Il vecchio problema di Catone è riproposto in termini nuovi, ma seguendo il medesimo spirito. Per C. l'oratore è un pensatore universale, che deve conoscere a fondo tutto ciò su cui si può trovare in obbligo di parlare (e in ciò C. si avvicina alle tesi di Platone), ma deve superare anche tutte le tecniche particolari, essere un artista della parola per persuadere con la grazia, e al tempo stesso essere un filosofo per scoprire ogni volta le ragioni profonde delle cose.
IL I libro tratta così proprio della preparazione generale dell’oratore (appunto soprattutto filosofica, con predilezione per la filosofia morale); il II dell’invenzione, della disposizione, della memoria; il III della elocuzione e dello stile.
- La riflessione di C. sull'eloquenza trovò espressione, in seguito, nel "Brutus" (46), che è un quadro degli oratori romani dalle origini fino allo stesso C.. Vi si combattono gli "attivisti", ma forse più correttamente si prende una posizione intermedia tra quelli e gli "asiani", teorizzando, per così dire, la duttilità "situazionale" dell’oratore.
- L' "Orator" (46), infine, è opera più tecnica, che affronta in modo tutto particolare il problema del ritmo e dello stile nella prosa.
*Politica. C., sin dalla sua giovinezza, era stato attratto dalla filosofia. Questa aveva nutrito la sua eloquenza. Quando l'attenuarsi forzato della sua attività politica gli concesse qualche respiro, egli volle trasporre, nella cornice della realtà romana, i dibattiti del pensiero filosofico greco. Partendo dalle cose più urgenti, in una città in piena decomposizione politica, scrisse
- il "De republica" (tra il 54 e il 52), in 6 libri, un trattato sullo Stato, il cui proposito era ispirato dal celebre dialogo di Platone. Noi ne conosciamo solo una parte (buona parte dei primi 2 libri e frammenti degli altri), trasmessaci principalmente da un palinsesto scoperto nel 1822 da Angelo Mai.
L’opera è, più specificamente, costituita da 3 dialoghi, tenuti in 2 giorni, a ognuno dei quali sono dedicati 2 libri.
Delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) nessuna è buona ed esaustiva per se stessa: ideale è la Repubblica romana, in cui queste tre forme trovano giusto temperamento ed equa applicazione ("regime misto") nella "collaborazione" tra consolato, senato e comizi (tuttavia, in verità, viene preferita la repubblica aristocratica dell’età scipionica) [I libro]; inoltre, la costituzione romana supera le altre perché non si deve ad uno solo, ma è opera di più generazioni e di molti uomini d’ingegno [II libro]. Nel III libro si disputa del fondamento della costituzione: se, cioè, essa debba basarsi sulla giustizia o sull’utilità e sul diritto del più forte. Argomento dei libri IV e V sono invece le istituzioni morali e politiche, la scienza del governo e i doveri del "princeps" (ma il singolare si riferisce piuttosto al "tipo" dell’uomo politico eminente: C. sembra pensare più ad un’elite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei "boni"), visto – utopisticamente – come un "dominatore asceta". Infine, nel VI libro, si tratta della felicità riservata dopo la morte agli uomini che hanno ben meritato della patria ("Somnium Scipionis").
- "De legibus" (52-?). Forse erano 6 libri, ma ce ne sono pervenuti 3, e per giunta non interi.
C. tratta del diritto razionale e naturale, e del concetto di giustizia da cui derivano le leggi. Esse hanno quindi in se stesse la ragione che vincola l’uomo al loro rispetto. Nella pratica, C. trova che le "dodici tavole" sono il plus non ultra (libro I). Negli altri 2 libri, è contenuta una serie di prescrizioni religiose e civili, scritte nel latino arcaico della primitiva legislazione romana.
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- "Accademica" (45). E’ un’opera dialogica composta in due tempi. C. compose prima 2 dialoghi ("Catulus" e "Lucullus"), che rifuse, poi, in una II ed., in 4 libri con altri personaggi, Attico e Marrone.
A noi è pervenuto il II libro della I ed. ("Accademica priora") e il I – incompleto – della II ed. ("Accademica posteriora"); vi si tratta del problema della conoscenza secondo lo spirito della "nuova accademia": l’uomo non può arrivare alla conoscenza, ma deve accontentarsi della "verosimiglianza".
- "De finibus bonorum et malorum" (45). Dedicata a Bruto, è un’opera dialogica in 5 libri, in cui appunto si tratta dell’essenza del sommo bene e del sommo male.
In ordine a tale problema, è esposta nel I libro la teoria epicurea (confutata nel II): sommo bene è la voluttà con i piaceri dello spirito, sommo male il dolore; nel III è svolta la teoria stoica (confutata nel IV): sommo bene è l’onesta e la sapienza. Il V libro contiene il pensiero di C., ed è un’esposizione delle dottrine accademiche e peripatetiche, secondo cui il sommo bene si consegue solo vivendo secondo la legge naturale, che esige la salvaguardia dell’animo mediante la virtù e quella del corpo mediante la soddisfazione degli appetiti naturali.
- "Tusculanae disputationes" (45). Dedicato a Bruto, è un dialogo in 5 libri, uno per ogni giorno ambientato nella villa di Tuscolo.
Si segue il metodo accademico peripatetico di esame delle opinioni diverse, dimostrandone la parziale falsità e ricavandone ciò che v’è di più verosimile. Il problema è quello della felicità. Nei primi 4 libri si parla di ciò che impedisce all’uomo di essere felice: il timore della morte (ma la morte è un bene, che l’anima sia immortale o no, perché dà eterna beatitudine); il dolore (il peggiore dei mali: ma la ragione lo sconfigge con la sopportazione ed il "buon senso"); la tristezza ed i turbamenti dello spirito (fondati su passioni e false opinioni, che la ragione però rimuove). Il V libro mostra come la virtù sola basti alla vita felice, affrancando l’uomo da timori, dolore e sofferenza; chi la possiede è forte, magnanimo, impassibile, invincibile.
- "De officiis". Trattato dedicato al figlio Marco: i primi 2 libri trattano "dell’onesto e dell’utile" (Panezio), il III del loro conflitto (Posidonio). C. cerca, in definitiva, nella filosofia, i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permette all’aristocrazia romana di riacquistare il controllo sulla società.
- I 3 dialoghi di argomento religioso e teologico: "De natura deorum", dedicato a Bruto, in 3 libri (nel I Velleio espone la dottrina epicurea sull’esistenza degli dei e la loro natura; nel II L. Balbo espone la dottrina stoica a riguardo: è il più interessante, in particolare per la parte che descrive l’ordine e le bellezze dell’universo, concepito finalisticamente come destinato al bene dell’uomo, secondo una Provvidenza invisibile, ma indubitabile; nel III A. Cotta – alterego di C. – presenta una visione scettico-razionalistica del problema: probabilismo applicato alla teologia, senza il dogmatismo ateo degli epicurei o quello panteistico degli stoici); "De divinatione", in 2 libri, sulla validità dell’arte divinatoria, che C. considera un’impostura; "De fato", dove si esamina il problema del rapporto tra fato e libero volere, e si espone una tesi – peraltro non originale – contraria al fatalismo stoico.
- "Cato maior de senectute", dedicato ad Attico (44). Si finge che Catone il censore, giunto in venerabile età, esalti alla presenza di Lelio e di Scipione Emiliano, attraverso numerosi esempi, la saggezza e i beni spirituali della vecchiaia: l’operosità non interrotta, l’integrità delle forze e dello spirito, i godimenti spirituali non certo inferiori a quelli dei sensi, la contemplazione serena della morte.
- "Laelius de amicizia" (44). Dinanzi a C. Fanno e M. Scevola, Lelio esalta l’amicizia: il dialogo si immagina avvenuto in occasione della morte di Scipione Emiliano. Viene affermato il valore morale dell’amicizia e si sostiene che colui che intende l’amicizia in modo utilitario concepirà in modo utilitario anche la morale, cioè non disinteressatamente (e questo in polemica con gli epicurei).

*Epistolario. Si compone, nella forma in cui ci è tramandato, di 16 libri "Ad familiares" (parenti e amici, dal 62 al 43 a.C.); 16 libri "Ad Atticum" (il migliore amico di C.:68-44 a.C.); 3 libri "Ad Quintum fratrem" (dal 60 al 54) e 2 libri "Ad Marcum Brutum". Il tutto per un totale di 900 lettera circa, in cui la varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia fedelmente in quello dei toni. Si tratta – è bene sottolinearlo – di lettere "vere", che perciò ci mostrano un C. "privato, un ufficiale", nonché uno spaccato importantissimo (un documentario, quasi) della Roma del tempo.
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*Poesia. Alcuni poemi: una traduzione in versi dei "Fenomeni" (poema astronomico, d'ispirazione stoica, scritto dall'alessandrino Arato), un poemetto epico dedicato alla vita e alle gesta del suo nobile concittadino C. Mario ("Marius") e un poemetto, ancora, dedicato alla propria attività nel periodo del consolato ("De consulatu meo"). Sono generalmente opere di poco valore artistico, se non per la più mobile struttura dell’esametro.

 
Gaio Giulio Cesare
(Roma 100 ca. – 44 a.C.).

VITA.
Nacque da una famiglia di vetusta nobiltà; mostrò presto simpatia per il partito democratico, cui era legato anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo sposò Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia Minore (81-78)..Quando tornò in patria, dovette sostenere le accuse di concussione mossegli contro. In questo episodio, mise in luce la propria grande arte oratoria, la freddezza e la compostezza. C. si adeguò subito alla vita politica di Roma.
Nel 68 cominciò il "cursus honorum" in Spagna, come questore. Continuò poi come edile, accattivandosi il favore del popolo con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo fu eletto pontefice massimo, la carica più alta nel sistema religioso del periodo, molto legata alla vita politica. In questi anni, fu spesso coinvolto in tribunale, per via della congiura di Catilina, che proprio in quegli anni veniva sventata. Nel 62, ottenne la carica di pretore; l'anno dopo, il governo della Spagna. In questo periodo ripudiò la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in scandalo con Clodio. Intelligentemente, trattò quest'ultimo con mitezza, mirando all'appoggio politico che poteva trarne dall'amicizia. Nel 60, chiese al Senato la carica di console, ma non gli fu accordata, per via del suo irriducibile nemico Catone.
C., comunque, arrivò lo stesso al potere grazie a quella alleanza che in seguito sarà definita come I triumvirato: strinse cioè un accordo del tutto privato con Pompeo Magno, e Marco Licinio Crasso, personaggi potentissimi, scontenti anche loro dell'atteggiamento del Senato nei loro confronti.
C. sposava in terze nozze Calpurnia, e contemporaneamente dava in isposa Giulia, la proprio figlia, a Pompeo.
L'accordo portò i suoi frutti, e nel 59 C. fu eletto console. Da questo momento in poi darà prova delle sue doti militari e politiche, distinguendosi e superando qualsiasi rivale.
Proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese la conquista, terminata nel 51. Il conflitto col senato e l’aristocrazia romana e lo scontro con Pompeo sfociarono (49) in guerra civile: vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia, C. raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e soffocandone definitivamente i focolai di resistenza.
Intanto, padrone assoluto di Roma, C. ricoprì – talora contemporaneamente – dittatura e consolato.
Il 15 marzo del 44 veniva tuttavia assassinato da un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana, preoccupati per le tendenze aristocratiche e regali che C. andava assumendo.

OPERE.
* "Commentarii de bello Gallico". Sono 7 libri, uno per ognuno dei 7 anni della guerra gallica, e cioè dall’inizio (58) alla presa di Alesia e alla sconfitta di Vercingetòrige (52).
E’ opera scritta "di getto", probabilmente fra il 51 e il 50 (ma c’è anche chi pensa ad una scrittura graduale e contemporanea agli eventi), con grande equilibrio e straordinario senso della storia.
Con quest’opera, C. intese evidentemente reagire alle critiche degli avversari politici per i grossi sacrifici di sangue e di denaro che la guerra aveva imposto: egli presentava così ai Romani la conquista della Gallia come una necessità storica volta ad evitare che i Germani, passato il Reno, invadessero la Gallia appunto. Completati dall’ VIII libro, che copre gli anni 52-51 ed è solitamente trribuito al generale Irzio, furono seguiti dai
* "Commentarii de bello civili". Sono in 3 libri, e narrano i fatti degli anni 49-48, dal passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della guerra alessandrina (ott. 48).
Il tono, rispetto alla precedente opera, è più partecipe (arrivando addirittura a sfiorare il satirico), anche per l’intento apologetico: C., difatti, vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nella legalità, e che anzi l’ha sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria costante volontà di "pax"; mostra i propri esempi di "clementia"; e così via.
Manco a dirlo, il destinatario della sua propaganda è lo strato "medio" e "benpensante" dell’opinione pubblica.
Insomma, da una parte C. e dall’altra una classe dirigente ormai indegna di governare: Questa contrapposizione tra il vecchio e il nuovo è il fulcro centrale di questa entusiasmante opera storico-narrativa, ed è anche la sua chiave d’accesso. E’ lui, infatti, C., l’esecutore di un processo storico rivoluzionario, che senza alcun dubbio comporterà il superamento dell’oligarchia-senatoria a vantaggio del popolo romano.
Certamente, essendo stata scritta da C. stesso, l’opera non può essere imparziale, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua sincerità. Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile e ne attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché loro e non Pompeo erano i veri colpevoli. Loro avevano infangato la sua dignitas, loro con il senatus consultum ultimum avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre il veto. C. non voleva la guerra civile. Se così non fosse come si spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli avversari? Non c’è stato un combattimento, poiché il suo scopo era far arrendere l’avversario e non distruggerlo, e ciò avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro Afranio e Petreio e nei primi anni della guerra contro l’esercito di Pompeo. Come spiegare allora la clemenza di C. nei confronti dei vinti? E come possiamo spiegare la mancanza nell’opera di frammenti e di riferimenti riguardanti l’attraversamento del Rubicone? Inoltre dalla lettura viene fuori anche un grande amore di Cesare per i suoi soldati, tanto grande non fargli citare mai nell’opera l’ammutinamento della nona legione a Piacenza. Egli, poi, non parla mai di hostes, ma di adversarii, perché gli hostes non possono essere cittadini romani Nella sua opera non c’è odio, né nei confronti di Catone e degli ottimati, né nei riguardi di Pompeo. Quest’ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano ed era geloso dei successi di C., che offuscavano il suo nome. C. definiva Cnaeus Pompeius Magnus, come un uomo che aveva sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo entusiasmare dagli ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso sapeva benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di poter comprendere il suo vero ideale politico. C. non commenta la morte di Pompeo, la narra e nel suo silenzio c’è angoscia. L’opera termina con l’assassinio di Potino, ordinato da C. per vendicare il grande Pompeo.
* Il già citato Irzio par essere autore anche del "Bellum Alexandrinum" (sull’omonima guerra, 48-47).
* Infine, del "Corpus Caesarianum" fanno parte anche un "Bellum Africanum" (in "sermo vulgaris") e un "Bellum Hispaniense", in cui scrittori di molto minore levatura, forse essi stessi generali di C., narrano le guerre d’Africa e di Spagna (46), appunto.
* Altre opere (purtroppo perdute): l’ "Antìcato", 2 libri in polemica con l’elogio di Catone fatto da Cicerone; il "De analògia", un’opera grammaticale in 2 libri, che interveniva nella controversia fra "analogisti" e "anomalisti" sul problema della natura delle lingue (queste, ci si chiedeva, erano sottoposte a regole razionali - quelle dell' "analogia" - o potevano essere oggetto di creazioni arbitrarie, "senza leggi" – anomale - secondo la fantasia degli scrittori? C., da buon atticista, propendeva per la stretta disciplina e per la purezza della lingua: per lui il linguaggio si costruisce mediante una selezione naturale-razionale-sistematica); l’ "Iter", poemetto a memoria del viaggio fatto da Roma in Spagna; le celebri "Epistulae"; le altrettanto note "Orationes", in cui raggiunse – secondo i contemporanei – un notevole grado di maestria.

CONSIDERAZIONI.
Nei suoi "Commentarii", C. si propose di fornire materiali agli storici per stendere un’opera criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un’opera d’arte, limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista e testimone, e spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo comportamento militare e politico. E’ da dire, comunque, che sotto questa impassibilità, la critica recente ha tuttavia ritenuto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni quasi "subliminali" degli avvenimenti, a fine di propaganda.
Comunque, proprio il suddetto presunto proposito di verità, nonché la semplicità stilistica, conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed eleganza, frutto anche di lunga consuetudine di studio.
Lo stesso titolo di "Commentarii" può significare che si tratta di un libro di memorie o di appunti presi giorno per giorno; il titolo quindi accentua il significato di diario che riporta il nudo tessuto degli avvenimenti.
Sulla traccia del greco Senofonte, poi, C. racconta i fatti in terza persona, al fine di attribuire il massimo di oggettività agli avvenimenti narrati e ai suoi comportamenti; da questo scrupolo dell'oggettività è derivato il rifiuto di inserire lunghi discorsi in forma diretta, così cari agli storici antichi.
Accanto al valore storico non si può dimenticare, infine, il grande valore artistico dei Commentarii cesariani, che in tutti i tempi hanno costituito un testo base per lo studio della lingua latina. "Nudi sono – dice Cicerone – schietti e semplici questi Commentarii, che, pur essendo privi di ogni ornamento, sono pieni di grazia". Non minori sono gli elogi tributati all’opera dagli studiosi moderni. Il Marchesi afferma che nessuno degli antichi seppe scrivere un opera "dove siano adoperate meno parole per dire tutto, dove tutte le cose più complicate siano espresse con così sobria e precisa chiarezza da sembrare disegnate". La narrazione è condotta in modo personalissimo e sempre fresco e non viene mai appesantita dall’autocelebrazione.
Sul piano strutturale dell'intera opera, ogni elemento linguistico punta direttamente a mettere in mostra la figura dello scrittore, che è insieme demiurgo-ordinatore di ogni azione; autore-narratore di ogni piano e di ogni progetto; attore-protagonista di ogni scena ideata e realizzata. Una preziosa spia, in tal senso, è il fatto che il racconto è sapientemente riportato in terza persona e in essa il nome di Caesar oppure, in sua vece, is o ipse appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione spesso anche la prima persona plurale (nostri, nostrum, nostrorum): e ciò sia per mettere sempre in prima linea la persona dell'autore sia per coinvolgere, per quanto su un piano inferiore a quello del comandante, gli attori secondari del racconto, che sono, poi, sempre "i soldati di Cesare". Ad essi si contrappongono, nella veste di soggetti passivi, oggetto del racconto, i nemici, che, nel De bello gallico sono i barbari con i loro vari nomi, nel De bello civili, invece, sono gli oppositori politici dello scrittore, anch'essi puntualmente individuati.
Naturalmente, alcuni di questi nemici hanno una grande personalità (ad esempio, Vercingetorige nel De bello gallico e Pompeo nel De bello civili), tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore, che tutti è riuscito a superare. In questo contesto ha molta importanza, quindi, mettere in evidenza i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e turbinose della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro significati è facile cogliere l'intima ansia dello scrittore, che pone su un versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori, ossia quelli della sua parte; sul versante opposto, invece, egli colloca i nemici, tutti destinati alla sconfitta. Gli scenari delle battaglie vengono concepiti sempre come degli immensi palcoscenici, in cui le azioni del regista-attore vengono scandite appunto dall'uso dei tempi del verbo, in cui prevale il presente storico, che consente allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il racconto, suscitando l'attenzione del lettore, dall'altra, di "rappresentare" gli eventi narrati. Non mancano il perfetto e 1'imperfetto, ma ciò avviene con minore frequenza e il loro uso è subordinato alla volontà del narratore di frapporre una netta separazione tra se stesso e la narrazione.
Sul piano stilistico a C. vengono concordemente riconosciute dalla critica le seguenti qualità: la chiarezza (=perspicàitas), ossia un procedimento lineare e terso, alieno da ogni pensiero contorto e involuto; la brevità (= brevitas), che mira all'essenzialità e alla rapidità; l'assenza di ornamenti superflui, come bene intuì Cicerone, quando definì nudi i Commentarii cesariani; l'eleganza del dettato (= urbanitas), al punto che pochi sono gli scrittori dell'intera latinità che possano gareggiare con 1ui in purezza e proprietà di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli incarnò quel puri sermonis amator, che, in uno scritto minore, aveva vista realizzato nel poeta comico Terenzio; infine, l’armonia e simmetria dei costrutti, che gli antichi (con Cicerone che ne fu il massimo maestro) chiamavano concinnitas.
Sul piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la tendenza all’arcaismo e compie determinate scelte sui vocaboli, senza preoccuparsi se poi ciò causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano sintattico, egli predilige la paratassi all’ipotassi, soprattutto per motivi di chiarezza, e riesce a costruire sempre dei periodari lineari e lucidi.


Cornelio Nepote
(Gallia Cisalpina 99 ca - ? 24 ca a.C.)

*N. è autore della più antica raccolta di biografie latine giuntaci: il "De viris illustribus" (34 a.C.), almeno 16 libri di vite di generali, storici, poeti e oratori latini e stranieri (raggruppati secondo le "categorie professionali"), con una trattazione parallela derivata forse dalle "Imagines" di Marrone e ripresa, in seguito, nelle "Vite" di Plutarco.
Dell’opera ci restano numerosi frammenti: 2 vite (Catone il Vecchio e Attico) del "De historicis latinis" e l’intera sezione "De excellentibus ducibus exterarium gentium" (22 biografie).
E’ chiaro l’intento dell’autore di fare del genere letterario della biografia il veicolo di un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, evidentemente senza adombramenti nazionalistici (si tratta di un caso di "relativismo culturale"?)
*Altre opere (perdute): "Cronica", storia universale in 3 libri, forse in prosa, in cui già affiorava l’esigenza di un confronto tra la civiltà romana con le altre; "Exempla", aneddoti e curiosità storiche e geografiche in 5 libri; "Vite" più ampie di Catone e di Cicerone.
*N. è un improvvisatore, e cita le sue fonti spesso senza averne conoscenza diretta e senza controllarne il valore: le sue biografie appaiono piuttosto panegirici moraleggianti che ricerche critiche, e ci danno informazioni preziose solo nelle descrizioni d’ambiente.


G. Sallustio Crispo
(Amiterno, Sabina, 85 – Roma 35 o 36 a.C.)

VITA.
S. nacque da famiglia pebea. Compì i suoi studi a Roma, venendo a contatto con lo studio neopitagorico di Nigidio Figulo. Partecipò anche alla vita mondana della capitale. Politicamente si affiancò a Cesare. Per questo suo impegno ottenne la carica di questor nel 54. Questo fu un anno molto turbolento per la politica romana: vi fu l'uccisione di Clodio, un demagogo del popolo, ad opera di Milone. S. si schierò decisamente contro quest'ultimo e anche contro Cicerone, suo difensore. Nel 50 fu espulso dal senato per immoralità (aveva infatti una relazione con Fausta, figlia di Silla e moglie in seconde nozze con Milone). Durante le guerre di quel periodo fu fedele a Cesare, aiutandolo anche alle operazioni militari in cui, però, non risultò sempre vincitore.
Nel 48 riottenne la questura, la dignità senatoria. Alla fine del 47 seguì seguì Cesare in Africa, e portò a compimento una operazione militare, conquistando l'isola di Cercina. A seguito di questo successo, Cesare gli affidò il compito di governatore della cosiddetta Africa Nuova, costituita dal vecchio regno numidico di Iuba. Nei mesi di governo potè accumulare notevoli ricchezze che gli permisero, dopo la morte di Cesare ed il suo ritiro dalla vita pubblica, nei celebri "Horti Sallustiani", di vivere in ricchezza componendo le sue opere.

OPERE.
Di S. abbiamo:
*due monografie:
- "De coniuratione Catilinae" (42?): con essa, lo storico interrompe la tradizione annalistica e si occupa di un episodio di storia contemporanea – appunto la congiura e il moto del 63-62 – facendovi precedere un’analisi della condotta cesariana del 66-63, vista come unica valida alternativa al corrotto "regime dei partiti", con riflesso sulle sue scelte politiche.
Tutta la prima parte dell’opera è, praticamente, un’analisi e un’esegesi dell’inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta perciò un quadro fosco, ma estremamente vivace, di una società profondamente corrotta, su cui campeggia come figura dominante Catilina, intelligente, coraggioso e malvagio. Accanto a lui, altri personaggi "studiati" con eguale interesse: i congiurati, Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone (visti come entrambi positivi – direi "complementari" – per Roma: uno con la sua liberalità, munificenza e misericordia; l’altro con la sua integritas, severitas, innocentia…)
Come si vede, il metodo adottato nell’analisi è moralistico: S. ritiene che l’antica grandezza della repubblica fosse garantita dall’integrità e dalla virtù dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso le cause della decadenza e la possibilità di tentativi come quello di Catilina.
- "Bellum Iugurthinum" (40 ca): narra, in 114 capitoli, la guerra combattuta dai romani (111-105 a. C.) contro appunto Giugurta, re di Numidia.
Ma anche qui il taglio è politico: se infatti, da una parte, S. si dimostra capace di forti sintesi storiche, dall’altra rivela vigore polemico nel denunciare l’incompetenza della nobilitas nella conduzione della guerra, e la sua corruzione generale; nel valorizzare le ragioni espansionistiche della classe mercantile; nell’auspicare la nascita di una nuova aristocrazia, fondata sulla "virus" (a tal proposito, si ricordi il riportato discorso di Mario).
*le "Historie" di cui abbiamo un numero abbastanza cospicuo di frammenti di 5 libri e alcuni discorsi. Esse riprendono e sviluppano le Historiae di Sisenna, andando dalla morte di Silla (78) alla guerra di Pompeo contro i pirati (67). Dai frammenti, si evince che S. era ritornato all’annalistica e che il suo pessimismo si era, se possibile, acuito.
*Oggi non conosciamo più la sua traduzione dei poemi di Empedocle (ammesso che l' "Empedoclea" di cui parla Cicerone in una lettera, sia davvero opera sua). A lui si attribuiscono anche 2 epistole politiche a Cesare su un nuovo ordinamento dello stato; quasi sicuramente spuria è invece un’invettiva contro Cicerone, di scuola retorica.

CONSIDERAZIONI.
*S., dunque, scelse i temi delle sue due "monografie" con intenti ben precisi: mostrare in che modo un regime aristocratico, quale quello instaurato dopo la sconfitta dei Gracchi, fosse andato progressivamente in rovina. La prima delle cause era da ricercare negli scandali che avevano accompagnato la guerra contro il re numida Giugurta, e che avevano messo in luce i compromessi e la corruzione di quegli stessi uomini che, nel senato, erano i responsabili della politica romana: la stessa personalità universalmente rispettata di Metello, cui si era finito per dare il carico della guerra, non bastò a impedire l'ascesa di C. Mario, al quale il popolo affidò l'incarico di porre termine a una guerra quasi conclusa da Metello, raccogliendone i frutti della gloria. Questo episodio aveva segnato, in effetti, l'inizio delle guerre civili, che dovevano provocare le smisurate ambizioni dello stesso Mario. La "Congiura di Catilina", mettendo in luce i crimini di cui erano stati complici un pugno di aristocratici, esaminava, a sua volta, le cause morali di tale decadenza: gusto del piacere, corruzione dei costumi, sfrenata avidità di denaro.
Dunque, S. considerò la storiografia – ritenuta comunque inferiore alla politica – non solo come cronaca di fatti, ma anche come "archeologia", cioè come ricerca delle loro cause: essa quindi tende a configurarsi come indagine sulla crisi, e l’impostazione monografica (una novità quasi assoluta) ben si prestava alla messa a fuoco di un periodo o problema storico (analizzato da S. a partire comunque e sempre da un moralismo di fondo).
Il quadro che lo storico dipinge è già quasi degno di Tacito. S. scrive queste pagine dopo la rivoluzione guidata da Cesare (senza dubbio dopo la morte dello stesso Cesare), e dopo che il mondo da lui evocato si è già definitivamente dissolto sul campo di battaglia di Farsàlo.
S. non è un "democratico" che rivendica al popolo una parte di potere. Come i suoi predecessori, da Catone a Cicerone, è l'avvocato dei valori morali essenziali, un adepto di quel "conservatorismo intelligente" che è il solo a poter salvare Roma. E’ il programma che Augusto riprenderà alcuni anni dopo.
*Un'altra caratteristica dell'opera di S. è la consapevole originalità del suo stile, nel quale si giustappongono ricercati arcaismi e ardite innovazioni ("arcaismo innovatore"), termini presi dal linguaggio familiare ed ellenismi. Egli vuole, innanzitutto, dare un'impressione di vita, in virtù di un periodo serrato e vibrante, di scorci rapidi e di giri sintattici "atemporali" (è la famosa "inconcinnitas" sallustiana), come l'impiego ripetuto di ellissi, dell'infinito narrativo o lo sviluppo sistematico di proposizioni participiali che costituiva, tra l'altro, uno dei tratti caratteristici e di maggior rilievo dello stile narrativo dei greci. Questa lingua composita suscita oggi l'impressione di una certa artificiosità.
Rimane lontana da quella "naturalezza" ciceroniana che ci è familiare, da quello sviluppo logico del pensiero in periodi analitici, dove l'idea è situata al centro del suo contesto di cause e di circostanze, e dove il ritmo accompagna e prelude ogni volta il precipitare della frase. Non dobbiamo credere, tuttavia, che il periodo ciceroniano fosse più vicino alla lingua parlata e la frase di S., invece, la libera creazione di un artista. La lingua quotidiana si collocava, in realtà, alla medesima distanza sia dall'uno che dall'altra. Per sua natura, non era né periodizzata né ritmata. Ma neppure disponeva delle molteplici risorse che S. mette insieme.


Publio Virgilio Marone
(Andes, 15 ott. 70 – Brindisi, 22 sett. 19 a.C.)

VITA.
*Le scuole. V. nacque in un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori, appartenente alla piccola borghesia locale, romanizzata piuttosto di recente. La sua figura è profondamente contrassegnata dall'infanzia trascorsa in quel paesaggio fresco e pacifico situato sulle rive dei Mincio, dove l'allevamento del bestiame e la coltivazione dei campi erano le risorse dominanti, e dove la sua famiglia possedeva una tenuta.
La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile.
Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del retore Epidio, esponente dell’indirizzo asiano, così chiamato perchè di moda in Grecia, uno stile oratorio ricco e brillante, in netto contrasto con lo stile semplice degli oratori classici. Epidio, inoltre, annoverava tra i suoi discepoli i giovani che sarebbero diventati gli elementi di spicco della futura classe dirigente di Roma, fra cui Marco Antonio e Ottaviano.
V., tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, nè intendeva perseguire la carriera forense. Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare all’Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone. Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, che saranno poi i curatori della prima edizione dell’Eneide.
Il periodo della sua formazione è dominato, sul piano letterario, dalle personalità di Catullo e di Elvio Cinna (del quale scriverà un elogio discreto nella IX Egloga), e dall'astro nascente di C. Gallo, della sua stessa età. Sedotto e affascinato da questo ambiente, V., quasi certamente, scrive in questo periodo almeno alcune delle composizioni che entreranno a far parte della raccolta oggi conosciuta col nome di "Appendix Vergiliana" (letteralmente: "Aggiunta a V."), nella quale poemi autentici convivono con pastiches di origine incerta.
*La perdita delle terre. Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, V. fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l’amico della sua giovinezza, Asinio Pollione, che ricopriva l’incarico di distribuire le terre ai veterani.
Grazie a lui, uomo sensibile alle arti ed alla cultura, il poeta potè in un primo tempo sottrarre le sue terre all’esproprio: tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato nella composizione delle "Bucoliche", i suoi campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia.
*Il trasferimento a Roma. Perdute le sue terre nel mantovano, V. si trasferì a Roma, dove pubblicò le "Bucoliche", composte dal 42 al 39 a.C..
L’anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate. Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che V. stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire. Mecenate ed Ottaviano, il suo referente politico, offrirono a V. una casa a Roma, nel quartiere dell’Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla composizione delle "Georgiche", compiuta in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.
Le "Georgiche" diedero a V. la fama e suscitarono l’ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione.
Si presume, in realtà, che V. fosse istintivamente un "cesariano". D'altro canto, l'epicureismo invitava i suoi adepti a non occuparsi di politica, ma ad accettare, a cuor contento, un padrone che assicurasse la pace.
*L’ "Eneide". Nell’estate del 29 Ottaviano, tornato dall’Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là V. gli lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle "Georgiche", aiutato da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco.
Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, V. fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe. Da questo momento fino alla fine della vita V. attese all’ "Eneide", un poema epico sulle origini di Roma. V. aveva nella tradizione letteraria latina predecessori illustri nell’ambito di questo genere letterario, ma l’ "Eneide" si richiamava più da vicino al modello omerico. Il poema era stato inizialmente concepito come una narrazione allegorica delle imprese di Ottaviano, ma il poeta cambiò idea ed il poema storico venne sostituito dal poema epico sulle vicende di Enea, progenitore dei Romani.
Ancora tre anni dopo l’inizio della stesura dell’"Eneide", V. scriveva ad Augusto che il poema era solo "incominciato" e ci vollero ancora tre anni perchè la prima redazione dell’ "Eneide" fosse terminata. Nel 22 V. lesse all’imperatore alcuni canti del poema, ma non si trattava ancora della stesura definitiva.
*Il viaggio in Asia. Nel 19 a.C. V. partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l’Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. V., che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane. Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto dell’ "Eneide", ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici non gli ubbidirono.
Il corpo di V. fu trasferito a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare l’Eneide.

OPERE.
Le "Bucoliche".
*Le "Bucoliche" sono un'opera d'ispirazione alessandrina, composta da X egloghe (cioè "poesie scelte"), in esametri, di cui alcune sono lirico-narrative, altre in forma dialogica, distribuite non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine d’intento letterario (numerosi i rimandi, i parallelismi, le simmetrie). Questo il contenuto:
*Ecloga I: d’intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e il possesso della sua terra.
Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di Alessi.
Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d’abilità nel canto.
Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta nel 40, quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all’ "età dell’oro", che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione (e ricordiamo la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura d’individuare in V. il profeta dell’avvento messianico).
Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi.
Ecloga VI: è trattata l’origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato.
Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra Coridone e Tirsi.
Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata quasi interamente da un modello di Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna vittorioso dalla Dalmazia.
Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica. Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i suoi canti.
Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l’infedele Licoride l’ha lasciato.
*V. riprende il genere reso illustre da Teocrito (III a.C.), che a Roma non aveva ancora trovato dei continuatori, ma lo rifonde in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col modello. I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni connotazione realistica, e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione: a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri. Ma sullo sfondo si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma in nessun modo dimostrabile. E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri poeti contemporanei, e persino a Sirone, l'amato maestro, chi nasconde sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto, un volto della poesia?
Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici e di persone reali, bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi rappresentata: la tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica perfezione di quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione.
*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell'anno 39, momento in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le "Bucoliche" respirano perciò, in genere, un'atmosfera serena, e rendono omaggio a quel "giovane dio", simile all'Apollo onorato dai pastori, nel quale è facile riconoscere Ottaviano.

Le "Georgiche".
*Il poema delle "Georgiche", composto tra il 37 e il 30 a.C., in 2183 esametri, si riallaccia alla poesia della natura che è nelle "Bucoliche", ed è inoltre preludio al canto delle virtù umane, che sarà nell’ "Eneide".
Si dice che V. lo scrivesse su invito di Mecenate, che si faceva interprete del programma di risanamento morale di pace e di lavoro formulato da Augusto, cui realmente stava a cuore la ripresa dell’agricoltura. Ma ciò che più conta è che l’opera risponde alle vere aspirazioni del poeta.
*Scegliendo questa tematica, affrontata in altri tempi da Esiodo nel poema "Opere e giorni", V. rimaneva nell'ambito dello spirito alessandrino, che considerava Esiodo uno dei poeti più alti, forse superiore allo stesso Omero. Per di più, V. vedeva nel suo progetto (com'egli stesso orgogliosamente affermerà) la possibilità di annettere una nuova regione poetica alle lettere latine. Le sue convinzioni epicuree, infine (forse già un po' scosse, ma delle quali sarebbe impossibile dubitare), lo portano a emulare Lucrezio in un'epopea consacrata allo spettacolo del mondo e alle attività umane.
Il mondo dell’Arcadia, che era fittizio, e che escludeva, a dispetto delle apparenze, l’urgenza del mondo della realtà, lascia il posto ad un mondo soltanto o prevalentemente reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di lavoro aspro, di attività creativa che le immaginate favole del mito e le invenzioni letterarie anche qui inserite a trapuntare il tessuto narrativo e didascalico non solo non annullano, ma anzi rilevano.
*Nelle "Georgiche" si registra però il miracolo del superamento dei modelli grazie al dolore che connota l’intero poema. Qui il dolore non si mostra come generato dall’ingiustizia sofferta quale destino ineluttabile, superato o stemperato in dolce malinconia per mezzo dell’evasione in Arcadia; ma è dolore esistenziale intuito e scoperto nel quotidiano vivere dell’uomo nel suo contrasto con le avversità atmosferiche, che rovinano i seminati. Tale condizione esistenziale non consente evasioni; anzi resta come il segno vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno idillico delle Bucoliche.
V. "vede l’uomo nella sua funzione di trasformatore" (Ferrero). L’uomo è capace di vincere le avversità, di correggere gli errori di trovare rimedio ai mali grazie al suo impegno costante nel lavoro: il lavoro procura lo sviluppo civile, sorregge i legami della società, le istituzioni, i costumi. I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei termini del loro caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono gli aspetti autenticamente morali dell’agricoltura. Per tutte queste ed altre ragioni l’intento didascalico dell’opera, che voleva rispondere all’invito di Mecenate, il committente affabile ma esigente, non risulta affatto fondamentale, tant’è che non è difficile scoprire che i consigli e gli ammaestramenti dati dal poeta ai contadini non sono tutti o in tutto realizzabili né tutti opportuni o logici in senso strettamente pratico.
*Il destinatario delle "Georgiche" dal punto di vista del contenuto tecnico è il contadino; ma badando al livello artistico e alla perfezione formale, che è frutto di eccezionale cultura e porta i segni di una faticosa elaborazione, per la quale lo stile medio del poema didascalico si eleva al piano dello stile sublime dell’epica, il pubblico di lettori ideali a cui il poema si rivolge è il pubblico urbano al quale si adatta il contenuto etico generale, ispirato al programma augusteo volto al recupero dei sani costumi e alla stabilità delle condizioni di pace.
Ma invero, nel suo poema V. cerca di dimostrare una verità che non rientra nell'ordine della politica. Mette a confronto l'uomo e la natura, e dimostra che quest'ultima è, per eccellenza, l'ambiente fisico e morale suscettibile di condurre l'uomo a una felicità abbastanza prossima a quella predicata dagli epicurei. Tuttavia, a poco a poco, V. è trascinato a rompere gli schemi un po' angusti dell'epicureismo, quasi che lo spettacolo e la meditazione dei grandi momenti della "Natura" gli rivelassero, in essa, la presenza degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito, che mostra come Giove abbia in realtà "dissimulato" negli oggetti ciò che l'uomo deve cercarvi: il fuoco nelle vene silicee o nel legno dei rami, il ferro nelle viscere delle montagne, imponendo così la legge, moralmente salutare, del lavoro. Se in Venere, simbolo della "voluttà", Lucrezio aveva visto, in modo analogo, il motore del mondo, in V. il mito s'ingrandisce fino a dominare. La divinità si trasforma nell'aspetto "oggettivato" della sensibilità del poeta stesso, che si compiace nell'evocare le realtà religiose dell'esistenza rurale. Il calendario del rituale romano riprende il suo primitivo valore a contatto con la realtà fondamentale della terra.
*V., superate le strutture stilistiche delle "Bucoliche", ha modellato le nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle, più complesse e più varie, se non ugualmente sempre perfette, dell’ "Eneide". Ma forse soltanto nella tristezza che ispira le conclusioni di tutti e 4 i libri può rintracciarsi la prova del preciso disegno architettonico dell’opera.
Certo è che ognuno dei libri ha una sua tematica distinta, una sua autonomia che si rivela anche per mezzo del particolare proemio che lo introduce:
Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a Mecenate e l’invocazione alle divinità protettrici, prende in esame la natura, la semina e le sue cure specifiche, l’osservazione degli astri, i pronostici. Si conclude con una ulteriore invocazione agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto dalla guerre.
Libro II: Tratta della cultura delle piante, in particolare della vite e dell’olivo, che nell'economia italiana di quel tempo, dove vino e olio costituivano i prodotti principali delle grandi tenute e la prima fonte d'esportazione verso le province occidentali, occupavano evidentemente un posto fondamentale. Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all’Italia. C’è, in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio patriottico e di una testimonianza di fede nel destino d’Italia, quanto l’emozione di chi si incanta al miracolo di una realtà di pace che fino a ieri era solo un’aspirazione.
Libro III: Dedicato all'allevamento del grosso e del piccolo bestiame e ai sistemi di sfruttamento dei terreni, italiani e no (Africa, Spagna, Illiria), che non si prestavano alla coltivazione della vite o dell'olivo; contiene un’altra invocazione, a Pale e ad Apollo, le divinità della pastorizia.
Libro IV: Riguardante le api, tratta dell’ubicazione e della costruzione dell’alveare, delle abitudini delle api e delle riproduzioni degli sciami (il miele aveva unposto di rilievo in un'alimentazione interamente priva di altre fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di un giardino con piante e fiori profumati, V. introduce la breve storia del vecchio di Corico, che riuscì grazie alla sua tenacia a sentirsi ricco e beato come un re.
Ciascun canto presenta una "digressione": nel I il racconto dei prodigi che accompagnarono la morte di Cesare; nel II l'elogio dell'Italia; nel III la peste (epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel IV, infine, a coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo "apicultore", nella quale si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice.
*Architettura perfetta, dunque, ma della quale rimangono misteriosi i motivi profondi: forse per V. si trattava solo di colmare, in questo finale del IV libro, il vuoto lasciato dalla soppressione dell'elogio di Gallo (che appunto inizialmente ne era la conclusione), il quale - divenuto prefetto dell'Egitto - aveva offeso Augusto e si era suicidato.
L’ "Eneide".
*l’ "Eneide" si inserisce pienamente nel genere epico di ascendenza greca, riuscendo a farsi nel contempo interprete dei valori della romanità e dello spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da divenire il poema nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di mitologia e storia che caratterizzava l’epica latina arcaica, differenziandosi però per l’argomento: il mito assume un posto centrale e diventa nucleo primario della vicenda tanto che il protagonista non è Augusto, ma Enea. In virtù di questa impostazione V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi contemporanei e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il significato della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello principale - altri elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli alessandrini, e in particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e romani, agli orfici, a Nevio e a Ennio. Né bisogna dimenticare che il mito di Enea aveva assunto per i Latini un valore nazionale e che per lo più ne veniva ammessa financo la storicità.
*Eppure, l’ "Eneide" risulta un’opera originale, nella sua straordinaria densità e complessità, grazie all’enorme quantità di materiali culturali: storici, letterari, antiquari e filosofici. Il modello principale – come detto - è Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la successione originale e riducendoli in uno solo. La prima metà, chiamata parte "odissiaca", ha quindi come tema principale il viaggio, la seconda, detta "iliadica", invece ha la guerra (spartiacque è il libro VI, quello della discesa di Enea negli Inferi). La presenza di Omero è massiccia oltre che nell’intreccio, nella ripresa di molti episodi. V. segue Omero anche in ciò che riguarda l’apparato mitologico, con alcune differenze fondamentali come il rinnovamento dei materiali poetici di cui si serve, che organizza e orienta in modo diverso in funzione del significato complessivo dell’opera. Il punto d’arrivo a cui tende la storia universale è Ottaviano Augusto che viene unificato così alla celebrazione di Roma su di un piano ideologico.
*All’interno di questa struttura, l’azione si sviluppa abbastanza lineare, procedendo senza divagazioni verso la grande scena finale: infatti, l’interesse del poeta è tutto concentrato sul destino del protagonista, che attraverso molteplici avventure si avvicina sempre più alla meta fissata dal Fato: il nascere e la futura gloria di Roma. I vari episodi del poema non ne sono quindi altro che le necessarie tappe, secondo una curvatura decisamente teleologica.
E’ tale meta, dunque, che illumina, dà senso e giustifica le fatiche, le angosce, la morte che incombono e colpiscono inesorabilmente i personaggi: il mondo dell’ "Eneide", infatti, a differenza di quello omerico, non conosce tanto esuberanze giovanili ed esaltazione eroica, ma appare invece dolente e meditativo, strettamente affine all’universo delle precedenti opere: postulato fondamentale è l’obbedienza al Fato, e anche in ciò personaggio emblematico è ovviamente il "pius" Enea.
*Al poema, V. lavorava dettando un gran numero di versi, e poi rielaborandoli per tutta la giornata. Seguiva uno schema di prosa che si preparava e che poi portava in versi. Eccone la sintesi:
Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata contro i Troiani, fa approdare Enea lungo le coste presso Cartagine. Con l’aiuto della madre Venere, Enea viene bene accolto dalla regina Didone, alla quale racconta la fine di Troia.
Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione della città, Enea riesce a scappare con il padre Anchise e il figlio.
Libro III: Racconto di Enea: partiti da Troia, Enea si rende conto che una nuova patria lo attende in Occidente.
Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine Didone si uccide profetizzando l’eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei Troiani.
Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono dei giochi in onore di Anchise.
Libro VI: Enea arriva in Campania dove consulta la Sibilla ed entra nel mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto a Troia, Didone, Palinuro, il timoniere, e il padre che gli mostra la sua eroica discendenza.
Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere e riconosce in essa la terra promessagli dal padre. Qui stringe un patto con il re Latino, ma interviene Giunone che fa scagliare contro di loro il principe Rutolo, Turno. Enea non può più sposare la principessa Lavinia.
Libro VIII: Enea è costretto a risalire il Tevere dove trova degli alleati in Evandro, re di un piccolo gruppo di Arcadi, e in una coalizione di Etruschi.
Libro IX: Con Enea assente il campo troiano è in una situazione critica.
Libro X: Enea irrompe nella scena e uccide l’alleato di Turno, Mezenzio, che a sua volta uccide Pallante protetto di Enea.
Libro XI: Dopo la sua vittoria Enea piange l’amico morto. Le sue offerte di pace non hanno successo.
Libro XII: Turno accetta di sfidare Enea a duello, ma un intervento di Giunone fa riprendere la guerra. Enea sconfigge Turno e lo uccide nel nome di Pallante.
*Si compie così il primo atto del destino di Roma. L'evoluzione religiosa del poeta fa dunque sì che egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico (o, se si preferisce, a un "neo-pitagorismo"), che ammette l'esistenza di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno della Provvidenza. V. si avvicina, per questa strada, alle idee professate dagli storici intrisi di stoicismo, epigoni di Polibio. Si realizza in tal modo la sintesi delle principali correnti spirituali di Roma, che consente all' "Eneide" di farsi immagine di quest'ultima e giustificazione del suo straordinario valore storico.
*I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise è lo strumento obbediente della divinità, nella prima parte come profugo errabondo, nella seconda come guerriero: tuttavia egli, a differenza degli eroi di Omero, presenta una sua intimità, una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben volentieri fra le rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un’indistinta nostalgia del ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua "humanitas" spesso non va d’accordo con la sua "pietas", ma lo rende altresì più umano e più vero.
Turno: come eroe è un personaggio meglio caratterizzato di Enea, anche se è, per così dire, la copia virgiliana dell’ Ettore omerico.
Didone: è il personaggio, tragico e appassionato, meglio riuscito del poema, che supera abbondantemente i modelli cui potè ispirarsi, la Medea di A. Rodio e l’Arianna di Catullo.
Camilla: è un altro personaggio ben riuscito: la sua forza e il suo coraggio di guerriera nulla tolgono alla sua femminile bellezza e alla sua palese e fatale vanità.
Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino, Evandro, Eurialo e Niso, Lauso e Mesenzio.
L’ "Appendix Vergiliana". Torna al sommario
Il termine "Appendix Vergiliana" è moderno (risale, come evidentemente la silloge, all’età umanistica) e indica un gruppo di poemetti pseudovirgiliani (salvo forse un paio di poemetti dei "Catalepton"), inseribili nel quadro della poesia minore del I sec. D.C. (conclusivo è stato l’esame stilistico).
I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi priapei) non sono comunque databili tutti allo stesso periodo e sono sicuramente di mani diverse: inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti intenzionalmente come falsi. I componimenti principali sono:
1 una serie di epigrammi raccolti sotto il titolo di "Catalepton" ("componimenti leggeri"), che contengono preziose informazioni biografiche;
2 un'epopea ingenua intitolata "La zanzara" ("Culex", 48 a.C.), un epillio di 414 esametri (di gusto neoterico). Un pastore, svegliato da una zanzara che uccide, riesce a salvarsi da un serpente. Nella notte la zanzara gli appare, gli fa una lunga descrizione dell’oltretomba, e chiede sepoltura.
3 un racconto leggendario, l' "Airone bianco" ("Ciris"), di 541 esametri, che prelude alle "Metamorfosi" di Ovidio e che trova collegamenti con la poesia erudita alessandrina, che si compiaceva di leggende bizzarre: descrive infatti la trasformazione di Scilla in un uccello marino appunto.
4 "Dirae", carme di 183 esametri (attribuibile forse a Valerio Catone), che fonde insieme un canto di maledizione (contro l’attuale proprietario del podere di cui è stato spogliato) e un canto d’amore (il destino lo priva dell’amore di Lydia lontana).
5 "Aetna", poema di 646 esametri (che Seneca attribuisce al "suo" Lucilio), di intonazione epicurea, in cui l’autore vuole spiegare i fenomeni naturali in modo scientifico per sfatare le credenze popolari e le interpretazioni dei poeti.
6 "Copa" ("l’ostessa"), ch’è la descrizione vivida di una bella ragazza d’osteria, che domina tutto il breve idillio di 19 distici; sulla soglia dell’osteria, canta e danza, invitando i passanti ad entrare.
7 "Moretum" ("la torta campagnola"): poemetto di poco più di 100 esametri, che descrive minutamente la scena di un contadino il quale deve prepararsi il cibo (la focaccia piccante) per consumarlo al ritorno dal lavoro.


Quinto Orazio Flacco
(Venosa 65 a.C. – Roma 8 a.C.)

VITA.
Figlio di uno schiavo liberato (liberto), ch’era riuscito a racimolare un piccolo patrimonio, fu portato a studiare proprio dal padre (quello ch’egli stesso definirà "il migliore dei padri") nelle migliori scuole di grammatica e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del grammatico Orbilio), andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i 20 anni. Lì O. aderì all’ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano anche perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu coinvolto, così, dalla guerra di Bruto e Cassio, ai cui comandi si arruolò come "tribuno dei soldati", combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò miracolosamente, e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41), profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni politiche. Le sostanze lasciategli dal padre erano state confiscate: per vivere s’impiegò come contabile nell’amministrazione statale.
In seguito frequentò a Napoli la scuola epicurea di Sirone in compagnia di Virgilio. Iniziata l’attività poetica con gli "Epodi" e le "Satire", nel 39 fu presentato proprio da Virgilio a Mecenate, che lo legò a sé come amico e gli donò (33?) un podere nella Sabina.
Augusto gli offrì un posto di segretario, ma O. declinò l’invito, assecondando tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia su quello letterario: un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato". Nel 17 fu incaricato di scrivere il "Carmen speculare" in onore di Apollo e Diana, da cantare durante i ludi saeculares. Nel 20 iniziò a pubblicare le Epistole il secondo libro delle quali comprende tre lunghi componimenti di argomento estetico fra cui l’Ars poetica. Nell’8 a.C. scrisse quattro libri di Odi, fra le quali si distinguono le c.d. Odi romane. Nel settembre dell’8 a.C. morì Mecenate. O. si sentì perduto, e anche lui si spense il novembre del medesimo anno a causa di una emorraggia cerebrale o paralisi. Fu sepolto accanto alla tomba di Mecenate, "la metà dell’anima sua".

OPERE.
*"Epòdi" (41-30 a.C.). Sono 17 componimenti (O. li chiama "iambi"), ordinati metricamente.
O. emula i giambografi greci, soprattutto Archiloco (ma ne mutua più che altro i metri e l’ispirazione aggressiva, non già i contenuti), anche se il suo furore è, in verità, talvolta alquanto letterario. Tuttavia, gli "Epòdi", malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente più violenti delle "Satire", e più amari: vi deplorava le disgrazie della patria e affermava la propria indignazione per alcuni scandali derivati dalle guerre civili.
Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo della guerra civile (epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto tribuno militare (IV), contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro (X), contro una vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII). Ma anche qui affiora la mitezza di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate al tempo di Azio e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità, più decisamente nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l’ironia finale c’è un forte gusto per la vita agreste, mentre infine nel XIII compare un altro tema caratteristica: quello della fugacità della vita.
*"Satire" ( dette dal poeta stesso "Sermones"). Scritte in esametri, sono divise in 2 libri: il I (35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8. Difficile ne è la cronologia interna.
Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli "Epòdi", attraverso certo i temi della predicazione filosofica (ma non quella più rigida e moralistica) e la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere la versione moderna: I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana e discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci, ma come detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura che lo salvi dalle tensioni interne e non gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia" e "metriòtes").
Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà interiore, valendosi di uno straordinario senso critico e autocritico, oltre che del suo tatto e della sua conoscenza del mondo: il ragionamento si mantiene sul piano psicologico-umano, e la polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto contro la loro vera radice, ovvero l’eccesso.
Inoltre, nelle prime "Satire", O. si sforza di dimostrare che la morale epicurea non è in disaccordo con i valori tradizionali di Roma: moderazione, saggezza, rispetto dei costumi, eccetera. Insiste anche sulla semplicità dell’esistenza rurale quale condizione della felicità, parlando, in questo senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e precisamente nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva le sue Georgiche. Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo. Inoltre, l’amicizia da lui spesso elogiata non è scambio di favori, e ancor meno schiavitù (come spesso avveniva a Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una comunione profondamente spirituale o, anche, ideale.
Altra satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche rivoltegli. Spunti autobiografici, invece, si trovano nelle satire: I4 (sul padre); I6 (sulla presentazione a Mecenate); I5 (sul viaggio a Brindisi al seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia per la villa donatagli). Satire più propriamente etico-filosofiche sono invece: I2 (sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia degli uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6 (con l’apologo del topos campagnolo e del topos urbano).
*"Odi" (secondo i grammatici), "Carmina" per O.. I primi 3 libri (88 odi), dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23 a.C., il IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C. O. aggiunse il IV libro dopo molti anni, su richiesta di Augusto per "cantare" la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e Vindelici.
Il criterio d’organizzazione del libro sembra essere quello della "variatio": sia dal punto di vista metrico-formale (ben 13 sono i metri usati), sia per tono e contenuti (alternanza di temi politici e temi privati, di stile alto e stile leggero).
L’ispirazione oraziana qui si modifica e purifica in composizioni raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette (il modello è nei poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro…): le "Odi" si caratterizzano come un riuscito tentativo di trasferire a Roma i ritmi della poesia eolica.
Lo stile diventa esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi fredda; il tutto, insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza tecnica (la "callida iunctura", cioè l’accorta disposizione delle parole e l’accurata articolazione del periodo) e dall’altro dal controllo di impressioni e sentimenti: O. si presenta come discepolo dei "poeti nuovi", alla ricerca anch’egli della perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal superamento delle difficoltà.
Se O. nei "Sermones" era apparso, così, poeta e narratore, nelle "Odi" si rivela nelle vesti di un sublime "moralista": non perchè vada predicando una morale, ma perchè eccelle nel cogliere e nell’esprimere in un ritmo, in un accostamento di parole, nella suggestione di un’immagine, un’"esperienza" privilegiata che illumina l’anima e la rivela a se stessa.
La causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile intemperanza (I16): è invece insistente l’idea della "misura" ("aurea mediocritas", II10). Essa assume una dimensione nuova: da una parte viene ancorata saldamente al concetto di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni (modestia, parsimonia, campagna contro città, etc…: ad es., I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l’aggiunta del motivo – riflesso autobiografico – della felicità di chi, oltre che saggio, è anche poeta (II16,III14…); dall’altra, sul piano della meditazione, è associata all’idea della morte, che tutto rilivella (II3 e 8, III1 e 24): il senso della fugacità della vita acquista rilievo e ispira tra le "odi" più celebrate: I11 (v’è il motivo del "carpe diem"), I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28 (sulla tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo), ecc…
Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in special modo, l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es., Mimnermo), dato senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su questa poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido senso dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette "odi conviviali"), nel controllo stesso delle passioni nelle non poche odi dedicate a donne i cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale…) celano quasi certamente persone (e forse financo vicende) reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la necessità di una poesia che cantasse l'amore: chiede infatti proprio all'amico di porlo tra i poeti lirici (1 I 35)).
Una delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo era il valore proprio di ogni istante. O. se ne impadronisce e ne fa uno dei temi del suo lirismo. Il "carpe diem", nel quale si è pensato di poter riassumere la sua "saggezza" (riducendola, in questo modo, ad una formula angusta e anche un po’ volgare), è innanzitutto il nucleo di una poetica. Non è tanto la ricerca, fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta il "tempo libero" (otium), che è anche quiete dell’intelletto e dell’anima, libertà interiore: il carmen prolunga la strada imboccata col sermo, trasfigurando ciò ch’era stato consiglio obiettivo in scoperta dell’anima. Il pensiero stesso della morte, anziché rivelarsi amaro, dà tutto il suo valore alla rinnovata presenza della vita.
Forse anche il vistoso apparato mitologico va inteso, al di là del richiamo alessandrino o degli agganci alla religione della Roma augustea, come un elemento di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della poesia; epicureo, O. non crede davvero all’intervento degli dèi nel mondo: egli ne fa un gioco, allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione tutta intera, senza voler scoprire in essa il segno di una trascendenza divina. Ma, in fondo, non è un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità campestri della sua tenuta come presenze familiari che prolungano il suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse la propria "adorazione".
Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza di essere poeta: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del regime di Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico che riscontriamo nelle "Odi" (ovvero i 6 componimenti (detti "odi romane", appunto) con cui si apre il III libro), nonché il "carmen saeculare".
*Il "Carmen Saeculare". Augusto nel 17 a.C. indìce i ludi Saeculares, nel momento più adatto, scelto con grande abilità, per celebrare i ludi, testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte civili che si chiude e di un'era di pace che si apre.
Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva ricevere l'incarico di comporre l'inno per i ludi, perché nessuno più di O. aveva dimostrato, specialmente con le odi romane, di saper interpretare l'essenza della grandezza di Roma. O. accettò l'incarico, che significava per lui riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora, consacrazione della sua attività lirica, che appunto dalla composizione del "Carmen" trasse nuova linfa e riprese sostanza.
Così, il poeta affida al canto di due cori di giovani, l’uno maschile e l’altro femminile, il compito di invocare la protezione degli dèi su Roma.
Il "Carmen" presenta, ovviamente, i difetti propri delle composizioni eseguite su commissione, ma, se non è sorretto da altissima ispirazione, è tuttavia opera di altissima dignità artistica e, soprattutto, di profonda sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può liberarsi dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e dispiegare liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità poetica delle sue liriche più felici, interpretando con severità e serietà il mito storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un ideale quasi ieratico di potenza e di predominio" (Turolla).
*"Epistole". In esametri e in 2 libri: il I (di 20 componimenti) dedicato a Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 del II libro, quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è del 18 ca.
L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O. non si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di cui si discute il carattere "reale" o meramente "letterario"), il poeta – oramai maturo – cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana, interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie filosofiche: un "angulus", insomma): è il frutto della migliore lezione del suo epicureismo (non vi è dunque "svolta" in senso stoico).
*Infine, al II libro è aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come "Ars poetica" (17 o 13 a.C.), in esametri: ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale punto di riferimento il dramma. Due tesi, in particolare, sono celebri: la necessità di fondere la spontaneità e immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e il noto principio dell’ "utile dulci", della fusione cioè fra utile e dilettevole. Torna al sommario


Breve profilo introduttivo della letteratura d’amore in Roma.

La poesia d'amore nasce tardi nella letteratura latina e si afferma solo nel II sec. a.C., quando i Romani, concluse vittoriosamente le guerre in Oriente e in Grecia, allentano le preoccupazioni per l'interesse dello stato, trovando il tempo e l'animo per dedicarsi anche alla vita anteriore.
I tempi nuovi, meno condizionati dagli obblighi e dalle campagne militari, permettono di coltivare, oltre ai modi della scrittura adatti alla riflessione sul bene comune (come la storiografia, l'oratoria, il teatro, la satira, il poema epico e la tragedia stessa), generi nuovi da dedicare all'effusione dei sentimenti o alla ricerca dell'io.
Intorno a tali tematiche si raccolgono gli intellettuali del circolo letterario di Lutazio Càtulo (ca. 150-87 a.C.), che dà vita a una produzione di sapore individualistico, particolarmente elaborata nello stile. I poeti appartenenti a tale corrente sviluppano argomenti e forme della poesia ellenistica, rifacendosi soprattutto a Callimaco, come appare evidente da alcuni brevi componimenti dello stesso Lutazio Càtulo.
Se n'è fuggito il mio cuore: se ne sarà andato, al solito, da Teotimo. Sicuramente è quello il suo rifugio. Ma come? Non gli avevo forse imposto di non accogliere il fuggitivo, e di scacciarlo piuttosto? Andremo a cercarlo. Ma temo di essere trattenuto io stesso. Che fare? Consigliami, o Venere.
(Epigramma 1 Morel; trad. di V. Sirago)
Valerio Edituo invece riprende una famosa ode si Saffo, il frammento 31 LP, che ispirerà anche il più celebre carme 51 di Catullo.
Quando mi sforzo di dirti, o Pànfila, la pena del mio cuore, e che cosa desidero da te, le parole mi mancano sulle labbra; nel petto in una vampa trascorre improvviso il sudore; così tacito, avvampante, mentre mi vergogno, muoio.
(Epigramma 1 Morel; trad. V. Sirago)
Il circolo intorno a Lutazio Càtulo, non a caso detto "preneoteorico", ha il merito di anticipare e preparare l’importante circolo dei poeti novi, o - alla greca – neoteroi, scrittori colti, consapevolmente indirizzati a riprodurre nei metri e nei temi i grandi modelli della poesia alessandrina e dei lirici greci.
Se l'epigramma di Valerio Edituo brilla sotto il profilo compositivo soprattutto per la sua chiusa sorprendente, dove il "vergognarsi" (pudeo) è contrapposto al "morire" (pereo), tocca al carme 51 di Catullo il compito di istituire un topos della poesia d'amore, legando la lirica latina al mondo dei sensi e della passione e quindi avviando il filone della "malattia amorosa" e della "servitù d'amore".
Già Lucrezio aveva proposto, nei duecento versi del finale del IV libro, il tema dello sconvolgimento psicofisico che accompagna il furor degli amanti, restando però all'interno di un contesto filosofico, che neppure il vigoroso movimento delle immagini riesce a distaccare dai parametri epicurei della lontananza da ogni passione.
In Catullo, pur in assenza dell'effigie femminile, l'effetto di concretezza del rapporto risulta rafforzato a causa del realismo con cui sono presentati i sintomi dell'amore/malattia, che il poeta soffre sul proprio corpo con la perdita della voce, della vista e persino dell'udito, fino al deliquio (carme 51, vv. 7-12).
Il sapore del "vissuto" e della "quotidianità" dell'amore, talora felice (carmi 5 e 7), più spesso infelice (carmi 8, 58 e 70) trova efficacia particolare grazie alle scelte linguistiche in cui si intrecciano linguaggi diversi, da quello parlato (carme 5: basia, "i baci") a quello finanziario-contabile (carme 5, v. 3: "consideriamolo un soldo bucato") a quello dotto di derivazione ellenistico-callimachea (carme 7, vv. 3-6: "Cirene...Batto").
La complessità linguistica e formale e la varietà dei modelli ai quali Catullo si è ispirato non tolgono nulla alla forza del canto, in cui si intrecciano poesia e vita, letteratura e autobiografia. Il poeta stesso è implicato nella storia che narra e le sue parole hanno il sapore dell'esperienza. Il canzoniere di Catullo, pur nell'esercizio continuo della doctrina e della raffinatezza formale, effonde un senso profondo di umanità per la "mondanità" dei fatti e delle emozioni. Quando è ormai chiaro che Lesbia tradisce il suo Catullo, il dolore del poeta si manifesta nell'incalzare di mille reazioni, dall'autoesortazione all'oblio (carme 8) unita all'accorato fluire dei ricordi - la rievocazione dei luminosi giorni passati con Lesbia -, alla denuncia lucida e incredula dell'odi et amo, voce semplicissima e fortissima, oggi emblema del contrasto sempre lacerante fra amore e odio (carme 85).
La donna ormai lontana continua a occupare i pensiero del poeta fino quasi a condurlo con l'assolutezza della sua presenza alla follia. Catullo cerca allora di superare il tormento rielaborando in modi diversi il rapporto con Lesbia: senza mai abiurare al suo amore, prospetta un legame insolito per la cultura romana che sarà destinato a orientare la letteratura d'amore fino al Medioevo e oltre. Nobilita cioè l'intensità totalizzante e assoluta della passione con il rigore di un "patto" che vincola i due amanti anche senza il matrimonio (carme 87).
E Catullo, sia pure con toni che variamente riproducono l'ossessiva presenza di Lesbia anche dopo il tradimento di lei, non cessa di approfondire, quasi stupito per le sue stesse scoperte, la psicologia amorosa. Riprende così l'antitesi "odio/amore" nel carme 92 dove l'immediatezza espressiva appare inferiore a quella del carme 85, mentre è maggiore la raffinatezza psicologica che induce Catullo, fra straniamento e perdita della lucidità, ad attribuire alla donna, per una sorta di transfert, sentimenti affini ai suoi.

Lesbia va continuamente sparlando di me, e non sta zitta, quando si parla di me: mi venga un accidente se Lesbia non mi ama. "Da che cosa l'arguisci?". Perché sono gli stessi indizi miei: continuo a detestarla, ma mi venga un accidente se non la amo!
(trad. F. Della Corte)
La varietà dei metri e delle forme nel libro catulliano ben rappresenta la mutevolezza dell'animo femminile e la complessità esistenziale del rapporto d'amore.
Catullo, nell'intreccio fra vicenda umana e iper poetico, dà l'avvio a un modello di linguaggio amoroso e a un genere letterario, nel quale stringe un legame intellettuale importante, anche se implicito, con tutti i fedeli - e i malati - d'amore. Lesbia, ora innamorata dolce-ingenua, ora amante della passione dirompente, ora ingannatrice, infine vera e propria traditrice di ogni patto sancito, donna di strada nutrita d'intrighi, è figura dominante e concreta che mette l'amore al primo posto, a costo di contrapporlo alle consuetudini sociali del tempo o alla vita morale del poeta.
Non si può infatti dimenticare che nel I sec. a.C. l'epica, la tragedia e i generi filosofico-didascalici disapprovavano chiunque presentasse amori diversi da quelli improntati al nobile sentire. È Catullo il primo scrittore che toglie la poesia erotica dal clima leggero del gioco mercenario e mette al centro la donna reale, con il suo carico di contraddizione e di infelicità.
Nel secolo di Augusto, Orazio continuerà a cantare d'amore, imitando le fonti greche, come Alceo (carme I, 9), Semonide di Amorgo (carme I, 5 "Quale giovane a-gile ti chiama/tra molte rose e puri aromi, Pirra/nella grotta felice...) o gli ellenistici, e offrirà una sua visione leggera e malinconica dell'amore, tributando a Catullo solo il debito di qualche "citazione" colta.
Ma Catullo "sarà maestro per la generazione degli elegiaci, che da lui trarranno la concezione dell'amore come continua sofferenza e come consapevole scelta di vita" (P. Fedeli). Con la suggestione, la novità e la raffinatezza dei suoi versi diviene modello di altri poeti e in particolare di P..
L'amore, presentato sempre più esplicitamente come motivo di vita, si fa materia privilegiata per il canto e per l'effusione dei sentimenti.
Anche P. prende spunto dalla sua vicenda amorosa, ma non si ferma all'esperienza. Sapendo fin dall'inizio (grazie alla frequentazione del libro catulliano) che la sua storia non sarà solo ricca di gioia, cerca di delineare una teoria dell'amore: chi vive come "fedele d'amore", anche se infelice, compie una scelta difficile, ma superiore a quella di chi intraprende la carriera politica o militare. È dunque meglio rinunciare agli onori delle cariche o alle ricchezze e lasciarsi soggiogare dalla tirannia dell'amata. La sua Cinzia esercita un duro dominio costringendo il poeta a una pesante "schiavitù".
Dalle Elegie di P. traspare un nuovo legame fra arte e vita: nella vita il poeta si dedica alla donna trascurando gli impegni pubblici; nell'arte ricerca moduli adatti a cantare il suo sentimento totalizzante e assoluto. Il rapporto sentimentale, che già in Catullo aveva trovato importanza e significato oltre il semplice gioco e-rotico o mondano, diventa ricerca di valori etici e letterari.
Non compare tuttavia alcuna idealizzazione dell'amore. Anzi P., nell'elegia (I, 6) in cui dichiara di rinunciare - per amore - a seguire l'amico Tullo in Oriente, riconosce con semplicità di cedere all'"estrema debolezza" (nequitia, v. 26), obbedendo alle parole di Cinzia, che dolente e adirata gli ingiunge di rimanere in patria:
"questa è la milizia a cui mi costringe il fato" (v. 30).
Il canzoniere properziano mantiene e rafforza l'importanza della donna e dell'amore nella poesia e nella vita, continuando, nonostante gli inviti di Augusto a comporre versi impegnati, a riproporre la sua appartenenza ai "fedeli d'amore".


L’elegia: la sua nascita e la sua fortuna a Roma

Nella sua storia, l'elegia ha conosciuto toni e contenuti molto diversi, pur nell'unità della struttura metrica, che è quella del distico detto, appunto, 'elegiaco' (un esametro e un pentametro dattilico in coppia). Nata in ambiente ionico nel VII sec., fu guerresca con Callino e con Tirteo; con Solone divenne politica e sociale; con Mimnermo cantò la fugacità malinconica della giovinezza e dell'amore; fu pessimistica e moraleggiante con l'aristocratico Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V sec., significativa fu l'opera di Antimaco di Colofone, che raccolse una serie di elegie che narravano vicende mitiche d'amore sotto il nome di Lide, la sua donna (come Mimnermo aveva fatto per la flautista Nannò), costituendo un importante tramite per l'elegia erotica e narrativa di età ellenistica. Abbiamo così, in età alessandrina, la Leonzio di Ermesianatte, Gli amori di Fanocle, forse la Battide di Filita, l'Apollo di Alessandro Etolo, la grande elegia eziologica di Callimaco. L'elegia alessandrina fu sopra tutto l'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle passioni del mito meno conosciute: fu elegia raffinata che ricercò ogni recondita dottrina; in essa il poeta, molto più che parlare di sé, doveva esporre gli antichi, mitici casi d'amore.
Agli elegiaci alessandrini (come Callimaco e Filita) i Latini si rifecero come a maestri. Purtroppo della produzione ellenistica quasi nulla a noi è pervenuto, e non possiamo dunque dire se anche negli elegiaci alessandrini fosse presente, magari in piccola parte, quel carattere personale e soggettivo che è tipico, invece, dei latini.
Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione (10, 1, 93 elegia... Graecos provocamus: "nell'elegia gareggiamo coi Greci") doveva avvertire concretamente i caratteri in parve innovatori dell'elegia romana. Di sicuro noi possiamo sottolineare l'importanza di Catullo e del suo mondo poetico per la formazione dell'elegia latina: nelle forme e nelle tecniche alessandrine egli aveva immesso l'intensità passionale del suo temperamento, gli odi e gli amori, Il dolore e l'idealizzazione mitica di una donna, l'esperienza drammatica della vita vissuta.
Riduttiva appare la tesi di F. Jacoby, secondo la quale l'elegia latina deriverebbe non direttamente dall'elegia ellenistica (F. Leo), ma da un ampliamento dell'epigramma greco, il genere letterario al quale i poeti d'Alessandria avevano affidato l'espressione diretta del sentimento personale. Spunti epigrammatici non mancano, certo, presso gli elegiaci latini. Ma la momentanea effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre s'esaurisce in un respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione convenzionale, viene, dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che è già strutturalmente diverso, più ampio e impegnativo. Neanche sono assenti punti di contatto tra elegia latina e commedia nuova. Ma sia per l'epigramma, sia per la commedia, quanta parte doveva avere, anche per i poeti elegiaci, l'insegnamento della scuola, in particolare la retorica, col ricco suo campionario di temi e situazioni che, desunti dalle fonti più disparate, offriva alle esercitazioni degli allievi?
L'immediato precedente dell'elegia latina resta l'elegia erotica alessandrina che, quasi del tutto perduta per noi, con buona probabilità non doveva ignorare, accanto la narrazione mitica, anche il diretto riferimento del poeta alla sfera del suo personale sentimento, pur se per i Latini, posta l'esperienza fondamentale della lezione catulliana, il discorso soggettivo e intimistico si amplierà e si approfondirà. Per non parlare dell'elegia a sfondo più spiccatamente eziologico: gli Aitia callimachei costituiscono l'indubbio punto di riferimento per le "Elegie romane" di P. e per i Fasti ovidiani.
Al centro dell'elegia latina è la figura femminile, una donna dai netti connotati spirituali e dalla presenza fisica talora assai corposa, e ossessiva. Accanto a lei, un poeta che la canta, perchè oltre tutto e' proprio lei ad esserne l'ingenium, l'ispirazione esclusiva, e che la adora, pur fra tradimenti, liti e riappacificazioni, in un vagheggiamento che la traspone in una dimensione mitica. Essenziale, nel corteggiamento, è lo stesso esercizio poetico, che prospetta all'amata una fama imperitura. Immancabilmente bellissima, la donna è vita del poeta, ed è idealizzata sin nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia...). E’ l'amica o, meglio, la domina alla quale sottomettersi in un servitium, non senza un dolce arrovellarsi nella sofferenza, perchè traditrice è la donna, e volubile. E' comunque amore che vuole durare eterno, e non passione intensissima ma labile, come quella di un epigrammista greco. E’ eros che va oltre la morte e che talora il poeta canta come nenia funebre (flebilis è, tradizionalmente, il componimento elegiaco).
Il poeta elegiaco s'abbandona a un intreccio di immagini ove la fantasia vale almeno quanto la realtà, e in cui l'ebbrezza scatenata dei sensi non esclude l'esigenza di rinvenire un corrispettivo della propria passione nel mondo sublime, ma estremamente ambiguo, del mito.

 
Gaio Cornelio Gallo
(Forum Julii, odierna Fréjus, 69 – 26 a.C.)

VITA.
Imbevuto di cultura ellenistica, G. costituisce l'anello di congiunzione tra la poesia neoterica e l'elegia augustea.
Nacque nella Gallia Narbonese. Cornbattè con Ottaviano contro Antonio in Egitto e, nel 30, divenne il primo praefectus Aegypti. Alcuni suoi atteggiamenti, congiunti alla tendenza a tributare onori divini ai governanti, tipici di quella regione, lo misero in cattiva luce presso Ottaviano, che lo fece condannare all'esilio e alla confisca dei beni. G. si uccise. La damnatio memoriae che il princeps volle del suo prefetto indusse, come sembra, Virgilio, che pure era stato legato a G. da intensa amicizia, a sostituire il finale del IV libro delle Georgiche, che si chiudevano con le sue lodi, con l'episodio di Aristeo, ma non impedì che P. lo celebrasse come insigne poeta d'amore e Ovidio vedesse in lui l'iniziatore dell'elegia latina.
Determinante per la sua formazione fu l'amicizia con Partenio di Nicea, il poeta greco che molto contribuì alla diffusione dell'alessandrinismo presso i neoteroi. A lui Partenio dedicò la sua raccolta in prosa di dolorose vicende d'amore (Erotika pathemata) come repertorio di casi e di citazioni da utilizzare per la composizione dei suoi versi.
Accanto a quella di Partenio, rilevante fu pure l'influenza della 'difficile' poesia, di carattere mitico e astrusamente erudito, del greco Euforione di Calcide (III secolo).
G. amò, sotto lo pseudonimo di Licoride, una donna seducente quanto spregiudicata. Da schiava, 'Licoride' era riuscita a diventare mima, idoleggiata attricetta, col nome di Citeride (ma si chiamava solo Volumnia...). Amante di Bruto e di Antonio, dovè fare irresistibile presa sull'animo sognante - cosi ce lo descrive Virgilio nella X ecloga - di G., che tuttavia abbandonò nel più profondo sconforto per seguire un ufficiale tra le nevi delle Alpi e i freddi del Reno. Capricciosa e leggera, la pulchra Lycoris fu tuttavia 1'ingenium di G. (cosi Marziale in 8, 73, 6) ed ebbe gli onori della poesia nei 4 libri di elegie che il poeta compose e riunì forse col nome di Amores (o proprio col suo nome, Lycoris?).

OPERE.
Sino a pochi anni fa, di G., posto da Quintiliano (10,1, 93) tra i massimi poeti elegiaci, avevamo soltanto un pentametro, contenente una nota erudita, secondo la migliore tradizione alessandrina, su un fiume della Scizia. Tutto ciò ci rimaneva del corpus attestato invece dalla tradizione: 4 libri di elegie, "Amores" ed epilli. Nel 1979 un papiro egiziano ci ha restituito una decina di versi, nel primo dei quali è presente il nome di Licoride. Se questi versi sono effettivamente autentici, resta confermata l'importanza che gli antichi assegnavano all'esperienza poetica di G.: vi son contenute le note soggettive tipiche dell'elegia latina, Ia dedizione d'amore intesa come servitium nei confronti della domina, l'accenno alla nequitia, alla dissolutezza, un concetto caratteristico del mondo elegiaco.
Probabilmente nella poesia di G. dovevano essere presenti i motivi e la struttura compositiva della grande elegia augustea. In particolare, le note mitiche ed erudite dovevano fondersi con la diretta esperienza sentimentale del poeta amante.
 

Albio Tibullo
(Gabii 55/48 – 19 o 18 a.C.)

VITA.
Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T., il poeta elegiaco che Orazio (nell'epistola 1, 4) ritrae, pur bello e dotato di ogni bene, mentre s'aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima".
Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, anche se è molto improbabile l'identificazione del luogo di nascita nel villaggio di Gabii, come da qualcuno è stato proposto.
Fece parte, a Roma, del circolo di Messalla Corvino, e con Messalla, cui fu sempre legato da intensa amicizia, partecipò a due spedizioni militari, una in Oriente, nel corso della quale dove fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfu); l'altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari (cantò il trionfo di Messalla - celebrato nel 27 - nell'elegia 1,7 nella quale è anche un passo sul dio Osiride, interessante documento della sua religiosità).

OPERE E CONSIDERAZIONI.
*Il "Corpus Tibullianum". I codici ci hanno trasmesso 3 libri di elegie. I primi due sono sicuramente di T.. Il I fu composto tra il 30 e il 25, e consta di 10 elegie. Vi si canta sopra tutto l'amore per una donna, Delia, che Apuleio, nella sua Apologia (10), dice chiamarsi Plania (T. avrebbe ellenizzato il suo nome: planus = delos). Il II comprende 6 elegie, in tre delle quali è cantata un altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una 'Vendetta' per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio nell'ode 1, 33: una certa Glicera, una Glicera crudele ch’è venuta meno al patto d'amore col poeta.
C'è poi il III libro, che gli umanisti italiani divisero in due parti. La I contiene una raccolta di 6 elegie che l'autore, un poeta di nome Ligdamo, dedica alla sua Neera. La II consta di un anonimo Panegyricus Messallae, di undici elegie che cantano l'amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con due componimenti, verisimilmente attribuibili a T. giovane: un'elegia per una ragazza innominata (la Glicera di cui parla Orazio?) e un epigramma.
Molto probabile è che l'intero Corpus sia frutto di poeti del circolo letterario di Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune, quasi monocorde, comunque lontana dall'estrema ricchezza e varietà di toni dei poeti della cerchia di Mecenate.
*I due libri di T.. Il mondo poetico di T. si configura come un nostalgico vagheggiamento dell'amore e dell'ombra. I temi fondamentali della sua poesia sono la campagna e l'amore, molto spesso intrecciati. Il poeta ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora appena tinta di un indefinito dolore. Il suo è amore fatto sopra tutto di malinconica dolcezza, oscillante tra il desiderio di star vicino alla sua donna e certe fantasie di morire. Nel II libro i toni divengono forse più sofferti e crudi per la venale Nemesi, il nuovo amore che avrebbe dovuto sostituire l'infedele Delia, e che invece ha imposto al poeta una umiliante schiavitù, un triste servitium. Le note di fondo permangono, tuttavia, sostanzialmente identiche. Le avventure con Delia, con Nemesi o, ancora, col giovinetto Marato (cui T. dedica ben tre elegie nel I libro) sembrano spesso svaghi di fantasia più che reali, effettive esperienze. L'amore del poeta non è quello, travolgente e passionale, di Catullo per Lesbia. E’ tenerezza, languore intriso di nostalgia e, molto spesso, espressione di vicende intraviste, sognate, molto più che vissute.
A ciò contribuisce la tecnica compositiva di T., che ama disporre come a onde i vari motivi che si sviluppano nell'elegia. Un tema si innesta su un altro, per poi venire abbandonato e poi ripreso, in un gioco sinuoso di volute entro cui ogni realtà sembra perdere i suoi connotati. Non sono - si badi - le digressioni che con dotta arte gli alessandrini inserivano nel discorso poetico. In T. la trama poetica, pur unitaria, si risolve in una variazione di temi che quasi si inseguono intorno a quello di fondo, come in una composizione musicale. Le vane note della poesia tibulliana, la deprecazione della guerra, l'esaltazione della pace dei campi, le fantasie d'amore e di morte, gli stessi luoghi comuni dell'erotica alessandrina (il lamento davanti alla porta chiusa dell'amata, Cupido armato di frecce, i riti magici per conquistare la donna) si fondono, spesso senza scorie che sappiano di stilizzazione, di 'maniera', in una struttura tanto sottile quanto organica. L'assenza di erudizione mitologica rende ancora più nitido il disegno dell'elegia tibulliana che, anche per questo, occupa nell'antichità un posto tutto particolare, straordinariamente moderno.
L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico di T. si combina - ed è qui forse il suo fascino precipuo - con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo. Quintiliano acutamente definì T. tersus atque elegans (10,1,93). Armonioso e musicale è il suo distico; forse solo un po' monotono.
Un esempio tipico della composizione tibulliana per associazione di idee può essere fornito da un rapido esame della III elegia del I libro, che costituisce quasi una sintesi del suo mondo poetico. E’ in essa un divagare continuo, ma non tale da non permettere di intravedere le linee della struttura poetica, organizzata con rara sagacia.
Il poeta è ammalato, a Corfù, e teme di morire lontano dai suoi, lontano da Delia. Eppure l'amata, prima della partenza, ha interrogato gli oracoli e ha supplicato Iside. Se riuscirà a salvarsi, il poeta celebrerà piuttosto i Penati e i Lari. Il ricordo di queste primitive divinità gli suggerisce la rievocazione dell'età dell'oro, l'epoca di Saturno e della felicità, ignara di viaggi per mare e di guerre. Ora è invece il regno di Giove, ricco di stragi e di morte. Eppure Giove dovrà salvarlo. Se dovrà invece morire, sarà condotto nei Campi Elisi da Venere, in un regno di innamorati fatto di danze e di canti, dove i giovani giocano misti alle tenere fanciulle. Ma nell'oltretomba non ci son solo gli Elisi: c'è pure il luogo di dannazione, destinato a chi abbia violato l'amore del poeta e a chi gli abbia augurato lunga la campagna militare. Ma Delia resti casta: a lei, raccolta nell'intimità della casa, mentre la vecchia nutrice le racconta una favola e l'ancella che fila la lana s'abbandona al sonno, il poeta apparirà improvviso e la sorprenderà; a piedi nudi Delia correrà verso di lui, coi lunghi capelli scomposti.
L'immagine di Delia che corre incontro al poeta è tra le più fini della poesia tibulliana; ma non solo per se stessa, per il suo intimo fascino, quanto sopra tutto perchè non è mai avvenuta, frutto, soltanto, di un vago fantasticare. Qui e' l'incanto particolare delle immagini di T.: nel sognare e realizzare nel sogno ciò che potrebbe accadere, ma che non è mai avvenuto e forse mai sarà.
Nelle elegie del II libro compare qualche tratto più realistico (solo qualche tratto, perchè l'attenzione di T. non ama soffermarsi su ciò che è attuale e presente, ma dilatarsi nella speranza, nel desiderio, o nella rievocazione del passato). In un caso il poeta raggiunge un’intensissima suggestione: in 2, 6, 29-43 prega Nemesi di aver pietà di lui, in nome della sorella morta anzi tempo. Per convincerla, le prospetta la possibilità che la sorella le appaia nel sonno, presso il letto, insanguinata come quando cadde a precipizio dall'alta finestra e raggiunse i laghi infernali. E’ una minaccia che T. fa balenare agli occhi della sua dura puella, ma quella pozza di sangue nella strada è troppo cruda per non essere stata anche vera.
La campagna di T. non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore. E’ anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi. E’, ancora, la campagna delle feste contadine, quella che conserva i riti antichi del mondo rurale (la I elegia del II libro è dedicata agli Ambarvalia, al rito della purificazione dei campi). Il poeta è rimasto legato alla fede della sua infanzia, agli dèi della campagna e del focolare: nelle sue elegie compaiono i Lari (ai cui piedi T. correva, da bambino: cfr. 1, 10, 15 5.) e Silvano e Priapo e Bacco, e poi Cerere e Pale. La campagna coi suoi riti è per lui l'approdo sicuro, ove più genuini si manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della famiglia. Anche l'esaltazione di Roma, presente nell'elegia 2, 5 (dedicata a Messalino) si risolve nella rievocazione, densa di ricordi virgiliani, della religiosità agreste del Lazio primitivo.
*Ligdamo. L'attuale III libro consta di 6 elegie attribuite a un certo Ligdamo (è cosi che il poeta si nomina in 2, 29) che canta il suo amore per una donna, Neera. Si tratta con ogni probabilità di uno pseudonimo. Solo uno schiavo, infatti, avrebbe potuto avere un nome greco, mentre il poeta, come risulta dalle elegie, si rivela di condizione libera. Ardua è però l'identificazione di Ligdamo. L'ipotesi più plausibile è che sia uno poeti che fecero parte del circolo di Messalla Corvino (taluni lo identificano con lo stesso T., talaltri con Ovidio giovane).
Quel che si può con sufficiente certezza affermare è che Ligdamo ha letto, e imitato, sia T. sia Ovidio, mutuandone immagini ed espressioni per dare vita al suo ancor tenue, giovanile mondo poetico. E’ innamorato di Neera, con una dilezione tenera e casta, e accarezza il sogno di una vita matrimoniale con lei. Ma Neera è incostante e infedele, e l'abbandona, lasciandolo affranto dal dolore. E nel dolore s'arrovella, certo più di T., e pensa alla morte, a Neera che, coi capelli scomposti, e accompagnata dalla madre, s'avvicinerà al suo rogo (2, 9-13).
*Il Panegirico di Messala. Il "Panegyricus Messallae", un elogio di Messalla composto forse nel 31 a.C., anno del suo consolato, apre l'attuale IV libro del Corpus. E’ stato attribuito a T. giovane, ma sembra troppo lontano dalla sua arte (con ben altro fermento fantastico T. ha celebrato Messalla nell'elegia 1,7). Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e condottiero (nella II), con l'aggiunta di pedanti digressioni sull'Odissea e sulle cinque zone climatiche.
*Il ciclo di Sulpicia e Cerinto. Seguono, nel IV libro, 13 componimenti. Gli ultimi 2 sono verisimilmente tibulliani. Il ciclo di Sulpicia e Cerinto occupa dunque 11 elegie (2-12). Le prime 5 narrano le vicende d'amore di Sulpicia, nipote di Messalla, col giovane Cerinto. Sono state attribuite, con buona probabilità, a T. (ma come suona strano questo T. che narra amori altrui!). Gli altri 6 componimenti sono brevissimi biglietti d'amore composti, per il suo diletto, forse dalla stessa Sulpicia. In essi Sulpicia confessa il suo amore, che è passione di sensi, con sorprendente immediatezza espressiva. Brama rivelare il suo amore, e non tenerlo nascosto, perchè dolce le è l'aver peccato (7); se ha un pentimento è per un mancato incontro d'amore: per aver lasciato solo il suo Cerinto durante una notte, troppo preoccupata di nascondergli tutto il suo ardore (12).


Sesto Properzio
(Assisi? 50 ca a.C. – Roma, dopo il 15 a.C.)

VITA.
P. nacque da agiata famiglia di rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il padre, fu dalla madre condotto a Roma, ove fu avviato alla carriera forense. Ma P. rivelò molto per tempo le sue attitudini per la poesia. Al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto monobiblos ("libro unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la tradizione dei poeti alessandrini.
Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte Cinto (si ricordi la Delia di Tibullo). Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di P., dagli occhi neri e dai capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma anche di facili avventure d'amore (e dunque costituzionalmente infedele) dominò incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione.
Si amarono, talora nevroticamente, per quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desideno di lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. P. la seguì nella morte intorno al 16 a.C. Una vera e definitiva rottura con Cinzia non ci fu mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il discidium, la separazione definitiva; nonostante la morte di lei.

OPERE.
P. compose 4 libri di "elegie". Come monobiblos fu pubblicato nel 28 il I libro (22 elegie). Sempre pronto nell'individuare i migliori talenti, Mecenate apprezzò le qualità poetiche di P., che fu subito ammesso nel celebre 'circolo'.
P. conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era solito recitare i propri roventi versi. Difficili, invece, i rapporti con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e P. sembrano poi del tutto ignorarsi: gelosia reciproca?
Tra il 28 e il 25 compose il II libro (34 elegie), che si apre con una recusatio, un rifiuto da parte del poeta di coltivare la poesia epico-celebrativa cui Mecenate pur lo sollecitava. Pubblicò il II libro forse insieme col III (25 elegie) nel 22. Il IV libro (11 elegie), che contiene le 5 elegie 'romane', volte a cantare leggende e riti dell'antichità romana (P. accolse finalmente, anche se con tutta misura le richieste di Mecenate), fu probabilmente pubblicato nel 16 a.C., data a cui risalgono gli eventi cui vi si fa riferimento.

CONTENUTI E CONSIDERAZIONI.
Poesia e amore sono due elementi inscindibili in P.. Il poeta si sente vittima d'amore, e proclama il suo servitium Amoris, la sua dedizione totale alla passione. E’ una precisa scelta di vita, lontana dalle tradizionali ambizioni del foro e della politica, una vita di nequitia di cui il poeta è consapevole; ed è pure una scelta di poesia e di poetica (illuminante, al riguardo, è particolarmente la I elegia del I libro): di una poesia che esprima una vita dedita all'amore, e che dunque sia idonea a far innamorare la donna, e una poetica, quella callimachea, che con sua brevitas e l'impiego del mito meglio si presti agli intenti del poeta elegiaco.
A differenza di Tibullo, che sembra quasi smarrirsi nelle sue fantasie, P. ha un'immaginazione corposa, che ama le tinte intense, i bruschi trapassi. L'amore è al centro del suo canto, ma un amore fatto sopra tutto di passione e di tormento, assoluto e coinvolgente, che si proietta oltre il reale, oltre la vita stessa, sino a superare le barriere della morte.
*Di Cinzia il poeta, già all'inizio del I libro, sottolinea la prepotente bellezza fisica (1, 2). E' questa splendida presenza fatta di carne che ossessiona il ricordo e alimenta la gelosia di P.. In 1, 11 Cinzia è a Baia, allora mondanissimo luogo di villeggiatura, e il poeta la segue con la mente sino al momento in cui si delinea, atroce, il sospetto che la donna possa abbandonarsi a un'avventura, quella donna che da sola costituiva la casa, i genitori, ogni possibilità di gioia per la sua vita (vv. 23 s.):
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
E’ la totalità radicale di questo amore, è Cinzia che col suo corpo assilla la fantasia del poeta. In 2,15 P. descrive una intensa notte d'amore, ritratta con un'audacia singolare, che a momenti può ricordare la lucreziana follia degli amanti, ma che in effetti vuole esprimere un bisogno acutissimo di eternità, il desiderio che quell'amore, quel contatto fisico possa durare, ripetuto, all'infinito, in una catena indissolubile: perchè la vita è fugace e tutto può, d'un tratto, dileguarsi. La morte incombe, ma proprio per questo Cinzia è tanto più bella e amabile, e la stessa morte è meno da temere se P. può contare sul costante amore di lei (1, 19). Molto spesso, nel suo 'Canzoniere', il poeta s'abbandona a fantasie di morte in connubio singolare con un prepotente senso dell'eros: è l'amore che vuole protendersi oltre la vita e disporsi in una dimensione definitiva.
P. si compiace di immaginare Cinzia in situazioni difficili, disperate, come in 2, 26, ove la donna è ritratta vittima di un naufragio, già trasportata, fatta pesante, dalle onde. Fantasie di poeta, che si sviluppano però non secondo le morbide volute tibulliane. Piuttosto, si accaniscono con straordinaria intensità attorno ad alcuni punti focali secondo una logica poetica talora strana, anomala nei suoi trapassi, forse non sempre del tutto coerente, ma probabilmente proprio per questo più accattivante. Nella stessa elegia in cui si compiace di vedere Cinzia sbattuta dalle onde, il poeta si lascia andare a un impossibile sogno d'amore, proiettato al di là delle distese marine: se la sua donna vorrà avventurarsi per l'ampio mare, egli la seguirà; si addormenteranno sullo stesso lido, uno stesso albero sarà il loro tetto, alla stessa sorgente entrambi berranno (vv. 29 ss.).
P. ama contemplare Cinzia, fissarla in alcuni momenti di seduzione: nel giorno del suo compleanno la invita a farsi più bella che mai, e a indossare l'abito con cui a lui era apparsa la prima volta (3, 10); si sofferma a mirarla dormente in un sonno quasi mitico, in un'atmosfera satura del respiro e della presenza dell'amata (1, 3), o, in 2, 29, la contempla appena sveglia, sola nel suo letto, bella da incantare (vv. 25 s.), prima di una memorabile scenata d'ira della donna.
Le furie di Cinzia attirano spesso, con toni intensi e strani, la fantasia del poeta. Dolce gli è ricordare le imprecazioni e le coppe colme di vino che Cinzia, come una pazza, gli ha lanciato contro (3, 8): sono, per lui, segni di vera passione, come i morsi sul collo e le lividure, tanto più che nell'amore egli vuole soffrire o sentire che la donna soffre (v. 23). Singolarissima è la temperie di 4, 8, ove a una scena ritratta con vivace realismo subentra un'atmosfera come di incubo: Cinzia appare all'improvviso, pur bella nel suo furore, e interrompe una boccaccesca avventura del poeta sfogando la sua ira sulle sue due amichette e, con schiaffi e morsi, sul poeta stesso.
La Cinzia di 4, 8 appare prepotentemente viva, nel suo furore, nella gelosia, nella passione che attraversa le sue membra. E’ questa presenza, assillante, del corpo della donna che si pone al centro dell'immaginazione del poeta e sollecita le più vane e strane fantasie. Nell'elegia che immediatamente precede (4, 7), Cinzia è vista, dopo la sua morte, da poco sepolta, apparire di notte a P.. E’ l'apparizione di una defunta; eppure c'è ancora il senso della carne, di quel corpo che continua ad essere l'ossessione del poeta: Cinzia sembra quasi che s'appoggi col suo peso sul letto di P., dopo le sue esequie, le esequie di un amore, con gli stessi occhi, gli stessi capelli che aveva al momento del funerale, con la veste bruciata al fianco e le labbra scolorite. Cinzia parla a P., e gli rammenta le gioie furtive d'amore nella Suburra, il davanzale della sua finestra logorato dalle segrete fughe notturne e gli abbracci sul trivio e la strada che, attraverso i mantelli distesi, avvertiva il calore dei loro corpi avvinti. Ora, la casa un tempo piena della sua presenza, è dominata da un'altra. Ma non s'illuda P.: per il momento lo possiedano pure altre donne, chè presto lei sola lo terrà, e sfregherà, mescolandole, le proprie ossa contro le sue (vv. 93 s.).
L'elegia segna il culmine dell'esperienza poetica di P.: l'amore che va oltre la vita, ma - e questo è il suo carattere precipuo - con un senso quasi oppressivo della presenza carnale di Cinzia.
*Il mito e le "Elegie romane". Pure per altra via la presenza di Cinzia diviene, nel poeta, memoria grandiosa. P. eredita dalla poetica alessandrina, di cui è stato a Roma finissimo interprete, l'impiego del mito, ma non di un mito inteso puramente come brillante e talora divertito sfoggio di erudizione. In P. la realtà stessa viene rivissuta alla luce del mito: sopra ogni cosa, Cinzia. L'intero suo mondo degli affetti viene trasfigurato e, per così dire, eternato dall'atmosfera incantata del mito. L'esperienza d'amore del poeta viene così sublimata da una luce ideale e Cinzia, la creatura di sangue e di passione, viene intravista in una dimensione mitica. Persino il ricordo di Licinna, la schiava di Cinzia che al poeta giovane aveva rivelato i segreti dell'amore, ed era stata fatta oggetto delle ire gelose della padrona, persino l'umile Licinna, vittima di ingiuste vessazioni, suggerisce a P. la rievocazione di un mito di dolore, quello di Antiope, forse il suo mito più patetico e intenso (3, 15).
Effettivamente, la trasfigurazione mitica è, per P., il mezzo ideale per sublimare la realtà, e resterà costante nell'intera sua produzione poetica. In altri termini, non è da ravvisare una frattura spirituale e artistica tra il P. cantore d'amore e il P. che canta antichi miti romani e italici. Dopo la pubblicazione del I libro, abbiamo visto, egli viene accolto nel circolo di Mecenate, che cerca, in sintonia con la politica culturale, etica e religiosa del regime augusteo, di indirizzarlo verso un tipo di poesia più elevata, atta a celebrare le glorie romane. Più volte, con amabili recusationes, P. si schermisce: la sua Musa è troppo tenue per poter cantare argomenti di tanto impegno. Egli si appella a quelli che considera i suoi maestri, come Filita e ancor più Callimaco, che aveva disdegnato la poesia epica e celebrativa a favore del componimento breve e ricercato (P. è anche attentissimo lettore di epigrammi ellenistici i cui motivi trasfonde sovente nelle sue elegie). Alla fine, pur dopo vane e non sempre chiare oscillazioni, P. cede alle sollecitazioni di Mecenate e si decide a comporre alcune elegie relative alle origini di antiche tradizioni di Roma, collegate con culti o luoghi particolari. Alla base, ancora una volta, è Callimaco coi suoi Aitia, il poema sulle origini di antichi riti e istituzioni (come "Callimaco romano" P. si presenta nell'elegia proemiale del IV libro). Le "Elegie romane" (la II, IV, VI, IX, X del quarto libro) introducono nella letteratura latina l'elegia di tipo eziologico, che Ovidio riprenderà e svilupperà nei suoi Fasti.
P. rivive dunque le origini di storie e leggende dell'antica Roma collegandosi alla lezione di Callimaco, ma con una visione finale del mito che certamente supera gli angusti ambiti entro cui il poeta di Cirene lo aveva costretto. Al 'mito' di Cinzia subentra (o, meglio, s'alterna nella singolare compagine del IV libro) quello di Roma con un atteggiamento poetico sostanzialmente coerente. Perchè mito è per P. elevare la realtà attuale in un passato esemplare che la renda in certo modo eterna. E’ il continuo trasferire la contingenza del reale in una dimensione ideale ad assicurare la continuità di ispirazione nella pur tanto complessa produzione poetica properziana. Nelle elegie romane P., come Virgilio nell'VIII libro dell'Eneide, vagheggia l'età primitiva di Roma e canta vicende remote, circonfuse di un'aura leggendaria, come le origini del culto di Giove Feretno (10), Ercole e Caco (9), ma sopra tutto la leggenda di Tarpea (4), la fanciulla che per amore, almeno nella versione properziana, tradisce la sua patria, e che, al solo vederlo, s'innamora di Tito Tazio, il re nemico di cui amerebbe divenir prigioniera. E poi c'è la gustosissima elegia che canta Vertumno (2), una strana divinità capace di trasformarsi in ogni cosa e di rivestire ogni forma: un'elegia che traduce il tema eziologico in un vivace gioco fantastico.
Nel contesto del IV libro particolare rilievo assumono ancora due elegie, nelle quali il cantore appassionato di Cinzia esalta il casto amore coniugale. La III elegia è una lettera che Aretusa invia al marito Licota impegnato in una spedizione militare, una lettera densa di trepidazione, desiderio, gelosia della donna per il marito lontano. Con ogni probabilità Ovidio tenne presente questa epistola in forma di elegia per la composizione delle sue Heroides. L'ultima elegia del IV libro (11), che la tradizione suole denominare regina elegiarum, si risolve in una celebrazione delle antiche virtù delle matrone romane. L’esaltazione dei valori tradizionali e il tema dell'amore si fondono nelle nobili parole che, dopo la morte, Cornelia rivolge al marito Emilio Paolo. Traspare in esse, con una spoglia essenzialità, rara in P., la dedizione totale di una donna alla sua famiglia, la sua intemerata fedeltà, uno spirito di abnegazione che ricorda l'Alcesti euripidea, il delicatissimo amore nei confronti dei figli col desiderio, sottile, di continuare a esser presente nella casa che una volta fu sua.

LA LINGUA E LO STILE.
All'intensità sentimentale dell'elegia properziana corrisponde una temperie stilistica densa, fatta di scorci, di trapassi arditi, in una concentrazione talora estrema, che costringe il lettore a indugiare di continuo per cogliere la pregnanza spesso oscura di un'espressione. A termini dotti e ricercati s'alternano, nei contesti più realistici, espressioni del linguaggio quotidiano, in una tensione stilistica ricca di ambiguità. E' arduo talora cogliere a pieno l'intera valenza connotativa di un'espressione, come è difficile, almeno all'inizio, individuare, nell'intreccio delle sue articolazioni, la struttura di un'elegia properziana: è una tecnica eminentemente composita, nella quale sembra tradursi l'animo stesso, appassionato e contorto, del poeta. Di qui gli inizi improvvisi, assai suggestivi, delle sue elegie; di qui i passaggi sintattici e concettuali repentini e, almeno in apparenza, lontani da ogni coerenza logica. Le sue espressioni hanno la concentrazione incisiva delle epigrafi, una densità che sembra di fiamma (ignes definì Ovidio i versi di P.), ma anche, all'occasione, una certa patina di leggera ironia, che sembra svelare, in alcuni momenti, il gioco del poeta,
ondeggiante tra fantasia e realtà, la sua capacità di distaccarsi dall'oggetto della sua passione, e di ragionare, un po' divertito, sulla passione stessa. Il tutto con un linguaggio poetico elevato, informato a una dotta eleganza.
Nelle elegie s'avverte un incalzare di immagini che s'addensano come in blocchi, fervidi di idee e di allusività. Una tecnica che è lontana dalle ampie volute tibulliane come dalle 'emozioni' catulliane. Rispetto al Veronese, che dà risalto al particolare sia esso di gioia, d'amore o di dolore, in P. c'è un'atmosfera mitica che pone ogni cosa in una prospettiva ideale, appena temperata da un trasparente velo di ironia.


Publio Ovidio Nasone
(Sulmona, Abruzzo 43 a.C. – Tomi, Mar Nero 17-18 d.C.)

VITA.
O. nacque da antica e agiata famiglia equestre (nell'elegia 4, 10 dei Tristia è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla sua vita). A Roma, ove si recò col fratello, studiò grammatica e retorica presso insigni maestri come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense e politica, O. avvertì invece imperiosa l'inclinazione verso la poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi (et quod temptabam dicere versus erat). Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene, O. rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore. Ad alimentare la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio, Gallo (solo per poco vide Virgilio). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati (ma ebbe una figlia, forse dalla seconda moglie), sposò una giovane fanciulla della gens Fabia che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere.
Nell'8 d.c., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto (revocato neanche dal successore Tiberio), che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si trattò, e' vero, di una relegatio che, a differenza dell’exilium, non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte, che lo colse nel 17 (o 18) d.c.
Ignoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due colpe che l'avrebbero perduto (trist. 2, 1, 207): carmen et error. Nel carmen deve essere allusione all’ Ars amatoria, il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche. Riguardo l’error, l'ipotesi più verisimile è che O. sia stato coinvolto in uno scandalo di corte: fatto è che nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio col giovane patrizio Decimo Silano.

OPERE E CONSIDERAZIONI.
Possiamo dividere la multiforme attività poetica di O. in tre momenti che corrispondono ad altrettante fasi della sua vita.
Al primo periodo appartengono le poesie erotiche, che cantano l'amore nella galante cornice della vita di Roma: gli "Amores", un canzoniere d'amore, le "Heroides", lettere di eroine ai loro infedeli amanti, l' "Ars amatoria", una precettistica dell'arte d'amare, i "Medicamina faciei femineae", un trattato di cosmetica, i "Remedia amoris", composti per aiutare a guarire dalle pene d'amore.
Al secondo periodo appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio respiro, composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la celebrazione del principato: sono le "Metamorfosi", il poema delle trasformazioni e i "Fasti", un poema che doveva illustrare il calendario romano, ma che fu interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi.
II terzo periodo e' quello dell'esilio e comprende la composizione dei "Tristia" e delle "Epistulae ex Ponto", i canti della solitudine e della nostalgia, della noia e della disperazione.
*Gli Amores. Gli Amores, in 3 libri (una I ed. era però in 5 libri), furono composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione, dunque, intorno ai vent'anni.
Sono elegie di carattere amoroso nelle quali è cantata una donna, Corinna. Ma Corinna è uno pseudonimo (è il nome di una poetessa greca)forse di un personaggio puramente letterario. Quel che si può con certezza affermare è che Corinna è lontanissima dalle donne intensamente vagheggiate dagli altri poeti d'amore latini. Ella sembra sintetizzare tutti quanti gli 'amori' di un poeta che, per indole, non poteva cantare un’unica passione. Corinna è donna, almeno nella fantasia poetica e al contempo, è un insieme di donne, la somma di esperienze erotiche o semplicemente galanti che il poeta vive in una Roma splendida. in una società smaliziata e gaudente.
Amore come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta: corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma legate al momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente ottenuto ma pronto a dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in questo gioco dei sentimenti, d'una arguzia gradevolmente ironica, che costituisce una delle note più gustose di questo suo disincantato mondo poetico. E’ una sequela di quadri, di scene di vita, che s'alternano a precetti d'amore, a casistiche varie, alle infinite situazioni che l'incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico elegiaco estremamente musicale che segue con rara aderenza la materia trattata.
Ad alimentare la fantasia ovidiana è la precedente produzione elegiaca, e' una serie di "luoghi comuni" (come il lamento davanti alla porta dell'amata, il servizio d'amore inteso come milizia...); è l'epigramma ellenistico d'amore, invece, che gli suggerisce variazioni su tema pressochè infinite; ma è anche una Roma brillante e festosa, che viene ad essere eternata nei lievi, cantabili distici ovidiani. Sorprendente, sin d'ora, è l'attitudine del poeta a scavare entro le pieghe riposte della psicologia femminile (la composizione delle Heroides, vero capolavoro in questo senso, è forse contemporanea a quella degli Amores). Un'attenzione per la donna e il suo mondo che resterà costante nella poesia del Sulmonese.
Quella degli Amores e' una poesia di una superficialità che incanta, che dell'amore sembra preferire i soli 'esterni' in una società che tutta pare ridursi a vivere in un perenne gioco galante. Arte della variazione spinta al massimo, e non solo dal punto di vista letterario. O. non può, diremmo costituzionalmente, riconoscere un unico oggetto d'amore: tutte gli piacciono le belle romane, e a nessuna si sente di opporre resistenza. Non una bellezza definita suscita in lui l'amore: ogni donna ha una sua attrattiva, a volte particolarissima, che in maniera irresistibile, riesce a sedurlo (2, 4). Sono amori che iniziano e finiscono spesso Lì dove sono nati, che sembrano, nonostante le promesse, esaurirsi in un'amabile corte (come in quella, impareggiabile, che il poeta rivolge a una gran bella donna, tutta gambe e sorrisi, che, accanto a lui, assiste alle corse dei carri nel Circo (3, 2).
*Le Heroides. Le Heroides (il nome in origine dové però essere quello di Epistulae heroidum) sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare, 14 sono lettere di eroine mitiche (come di Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Didone a Enea, Medea a Giasone...), una è della poetessa Saffo a Faone; le ultime 6, disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono lettere di eroi alle loro amate, seguite dalla risposta di queste. Domina, nelle epistole, la forma retorica della suasoria, del discorso cioè che tende a convincere qualcuno a compiere una determinata azione: in questo caso a ricambiare un amore. O. può vantarsi (ars 3, 346) di avere, con le Heroides, introdotto un genere nuovo nella letteratura antica, cioè l'epistola erotica in versi, anche se indubbio precedente era l'epistola properziana (4, 3) di Aretusa a Licota (due pseudonimi che cela\'ano personaggi reali, a differenza di O. che attinge dalla sfera del mito).

Il mito e la donna: e' questo il fulcro poetico delle Heroides ovidiane. Certo, non nel senso properziano dell'idealizzazione mitica della figura femminile. Piuttosto, O. umanizza le antiche eroine. Le solenni vicende del mito rivivono col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della Roma di O., delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell'amore infelice, quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello della donna abbandonata. Accanto a questa fondamentale fonte di ispirazione s'affiancano numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci, e poi Catullo, Virgilio, Orazio.
Ad animare l'ampio materiale proveniente dalla letteratura precedente, è l'eccezionale capacità di O., erede, in questo, di Euripide, di penetrare negli intimi recessi dell'animo femminile, a sondarne i sentimenti pur attraverso ripetizioni, riprese, frasi dette e poi smentite, in un vortice di immagini ricche di sfaccettature e di risvolti insospettati. O., allievo delle scuole di retorica, Si rivela maestro in quest'arte di andare a fondo di una situazione spirituale, di esaminarne, uno per uno, i possibili (e talora impossibili) esiti. Rischio di tale operazione poteva essere quello di ridurre ogni afflato sentimentale a una serie di giochi d'intelletto, di battute a freddo, in lunghi, sempre uguali monologhi di anime affrante. In effetti, la preparazione retorica ha offerto al poeta uno strumento eccellente per sviscerare a fondo la complessità dell'animo femminile; è divenuta essa stessa mezzo mirabile per l'espressione di un contorto mondo spirituale, di idee e immagini ripetute talora in maniera ossessiva.
Al centro, è la donna del mito, ma resa umana, quasi ridotta in frammenti di impulsi e di sensazioni. E’ la donna eterna che trionfa sull'idealizzazione mitica, la donna di sempre con le sue emozioni, le sue solitudini, la tormentosa sensibilità. E proprio quest'arte di frantumazione del mondo sentimentale che consente a O. di gettare un fascio di luce su passioni anche scabrose, su segreti inconfessabili, su certi chiaroscuri che verranno ripresi e sviluppati dalla successiva letteratura imperiale. Le Heroides sono forse l'opera più 'moderna' di O., in cui l'animo femminile si rivela con inedita verità. Torna al sommario
Molto varie sono le vibrazioni sentimentali delle Heroides: la penetrante, straordinariamente 'soffice' seduzione che Fedra vuole a tutti i costi esercitare su Ippolito, l'amato figliastro (4); la vanità, tanto intensa quanto puritana, di Elena che non vuol cedere, ma cede, a Paride (17); l'atmosfera 'romantica' e le incantate sospensioni, paesistiche e sentimentali, che fanno da sfondo all'impossibile storia di Ero e Leandro (18). Impossibile e scellerata la passione di Canace per il fratello Macareo (11): la lettera che Canace scrive prima di uccidersi è densa di cupo pathos, storia di un amore che si risolve in tragici preparativi di morte. Atmosfera di morte e di tristezza inconsolabile anche nella lettera di Laodamia a Protesilao, nella sua trepidazione, nei presagi di lutto, in quella stessa immagine di cera che riproduce le fattezze del marito, e che Laodamia troppo morbosamente conserva e accarezza (13, 151 ss.).
*L'Ars amatoria. L'Ars amatoria (il titolo deriva dal primo verso dell'opera), composti tra l’1 a.C. e l’'l d.C., consta di 3 libri in distici elegiaci. I primi due libri sono indirizzati agli uomini, ai quali O. insegna come incontrare, conquistare (1), conservare (II) l'amore di una donna; nel III, composto in un secondo momento, il poeta rivolge gli stessi consigli alle donne. Torna al sommario
Anche l'Ars amatoria costituisce un genere nuovo. Si presenta, nella struttura, come un'opera didascalica (del tipo delle Georgiche virgiliane), ma coi contenuti caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano. L'opera vuole essere un trattato sui comportamenti d'amore, vera summa - e culmine - di tutta l'elegia latina precedente, una precettistica di galanteria erotica, condita di arguzie e piacevolezze, ma nella struttura del poema didascalico. Di qui un contrasto sottile, che offre al poeta l'occasione per istituire un suo gioco, intellettualistico e ironico, su quell'eterno gioco che è l'amore (egli è lascivi... praeceptor Amoris: 2, 497). L'Ars amatoria (che già nel titolo riecheggia da un lato le coeve artes oratoriae, dall'altro le "arti d'amare" dei filosofi greci) dispone in maniera organica quei precetti che più di una volta, anche se in forma isolata, erano gia apparsi negli Amores (qualche spunto 'precettistico' era anche in Tibullo e in Properzio); ma e' una precettistica molto poco austera, chè ogni situazione d'amore resta solo frivola avventura, arricchita da digressioni, gustosi riferimenti al mondo del mito o alla storia o alla leggenda (in alcuni 'affreschi' mitici è gia prefigurato quello che sarà il mondo delle Metamorfosi). Al di sopra di tutto, al di sopra dei luoghi comuni, dei consigli d'amore, delle scene di vita come degli squarci di mito è la sorridente arguzia del poeta, che con arte suprema e impeccabile impegno formale ha creato un mondo in cui tutto sembra accordarsi, anche gli inganni, gli spergiuri e le astute simulazioni, in una superiore armonia. Sullo sfondo, ancora la Roma degli Amores, una Roma fissata in un'atmosfera di magica luminosità. Una Roma nelle cui vie affollate unica dominatrice sembra essere la donna, con l'incanto delle sue apparizioni, con la gioia e il senso di vita che riesce a infondere. Questo ovidiano è sopra tutto un mondo di grazia e di eleganza, ove ognuno trova la propria dimensione in un impegno d'amore che è, sì, coinvolgente, ma che mai assorbe troppo sul serio.
Anche gli dèi e gli eroi sembrano far parte di questo mondo ove tutto si riduce a levità, gioco superficiale ma terribilmente ammaliante. Si pensi a Ulisse e Calipso che discutono sulla spiaggia: Ulisse è arso dal desiderio di rivedere la patria; Calipso, tristemente consapevole di un abbandono che vede imminente, ancora vuole riascoltare dalle labbra dell'amato le sue eroiche vicende, quando all'improvviso un'onda cancella i tratti coi quali, sull'arena, Ulisse aveva disegnato e Troia e il Simoenta e i grandi accampamenti (2, 123-142). Il mito si è come dissolto in tocco leggero, un piacevole conversare, in segni tracciati su un lido che un'onda può in un attimo cancellare. Si pensi, ancora, all'atmosfera di magica attesa in cui si risolve la tragica storia di Procri, invano gelosa dell'amato Cefalo (3, 687-746) o alla festevole leggerezza con cui si conclude quella vicenda di Bacco e Arianna (1, 525-~61) che con intenso pathos Catullo aveva cantato neT c. 64.
*Opera a suo modo precettistica è pure il De medicamine faciei ('L'arte del trucco'), un trattatello di cosmetica di circa cento versi in metro elegiaco con cui O. indica alle donne come rendere più attraente la loro bellezza. Torna al sommario
*I Remedia amoris, sempre in distici elegiaci (per Un totale di circa ottocento versi), vogliono invece insegnare i mezzi con cui si curano gli effetti nefasti dell’amore. In particolare deg1i amori sfortunati. Con fine ironia, che vuole ripetere quella dell'Ars, il poeta invita 1'amante infelice a considerare i difetti dell'amata, a fuggire la solitudine e, insomma, a 'distrarsi'. Importante è poi ostacolare la mala passione quand'è all'inizio, prima che col tempo abbia modo di prender forza . Amabile gioco, questo di O., che mostra di ritrattare, ma con infinito garbo, gli insegnamenti dell'Ars.
*Le Metamorfosi. Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XV), il 'poema delle trasformazioni', che O. iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri, contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata, in rocce, piante, animali... Torna al sommario
Opera in apparenza disorganica, le Metamorfosi rivelano la loro unita nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.
Numerose possono essere considerate le 'fonti' ovidiane. Raccolte di miti circolavano in repertori che O. deve aver certamente conosciuto. Il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina: basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea; ma era stato trattato pure nel mondo latino nell'Orniithogonia di Emilio Macro e, occasionalmente, pure dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci). O., insomma, aveva alle spalle un enorme patrimonio mitologico e letterario, che indubbiamente traspare dalla lettura della sua opera. E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la Toro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cangiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura.
Le Metamorfosi iniziano dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= catasterismo) di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto. E’ cosi che O. intende ripercorrere tutte le fasi del mito e della storia. Il motivo conduttore è dunque quello della mutazione continua: dalle remote origini del cosmo sino alla glorificazione della dinastia giulia.
II poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera di comporre un carmen continuum, un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche dal punto di vista 'cronologico' (dalle origini all'attuale gloria di Roma). Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, O. pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso come luogo di eterna trasformazione.
Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le Metamorfosi, nonostante apparenti disuguaglianze strutturali, restano un poema unitario e di superiore armonia. II poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito.
Dominano nelle Metamorfosi la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sè.
Della trasformazione, O. mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'uomo che si trasforma in essere arboreo o inanimato il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo.
La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di O., così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in O. il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda. Nel divenire finalmente altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano il loro riscatto.
Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno: a lei non resta alla fine, perduta di mente, che andare errando, per poi accasciarsi a terra e piangere e sciogliersi nelle lacrime e tramutarsi in fonte (9, 630-665). Sensualita' esasperata e insana, come quella di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata, per non contaminare con la sua presenza il mondo dei vivi nè con la sua morte quello dei defunti. Ed eccola tramutarsi in pianta, gradualmente, e mentre sempre più viene avvolta dal tronco nascente, quasi smaniosa di por fine all'insostenibile sua vergogna, Mirra immerge il volto nella corteccia per affrettare la mutazione; ma pur continua a piangere: lacrime usciranno da quel tronco, e saranno mirra (10, 476-502).
Accanto al mito, l'amore è dunque 1'altro grande tema delle Metamorfosi, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli Amores e nell’Ars, bensi l'amore del mito (come già nelle Heroides), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale. Una soffusa mestizia permea la vicenda di due sposi infelici, Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre i1 loro amore coniugale (11, 573-748). Così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci, che ricevono lo straordinario onore di accogliere nella loro umile capanna (che diverrà un tempio) nientemeno che due divinità. In albero si trasforma pure Dafne, la ninfa che Apollo continuerà ad amare pur quando sarà divenuta corteccia e fronde di un meraviglioso alloro (1, 466-567).
Strani, questi amori delle Metamorfosi, spesso impossibili o abnormi. Di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore (3, 359-510). Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva (10, 243-294); cosi è della ninfa Salmacide che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito (4, 288-388). Accanto ai toni torbidi dell'episodio di Salmacide, O. sa affiancare, nella sua variegatissima 'sinfonia', l'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori. Muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure (4, 53-166).
*I Fasti. Anche i Fasti sono opera narrativa, che vuole illustrare il calendario romano (fasti vale appunto "calendario"). Composti contemporaneamente alle Metamorfosi, i Fasti dovevano comprendere 12 libri (uno per ogni mese), ma furono interrotti, a causa della relegazione a Tomi, ai primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi che vanno da gennaio a giugno. Durante l'esilio, il poeta rivide l'opera, in particolare il I libro che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio adottivo di Tiberio. Torna al sommario
I Fasti intendono dunque cantare, in distici elegiaci, le tradizioni romane nell'ordine in cui compaiono nel calendario latino. Opera organica, nei disegni del poeta, a differenza delle 'Elegie romane' di Properzio, che avevano selezionato soltanto alcuni tra i miti antichi; e opera eziologica, come gli Aitia di Callimaco, dal momento che intento di O. e' quello di spiegare le lontane origini di una festa, di un culto, di un nome. A tale scopo, il poeta utilizza sopra tutto l'opera erudita di Varrone e di Verrio Flacco, nonchè la storia di Livio (da notare che i Fasti, per la loro documentazione, restano testimonianza preziosa di antiquaria latina).
Per la composizione di un'opera che voleva cantare la religione romana, in sintonia col severo programma augusteo di restaurazione, O. mancava tuttavia di autentiche motivazioni interiori. Quanto c'è di vivo e vero nei Fasti è in contrasto con quelli che dovevano essere gli impegnativi intenti programmatici. Ai riti, alle feste, alle sacre istituzioni di Roma antica, O. s'accosta con spirito disincantato, ancora con quel gusto di raccontare che abbiamo visto dominante nelle Metamorfosi, e con una curiosità tutta sorridente nei confronti del divino.
II poeta ha avuto il merito di aver come fissato e trasmesso ai secoli un'immagine concreta e verace di quella che a lui appariva la religiosità romana. Sono squarci di vita, come la descrizione della festa in onore di Anna Perenna, una vecchia dea di Roma (3, 523-542), che trasmette con vivace immediatezza l'atmosfera di una festività paesana. 0, ancora, sono rievocazioni di antichi personaggi della tradizione, vicende sopra tutto di donne, presenti anche nei Fasti col loro fascino tipicamente ovidiano: può essere Lucrezia, ritratta nell'incanto che le deriva dalla sua onestà, bella sino alla fine, sino al suo suicidio di signora oltraggiata (2, 761-836); o Silvia, la vestale che commette l'errore di abbandonarsi sull'erba e di addormentarsi mentre un dio bramoso la compromette senza rimedio (3, 11-48); la naiade Lotide, che pur s'addormenta dopo una festa dedicata a Bacco (descritta con toni carichi e sensuali): al chiaro di luna il dio Priapo le si avvicina con inequivocabili intenti, ma il raglio di un asino, svegliando tutti, pone indecorosamente fine al suo lubrico tentativo (1, 390-440).
Ancora una volta il mito è avvertito dal poeta in maniera cordiale, con un senso di confidente familiarità coi culti, i riti, gli dèi di Roma che è poi la dimensione più vera dell'O. dei Fasti. Basterebbe a documentarlo il gustoso colloquio che, all'inizio del IV libro, il poeta ha con Venere, condotto con spregiudicata grazia alessandrina (4,1-16).
*Le opere dell'esilio. La produzione ovidiana dell'esilio comprende 5 libri di Tristia e 4 libri di Epistulae ex Ponto (tutti in distici elegiaci). I Tristia furono scritti tra l'8 e il 12 d.C.; la composizione dei primi 3 libri delle Epistulae ex Ponto risale al 12 (il IV libro, più lungo, fu pubblicato postumo).
Le due raccolte differiscono nel fatto che nelle Epistulae O. nomina espressamente i destinatari delle 'lettere', che invece son quasi sempre taciuti nei Tristia. Per il resto, i contenuti sono in sostanza identici: la solitudine e i lamenti dell'esule, la desolazione che lo circonda, il rimpianto di Roma e della vita mondana, rimpianto che, rinnovato, non fa che acuire lo strazio, l'adulazione, spesso insistente, nei confronti del principe nella speranza, inutile, che possa finalmente richiamarlo da una terra lontana quanto barbara, ove la vita è sempre ugualmente grigia e le giornate interminabili. Il poeta canta e ripete le stesse cose, con una monotonia che traduce il devastante disagio di un gran signore trapiantato d'un tratto in un ambiente di bruti.
Certo, sono elegie, queste dell'esilio, disuguali, che troppo spesso ripiegano su stanchi luoghi comuni. Eppure, lo stesso O. era conscio dei difetti di questi suoi componimenti. In un passo toccante (trist. 4, 1, 1-18) invita il lettore a volerli comprendere e giustificare, considerando le circostanze che ne avevano accompagnato la composizione: solo per un conforto egli si dedica alla poesia, e non per trarne gloria (è cosi che O. sottolinea il potere consolatorio che ha per lui il canto poetico). Nella lontananza da Roma, separato ormai da quella società e da quel pubblico che gli avevano col loro plauso riempito la vita, O. scopre l'essenzialità del dolore, mentre la sua stessa esperienza umana e poetica si scarnifica. E’ un O. rimasto solo con se stesso, che piange e ricorda un passato di spensierate eleganze e di sorrisi di donna che mai più gli avrebbero trasmesso il brivido di sentirsi vivo.
L'espressione poetica accompagna questo processo di scavo interiore che, col tempo, si fa sempre più asciutto, sconsolato, sino alla gelida disperazione dell'epistola a Flacco (Pont. 1, 10), tristissimo punto d'arrivo di colui che, una volta, era stato il celebre cantore di teneri amori (tenerorum lusor amorum: tris. 4, 10, 1), ridotto ora a rodersi il cuore in un affanno che mai l'abbandona. Alla desolazione interiore s'affianca quella del paesaggio, immerso in uno strano torpore, che la lontananza da Roma rende ancora più intollerabile.
Nella fantasia di O. resta Roma, splendida, ricordo monumentale e carissimo, quale la vide nella notte del distacco, quando, addolorato e stupito, fu strappato a quel mondo che era suo, ai suoi affetti. L'elegia III del I libro dei Tristia, rievoca quegli ultimi, fatali momenti: lo smarrimento del poeta, le lacrime della moglie, gli amici, pochissimi, che gli restano vicini, il saluto all'Urbe immersa nel silenzio notturno, illuminata dal chiarore lunare. Confinato ormai in un paese ove anche la primavera è triste (trist. 3, 12), non gli resta che chiedere notizie della moglie lontana alle stelle dell'Orsa, unico punto di collegamento con un mondo per lui irrimediabilmente perduto (trist. 4, 3).
Ridotto ormai, poeta che aveva scandagliato in ogni senso l'intimo delle sue eroine, a scavare entro se stesso, O. ci ha lasciato, con la X elegia del IV libro dei Tristia, prima di morire, una confessione che è anche bilancio di tutta una vita e di una esperienza artistica. Torna al sommario
*Altre opere di O.. Al periodo dell'esilio risale pure il poemetto Ibis, in distici elegiaci, rivolto contro un ignoto avversario del poeta, che a lui augura ogni male, attingendo da esempi tratti dal mito e dalla storia. Il titolo, che allude a un uccello egiziano cui gli antichi attribuivano immondi costumi, riprende quello, identico, di un poemetto da Callimaco diretto contro Apollonio Rodio.
Possediamo un lungo frammento di 134 esametri di un poemetto sulla pesca e sui vari tipi di pesci, ricordato da Plinio il Vecchio col titolo di Halieutica (cioè Piscatoria). Sopra tutto per motivi metrici si dubita possa essere autentico.
Di O. a noi restano 5 esametri di un poema astronomico (Phaenomena) e 2 versi di una tragedia, Medea, che ebbe enorme fortuna nel I sec. d.C.
Niente ci rimane di altre opere, come il poema epico Gigantomachia, composto in gioventù, un epitalamio per le nozze di Paolo Fabio Massimo, un carme in onore di Augusto scritto in lingua getica.
Non possono essere attribuiti a O. nè il poemetto Nux (un albero di noce si lamenta delle sassate che riceve) nè la Consolatio ad Liviam, composta in occasione della morte di Druso (9 a.C.).


Tito Livio
(Padova, 59 a. C. - 17 d. C)

VITA.
Proveniva da nobile famiglia, ma non partecipò alla vita pubblica: tuttavia, venuto a Roma, si guadagnò notevole prestigio fu amico di Augusto e poi precettore di Claudio, di cui intese gli interessi storiografici. I suoi interessi si rivolsero dapprima alla filosofia, ma ben presto (27-25 a.C.) si concentrarono interamente sulla sua opera storica.

OPERA E CONSIDERAZIONI.
*L. compose qualche dialogo filosofico e una monumentale opera storica in 142 libri: "Ab Urbe condita libri" ("Libri dalla fondazione di Roma", dallo stesso autore chiamati "annales" o semplicemente "libri"), che prendeva appunto le mosse dalla fondazione di Roma fino al 9 a. C. o, forse, al 9 d. C.
*Il lavoro venne successivamente diviso per decadi (tale scansione forse rispettava le fasi di pubblicazione), delle quali sono a noi pervenute:
la I (dalla venuta di Enea alla III guerra sannitica, 293 a.C.);
la III (sulla II guerra punica, 218-200 a.C.);
la IV (fino alla morte di Filippo il Macedone, 179 a.C.);
la prima metà della V (fino al trionfo di Paolo Emilio sulla Macedonia, 167 a.C.).
Ossia in tutto 35 libri. Il contenuto della parte perduta è noto attraverso brevi estratti e riassunti (le "Perìochae") e commenti (fra cui quello di Floro).
*La narrazione di L., non priva di difetti dal punto di vista storiografico, si raccomanda per il vivo senso drammatico e per il colorito poetico: egli, in effetti, sembra realizzare in sé, abbastanza esattamente, quell'equilibrio fra scienza e retorica che costituisce il vero ideale dell'epoca augustea: preoccupazione, persino passione della verità, ma anche desiderio di comporre opere in grado di competere, in quanto a bellezza, con i prodotti della poesia e dell'arte.
*L’opera, tesa a glorificare la "virtus" romana e l’ideale della "pax augusta", attraverso il punto di vista di un nostalgico degl’ideali repubblicani (solo il grande passato di Roma indica per lui la via a chi intendesse rinnovare i fasti dell’Urbe), si presenta invero, più che come un’opera storica in senso stretto, piuttosto come un grande poema epico in prosa, in quanto concede largo spazio agli elementi epici, come l’eroismo, la volontà degli dei, la missione di Roma, a scapito dell’esame puntuale dei fatti.
Ciò non vuol dire che L. non fosse uno storico fondamentalmente "onesto", e tanto meno – almeno per quanto già detto – che svolgesse una propaganda di sostegno acritico al regime augusteo: anzi, se con esso vi erano punti di contatto (ad es., nel culto della "res publica"), L. se ne allontanava decisamente rispetto all’ideologia "carismatica" e assolutistica (lo stesso Augusto gli rimproverava, amichevolmente, di essere rimasto, in fondo al cuore, un "partigiano di Pompeo"). Ciò nonostante, l’impero è storicamente "giustificato", come frutto della cooperazione tra la "fortuna" provvidenziale e la "virus" del popolo romano, e la stessa crisi attuale – pur riconosciuta come "epocale" e non episodica – non viene astratta dal quadro generale della storia di Roma.
Insomma, ciò che dà vita all’opera di L. è, più che una fede politica, un patriottismo profondo, un amore dappertutto sensibile per Roma. Sotto questo riguardo, egli è uno degli scrittori che più efficacemente hanno contribuito a diffondere e a far accettare, nelle province di lingua latina, un'immagine "romana" di Roma, esaltante e, per ciò stesso, unificante.
*Inoltre, appare quantomeno superfluo attardarsi a sottolinearne i difetti metodologici e scientifici dell’opera: innanzitutto, l’acriticità nell’uso delle fonti (ci si è dilettati, in altri tempi, a cercare quale fosse la fonte di questo o quel libro, che si presumeva unica), dagli annalisti romani a Polibio (come lui, il nostro è, si potrebbe dire, un "filosofo della storia"). Ma L. non è, fondamentalmente, un erudito, ed impiega fonti già letterarie, e non "documenti grezzi".
Egli, in effetti, riprende la struttura annalistica, e tratta ogni anno in maniera sinottica, dilatando l’ampiezza della narrazione man mano che si avvicinava all’epoca contemporanea, secondo le aspettative dei lettori.
Il piano della sua narrazione è sì impostato sull'ordine cronologico, ma egli seppe introdurre, in quello che poteva risultare un andamento monotono, varie parentesi drammatiche, episodi che formano quadri naturali.
Il filo narrativo è spesso interrotto da discorsi, ed è difficile dire se sono un prodotto di pura fantasia o se trovano sostegno in qualche fonte documentaria più o meno fedele. Si può ipotizzare che la proporzione fra verità e invenzione varia secondo le date dei discorsi. Le opere più antiche, probabilmente, non si fondano su documenti davvero autentici, mentre è probabile che le orazioni più recenti, pronunciate da questo o quell'illustre personaggio del II o anche del III secolo a.C., fossero conservate più fedelmente. Lo stesso vale per gli avvenimenti. Il quadro dei primi secoli di Roma è più "restaurato", ma è anche più semplice e, in una certa misura, più direttamente epico di quello riguardante la storia più vicina.
*Infine, nella scrittura, L. si contrappone alla tendenza di Sallustio, avvicinandosi piuttosto allo stile vagheggiato da Cicerone per la storiografia: la "lactea ubertas" – come la definì Quintiliano – consisteva così in una prosa ampia, fluida e luminosa, senza artifici e restrizioni, di limpida chiarezza ("candor"). Un periodare, insomma, destinato alla lettura.
Ma L. sa conferire al proprio stile anche un’ammirevole duttilità e varietà: dal gusto arcaicizzante della I decade (dettato dalla vetustà degli eventi) ad una sempre maggiore coloritura poetica e drammatica del racconto, se non addirittura "tragica", soprattutto nella descrizione dei personaggi (Lucrezia, Virginia, Sofonisba, Coriolano, Camillo, Fabio Massimo, Scipione…) e "impressionistica" nella presentazione degli avvenimenti, verso cui spesso L. tradisce sentimentale partecipazione.



STORICI MINORI DOPO LIVIO 

 
Gaio Asinio Pollione
(Teate, 76 a.C. – Roma? 4 d.C.)

Console nel 40 a.C., homo novus nato da ricca famiglia, fu un convinto sostenitore di Cesare; dopo la morte del dittatore appoggiò tiepidamente Antonio, trattò per lui la pace di Brindisi ma non lo segui nello scontro finale con Ottaviano. Durante il regime augusteo si ritirò a vita privata, in posizione di larvato dissenso.
Intellettuale di notevole spessore, fu legato in gioventù ai neòteroi (Elvio Cinna gli dedicò un Propempticon Pofilonis) e compose opere poetiche; fu oratore di stile attivista (un atticismo quasi esasperato: uno stile "secco" fino a rasentare l’oscurità) e storico di indirizzo tucidideo: scrisse un'apprezzata storia ("Historiae", 35 a.C. in poi) delle guerre civili dal I triumvirato alla battaglia di Filippi, in 17 libri (terreno dunque scottante, scandagliato con una certa indifferenza, che però – probabilmente – non prendeva forma di aperta opposizione).
Per primo istituì una biblioteca pubblica (39 a.C.); animò un "circolo" di letterati e introdusse l'uso delle recitationes (letture davanti a un pubblico di invitati).
Fu amico di Virgilio e di Cornelio Gallo e corrispondente di Cicerone, nel cui epistolario sono comprese alcune sue lettere (unici testi pervenutici con pochi frammenti delle opere).

Pompeo Trogo
(sec. I a. C.)

Originario della Gallia Narbonense, scrisse in età augustea alcuni trattati scientifici, zoologici e botanici, e una storia universale in 44 libri, intitolata "Historiae Philippicae".
Con uno stile elaborato e con tendenze moraleggianti, T. andava dalle antichissime vicende di Babilonia fino ai tempi a lui contemporanei, con una maggiore attenzione alla storia della Macedonia (libri 7-40), mentre solo i 2 ultimi libri si occupavano della storia di Roma e delle regioni occidentali.
Rispetto a Livio, è cambiata la prospettiva: Roma non è più il punto di vista privilegiato e l’attore principale della storia: la sua, per T., è solo una delle numerose egemonie succedutesi nei secoli (non a caso, l’autore come fonte si avvaleva largamente di Timagene, storico contemporaneo notevolmente ostile a Roma e al principato).
Insomma, per T. solo la "fortuna" ha permesso a Roma di sopraffare l’ "aretè" greca.

Caio Velleio Patercolo
(19 ca a.C. – dopo 30 d.C.)

Di famiglia campana, fece una discreta carriera pubblica: questore nel 7 e pretore nel 14 d.C., non raggiunse il consolato forse perché coinvolto nella caduta di Seiano (31 d.C.).
Di lui ci è giunto un compendio di "Storia romana", in 2 libri, con qualche lacuna nel I libro: l’opera inizia con un breve sommario della storia orientale e greca e si fa poi più ricca per le vicende recenti.
E’ un testo che ben rappresenta quel tipo di storiografia filo-imperiale (nella fattispecie, sotto Tiberio) condannato da Tacito. Interessanti, comunque, alcune caratterizzazioni di personaggi (talora "paradossali"), anche minori, e gli excursus sulla colonizzazione romana, sulle province, sull’antica letteratura latina, su quella del periodo ciceroniano e su quella augustea. L’artificiosità retorica ne caratterizza, infine, lo stile.

Valerio Massimo
(sec. I d.C.)

Dopo aver accompagnato nel proconsolato in Asia il suo protettore Sesto Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali, "Factotum et dictorum memorabilium libri IX", dedicato all’imperatore Tiberio (le aspre critiche a Seiano contenute nell’opera fanno pensare ad una pubblicazione subito dopo la sua caduta).
Il materiale, tratto da storici latini e greci (Livio, Trogo, Varrone…) è ordinato secondo criteri filosofico-morali (in primo luogo, l’esaltazione dei valori tradizionali), ma con un piano non ben definito: un prontuario di modelli di vizi e di virtù dove si susseguono "exempla" romani e stranieri (soprattutto greci) di moderazione, gratitudine, castità, crudeltà, ecc…
Dal punto di vista stilistico, sono da rilevare la ricchezza degli artifici retorici (tipici dell’età argentea) e il tono sentenzioso.

Curzio Rufo
(sec. I d.C.)

Compose delle "Historiae Alexandri Magni" (di tormentata datazione) in 10 libri, di cui sono perduti i primi 2 e parti del V, del VI, del X.
Sensibile al clima letterario ellenistico, R. vi rievoca – con ingenua e fantastica ammirazione – le imprese del macedone, ponendone in evidenza più l’aspetto esotico che l’importanza politico-sociale: facendone, quindi, un vero e proprio eroe da romanzo.
L’autore, che ha come modello di stile Livio e che trae spunto da fonti greche (Clitarco, Timagene, Aristobulo…), ha quindi certamente inteso far opera di narratore – con l’occhio attento al lettore – più che di vero storico.


AUTORI DI OPERE SCIENTIFICHE.


Marco Manilio
(sec. I a.C – I d.C.)

Scrisse, sotto Augusto e Tiberio, un poema didascalico in esametri, "Astronomica" (interrotto al V libro), in cui espone le vicende delle costellazioni e l’influsso degli astri sul destino degli uomini.
Di orientamento stoico, è ovviamente in polemica con Lucrezio – che tuttavia rimane il suo modello letterario – credendo, di contro, che l’universo sia retto e governato dalla divina ragione.
L’opera rivela abilità tecnica e talento letterario.

Verrio Flacco
(sec. I d.C.)

Originario di Preneste, liberto e precettore dei nipoti di Augusto, scrisse varie opere filologiche, tutte perdute.
Deve la sua fama a un vastissimo lavoro lessicale "De verborum significatu", ricca miniera di notizie relative alla lingua (ma dove l’interesse grammaticale era strettamente connesso con la ricerca antiquaria), di cui rimane – mutilo – un successivo compendio in 20 libri di Pompeo Festo (fine sec. II d.C.).

Vitruvio Pollione
(sec. I a.C.)

Identificato con l’ufficiale cesariano Mamurra, architetto, scrisse il "De architectura" (25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato ad Augusto e riconducibile alla sua politica d’abbellimento architettonico di Roma.
L’opera, in parte compilatoria e in parte originale (7 libri di architettura, 1 di idraulica e 2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo e per il suo contenuto (ricco di elementi di varia natura, tratti da discipline disparate: aritmetica, geometria, disegno, musica, prosodia, astronomia, ottica, medicina, giurisprudenza, storia, filosofia), è un unicum nel suo genere.
L’architettura è vista, in senso aristotelico, come "mimesis" dell’ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede all’architetto una cultura ricca e varia (quasi quella dell’oratore ciceroniano), che faccia perno sulla filosofia.

Cornelio Celso
(età tiberiana)

Fu autore di una vasta enciclopedia – "Artes" o "Cesti" – che trattava di filosofia, diritto, agricoltura, medicina, retorica e arte militare. Ci restano, integralmente, gli 8 libri del "De medicina" (in cui si cerca di mantenere una posizione equidistante fra l’ "indirizzo empirico" e quello "razionalistico") e frammenti delle altre sezioni.
Riguardo il suo stile, si pensi solo che C. fu detto "Cicero medicorum".

L. Giunio Moderato Columella
(sec I d.C.)

Nato a Cadice, fu tribuno militare in Siria e poi visse in Italia, dove possedeva alcune terre.
Di lui ci è giunto il più completo trattato di agricoltura nell’antichità, il "De rustica", in 12 libri, che descrive il lavoro agricolo e l’allevamento, e affronta il problema della decadenza dell’agricoltura in Italia (dovuta, secondo C., al disinteresse dei proprietari, all’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, alla mancanza di una seria preparazione scientifica in materia; a soluzione del problema, C. sembra affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica, che faccia perno sulla filosofia).
Il X libro (l’unico in versi), sul giardinaggio, raccoglie un invito a trattarne, contenuto nelle "Georgiche". Resta anche un libro sulle piante, "De arboribus", parte di un’opera più vasta.
C. scrive in una prosa limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono discreti; le fonti sono quelle consuete del genere, ma predominante è l’esperienza personale dell’autore.

Maro Vipsanio Agrippa

Autore di una carta geografica con relativi commentari.


Pomponio Mela
(Tingetela, Gibilterra, sec. I)

Fu il primo geografo "puro", con la sua "De chorographia", in 3 libri, che con stile "sallustiano" ed attingendo a varie fonti, descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo; e l’opera, benché sia poco più che un repertorio di nomi, è ricca di interessanti notizie etnografiche e geoclimatiche.

Marco Gavio Apicio
(sec. I d.C.)

Autore di un "De re coquinaria", in cui, più che allo stile (pedestre), l’attenzione è rivolta alla creatività e alla elaborazione scenografica dei piatti.


LA LETTERATURA DELLA I ETA’ IMPERIALE.


In questo periodo si assiste alla crisi, in seguito alla morte di Mecenate, del mecenatismo. Durante il principato di Tiberio non ci si pone il problema di organizzare un programma di egemonia culturale e si sviluppa in questo modo una storiografia contraria al principato.
La situazione non migliora con Claudio, che pure aveva una fama di uomo dotto, e che sappiamo avere scritte molte opere. Solo Nerone, negli anni iniziali del suo principato, ispirati dalla guida di Seneca, tenta un recupero del consenso del senato e una ripresa del mecenatismo. Nerone stesso fu un poeta e promosse in vario modo le attività artistiche, nel 60 istituì una gara quinquennale di canto, musica, poesia e oratoria.
La moda dei pubblici agoni, in occasione di certe feste, si diffonde più ampiamente sotto il principato dei Flavi, ma l'avvento della nuova dinastia imperiale segna una netta inversione di rotta rispetto agli indirizzi culturali di Nerone. Sul piano letterario spiccano principalmente due fenomeni: la ripresa della poesia epica, nel segno del primato di Virgilio, e, in prosa, l'assurgere di Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche di una educazione fondata sulla retorica.
Sappiamo inoltre che un altro poeta epico, Lucano, si dedicò all'attività di librettista. In questi anni il teatro torna a godere di un'immensa fortuna. La pantomima, il genere di spettacolo favorito, era una rappresentazione in cui un attore cantava il testo del libretto, mentre un secondo attore, col volto mascherato, mimava la vicenda. Particolare era il realismo nella descrizione di certi eventi.
Un altro importante fenomeno di questo periodo è lo sviluppo delle declamazioni. La declamatio era un tipo di esercizio in uso nelle scuole di retorica. Possediamo in proposito un'opera di Seneca il Vecchio, frutto dei suoi ricordi di scuola.


Seneca il vecchio
(Cordova, 55 ca a.C. – Roma 40 ca d.C.)

VITA.
Di estrazione equestre, discendente di una famiglia di coloni romani stabilitasi in Spagna, S. divise la sua lunga vita tra Roma (frequentandone gli ambienti socialmente più elevati) e la Spagna, probabilmente fino a vedere il regno di Caligola.

OPERA.
La sua opera più importante ("Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores") ci testimonia il mutamento che l'avvento del principato ha prodotto sulla situazione intellettuale a Roma, in particolare sull’attività retorica: viene meno la sua funzione civile e si immiserisce in futili esercitazioni che vertono su temi e argomenti fittizi ("declamationes"), romanzeschi e un po' singolari, che attirano gli studenti delle scuole ma anche il pubblico generico.
S. personalmente non è uno scrittore di "mestiere", ma un "vir bonus" che, durante la sua giovinezza, ha seguito a Roma l'insegnamento delle scuole di retorica e che, in età matura, per istruire i propri figli, mette per iscritto i suoi ricordi. Dotato di una memoria molto precisa, cita non solo i temi sui quali abitualmente si esercitavano i giovani, ma anche ampi frammenti delle loro "composizioni".
S. illustra così i due tipi di esercizi più in voga:
- la "controversia", un dibattito su argomento giudiziario su due posizioni contrapposte (anche sulla base di legislazioni immaginarie): generalmente verteva su fatti immaginari della vita quotidiana ;
- la "suasoria", che consisteva nel tentativo da parte dell'oratore di orientare l'azione di un personaggio famoso (un'esortazione in piena regola) di fronte ad una situazione incerta o difficile: generalmente verteva su temi del mito e della storia (ad esempio, discorso rivolto a Silla nel momento dell'abbandono del potere, o ad Achille che rifiuta di riprendere a combattere nel campo degli achei).
Essendo destinate ad un vasto pubblico, e basandosi su situazioni fittizie, le declamationes miravano a stupire l'uditorio, attraverso impreviste situazioni e ricche figure retoriche, ricreando effetto e uno stile brillante e prezioso.
La loro lettura fa capire, così, con quale spirito esse erano condotte: sviluppare l'immaginazione degli allievi, la loro ingegnosà nello scoprire argomenti imprevisti, il loro virtuosismo nel trattamento dei luoghi comuni. Un allievo di levatura media finiva per acquisire un repertorio di svolgimenti tematici che, assimilati definitivamente, potevano essere riutilizzati nelle più diverse circostanze. In questo modo, non avrebbe mai corso il pericolo di trovarsi sprovvisto di argomenti. Un insegnamento di tal genere presentava, tuttavia, alcuni aspetti negativi: non tanto il carattere artificiale delle situazioni immaginarie e della tematica, così distanti dalla realtà quotidiana, quanto una certa meccanicità dell'eloquenza, la riduzione a principi codificati di ciò che sarebbe dovuto essere manifestazione spontanea di un talento personale.
La situazione ebbe conseguenze che si ripercossero sull'intero sviluppo della letteratura latina: essendo la retorica la base stessa della cultura, essa diffuse un gusto del virtuosismo fine a se stesso, e impose a tutti i generi, tanto poetici che in prosa, uno stile tutto particolare. Nessuno scrittore vi sfugge. Tutti, più o meno coscientemente, applicano le ricette dell'"arte di persuadere". Ciò che in realtà hanno da dire comincia solo al di là di questa barriera.


Fedro
(Tracia o Macedonia, 15 ca a.C. – 50 ca d.C.)


VITA.
F. nacque durante il principato di Augusto, fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio. E' uno dei pochissimi autori di nascita non libera nella letteratura della I età imperiale: egli era infatti uno schiavo di origine tracia, e nei manoscritti delle sue opere è citato come liberto di Augusto (sembra quindi che fosse stato liberato dall'imperatore). Da accenni nella sua stessa opera, si ricava che il poeta sarebbe stato perseguitato da Seiano, il braccio destro di Tiberio, rimasto offeso da allusioni colte in alcuni scritti. Dopo la condanna, F. soffrì umiliazioni e, probabilmente, la povertà.

OPERA.
Ci sono tramandate poco più di 90 "Favole", divise in 5 libri, e tutte in senari giambici. Sono sicuramente di F. anche le circa 30 favole raccolte nella cosiddetta "Appendix Perottina", che prende nome dall'umanista Niccolò Perotti, curatore della raccolta. Di altre ci resta la parafrasi in prosa.
F. ha una posizione sociale modesta e come poeta non si può definire un virtuoso: pratica un genere letterario minore, anch'esso marginale rispetto alle grandi corrente dell'età imperiale. Tuttavia, a questo umile artigiano tocca una priorità storica importante: è il primo autore che ci presenta una raccolta di temi favolistici, concepiti come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Come narratore, egli inventa ben poco: prese una per una, le sue favole sono poco originali, indebitate con la tradizione esotica e con una raccolta di favole di età ellenistica (soprattutto nel I libro, mentre nei seguenti l’arricchisce con altre di altra provenienza); quanto alla rielaborazione letteraria nessuna delle favole di F. può superare le opere dei grandi poeti. Il merito di F. sta invece nell'impegno costante e metodico per dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile.
La tradizione esopica di storielle che presentavano spunti umoristici e pillole di saggezza si era fissata in Grecia intorno al IV sec. a. C. in raccolte letterarie composte in prosa. Si era intanto affermato una premessa o una postilla in cui veniva spiegato il tema della favola o la morale che si poteva trarre da essa. Lavorando su queste raccolte F. creò una regolare forma poetica per la favola includente premessa o postilla. Tipico del genere è l'uso di animali come maschere, personaggi umanizzati dotati di una psicologia fissa. Inoltre è sempre presente la morale che F. vuole estrarre a tutti i costi da ciascuna fiaba.
Tuttavia le morali di F. esprimono una mentalità sociale, ossia il punto di vista delle classi subalterne della società romana. Egli è l'unico a dare voce al mondo degli emarginati: in questo la sua opera contiene un'istanza realistica. Al contrario, è quasi del tutto assente un realismo descrittivo e linguistico, anzi il mondo delle favole è piuttosto generico, il linguaggio asciutto e poco caratterizzato. Non mancano spunti di adesione alla realtà contemporanea: F., infatti, non si limita sempre alla tradizione della fiaba d'animali, e talora sembra inventare di suo, come nel racconto che ha per protagonista Tiberio; altrove ricava aneddoti dalla storia.
Nei prologhi dei singoli libri il poeta manifesta notevole consapevolezza letteraria; difende il suo tipo di poesia e ne esalta i pregi, sottolineando la sua indipendenza dal modello esopico.
F. non manca di accenni polemici verso la società, e nel suo stile quasi satirico colpisce tipi di uomini e regole del vivere. Le sue favole vogliono essere divertenti ed insieme istruttive (una sorta, dunque, di "realismo comico"). Comunque, non ebbe molta fortuna nei suoi tempi.


Lucio Annèo Seneca
(Cordova, Spagna 4 ca a.C – Roma 65 d.C.)

VITA.
S. nacque a Cordova (nella Spagna Betica) da una famiglia del rango equestre che aveva per costume l'attività dell'intelletto (figlio di S. il Vecchio). Venne presto a Roma dove si dedicò agli studi filosofici (suoi maestri lo stoico Attalo e P. Fabiano). Nella carriera forense rivelò straordinarie qualità oratorie e, ottenuta la questura, entrò nel senato dove la sua eloquenza durante il regno di Caligola gli valse il senato e gli accrebbe onori, reputazioni e pericoli.
Tuttavia, nel 41 la principessa Giulia Livilla, sorella di Caligola, venne accusata dalla gelosa Messalina, e la rovina della principessa travolse anche S. (non si sa per quali pretesti di complicità): fu relegato nella solitudine aspra della Corsica e soltanto nel 49, dopo 8 anni di esilio, per intercessione di Agrippina, nuova imperatrice, poteva tornare a Roma come maestro del giovane Nerone, divenuto, per l'adozione di Claudio, il designato successore dell'impero.
Nell’ott. 54, Claudio (zio di Caligola, principato dal 41 al 54) muore avvelenato (pare da Agrippina) e Nerone sale al trono. Dunque morto Claudio, S. restò il più autorevole e ascoltato consigliere del principe, e pur senza assumere cariche pubbliche, fu in realtà il vero regolatore della politica imperiale (molti atti del principato neroniano per circa 7 anni fanno sentire il nobile e benefico influsso di S.: è il cosiddetto periodo del "buon governo").
Ma Nerone volle forzare ben presto le tappe verso un governo autocratico: ne pagarono le conseguenze Britannico, la stessa Agrippina e S. appunto, il quale – dopo la morte del prefetto del pretorio Afranio Burro (62) – pensò bene di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi completamente alla meditazione.
Ma il destino era segnato: nel 65 fu scoperta la congiura contro Nerone che aveva a capo un grande signore romano, Calpurnio Pisone. La congiura comprendeva personaggi civili e militari e ufficiali delle milizie pretoriane. Non si sa quanto sia stata fondata l'accusa di complicità nei riguardi di S., ma Nerone colse con gioia l'occasione di sbarazzarsi del suo vecchio e odioso consigliere. S., ricevuto l'ordine di morire, dimostrò effettivamente nel suo ultimo giorno di saper sfidare quella morte che egli aveva dichiarato di attendere con serenità in tutti i giorni della sua vita.

OPERE: TEMI E CONSIDERAZIONI.

Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell'uomo.
Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di "Dialogi" su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch’è quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo"):
"De providentia" (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico, accettandolo serenamente.
"De brevitate vitae": vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.
"De ira libri III" (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle.
"De consolatione" (posteriore al 37 d.C.).
"De vita beata" (58 d.C.?): esamina il problema della ricchezza e dei piaceri (nei quali non si trova l'essenza della felicità), ma se è vero che il saggio sa vivere secondo natura, saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche ("nessuno ha condannato la saggezza alla povertà"): l'importante non è non possedere ricchezze, ma non farsi possedere da esse. Così, S. legittima l'uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù.
"De costantia sapientis",
"De otio  (62 d.C. ?),
"De tranquillitate animi" (62 d.C.?): in questa trilogia, dedicata all'amico Sereno, S. cerca una mediazione tra l'otium contemplativo e l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell'intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa.
In effetti, più specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l'imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l'obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità d'animo capace di giovare agli altri, se non con l'impegno pubblico, almeno con l'esempio e con la parola.
Sempre di filosofia trattano:
"De beneficiis" (7 libri): si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest’opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata.
"De clementia", 3 libri dedicati a Nerone: riguarda l'amministrazione della giustizia e il governo dello stato; è, cioè, un'indicazione al giovane imperatore per un programma politico di equità e moderazione (S. non mette, però, in discussione le forme apertamente monarchiche del governo). Il problema è in sostanza quello di avere un buon sovrano, che in un regime di potere assoluto potrà far leva soltanto sulla sua stessa coscienza per non far sfociare nella tirannide il proprio governo. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi, solo con essa sarà in grado di ottenere la loro benevolenza e il loro appoggio. E' evidente in una concezione di principato illuminato l'importanza che acquista l'educazione del principe, e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. Alla filosofia spetta dunque il ruolo di promuovere la formazione morale del sovrano e dell'élite politica.
Tra i dialogi abbiamo due lettere (ad Helviam matrem e ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l'imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.
Quindi abbiamo:
124 "Epistulae morales ad Lucilium" (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L'opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicureo: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale.
Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquim, S. propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene.
La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico.
Di carattere scientifico sono
i 7 libri delle "Naturales quaestiones", dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali S. analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante della filosofia – non è "gratuito", ma è legato ad una profonda istanza morale: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori.
Ci sono poi:
9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetus.
Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l'ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l’azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico.
Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell'autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae, che narra del tragico destino di Èdipo e dell'odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Èdipo è presente anche nell'Oedipus: causa inconsapevole dell'uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.
Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe disgressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica.
Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all'interno dell'animo, nell'opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com'è dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno problema del potere.
A parte va considerata l'Octavia, una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e l’unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con le precedenti tragedie.
l' "Apokolokýntosis" o "Ludus de morte Claudii", una satira menippea sull'apoteosi dell'imperatore: Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco dell'opera e significherebbe "deificazione di una zucca", con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un'opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell'imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità.
Si attribuisce infine a S. una raccolta di ca 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.

CONSIDERAZIONI SULLO STILE.
Se il fine della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare all'utilità delle parole, e non alla loro elaboratezza. S. rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che nella sua disposizione organizzava anche la gerarchia interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla ripetizione: continua è la ricerca dell’effetto, dell’espressione appunto epigrammatica, quasi a voler riprodurre il "sermo familiaris", e il tono oscilla ben volentieri tra quello di una rigorosa analisi interiore e quello di una sapiente predica ad intelligenti ascoltatori. S., insomma, fa uso di questo stile (che affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione cinica) come di una sonda per esplorare i segreti dell'animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene.


Marco Anneo Lucano
(Cordova 39 – Roma 65 d.C.)

VITA.
Figlio di Anneo Mela fratello di Seneca, è dunque nipote del grande filosofo. Nel 40 si trasferisce con la famiglia a Roma dove compie i suoi primi studi, sotto la guida di ottimi maestri e del filosofo stoico Cornuto. Entra ben presto nella corte di Nerone, anzi fra i suoi intimi, e proprio per volontà di quest'ultimo diviene questore prima dell'età minima prevista, entrando poi a far parte del collegio degli àuguri. Nel 60 L. recita le Laudes del principe, in occasione delle sue feste (e ciò gli valse l’incoronazione di poeta), e pubblica i primi 3 libri della "Pharsalia", con un’enfatica dedica a Nerone.
Subentra però una brusca rottura con l’imperatore, causata – secondo la tradizione - dalla gelosia letteraria che questi provava nei suoi confronti o, più probabilmente, dal fatto che L. s’andasse accostando sempre più alle posizioni della propaganda stoica anticesariana, e quindi avesse idee troppo marcatamente improntate a un nostalgico repubblicanesimo, come appare evidente dal tono dei successivi libri del suo capolavoro, cui fra l’altro sostituì la dedica.
In seguito, L. aderì alla congiura di Pisone e, una volta scoperto il complotto, ricevette l'ordine di darsi la morte. Si tolse la vita nel 65, a meno di 26 anni, non senza aver cercato di salvarsi con delazioni.

OPERE.
*Tra le opere perdute ricordiamo, invece, un "Iliacon" (componimento in versi sulla guerra di Troia); un "Catachtonion" (carme sulla discesa negli inferi); i 10 libri di "Silvae", raccolta di poesie di vario genere; la tragedia incompleta "Medea"; epigrammi e 14 "fabulae salticae" (libretti per pantomime).
Il numero e la varietà delle composizioni di cui si ha notizia indicano un eccezionale precocità artistica, unità ad una notevole versatilità. Dalle opere perdute sembra di poter cogliere una totale adesione ai gusti neroniani: nell'Iliacon veniva incontro alla passione del principe per le antichità troiane; Silvae e libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro generale della poesia di intrattenimento.
*Ma il suo capolavoro, e tra l’altro l’unica sua opera pervenutaci, è il poema epico "Bellum civile" o "Pharsalia", in 10 libri e ancora incompiuto (il libro X infatti viene interrotto bruscamente per la morte dell’autore).
Quest’opera risulta essere di tutt'altro genere rispetto le sue precedenti: il modo in cui L. ha scelto di trattare l'argomento della guerra civile tra Cesare e Pompeo si risolve in un'esaltazione dell'antica libertà repubblicana e in una condanna del regime imperiale.
Dopo l'esposizione dell'argomento del poema e un lungo elogio di Nerone, L. espone le cause della guerra e il passaggio del Rubicone da parte di Cesare.
Lamenti dei romani che ricordano il precedente conflitto civile tra Mario e Silla. Dibattito notturno tra Bruto e Catone sulla guerra imminente. Appare in sogno a Pompeo la figura di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie, per minacciargli terribili sciagure. Cesare entra in Roma, poco dopo la guerra si sposta a Marsiglia. Azioni di Cesare in Spagna e grande eroismo di un pompeiano. Il Senato, esule da Roma, si riunisce in Epiro. Il pompeiano Appio si reca a consultare l'oracolo di Delfi ma il responso resta dubbio. Cesare entra in Epiro e sconfigge l'esercito di Pompeo che è costretto a lasciare Cornelia nell'Isola di Lesbo: dolore dei due sposi per la separazione. Pompeo viene assediato a Durazzo con il suo esercito. I due eserciti arrivano in Tessaglia, che sarà luogo dello scontro decisivo. Uno dei figli di Pompeo, Sesto, si reca a consultare la maga Erittone. Sesto riesce a richiamare in vita un soldato caduto in battaglia, il quale rivela a Sesto la rovina che incombe su di lui, sulla sua famiglia e sull'intero ordinamento politico di Roma. Si tiene il consiglio di guerra e Pompeo sconsiglia l'attacco, la volontà dei partigiani è, tuttavia, più forte della sua e così sii iniziano i preparativi per la battaglia. Scontro finale dei due nemici e vittoria definitiva di Cesare. Pompeo fugge e Cesare rifiuta gli onori funebri ai caduti. Ripresa con sé Cornelia Pompeo si rifugia in Egitto, dove spera di trovare rifugio. Ma il re Tolomeo, dietro consiglio dei suoi cortigiani, lo fa uccidere al suo arrivo. Il corpo decapitato di Pompeo viene lasciato sul litorale, gli dà degna sepoltura un certo Cordo. Dopo la morte dei Pompeo, Catone assume il comando dell'esercito dei repubblicani, e attraversa il deserto libico affrontando pericoli di ogni sorta. Rifiuta di consultare l'oracolo di Ammone: la conoscenza del futuro non può modificare le decisioni del saggio. Ad Alessandria Cesare visita la tomba di Alessandro Magno, quasi suo maestro di Tirannide. Gli alessandrini tentano una sollevazione contro Cesare e a questo punto si interrompe il poema.

CONSIDERAZIONI SULLA FARSAGLIA.
La critica antica dei grammatici e dei retori ha mosso al poema di Lucano una serie di censure: l'uso e l'abuso delle sententiae concettistiche, che avvicinerebbero lo stile della Pharsalia a quello oratorio, la rinuncia agli interventi divini, un ordine della narrazione quasi annalistico, tipico più delle opere storiche (e si ricordino Nevio ed Ennio) che di quelle poetiche. In alcune parti del poema, la fedeltà scrupolosa alla fonte storica viene sacrificata alle deformazioni della verità a fini ideologici, soprattutto per quel che riguarda Cesare, Pompeo e i rispettivi sostenitori.
A ragione si è potuto parlare della Pharsalia come di una sorta di anti-Eneide, e del suo autore come di un anti Virgilio. Il poema epico era stato celebrazione solenne delle glorie dello stato e dei suoi eserciti; nelle mani di L. il poema epico diventa invece la denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento di un'era di ingiustizia. Appunto Virgilio diventa per L. il modello da rovesciare e da confutare: per lui, il mantovano ha coperto con un velo di mistificazioni la trasformazione dell'antica repubblica in tirannide. La via che l’autore sceglie per sconfessare Virgilio è prima di tutto il mutamento dell'oggetto: non si tratta di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà, una storia recente e ben documentata, soprattutto universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà al vero spiega anche la rinuncia agli interventi divini che tanto faceva scandalizzare la critica antica.
Come detto, è abbastanza probabile che il pessimismo di L. sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema. La polemica antivirgiliana comincia a delinearsi fino dai versi successivi al proemio, mentre nell'epos di Virgilio il tema storico delle guerre civili si affacciava qua e là nel testo, L. vuole invece riprodurlo in tutta la sua ineludibile realtà storica, presentandone le nefaste conseguenze sulla storia successiva.
L'elogio a Nerone riprende da Virgilio alcuni motivi rivolti alla glorificazione del principe (d'altro canto, l'attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del tempo):tuttavia, agli occhi di L. il mito del nuovo Augusto è molto migliore del primo, e tesserne l'elogio significa entrare in velata polemica con Virgilio: Nerone, e non Augusto, è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano (Giove aveva profetizzato a venere l'avvento di una nuova età dell'oro).
Resta il fatto che, all'interno della Pharsalia, l'elogio di Nerone suona come una nota stridente: nello stesso progetto del poema era insita la contraddizione fra la visione radicalmente pessimista dell'ultimo secolo di storia romana, che L. era venuto maturando, e le aspettative suscitate dal nuovo principe. Nel seguito del poema, il pessimismo di L. si fa sempre più radicale, e approda a una concezione apparentemente priva di luci: un vero e proprio "anti-mito" di Roma, il mito del suo tracollo, che si contrappone a quello virgiliano dell'ascesa della Città da umilissime origini. Come l'Eneide, anche la Pharsalia si articola attorno a una serie di profezie, che rivelano non le future glorie di Roma, ma la rovina che l'attende. La più importante è costituita soprattutto dalla negromanzia del libro VI. La collocazione dell'episodio in tale libro costituisce un probabile indizio della posizione di centralità che l’autore intendeva accordargli nell'architettura del poema. L. rovescia il modello virgiliano fin nei minimi particolari. Il soldato richiamato in vita dalla maga racconta di aver visto gli inferi in grande agitazione; in lacrime le anime dei grandi eroi di Roma; esultanti gli spiriti degli antichi antenati di Cesare, gli eterni nemici dello stato romano. La scelta di Sesto si spiega col fatto che L. intendeva collegare la stirpe di Pompeo con il mito della rovina di Roma. Per di più Sesto, figlio empio e degenere, rappresenta per molti rispetti un rovesciamento del pio Enea.
La Pharsalia non ha un personaggio principale, ma ruota soprattutto attorno alle personalità di Cesare, Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli assurge a incarnazione del furore che un'entità ostile, la Fortuna, scatena contro l'antica potenza di Roma. In alcuni punti il poeta sembra quasi soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale in fondo rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell'Eneide venivano dominate e sconfitte: il furor, l'ira e l'impazienza. Inoltre, nel suo poema, L. spoglia Cesare del suo attributo principale, la clemenza verso i vinti, a costo di stravolgere la verità storica.
Alla frenetica energia di Cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo, questo tipo di caratterizzazione serve tuttavia a limitare la responsabilità di Pompeo: la forsennata brama di potere di Cesare è la principale causa della catastrofe che porterà Roma al tracollo. L. cerca di fare di Pompeo una sorte di Enea il cui destino si mostra avverso piuttosto che favorevole: in questo senso la figura di Pompeo è l'unica che nello svolgimento del poema subisce una trasformazione psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare di Pompeo dai vertici più alti, mentre la Fortuna gli si rivolge contro con ostile determinazione. Alla fine, abbandonato dalla Fortuna, Pompeo va incontro a una sorta di purificazione: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una giusta causa costituisce l'unica via di riscatto morale.
Questa consapevolezza costituisce per Catone un solido possesso fin dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico del poema è senza dubbio di natura stoica: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale. Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la distruzione di Roma, diviene impossibile per Catone l'adesione volontaria alla volontà del destino. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: esso d'ora in poi risiede unicamente nella coscienza del saggio. Catone si fa pari agli dei (titanismo): non ha più bisogno dei loro consigli per cogliere il discrimine tra il giusto e l'ingiusto.
In una parola, è qui evidente il rifiuto di ogni concezione provvidenzialistica della storia umana, in nome dei principi stoici della virtù e della fortuna.
Ardente e concitato, così viene definito da Quintiliano lo stile di L., riferendosi probabilmente all'incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell'esametro: così l'urgenza dei pensieri si esplicita nel continuo enjambement, e la sintassi delle parole aspira ad uscire dai vincoli dello schema esametrico.
L’opera è l’espressione tipica d’un nuovo gusto anticlassico, sostenuto da una perenne tensione retorica e da un patetismo sincero (non alieno da alcune sostanziali "deformazioni").
L'io del poeta è praticamente onnipresente per giudicare e spesso condannare in tono indignato. E' senza dubbio uno stile che di rado conosce dominio e misura: per questo esso può rapidamente saziare il lettore. Ma la rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile poteva ancora continuare a basarsi su una forma tradizionale quale era quella che il genere epico offriva? La tradizione epica aveva costituito tutto un linguaggio complesso, capace di dare l'attraente forma di narrazione ai grandi modelli culturali cui si ispirava la società romana. L. non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente insufficiente ai suoi bisogni. Più che tentare una rifondazione del linguaggio epico , egli cerca un rimedio di compenso nell'ardore ideologico con cui ne denuncia la crisi. Così la presenza di un'ideologia politico moralista si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce infine a retorica. Ma la retorica che anima questo linguaggio non è vana artificiosità ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità, per essere sicuro di non tradire con le parole il messaggio di un'ideologia disperata.


Gaio Petronio
(? - m. Cuma 66 d.C.)

VITA.
Per molto tempo si è parlato di una questione petroniana, finché è durata l'incertezza sull'epoca, la persona, il nome completo e il titolo dell'opera narrativa di P..
Se l'autore del Satyricon è il personaggio rappresentato da Tacito in Annales 16, T. Petronius Niger. Il P. di Tacito era stato un uomo di potere (console nel 62), ma la qualità che lo rendeva caro a Nerone era la raffinatezza, il gusto estetico ("elegantiae arbiter"). Questo P., spinto al suicidio nel 66 da intrighi di corte, stupì ancora una volta realizzando un suicidio in grande stile. Incidendosi le vene, e poi rallentando il momento della fine, P. passò le ultime ore a banchetto occupandosi di poesia. Ma volle mostrarsi anche serio e responsabile: si occupò dei suoi servi, e scelse di denunciare apertamente i crimini dell'imperatore, distrusse poi il suo anello perché non potesse venire riutilizzato in qualche intrigo. Le qualità che Tacito dà alla figura di P. sono tutte qualità che l'autore del Satyricon deve aver posseduto in modo elevatissimo. Non sappiamo se Tacito conoscesse direttamente il romanzo; se lo conosceva è lecito pensare che ne abbia tenuto conto nella sua descrizione di P., ma non era tenuto a citare nella sua severa opera storica un testo così eccentrico e scandaloso. Certi aspetti del testo possono rimandare all'ambiente neroniano e il gusto di P. per la vita dei bassi fondi può avere una sottile complicità con i gusti dell'imperatore. Se l'autore è in realtà il P. di Tacito dobbiamo aspettarci certamente allusioni anche sottili all'ambiente della corte neroniana. Tutti gli elementi di datazione interni concordano con una datazione non oltre il principato di Nerone. Le allusioni a personaggi storici e i nomi di tutte le figure del romanzo sono perfettamente compatibili con il contesto del periodo storico di Nerone.

OPERA.
Del "Satyricon", come detto, sono incerti l'autore, la data di composizione, il titolo e il significato di questo, l'estensione originaria, la trama, il genere letterario e le motivazioni per cui quest'opera venne scritta e pubblicata. In effetti, l'unico attestato delle opere di P. è un lungo frammento narrativo in prosa, con parti in versi, residuo di una narrazione molto più ampia; il titolo, Satyrica, sembra formato da due grecismi: Satyri (i personaggi del mito e del folklore greco) più il suffisso di derivazione greca -icus. La parte che abbiamo copre parte dei libri XIV e XVI e la totalità del libro XV. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Il testo ebbe un destino complesso, fu antologizzato in età tardo antica, con intervento anche di vere e proprie interpolazioni.
Questa, brevemente, la trama: Encolpio, perseguitato dal dio Priapo che gli ha tolto la virilità, vaga con l’efebo Gitone e l’amico Ascilto per le città dell’Italia meridionale, incorrendo in varie avventure mariolesche ed erotiche, nelle quali spiccano, fra le altre, le figure di Quartilla, Psiche, Circe, di insaziabile sensualità. Al terzetto si aggiunge Eumolpo, un vecchio ribaldo, ma poeta e fine critico, che in un episodio canta "La presa di Troia" (65 senari giambici) e "La guerra civile" (295 esametri), probabili parodie di opere di Nerone e Lucano.
Frammenti famosi sono la "cena di Trimalcione", un incredibile banchetto offerto da un arricchito, e la novella della matrona di Efeso, che si dà ad un soldato sulla tomba stessa del marito.

IL SATYRICON E IL ROMANZO ANTICO.
E’ noto che il Satyricon costituisce, insieme alle "Metamorfosi" di Apuleio, l’unico testo della letteratura latina appartenente al genere del romanzo.
Riguardo il romanzo antico, è possibile distinguerne tre tipologie differenti: 1) il romanzo "di avventure e di prove", rappresentato eminentemente dal cosiddetto "romanzo greco" o "sofistico": le Etiopiche di Eliodoro, Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Abrocome e Anzia o Racconti Efesii di Senofonte Efesio, e Le avventure pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista. 2) il romanzo "biografico", al quale sono ricondotti l’ Apologia di Socrate e il Fedone di Platone, oltre alle biografie retoriche che hanno origine dagli encomi, a loro volta discendenti dagli antichi threnoi o, in ambiente latino, dalle laudationes funebres; ne sono un esempio le Retractationes di Agostino; all’interno di questa tipologia Bachtin distingue poi la biografia "energetica", rappresentata dalle Vite di Plutarco, che porta ad una progressiva rivelazione del carattere del protagonista, dalla biografia "analitica", il cui autore più tipico è Svetonio; 3) il romanzo "di avventure e di costume", rappresentato in senso stretto solo dalle già citate Metamorfosi di Apuleio e dal Satyricon di P., che Bachtin avvicina al romanzo picaresco europeo moderno, in quanto in entrambi quello che egli definisce "tempo di avventura" si intreccia strettamente nella narrazione al "tempo quotidiano".
Al contrario dei romanzi latini questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di tratti distintivi. La trama è quasi invariabile: si tratta delle traversie di una coppia di innamorati che vengono separati e che devono affrontare mille pericoli prima di potersi riabbracciare. Il tono è quasi sempre serio, lo scenario è invece variabile e spazia nei paesi del Mediterraneo. L'amore è trattato con pudicizia, come una passione seria ed esclusiva: l'eroina riesce sempre ad arrivare alla fine del romanzo ancora casta.
Nel romanzo di P. l'amore è visto in modo ben diverso. Non c'è spazio per la castità, e nessun personaggio è un serio portavoce di valori morali. Il protagonista è sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo, è il suo partner preferito è maschile. Il rapporto omosessuale tra Encolpio e Gitone diventa quasi una parodia dell'amore romantico che lega gli innamorati dei romanzi greci. A partire dal I secolo d.C. ha grande fortuna una letteratura novellistica, caratterizzata da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali. Un filone importante è quello che gli antichi spesso etichettano come fabula Milesia; sappiamo con certezza che P. utilizzò ampiamente questo filone di narrativa non idealizzata. Una tipica storia milesia è quella raccontata da Eumolpo: una matrona di Efeso, vedova inconsolabile, cede alle voglie di un soldato e finisce per esporre sulla croce la salma di suo marito per salvare l'amante. I temi tipici di questa novellistica si oppongono a qualsiasi idealizzazione della realtà: gli uomini sono sciocchi e le donne pronte a cedere.
Tuttavia nessun testo narrativo classico si avvicina anche lontanamente alla complessità letteraria di P.. Se la trama del romanzo si presenta molto complessa, ancora più complessa è la forma del romanzo. La prosa narrativa è interrotta frequentemente con inserti poetici: alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi diretti del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona le relazioni con gli eventi esterni e si abbandona a commenti che hanno funzione ironica. La presenza di un narratore passivo che subisce i capricci della fortuna è tipica di P. come del romanzo di Apuleio, ma l'uso libero e ricorrente di inserti poetici allontana quest'opera dalla tradizione del romanzo e la avvicina agli altri generi letterari. Il punto di riferimento più vicino al Satyricon è la satira menippea, questo tipo di satira si configurava infatti come un contenitore aperto, molto vario per contenuti e per forma e che alternava momenti seri a situazioni giocose, il tutto sorvegliato da un'abile tecnica di composizione. Rimangono tuttavia delle differenze nette: la satira di Seneca è una narrazione molto breve, ed è impossibile paragonala allo sviluppo del Satyricon. Inoltre è un testo di satira intesa come libello, come attacco personale concepito in una precisa situazione e rivolto contro un bersaglio esplicito: Claudio. In P. invece nessun intento del genere è percepibile.
Ancora Bachtin sottolinea in particolare la caratteristica della pluridiscorsività del Satyricon, che si manifesta sia nella varietà dei punti di vista che si incrociano nel romanzo, sia nella molteplicità di allusioni e riprese dei più svariati generi letterari. Proprio su questo aspetto si è incentrato il dibattito critico successivo, sviluppando ampiamente le ricerche sulla intertestualità nel Satyricon soprattutto per quanto riguarda la messa a fuoco delle parodie dei generi letterari su cui il testo appare costruito. Così è stato particolarmente studiato il rapporto tra il romanzo greco e il Satyricon, ed in questo ambito è stato spesso sostenuto che il romanzo di P. si pone come inversione parodistica dei modelli greci: il tema strutturante di opere come quelle citate di Caritone o di Senofonte Efesio, costituito dall’amore contrastato di una coppia di giovani e dalle peripezie che attraversano per coronare la loro unione, risulta rovesciato nel Satyricon nel rapporto omosessuale dei due protagonisti. Ci sono d’altra parte studiosi che, come Sullivan, non condividono appieno questa ipotesi, e sostengono invece che sia il Satyricon sia i romanzi greci si rifarebbero al comune modello dell’ epos, e che quindi le analogie strutturali che si riscontrano tra il romanzo latino e quelli greci sarebbero giustificate da questa comune ascendenza.
Ancora, sono stati oggetto di indagine anche i riferimenti che P. dissemina nella sua opera ad autori latini, in particolare a Virgilio, la cui opera sarebbe parodiata e/o imitata nel cosiddetto Bellum civile, cioè quella sezione in versi che Eumolpo, uno dei protagonisti, recita nella parte iniziale del testo (che, come è noto, è un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e versi): anche su questo argomento però i pareri sono discordi, dal momento che secondo altri qui P. intenderebbe parodiare il poema epico di Lucano, più che quello di Virgilio.
Molto nota invece e sicuramente più fondata è l’individuazione nel Satyricon di un intento parodistico dell’Odissea, individuato e descritto tra gli altri anche da Courtney, Klebs e Fedeli. I punti a sostegno di questa tesi sono molti, e probanti: si tratta non tanto della ripresa dell’ira di Poseidon che perseguita Odisseo nel poema, parodisticamente adombrata da P. nella persecuzione del dio Priapo nei confronti del protagonista Encolpio, né della struttura "odissiaca" (incentrata cioè sulle peripezie di viaggio) delle avventure narrate nel romanzo, quanto piuttosto di elementi di dettaglio, ma perciò stesso assai più significativi, che depongono a favore di questa tesi. Ad esempio è molto significativo che il già nominato Encolpio assuma, in una avventura di seduzione di una matrona, il nome di Polieno: e nell’Odissea polyainos è un epiteto che viene attribuito da Omero al solo Odisseo. Analogie evidenti presentano poi alcuni episodi, come quello in cui il protagonista del romanzo, per sottrarsi ai suoi inseguitori, si attacca sotto ad un letto, con un evidente ripresa dell’espediente con cui Odisseo fugge dalla caverna del Ciclope attaccandosi sotto il ventre dell’ariete avviato al pascolo.
Invece è solo in tempi più recenti che sono stati messi in luce alcuni riferimenti (oggetto di parodia o di semplice allusione) alla cultura ebraica che sarebbe possibile riscontrare nel romanzo: uno studioso in particolare, J. Clarke, ha rilevato nell’episodio centrale della parte superstite del Satyricon (ovvero la cena di Trimalcione) alcuni riferimenti all’ebraismo. Sull’esempio di questo studioso, le ricerche di echi e riprese di elementi della cultura giudaica nel Satyricon si sono moltiplicati, estendendosi anche all’ambito dell’onomastica. In questo settore, già da tempo è stato osservato che i nomi dei personaggi sono assegnati da P. con intenzione allusiva a personaggi o vicende del mito: Labate ad es. osservava che Corace (nome del servo che rivela agli heredipetae l’inganno di Encolpio ed Eumolpo nell’avventura di Crotone) è con ogni evidenza ripreso dal mito della cornacchia (korax) punita da Apollo per la sua attività di delazione di cui parla Callimaco in un suo inno. Estendendo l’indagine anche all’area linguistica semitica alla ricerca di analoghe allusioni, Bauer ha interpretato il nome di Trimalcione come composto da un prefisso tri-, di significato intensivo, associato alla radice semitica mlk, portatrice dell’idea di regalità. Trimalcione sarebbe quindi il "tre volte re", titolo certo adatto alla sua smania di esibizionismo e alla volontà di autocelebrazione che lo contraddistinguono come parvenu desideroso di ostentare la propria smisurata ricchezza.

CONSIDERAZIONI.
Il Satyricon deve molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale, ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Il tratto più originale della poetica di P. è forse la forte carica realistica, evidente soprattutto nel capitolo 15, dove diventa anche un fenomeno linguistico. L'autore ha un vivo interesse per le mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio quotidiano. Mentre il realismo della satira latina si soffermava in genere su tipi sociali ben precisi e questi erano tutti costruiti attraverso un filtro morale, che coincideva con poi con l'ideale del poeta, P. non offre ai suoi lettori nessun strumento di giudizio. Non potrebbe essere altrimenti, in una narrazione condotta in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al collo in quel mondo sregolato. L'originalità del realismo di P. sta quindi non tanto nell'offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell'offrirci una visione del reale che è critica quanto disincantata.
Infine, è da dire che il livello culturale dei lettori a cui il Satyricon si rivolgeva era sicuramente alto, come notava già Auerbach quando scriveva: "P. attende lettori di tale levatura sociale e cultura letteraria da poter subito intendere tutte le sfumature del mal comportamento sociale e dell’abbassamento della lingua e del gusto ... un’élite sociale e letteraria che riguarda le cose dall’alto ... anche P. dunque scrive dall’alto, e per il ceto delle persone dotte".


Carmina Priapea.

E’ una raccolta giuntaci anonima (I sec. d.C.?), circa 80 componimenti di lunghezza e metro variabili, legati tra loro dalla figura del dio Priapo.
Si tratta dunque di un tipo particolare di epigramma, di tono scherzoso e tematica per lo più esplicitamente sessuale. E così, data la relativa monotonia del tema, la bravura dell’autore (infatti, probabilmente è singolo) sta nel produrre effetti di varietà, sia di situazioni che di forma metrica (carmi di dedica, ritratti satirici, maledizioni, enigmi…).


Aulo Persio Flacco
(Volterra, 34 – Roma, 62 d.C.)

VITA.
Rimasto orfano di padre, a 12-13 anni venne a Roma ad educarsi presoo le migliori scuole di grammatica e retorica: a segnarlo fu l’incontro col filosofo stoico Anneo Cornuto, che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria (P. legò soprattutto con Tràsea Peto).
La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli affetti familiari.
Fu Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia e a ritoccare le "Satire" per l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso.

OPERA.
P. scrisse "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, precedute da un proemio di 14 versi "coliambi", che polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo.
La I satira illustra i vizi deplorevoli della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna, cui il poeta oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad uomini liberi; la II attacca la religiosità formale ed ipocrita; la III biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi alla morale stoica; la IV illustra la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum" per chi ambisca alla carriera politica; la V, rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà secondo il saggio stoico, ch’è consapevolezza razionale; la VI, infine, rivolta a C. Basso, deplora l’avarizia, cui contrappone al "moderazione" propria degli stoici.

CONSIDERAZIONI.
P., imbevuto dell’ambiente stoico e lontano dalle esperienze della vita, parla col tono del moralista intransigente, ma astratto; così, gli uomini diventano pretesto per una denuncia e per un esame "scientifico" (esemplato sui manuali morali del tempo) e "fenomenologico" del vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un lessico, come dire, "corporale"), col risultato di mettere a fuoco, anziché l’uomo, il suo comportamento tipizzato: la sua poesia è dunque anzitutto ispirata da una forte esigenza etica; ma un’etica distruttiva, o solo marginalmente costruttiva (sono poche, cioè, le indicazioni del "recte vivere").
Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che altro come "antimodello", nel senso che in P. il rapporto "maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in una reciproca "incomprensione", che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un "barocchismo" macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il monologo della confessione.
L’esigenza realistica è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della tecnica della "iunctura acris" (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico) e quindi si "deformi", condizione necessaria ad esprimere verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque, più che altro, una scelta estetica.


Decimo Giunio Giovenale
(Equino, 50/65 – 140 ca d.C.)

VITA.
Della sua biografia ignoriamo quasi tutto. Ciò che è possibile ricostruirne non può che reggere su ipotesi. Adottato da un ricco liberto, fu probabilmente soldato e poi maestro di scuola, prima di redigere, a Roma, le 16 "Satire" che compongono la sua opera. Forse esercitò l’avvocatura, probabilmente con scarso successo. Visse nella disagiata condizione di "cliente", come il suo amico Marziale, conobbe rovesci di carriera, e fu mandato in esilio, in una remota guarnigione dell'Egitto. E in esilio sarebbe morto.
Queste sono tutte cose che si possono dedurre dalla sua opera, a meno che non si tratti, nei brani dove si pensa di cogliere un'allusione, di semplici finzioni letterarie.

OPERA. Torna al sommario
G. scrisse "Satire" (100-127 d.C.?), in numero di 16 (l’ultima è incompleta), pubblicate – forse da lui stesso – in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando il clima politico lo permise.
Nella I satira, proemio programmatico, il poeta afferma che il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge a scrivere, e che però, per evitare le più che certe reazioni violente degli uomini del suo tempo, parlerà dell’immoralità dei tempi passati; la II bersaglia l’ipocrisia in generale, l’omosessualità in particolare (come la IX); la III parla di Umbricio, amico di G., costretto ad allontanarsi da Roma perché non resiste al caos e allo spettacolo dei vizi che la inquinano; la IV, sferzante, è contro la cortigianeria e lo stupido uso del potere in cui narra la storia di un grosso rombo che si fa pescare per essere offerto a Domiziano che convoca un consiglio di militari per decidere in che modo cuocerlo; la V descrive l’umile condizione dei "clienti" e l’arroganza dei padroni durante i banchetti (cui contrappone il proprio, frugale, nell’ XI); la VI, la più lunga e certamente la più famosa, costituisce un attacco veemente contro i vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini che siano (è la satira che ha fatto passare alla storia la moglie dell’Imperatore Claudio, la celeberrima Messalina, come esempio di donna dissoluta e depravata); la VII depreca la triste condizione dei letterati, in tempo di assente mecenatismo; l’ VIII afferma che l’unica vera nobiltà è quella dell’anima, che agisce secondo virtù e che è lontana dagli eccessi (com’è ribadito nella X); la XII si scaglia contro chi cerca la ricchezza ad ogni costo, in questo caso attraverso la "caccia" ai testamenti; la XIII consola l’amico di G., Calvino che, fiducioso, ha prestato denaro che poi non gli è stato restituito; la XIV tratta della responsabilità dei genitori nell’educazione dei figli, da attuarsi non con l’imposizione, ma soprattutto tramite l’esempio; la XV attacca le superstizioni religiose; la XVI elenca i privilegi della vita militare.

CONSIDERAZIONI.
G. non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione: la sua satira si limiterà a denunciare, a gridare la sua protesta astiosa ("indignatio", placata – apparentemente? - solo verso la fine, nelle satire XV e XVI), senza coltivare illusioni di riscatto, rifiutando in toto la connotazione consolatoria del pensiero moralistico tradizionale romano.
L’invettiva e il sarcasmo di G., allora, sono rivolti contro tutto il "sistema" (soprattutto nei suoi gangli rappresentativi), quel sistema che lo ha emarginato (il "democraticismo" del poeta è così solo apparente) e che gli fa rimpiangere, ed idealizzare, la tradizione nazionale e repubblicana, coi suoi valori morali e politici, oramai mortificati.
Nella civiltà che gli sta intorno, G. ha in orrore tutto ciò che non è "romano", nella buona tradizione del termine. Detesta gli orientali, l'ellenismo, i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottrae ai romani le proprie conquiste. Ma non detesta meno i senatori che non hanno il coraggio di opporsi al tiranno, o le donne che si fanno beffe della fedeltà coniugale e rendono la vita del proprio marito un lungo martirio. In ogni modo, combatte con pari vigore tanto i vizi e le semplici forme di ridicolaggine, la donna che pratica aborti come la pedante.
Per cui ci si può chiedere fino a che punto queste satire non siano anzitutto delle "amplificazioni", espressioni volontarie di estremismo, che non meritano di essere confuse con delle testimonianze obiettive.
Le Satire recano l'impronta della retorica. Declamatore, G. lo è per i temi che affronta ("luoghi comuni" sui costumi del tempo, la povertà, la ricchezza, ecc), e più ancora per il tono che lo distingue, fatto di una virulenza appassionata e di un'eloquenza che hanno contribuito a modificare fortemente l'evoluzione del genere satirico. E alla violenza dell’ "indignatio" (e alla mostruosità del mondo che ne è oggetto) s’addice – per contrasto – un’altezza di tono e una grandiosità di stile che accostano la satira – rivoluzionariamente – alla tragedia, analogamente "sublime".
Infine, del nostro poeta sono i celeberrimi detti che vanno dall’ottimistica "mens sana in corporae sano" agli amari "set quis custodiet ipsos custodes ?" e "panem et circences" di cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi d’altro, secondo lui, appunto che di mangiare e divertirsi.


Publio Papinio Stazio
(Napoli 45 ca – 96 d.C.)

VITA.
Figlio di un maestro di scuola napoletano, S. incarna la figura del poeta "professionista". Si trasferì a Roma per tentare la fortuna durante l'impero di Domiziano. In breve, si guadagnò – nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche - il favore del pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi protettori.
D'ingegno duttile e versatile, in questo primo periodo compose libretti per mimi e, oltre al suo primo poema epico, la "Tebaide", alcune "Silvae", componimenti lirici di circostanza in uno stile facile ed elegante. Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante le preghiere insistenti della moglie Claudia, una musicista, decise di abbandonare la città per far ritorno in Campania. Vi condusse lo stesso genere di esistenza di poeta mondano al servizio dei nobili romani, che vi approdavano in massa per i loro soggiorni sotto il cielo di Napoli.
In questo periodo della sua attività, scrisse alcune "Silvae" e una seconda epopea, l' "Achilleide", che non gli fu possibile compiere.

OPERE.
*"Tebaide" (pubblicata nel 92). E’ in 12 libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle e Polinice per la successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è mitologico, dotato di un complesso apparato divino, la sostanza del contenuto riporta irresistibilmente verso la "Farsaglia" di Lucano).
In un insolito epilogo programmatico, S. dichiara di avere un modello altissimo, coi dovuti rispetti: l "Eneide", di cui le due esadi ne riproducono fedelmente la metà iliadica di preparazione e quella odisseica.
I modelli poetici sono legione: S. dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Antimaco di Colofone e Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici o di loro riassunti. Talora (oltre che l’Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti: Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco; infine, lo stile narrativo e la metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del mondo dell’influsso di Seneca.
Insomma, proprio qui – ovvero nel contrasto tra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti – sta il vero centro dell’ispirazione epica di S. .
Posta sotto tale costellazione di influssi, l’opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico è piuttosto l’ossessiva ricorsività di motivi e atmosfere: tutta la storia è dominata da una ferrea "necessità universale" (la cui funzione è enfatizzata in un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le cose, gli uomini e le stesse divinità (è qui che S. si avvicina invece più a Lucano).
*"Achilleide" (interrotta all'inizio del II libro dalla morte del poeta). Poema epico sull’educazione e le vicende della vita di Achille, fino alla sua partenza per Troia. Il tono è più disteso ed idillico che nella barocca "Tebaide".
*"Silvae" ("schizzi"?). Una raccolta di 32 poesie in 5 libri di metro vario (dall’esametro ai versi lirici) e temi occasionali (epitalami, descrizioni di ville e di terme, di statue e di altri oggetti artistici, epicedi, epistole poetiche, invocazioni…). Esse ci hanno conservato preziose immagini dell’alta società romana (della sua "mentalità") e dell’ambiente di corte; e il poeta si propone quasi quale supervisore sistematico dei pubblici sentimenti o si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità (da qui la patina cortigiana e conformistica di tutto l’insieme).

CONSIDERAZIONI.
S. è un poeta erudito, un cantore della poesia sentimentale e preziosa, addirittura "estetizzante" (a suo proposito, si è parlato di "retorica della dolcezza").
I suoi componimenti epici sono pieni di riferimenti letterari, le leggende da lui trattate sono in molti casi oscure. In questo, egli si mostra discepolo lontano degli alessandrini, e spirito alessandrino è quello che appunto si ritrova nell'abbondanza degli episodi minuti, delle "miniature" sentimentali o pittoresche (si pensi alla condanna pronunciata da Orazio contro i poeti di tale scuola, "incapaci di comporre l'insieme di un'opera").
Nonostante la sua volontà di imitare Virgilio, S., ne fosse cosciente o meno, discende dalla tradizione ovidiana, quella che un giorno verrà rappresentata dalle "Dionisiache" di Nonno.


Caio Valerio Flacco Balbo Setino
(m. 93 d.C.?)

VITA.
Nulla si sa di lui, tranne che fu "quidecemvir". La sua attività si compie sotto l'impero di Domiziano. non visse abbastanza a lungo per portare a termine il suo poema delle "Argonautiche".

OPERA E CONSIDERAZIONI.
In tacita polemica con Lucano, che aveva trattato un tema d’attualità, F. tornò al mito e scrisse un poema epico mitologico in esametri, dedicato a Vespasiano: "Argonautica", iniziato verso l’80, interrotto bruscamente al libro VIII.
La materia, derivata liberamente dall’omonimo poema di Apollonio Rodio, racconta la conquista del vello d’oro (e nell’enfasi sul dominio del mare c’è forse un riferimento all’deologia vespasianea) e la passione di Medea per Giasone: nei punti in cui F. segue da vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell’effetto, per ottenere il coinvolgimento emotivo del destinatario.
Dopo Apollonio Rodio, il tema rientrava nel repertorio dell'epopea ellenistica. Nell'Eneide, Virgilio non aveva trascurato d'ispirarsi a questo modello, cosicché F. ritrova, indirettamente, un'ispirazione ellenica tramite la creazione virgiliana, che spinge il nostro ad una poetica, come dire, "reazionaria", nell’apparato mitologico e divino e nell’impostazione edificante.
L'elemento romano è rappresentato dal tentativo del poeta di comparare l'impresa degli argonauti a quella di Vespasiano che esplora i mari intorno alla Bretagna.
Più sensibilmente stoica di quanto non fosse già in Virgilio, è la presenza di Giove come provvidenza, aspetto per il quale F. subiva l'influenza del pensiero contemporaneo. E’ evidente, inoltre, che il poeta ha conosciuto e apprezzato le tragedie romane, in modo particolare, forse, quelle di Seneca. Come quest'ultimo, si mostra sensibile alla poesia "cosmica". Le evocazioni del cielo stellato, dei venti, del mare sono introdotte non tanto come forme spettacolari, quanto come presenze di forze naturali.
Discepolo dei poeti tragici, F. lo è anche nelle sue motivazioni psicologiche (il che fa pensare a Lucano), e nel dar valore all'eroe (Giasone, eccetera) quale eroe universale, mentre nell' "Eneide" esso era collegato maggiormente al suo contesto religioso e sociale.
Questa poesia "riflessa" ed elaborata – talora "manieristica" – rischia a volte di disperdersi sotto tali molteplici spinte, non sempre armonizzate: ma se F. fallisce spesso nella creazione di strutture narrative articolate, di converso appare elegante e raffinato nel particolare, nel dettaglio descrittivo, nella notazione psicologica (la narrazione, nell’opera, esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo e alla "psicologizzazione" del racconto).
Da tutto ciò, risulta un testo narrativo assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come estremamente dotto anche per quanto riguarda la sua destinazione.


Tiberio Cazio Asconio Silio Italico
(Padova?, 25 ca – Campania 101 d.C.)

VITA.
Senatore, cortigiano di Nerone, consolo nel 68, noto durante i periodi più cupi della tirannide come delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d'Asia; coltivò la poesia nella vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male incurabile, si lasciò morire di fame.

OPERA E CONSIDERAZIONI.
*La sua opera maggiore è un poema epico sulle guerre puniche ("Punica") in 17 libri, ricostruzione della guerra di Roma contro Annibale, dalla spedizione di questi in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama.
*Il tema, già trattato da Ennio, preannunciato in qualche modo dal "Bellum Punicum" di Nevio, era questa volta ripresentato in stile virgiliano. Ma la presenza sensibile dell'epopea "annalistica" permane: S. non ha saputo liberarsi dai quadri storici, e ciò produce una specie di miscela di due estetiche, che mette allo scoperto per intero l'apparato del "meraviglioso" di tipo "omerico", come un complesso di artifici ormai sorpassati.
Seppure la disposizione è "annalistica", non si può ridurre l’opera ad una semplice versificazione del materiale storico raccolto ed esposto da Livio nella III decade.
Tra le fonti di S. furono Marrone, Posidonio e Igino; fra le poetiche Ennio (essenzialmente per la già detta disposizione "annalistica"), Virgilio (essenzialmente per il ricorso a tutto un apparato mitologico-divino, spesso tuttavia inverosimile) e Lucano (per le consonanze di taluni "colores" stilistici).
*L’opera – che nel suo complesso si innesta, senza aggiungere molto di nuovo, nel ricco filone della letteratura patriottica romana – è stata severamente giudicata dalla critica moderna per la sua macchinosità, l’eccesso di discorsi retorici, la scarsa poeticità (ma già Plinio il Giovane la disse scritta "più con scrupolo che non ingegno").


Gaio Plinio Secondo, detto "il Vecchio"
(Como, 23-24 d.C – Stabile, odierna Castellammare, 79 d.C.).

VITA.
P. apparteneva all'ordine equestre romano e comandò a lungo uno squadrone di cavalleria sul Reno. Ricoprì importanti incarichi amministrativi durante i regni di vari imperatori (Vespasiano e Tito). Prefetto della flotta di Capo Miseno durante il regno di Tito, egli esercitava ancora questo comando quando trovò la morte, inghiottito dall'eruzione del Vesuvio che seppellì le città campane nel 79 d.C. .
Una buona parte delle nostre informazioni su di lui ci vengono dalla corrispondenza di suo nipote e figlio adottivo, Plinio "il Giovane".

OPERE E CONSIDERAZIONI.
*Per noi, P. è soprattutto un enciclopedista le cui straordinarie conoscenze si trovano compendiate nei 37 libri della sua "Storia naturale", vasta indagine (finita nel 77-78) su tutto ciò che esiste in natura, e su argomenti che spaziano dall'arte alla medicina.
L’opera, aperta da un’epistola dedicatoria e illustrativa rivolta al futuro imperatore Tito, inizia con una prefazione e una bibliografia, e continua con la trattazione dell’astronomia e della geografia (libri II-VI), dell’uomo e degli animali (VII-IX), della botanica (XII-XIX), della medicina (XX-XXXII), della metallurgia e mineralogia, con ampi excursus sulla storia dell’arte (XXXIII-XXXVII).
P. si colloca sulla linea di Varrone, ma senza l'ampiezza analitica di quest'ultimo. E’ piuttosto un collezionista che un pensatore. Le sue idee filosofiche e religiose, impregnate di stoicismo, non superano i luoghi comuni abituali del suo tempo, e anzi la mentalità enciclopedica è per lui un accomodante eclettismo.
Mescolando esperienze personali e testimonianze di fonti antiche in uno stile manierato e talvolta tortuoso (ma giustificato dalla mole e dall’intento divulgativo dell’opera), P. ci dà – oltre a innumerevoli, precise e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del tempo – un esempio unico del profondo umanesimo e della vastità d’interessi della cultura latina del I sec., nonché una lampante testimonianza della diffusione e dell’ascesa dei ceti "tecnici" e "professionali", con la relativa domando di cognizioni appunto tecniche.
*Tuttavia, P. non deve la sua fama unicamente a quest'opera di compilazione. Fu autore anche, come Plinio il Giovane ci testimonia nel suo elenco, di saggi storici molto stimati, di cui però purtroppo nulla possediamo: 20 libri su "Le guerre di Germania" (ispirati alle sue campagne), e 31 "Dalla fine di Aufidio Basso", che riprendevano il filo degli eventi dal punto in cui si era fermata (gli ultimi anni dell'impero di Tiberio) l'opera dello storico A. Basso, egli stesso continuatore di Tito Livio. Questi libri di P. furono una delle fonti di Tacito.
Dovrebbe infine aver scritto anche un "Dubius sermo", ovvero un manuale su problemi linguistici.


Sesto Giulio Frontino
(30 ca – 103/4)

Governatore della Britannia (74-78) e curatore delle acque di Roma (97), si occupò, per scopi pratici e in uno stile di efficace semplicità (ma con limitate ambizioni letterarie: si tratta di opere del tipo "Commentarii"), di agrimensura (dell’opera, in 2 libri, abbiamo estratti), di idraulica (i 2 libri del "De aquis urbis Romae", buona e concreta trattazione), tecnica militare e strategia (i 4 libri degli "Strategemata"), esempi appunto di stratagemmi, tratti dalla storia greco-romana, per battaglie ed assedi; ma l’informazione è generica e frutto di compilazione non sempre puntuale).


Marco Valerio Marziale
(Bilbilis, Spagna Terragonese 40 d.C. ca – 104 ca)

VITA.                                                                                                
Dopo essere stato educato in patria, giunse a Roma nel 64. Fino a quando non uscirono di scena in seguito alla congiura dei Pisoni, godette dell'appoggio e dell'amicizia di due importanti suoi compatrioti: il filosofo Seneca e di suo nipote,  il poeta epico Lucano. Si dedicò all'attività forense, sperando di trarre rapidi e consistenti vantaggi economici da essa. Le cose, però, andarono in ben altro modo, e M. si ritrovò a percorrere la difficile strada del cliens, il cliente. I suoi patroni furono certo poco munifici: M., a corto di soldi, visse a lungo in una brutta e alta dimora, alla quale, come ci informa lo stesso poeta, si accedeva dopo tre dure rampe di scale. L'attività poetica gli consentì, comunque, sotto Tito (80 d.C.) di ottenere da parte dell'imperatore il titolo onorario di tribuno militare, il rango equestre e benefici economici di varia natura, in cambio di una raccolta di epigrammi (il "Liber de spectaculis") volta a celebrare l'inaugurazione in quell'anno dell'Anfiteatro Flavio, il cosiddetto Colosseo.
Ma il vero successo letterario venne a M. solo dopo l'84-85 con la pubblicazione ininterrotta dei suoi epigrammi: essa durò fino al 98, quando, sotto l'imperatore Neva, lasciò Roma per ritornare in patria (le spese del viaggio furono pagate da un importante uomo di cultura del tempo, Plinio il Giovane). In Spagna, nella sua Bilbilis, si godette un podere donatogli da una ricca vedova e devota ammiratrice, Marcella. M. si attendeva di trovare al suo ritorno il mondo e gli amici della giovinezza, ma, senza più questi, e dopo anni trascorsi nella turbolenta, ma vivace vita della Capitale, Bilbilis e il suo meschino ambiente di provincia finirono ben presto per stancarlo. Pubblicò nel 101 il suo ultimo libro di epigrammi, ma continuò a rimpiangere Roma, fino alla morte.

OPERE.
Ci resta una raccolta di "Epigrammi" distribuiti in 12 libri composti e via via pubblicati fra l'86 e il 102. Tale corpo centrale è preceduto da un altro libro a sé di una trentina di epigrammi, il "Liber Spectaculorum", e seguito da altri 2 libri (84 – 85 d.C.) anch'essi autonomi, lo "Xenia" (distici destinati ad accompagnare i "doni per amici e parenti" nelle feste dei Saturnali) e gli "Apophoreta" (coppie di distici di accompagnamento agli omaggi offerti nei banchetti e "portati via" dai convitati). La disposizione attuale dell’intera raccolta riproduce probabilmente quella di un’edizione antica postuma.
Nell’ordinare gli epigrammi, M. li ha distribuiti in modo equilibrato, secondo il topos della "varietas", secondo il metro e l’estensione, attento soprattutto ad evitare ripetitività e piattezza.
Così, i metri sono vari: accanto al distico elegiaco sono frequenti anche falecio e scazonte, ma non mancano altri metri diversi. Varie sono anche le dimensioni dei componimenti: dall'epigramma di un solo distico o di un solo verso a quelli di dieci e più versi, fino ad alcune decine. In totale gli epigrammi sono più di 1500, con un complesso di 10000 versi.

CONSIDERAZIONI.
Un aspetto importante della cultura letteraria dell'età flavia, nel clima di restaurazione morale, è la tendenza al recupero del genero poetico più alto, ossia l'epica, ma anche alla diffusione e al successo di un genere come l'epigramma, che è considerato il più umile di tutti.
In realtà non vi era una tradizione che riguardasse gli epigrammi: solo Catullo svolge una funzione importante di mediazione fra cultura greca e latina nella storia di questo genere letterario. L'origine dell'epigramma risale all'età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa: era inciso ad esempio su pietre tombali o su offerte votive. In età ellenistica però l'epigramma, pur conservando la sua caratteristica brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica: è un tipo di componimento adatto alla poesia d'occasione, a fissare nel giro di pochi versi l'impressione di un momento. I temi sono di tipo leggero: erotico, satirico, parodistico, accanto a quelli più tradizionali, ad esempio di carattere funebre.
Nell'ambito della poesia latina, l'epigramma non aveva una grande tradizione, e di essa ben poco ci è rimasto: con l'eccezione di Catullo, quasi nulla sappiamo dei poeti che M. indica come suoi auctores. A Roma è Catullo che valorizza la forma breve come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, cioè temi della vita individuale, nonché a farsi strumento di vivace aggressione polemica.
M. farà dell'epigramma il suo genere esclusivo, l'unica forma della sua poesia, apprezzandone soprattutto la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. Questi sono i pregi che egli contrappone ai generi illustri, all'epos e alla tragedia, coi loro toni seriosi e i loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche tanti lontane dalla realtà della vita quotidiana. E' proprio il realismo, l'aderenza alla vita concreta, che marziale rivendica come tratto caratteristico della sua poesia. Un tipo di poesia, quindi, che coniuga fruibilità pratica e divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo della realtà quotidiana con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Nelle scene si riscontrano sempre le stesse tipologie di personaggi: i parassiti, i ladri, gli spilorci, gli imbroglioni, i medici pericolosi e così via. Tali deformazioni grottesche sono frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza singoli personaggi negando loro uno sfondo, un contorno, come se, per meglio mostrarli, fossero strappati al contesto, come fossero sospesi nel vuoto. L'atteggiamento del poeta è però quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato.
*I temi degli epigrammi di M. sono vari: accanto a quelli più radicati nella tradizione, altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta o il costume della società del tempo. M. sviluppa fortemente l'aspetto comico satirico, proseguendo un processo avviato dal poeta greco di età neroniana Lucilio, che aveva conferito largo spazio a personaggi caratterizzati da vistosi difetti fisici, a tipi e caratteri sociali rappresentati comicamente, e si inserisce nella tradizione satirica romana, attenta all'analisi del costume sociale e pronta a tratteggiarne i caratteri più rappresentativi. Ma M. copia da Lucilio anche alcuni procedimenti formali, come ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che chiude in maniera brillante il breve giro di pensiero.
Le forme composite sono svariate, ma generalmente si riconducono ad uno schema fisso, basato su una prima parte, che descrive la situazione, l'oggetto e il personaggio, suscitando nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che scarica quella tensione in un paradosso, in un fulmine.
*La struttura dell'epigramma. Il discorso che segue investe in modo particolare gli epigrammi di M. destinati alla satira sociale. In essi confluiscono, dando vita ad un tipo di composizione originalissima ed insuperata, apporti della precedente tradizione epigrammatica: di quella ellenistica per quanto riguarda l'arguzia e la fine ironia che li pervade, di quella latina repubblicana (Catullo) per la loro aggressiva vivacità, di quella latina imperiale (Lucillio, epigrammatista dell'età di Nerone) per la rappresentazione comica di difetti fisici, di tipi e caratteri sociali.
In questo tipo di epigramma è possibile, schematizzando, enucleare le seguenti caratteristiche:
a) il poeta spesso si rivolge alla vittima dell'epigramma (di regola persona fittizia o comunque non individuabile) o a una terza persona (che può essere reale o fittizia) cui addita la figura o il comportamento del personaggio colpito;
b) l'epigramma è solitamente breve (molto raramente di un solo verso, solitamente da 2 a 10 versi, ma vi sono anche numerosi epigrammi di più di 20 versi, fino ad un massimo di 51 versi);
c) compaiono quasi sempre apostrofi, interrogazioni, movimenti di dialogo che devono dare l'impressione di un intervento diretto del  poeta in una certa situazione, davanti a un interlocutore;
d) la sinteticità caratterizza la delineazione della situazione o del tipo. Altre volte ci sono quadri più ampi, di notevole impegno e complessità, in cui M. dà prova di grandi capacità di rappresentazione realistica;
e) M. ottiene effetti particolarmente felici nel finale dell'epigramma, che a volte riassume i termini di una situazione in una formulazione estremamente incisiva e pregnante, altre volte li porta a una comica iperbole, altre volte li costringe a un esito assurdo o a un paradosso, altre volte li pone all'improvviso sotto una luce diversa e rivelatrice (è l' "effetto di sorpresa", per cui M. è particolarmente celebre).
Insomma, il pubblico (ed è questo il segreto del successo) vi ritrovava, da parte sua, la propria esperienza filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata appunto di agilità e pregnanza espressiva, aperta alla vivacità dei modo colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano (a volte degenerante in un vero e proprio "realismo osceno"), ma capace anche – all’occorrenza – di limpida sobrietà, se non addirittura di ricercatezza.
Tali caratteristiche compaiono in epigrammi dalla diversa strutturazione. Il Lessing individuò come schema-tipo dell'epigramma di M. e, più in generale, del genere epigrammatico, lo schema bipartito "attesa"/"spiegazione conclusiva". Nella prima parte il poeta, attraverso la rappresentazione di una situazione o la descrizione di un personaggio crea nel lettore un'aspettativa, la quale viene soddisfatta dalla battuta conclusiva, tanto più efficace quanto più lontana dalla previsione del lettore (effetto di sorpresa).
Si può senz'altro, a distanza di tantissimi anni, utilizzare ancora con profitto la distinzione lessinghiana, a patto, però, di non farne un idolo critico-letterario. Infatti non si può negare la presenza per l'epigramma di M. di altre possibilità strutturali.
V'è, per esempio, uno schema bipartito impostato sulla sequenza: "attesa: quesito"/ "spiegazione conclusiva: risposta". In esso la tensione di attesa è suscitata non già da una descrizione, bensì da un quesito, rispetto al quale la spiegazione finale costituisce risposta.
Spesso, però, la bipartizione lascia il posto allo schema tripartito nel quale la "spiegazione finale" costituisce la risposta ad un precedente quesito, scaturito a sua volta dalla descrizione contenuta nell'attesa: " attesa " /  " quesito " / " spiegazione conclusiva: risposta ".
Qualche volta la tripartizione fa seguire all'attesa descrittiva l'accettazione da parte del poeta dei concetti e delle situazioni in essa delineati, salvo poi revocare in dubbio tale accettazione, con la precisazione di nuovi, sorprendenti particolari:" attesa " /  "accettazione" / "revoca in dubbio".

Marco Fabio Quintiliano
(Calahorra, Spagna 35 ca – Roma 95 ca d.C.)

VITA.
Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e l’avvocatura con notevole successo, finchè fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove incominciò la sua attività di maestro di retorica (con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale). Vespasiano gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù.
Fra i suoi numerosi allievi ebbe Plinio il Giovane e, forse, tacito; Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta consolatoria". Nell’88 si ritirò da tutto per darsi completamente agli studi.

OPERE.
Di Q. è andato perduto un trattato "De causis corruptae eloquentiae", così come le "Artes rethoricae", sorta di dispense. Spurie le due raccolte di "declamazioni" ("maiores" e "minores").
Ma il suo capolavoro è l’ "Institutio oratoria" (93-96 d.C.), che compendia l'esperienza di un insegnamento che durò vent'anni (dal 70 al 90 ca). E’ un manuale sistematico, 1n 12 libri e pervenutoci integro, che si delinea come un programma complessivo di formazione culturale e morale che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente dall’infanzia fino al momento in cui avrà acquistato qualità e mezzi per affrontare un uditorio (e ciò, in risposta alla corruzione contemporanea dell’eloquenza, che Q. vede in temi moralistici, e per la quale addita come rimedi il risanamento dei costumi e soprattutto la rifondazione delle scuole).
Il I libro fa parte a sé, e tratta di problemi vari di pedagogia. Il II chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori "optimi", né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro declamazioni attinenti alla vita reale (e che puntassero comunque alla "sostanza delle cose"), con un linguaggio semplice ed appropriato. I libri dal III al VII trattano dell’ "inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti da inserire nelle cause e l’arte di distribuirli; i libri dall’VIII al X, dell’ "elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell’orazione. Il X libro insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura nell’espressione (prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Q. inserisce qui un famoso excursus storico-letterario sugli scrittori greci e latini – di uguali meriti – preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità: ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico). L’XI libro parla della "memoria" e dell’ "actio", cioè dell’arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli. Il XII presenta, infine, la figura dell’oratore ideale.

CONSIDERAZIONI.
Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato, Q. ripropone il modello di oratore di età repubblicana, di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell’oratoria per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Q., in cui si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e tacciata – così ingiustamente – di servilismo.
Nel suo tentativo particolare di "recupero formale" della retorica, poi, Q. si oppone da un lato agli eccessi del "Nuovo Stile", cioè della nuova prosa di tipo senecano e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a "movere" più che a "docere"), dall’altro al troppo scarno gusto arcaistico: e propone anche qui il modello di Cicerone (modello di sanità di espressione ch’è insieme sintomo di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità.
L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto nella pratica della sua prosa, concessioni al nuovo gusto per l’irregolarità e per il colore vivace.

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane
(Como 61/62 – 112/3 d.C.)

VITA.
Orfano di padre, venne adottato da Plinio il Veccio, suo zio materno (da cui il nome); a Roma studiò retorica sotto la guida di Quintiliano e di N. Sacerdote.
Incominciò presto la carriera forense, con notevoli successi, e il "cursus honorum", che culminò nella nomina a "prefetto dell’erario" (98) e "consul suffectus", sotto Traiano. Questi lo nominò suo legato in Bitinia (111).

OPERE E CONSIDERAZIONI.
*Considerato dai contemporanei (ancor più da se stesso) un oratore di primo piano, pronunciò nell'anno 100 il "Panegyricus" ufficiale dell'imperatore Traiano e questo saggio, di cui disponiamo, ci permette di giudicare delle sue qualità nell'eloquenza ufficiale.
La sua frase è ampia, lunga e sinuosa; il pensiero aggrovigliato e, per lo più, banale. Ma bisogna mitigare questa impressione sfavorevole, tenendo conto che il genere aveva le sue esigenze, la prima delle quali era che l'allusione dovesse prevalere sulle affermazioni, e che era
necessario insinuare e pericoloso parlare troppo e chiaro. Ci si avvede, quindi, che P., in questo genere, è un maestro. Dalle sue parole emerge un'immagine dell'imperatore che corrisponde esattamente al modo in cui Traiano desiderava vedersi con i suoi occhi.
L'eloquenza diventa una specie di lavoro poetico, esattamente ciò che Platone, in passato, temeva che potesse divenire: maestra di illusione e di menzogna.
Il "panegirico", comunque, risulta interessante – oltre che per essere l’unico esempio di oratoria romana nella I età imperiale - quanto meno per l’importante auspicio, contenutovi, di un periodo di rinnovata e costruttiva collaborazione tra imperatore, senato e ceto equestre 8con qualche ingenuità, P. sembra rivendicare per sé una sorta di funzione "pedagogica" nei confronti del Principe).
*E’ probabile però che l'eloquenza giudiziaria di P. (fu un avvocato di grido) fosse di diversa qualità, giacché egli ci appare nelle sue "Epistulae" (parte fondamentale della sua opera) un onest'uomo, anche piuttosto scrupoloso (perlomeno quando scrive a Traiano, durante l'esercizio della carica di governo in Bitinia, per chiedergli consigli sul comportamento da adottare nei confronti dei suoi amministrati).
Le "Lettere" sono in 10 libri: i primi 9, raccolti e ordinati dallo stesso P. per consiglio di Setticio, contengono lettere di indole privata, indirizzate ad amici e (meno) a parenti. Si presentano come veri e propri saggi brevi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile (di cui, visto il suo status, egli è osservatore privilegiato). Il X libro, pubblicato postumo, è riservato al carteggio ufficiale intercorso, come detto, tra P. e Traiano.
I libri su citati, non meno di quest’ultimo, rivelano nella forma (il modello è Cicerone, con accenni di "maniera" una ricercatezza e una lisciatura che direbbero da sole – quand’anche l’autore stesso non lo avvertisse col suo "paulo maiore cura" – che sono state rivedute per affrontare il giudizio del pubblico: ben lo testimonia l’ordinamento interno, attento alla "variatio" degli argomenti.
Il nostro mostra notevoli interessi verso le cose intellettuali, in particolare per la filosofia, ma più con lo spirito del dilettante che con quello del vero filosofo. Inoltre, ci offre un esempio esauriente della cultura "umanistica", così come era concepita al suo tempo. E’ un po' poeta: scrive brevi componimenti in versi ("endecasillabi" ora perduti), rivolge la propria curiosità verso i fenomeni naturali, ma senza cercare di approfondire nulla. E’ possibile valutare ciò che la perdita della libertà ha potuto produrre nello spirito romano se si paragonano queste sue Lettere con l'Epistolario di Cicerone.


Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito
(55 d.C.? ca – 120 ca)

VITA.
T. nacque nella Gallia Narbonese, da una famiglia di ordine equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano. Questore nell’81-82 e pretore nell'88, fu per qualche anno lontano da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97 fu console e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il console morto durante l'anno in carica. Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113) per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico di Plinio il Giovane.

OPERE.
"Dialogus de oratoribus", dell’ 80 ca o di poco successivo al 100; è comunque dedicato a Fabio Giusto;
"De Vita Agricolae", pubblicato nel 98;
"De origine et situ Germanorum" o "Germania", dello stesso anno?;
"Historiae", composte tra il 100 e il 110, in 12 o 14 libri di cui però ci sono pervenuti solo i primi 4 e metà del V;
"Annales" o "Ab excessu divi Augusti", del 100-117?, comunque successivi alle "Historie", in 16 o 18 libri, di cui ci rimane, però, l'opera incompleta: i primi 4 libri, alcuni frammenti del V e del VI (mancante forse del principio) che trattano del regno di Tiberio; infine, gli ultimi 6, concernenti Nerone, ma per lo più lacunosi.

CONTENUTI E COMMENTI DELLE OPERE.
*"Dialogus de oratoribus": le cause della decadenza dell'oratoria.
Il "Dialogus de oratoribus" non è probabilmente la prima opera di T.: la tesi che oggi prevale è che sia stato composto dopo la "Germania" e dopo l' "Agricola". Il periodo di tale opera ricorda infatti il modello neociceroniano forbito ma non prolisso, cui si ispirava l'insegnamento della scuola di Quintilliano: per questo c'è chi suppone che l'opera sia stata scritta quando T. era ancora giovane e legato alle predilezioni classicheggianti della scuola di Quintilliano. Se questa ipotesi fosse vera, resta il fatto che l'opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la morte di Domiziano.
Ambientato nel 75 o nel 77, si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici. Riferisce di una discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui stesso, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è la maschera dietro cui si nasconde lo stesso T.), in difesa rispettivamente dell'eloquenza e della poesia. L'andamento del dibattito subisce una svolta con l'arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell'oratoria, la cui causa è il deterioramento dell'educazione. Il dialogo si conclude con il discorso di Materno: egli sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l'anarchia; diviene invece anacronistica e noiosa in una società tranquilla come quella conseguente all'instaurazione dell'Impero, caratterizzata dalla degenerazione sociale, politica e culturale. L'opinione attribuita a Materno rispecchia il pensiero di T.: egli, infatti, nonostante tutto, sente la necessità dell'Impero come unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili, di garantire insomma la pace, anche se il principato restringe lo spazio per l'oratore e l'uomo politico.
*"Agricola" e la sterilità dell'opposizione.
Verso gli inizi del regno di Traiano T. approfittò del ripristino dell'atmosfera di libertà dopo la tirannide per pubblicare il suo primo opuscolo storico, la sua prima monografia, che tramanda ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola. Per il suo tono encomiastico, lo stile di quest'opera si avvicina a quello delle laudationes funebri. Dopo un riassunto della vita del protagonista, si sofferma sulla conquista della Britannia, lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche ed etniche. Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio: la Britannia è soprattutto un campo in cui si dispiega la virtus di Agricola, il teatro delle sue imprese. T. mette in risalto come il suocero avesse saputo servire lo Stato con fedeltà e onestà anche sotto un pessimo principe come Domiziano. Anche nella morte Agricola mantiene la sua rettitudine: egli lascia la vita in silenzio, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato. L'esempio di Agricola indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (la vera virtù è appunto la "moderazione") fra quelle del martirio e della indecenza. L' "Agricola" si può considerare come un punto di intersezione tra diverse correnti letterarie: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris integrata con materiali storici ed etnografici. Notevole è l'influenza di Cicerone soprattutto nella perorazione finale.
*"Germania": virtù dei barbari e corruzione dei romani.
Gli interessi etnografici sono al centro della "Germania", non a caso scritto in quel particolare momento storico-politico, quando l’agitarsi delle popolazioni ultrarenane indusse Traiano ad affrontare decisamente il problema germanico: unica testimonianza, comunque, di una letteratura specificatamente etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna.
Le considerazioni etnogeografiche (sui popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio) all'interno della "Germania" non derivano tuttavia da una visione diretta, ma da fonti scritte, soprattutto dai "Bella Germaniae" di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare l'opera: ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la "Germania" sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.
Si può notare nell'opuscolo di T. l'esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente. Tutta l'opera sembra percorsa da una vena implicita di contrapposizione dei barbari, ricchi di energie sane e fresche, ai romani. E molto probabilmente, al di là di ogni "idealizzazione", T. intendeva sottolineare la loro pericolosità per l'Impero: i germani potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione. Ovviamente T. parla anche dei molti difetti di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente barbarico.
*"Historie": i parallelismi della storia.
Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell'Agricola, ma nelle "Historiae" tale progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l'opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l'anno della morte di Domiziano: nel proemio T. afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei principati di Nerva e di Traiano.
Le "Historiae" descrivono quindi un periodo cupo, sconvolta dalla guerra civile e concluso con la tirannide:
Il I libro parla del breve regno di Galba; seguono l'uccisione di questo e l'elezione all'Impero di Otone. In Germania le legioni acclamano però come Imperatore Vitellio.
Nel II e III libro si parla della lotta tra Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano. Quest'ultimo, eletto imperatore in oriente, lascia il proprio figlio Tito ad affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma dove si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso.
Nel IV libro si parla dei tumulti ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania.
Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e dei primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli.
Nel 69, anno in cui si apre l'Historiae, vede succedersi 4 imperatori: questo perché il principe poteva essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si basava principalmente sull'appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti.
T. scrive a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di quell'anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l'ascesa al potere di Traiano. E' stato notato un certo parallelismo tra questa e gli avvenimenti del 69:il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere, e come Galba aveva designato per "adozione" un suo successore. L'analogia però si ferma a questo punto: mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell'armata della Germania superiore.
Con il discorso di Galba in occasione dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare nella figura dell'imperatore il divario fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Solo l'adozione di una figura come quella di Traiano placò i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità. Come già detto, T. è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace e la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle "Historiae" sottolinea come dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si rivelò indispensabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Dovrà invece assommare in sé quelle qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Quindi per T. l'unica soluzione è nel principato moderato degli imperatori d'adozione.
Lo stile delle "Historiae" ha un ritmo vario e veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso T. sa conferire efficacia drammatica alle proprie opere suddividendo il racconto in più scene. Lo storico è molto bravo nella descrizione delle masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale.
Le "Historiae" raccontano per la maggior parte fatti di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che T. sappia tratteggiare in modo abile i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di Muciano o di Otone. Lo storico insiste sulla consapevolezza di questo personaggio della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una virtus inquieta, che all'inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte gloriosa. Nella sua descrizione T. si affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare movimento alla narrazione.
*"Annales": le radici del principato. Torna al sommario
Nemmeno nell'ultima fase della sua attività T. mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Egli, negli "Annales", intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Probabilmente T. intendeva la sua opera come un proseguimento di quella di Livio: in effetti il titolo presente nei manoscritti di T. ("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare quello liviano "Ab urbe condita".
Come accennato, degli "Annales" sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto (14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i libri XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio e di Nerone. Claudio è rappresentato come un imbelle che dopo la morte della prima moglie Messalina cade nelle mani del potente liberto Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio. Quindi è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza influenzato dalle figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro. Poi acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e ai spettacoli. Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre Seneca si ritira a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere il principe. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa.
Negli "Annales" T. sembra mantenere la tesi della necessità del principato: ma il suo orizzonte sembra essersi notevolmente incupito. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell'aristocrazia senatoria, anch'essa coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione. Scarsa simpatia lo storico presenta anche nei confronti di coloro l'opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. T. conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza. Tuttavia la parte sana dell'élite politica continua a dare il meglio di sé nel governo delle provincie e nella guida degli eserciti: l'opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio.
T. alla forte componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portarne alla luce le ambiguità e i chiaroscuri. Negli "Annales" si perfeziona ulteriormente la tecnica del ritratto: il vertice è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l'esempio più notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l'ignavia la fama che altri acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita contrasta con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza.
Nello stile degli "Annales" si assiste ad un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, una ricerca di straniamento che si esprime nel lessico arcaico e solenne. A partire dal libro XIII, invece, pare registrarsi un’involuzione verso modelli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo: forse il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una trattazione con minore di stanziamento solenne.
Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano meno eloquenti, più concisi e austeri. Si accentua il gusto della inconcinnitas, ottenuta soprattutto grazie alla variatio, cioè allineando un'espressione a un'altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata.

CONSIDERAZIONI.
*Come si vede, l’opera di T. è tutta sostenuta da un’esplicita e tesa passione etico-politica e alla partecipazione delle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo bilancio (soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza monarchica dal punto di vista di un’intellettuale, il quale benché proclami di voler fare storia in modo imparziale ("sine ira et studio"), esprime il punto di vista della "sana" opposizione senatoriale alla pratica imperiale (leitmotiv ne è l’inconciliabile tensione tra "libertas" e "principatus").
T. individua il "peccato originale" nella svolta anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata repubblicana, e denuncia le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza rifiutare totalmente l’istituzione – oramai necessaria per l’unità, l’ordine e la pace dell’Impero – del "principato".
La visione della storia è, infine, essenzialmente individualistica (tipica della storiografia antica), e fa discendere la dinamica degli eventi dalla personalità e dalle scelte dei "grandi".
*Ancora aperto è il "problema delle fonti" di T.. Alcuni punti sono comunque assodati: T. consultò la documentazione ufficiale ("acta senatus", più o meno i verbali delle sedute; "acta diurna", contenenti gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre a disposizione raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno "scrupolo" inusuale tra gli storici antichi.
Numerose anche le fonti storiche (Plinio, Vipsiano Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico…) e letterarie (epistolografia, memorialistica, libellistica ["Exitus illustrium virorum"]…).
Così, al mito dell’utilizzo di un’unica fonte (almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori), si è sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità di fonti, per giunta talune anche di opposta tendenza, e utilizzate con una certa libertà.


Gaio Svetonio Tranquillo
(Algeria o Roma, 70? – 14? ca d.C.)

VITA.
Nato da una famiglia dell'ordine equestre, rifiutò tuttavia la carriera di amministratore o di soldato riservata in genere ai "cavalieri". Uomo dedito agli studi, intimo amico di Plinio il Giovane, consacrò tutta la sua vita a ricerche erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone. La sua attività si limitò quasi interamente al genere biografico.
Grazie all'amicizia del prefetto del pretorio Setticio Claro (un amico di Plinio, sopravvissuto a quest'ultimo, che aveva continuato a proteggerlo), intorno al 120 S. riuscì tuttavia a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato della corrispondenza) nei servizi dell'imperatore Adriano. Ciò gli permise di accedere liberamente agli archivi del Palatino, per cui le sue informazioni ci hanno permesso di ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui, sarebbero andati completamente perduti. Nessun altro storico, infatti, poteva averne conoscenza. L'incarico di S. presso la corte non durò, tuttavia, molto a lungo. Nel 122, Adriano lo allontanò perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui fra gli altri, avevano instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente dell'imperatrice Sabina.

OPERE.
*S. compose un libro sugli uomini "illustri" della latinità ("De viris illustribus", dopo il 113) e una grande opera sulla "vita dei Cesari" ("De vita Caesarum", 121 d.C.), pervenutaci integralmente.
*Nella prima di queste opere, S. non limitava la propria indagine alla cerchia dei politici e dei militari. Un libro era dedicato agli oratori, un altro ai poeti, altri ancora ai grammatici, ai rètori, ai filosofi, eccetera. Di questo panorama così vasto a noi restano unicamente le notizie riguardanti grammatici e rètori, particolarmente preziose per la conoscenza dell'insegnamento a Roma e della sua storia. Degli altri "capitoli", disponiamo solo di notizie staccate. Quelle sugli scrittori furono utilizzate da san Gerolamo per la sua Cronaca, ed è quindi possibile, in una certa misura, ricostruirle.
In queste biografie erudite, S. si preoccupa fondamentalmente di raccogliere una documentazione, molto meno di controllarne e criticarne la validità. E’ un testimone (uno dei primi) della tradizione scolastica (noi diremmo universitaria) che si forma e si svilupperà, con variazioni diverse, durante tutta la parte finale dell'antichità e nel Medio Evo, ad es. nei commentari di Donato (su Virgilio e su Terenzio) alla fine del IV secolo, e in quelli di Servio (che visse intorno al 400 d.C.) su Virgilio.
*Qualunque possa essere l'importanza delle biografie composte da S. sugli scrittori, nella formazione della storia letteraria come genere, quella delle "Vite dei Cesari" è, ovviamente, di gran lunga più considerevole, giacché, per le parti ormai perdute degli "Annali" e delle "Storie" di Tacito, esse rappresentano una preziosa fonte sostitutiva. Le biografie degli imperatori (12, da Cesare a Domiziano) non sono opere storiche nel senso comune del termine. Della cronologia e della concatenazione degli avvenimenti esse tengono conto in modo molto approssimativo. Ogni fatto è, invece, classificato (pressappoco) in una categoria: infanzia, origine, carattere, ritratto fisico, ritratto intellettuale, attività militari, giochi offerti al popolo, eccetera. Anche in questo caso, la critica è quasi inesistente.
Altro vantaggio per noi delle "Vite dei Cesari" è il fatto che S. attinge notizie da opere ormai perdute degli storici dell'impero. Ciò permette di ritrovare una prospettiva più giusta sugli avvenimenti e sugli uomini che sono stati oggetto a volte di appassionata ammirazione e a volte di odio feroce.
*Il modello, per entrambe le opere, è quello delle biografie "alessandrine", per non parlare delle influenze formali più direttamente romane: gli "elogia" e le "laudationes funebres". Non solo.
Riguardo la seconda, si aggiunge la consapevolezza in S. che quella del genere biografico è la forma storiografica più idonea a dar conto della nuova forma che il potere ha assunto (quella individualistica, personale, del principato) e che la biografia dei singoli imperatori è la più adatta a fungere da criterio di periodizzazione della storia dell’Impero.
Così, nella tendenza – tanto deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo – ad insistere sulla vita privata degl’imperatori descrivendone eccessi ed intemperanze, sui particolari futili e scandalistici, si inclina oggi a vedere (anche) la manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell’intento di fornire un ritratto integrale del personaggio.
Ne risulta un tipo di storiografia "minore" (rispetto a quella "aristocratica" di Tacito) che attinge alle più varie fonti e che delinea anche, in qualche modo, i tratti del suo destinatario, che è l’ordine equestre, il punto di vista attraverso cui le singole vicende sono osservate e valutate.
*Riguardo allo stile, infine, è da dire che S. scrive senza prolissità e/o ricercatezze, con lingua chiara e semplice, e con un fraseggio rapido e vivace.


L. Anneo (o Giulio) Floro
(secc. I-II d.C.)

VITA E OPERE.
Originario dell'Africa, a somiglianza degli oratori greci della "seconda sofistica", ebbe un'attività di conferenziere itinerante nelle province. Uno dei temi da lui affrontato era la questione se "Virgilio era oratore o poeta", problema sul quale ci è stato conservato uno svolgimento redatto in forma di dialogo.
F. finì per stabilire a Roma la sua dimora, durante l'impero di Adriano, e nella città compose i suoi 2 libri "sulle guerre romane", comprente 7 secoli di storia militare romana, dalla fondazione dell’Urbe ad Augusto.
Sotto la vernice del presunto storico, traspare però l'atteggiamento del rètore: F. elogia più che raccontare. Questo conferenziere, sempre in cerca di brillanti amplificazioni, immagina di paragonare la vita del popolo romano a quella di un essere umano le cui differenti età si caratterizzano per una crescita, una maturità e una decadenza, salvo poi concludere, per trarsi d'impaccio, che la dinastia antonina aveva restituito a Roma la sua giovinezza.
Quest'opera puerile ci è stata conservata sotto il titolo, davvero improprio, di "Compendio di Tito Livio" ("Epitome Titi Livii").


Lucio (?) Apuleio
(Madaura, Algeria 125 ca – dopo il 170 d.C.)

VITA.
Di estrazione agiata, A. studiò a Cartagine, dove apprese le regole dell'eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi allo studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l'attraeva erano le dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: lo stoicismo, al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui Marco Aurelio sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della dottrina che allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo dire "teosofico"), impregnata di misticismo e addirittura di magia.
A. si fece iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano nell'Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside, culto dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza era di trovare il "segreto delle cose" e, al pari della sua eroina Psiche, si abbandonava a tutti i dèmoni della curiosità, avventurandosi fino alle frontiere del sacrilegio.
La strada del ritorno dalla Grecia all'Africa lo condusse attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica, dove lo attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). La madre di Ponziano, uno dei suoi compagni di studi ad Atene, rimasta vedova, desiderava riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti della nobildonna, adirati nel vedere compromessa l'eredità, intentarono un processo al "filosofo" straniero accusandolo di arti magiche. Gli imputavano di avere plagiato la loro congiunta, e lo tradussero davanti al governatore della provincia. Per difendersi, A. compose un'arringa scintillante di spirito, che ci è stata conservata col titolo di "Apologia" (158).

OPERE.
- "Apologia" o "De magia" (158), come detto versione successivamente rielaborata della propria, vittoriosa, orazione difensiva. E’ interessante paragonare questo genere di eloquenza, di discorso effettivamente pronunciato davanti a un tribunale, con quella dei "Florida" (antherà, "selezioni di fiori"), estratti di conferenze (23 brani oratori) tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma, antologizzati da un anonimo ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico.
- Tre opere filosofiche:
"De mundo", rifacimento – in chiave stoicheggiante – dell’omonimo trattato pseudoaristotelico;
"De Platone et eius domate", una sintesi della fisica e dell’etica di Platone, cui doveva seguire una logica ("Perì ermeneias"?);
"De deo Socratis", un opuscolo in cui A. esamina la demonologia di Socrate: sotto l’influsso delle filosofie orientali, i "demoni" (ovvero, divinità) diventano Angeli, o affini ad essi, per A., spiriti che fungono da intermediari tra gli dèi e gli uomini, e che presiedono a rivelazioni e presagi.
- "Metamorfosi" (denominato a volte "L'asino d'oro").

LE "METAMORFOSI". TRAMA E CONSIDERAZIONI. Torna al sommario
*Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, è forse l'adattamento (almeno nei primi 10) di uno scritto di Luciano di cui non siamo in possesso, ma del quale ci è pervenuto un plagio intitolato "Lucius o L'asino": si discute se A. abbia seguito il modello solo nella trama principale, o ne abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche tragiche ed erotiche. Le "Metamorfosi" gravitano comunque nella tradizione della "milesia", ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo, arricchito però dall’originale e determinante elemento magico.
Dunque, il magico si alterna con l’epico (nelle storie, vedremo, dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati ovviamente in un unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza rigoroso), che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella piena padronanza di diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale: e il tutto in una lingua, comunque, decisamente "letteraria".
*La storia narra di un giovane chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore), appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio vuole imitarla e, valendosi dell'aiuto di una servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l'antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia da soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti.
Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di "Amore e Psiche", narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l'avventura di Psiche, l'Anima, innamorata di Eros, dio del desiderio, uno dei grandi dèmoni dell'universo platonico, la quale possiede senza saperlo, nella notte della propria coscienza, il dio che lei ama, e che però smarrisce per curiosità, per ritrovarlo poi nel dolore di un'espiazione che le fa attraversare tutti gli "elementi" del mondo).
Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finchè – dopo altre peripezie – si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiagga di Cancree e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.
*L'ultima parte del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione mistica ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E’ evidente che è un'aggiunta di A., al pari della celebre "favola" di Amore e Psiche, che si trova inserita verso la metà dell'opera: centralità decisamente "programmatica", che fa della stessa quasi un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta decodificazione.
Ci si può chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare l'intenzione dell'autore. In realtà l'episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, ha un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo, interpretato specificamente ora come mito filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di iniziazione al culto iliaco, ora – ma meno efficacemente – come un mito cristiano.
Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’XI libro è certamente la conclusione religiosa. Il tutto farebbe delle "Metamorfosi", così, un vero e proprio romanzo "mistagogico".
Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione, ci offre una straordinaria descrizione delle province dell'impero al tempo degli Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto. Confrontato con quello di Petronio, dà la curiosa impressione che i personaggi vi siano osservati a maggiore distanza, come in un immenso affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse.


Poeti novelli
Nell’età dei rètori e dell’erudizione trionfante, la poesia sembra aver perso ormai ogni centralità culturale, o addirittura la de-finizione del proprio genere: essa emerge più che altro come un raffinato hobby delle classi elevate.
Si continua, invece, a praticare un genere di poesia minore e mistiforme, una sorta di via secondaria della poesia latina, con una sua continuità, cui appartengono i "poetae novelli", un vero e proprio "movimento", del sec. II, fiorito all’epoca di Adriano (egli stesso è pregevole verificatore, di gusto decadente).
Al gruppo appartengono:
Terenziano Mauro, "teorico" del gruppo, cui ha assegnato la definizione. E’ autore di un elaborato trattato di metrica – "De litteris syllabis et metri Horatii" – giuntoci solo in parte, in cui tra l’altro espone la tesi della scuola "derivazionistica" (e cioè: tutti i metri greci e latini non sarebbero altro che modificazioni di due strutture metriche fondamentali: l’esametro e il trimetro giambico).
Ammiano, autore dei "Carmina fallisca" (dal metro anomalo "falisco") e anche dei misteriosi "Fescennini".
Alfio Avito, che poetò sugli uomini illustri della storia di Roma.
Un certo Mariano, che compose dei "Lupercalia".
Settimio Severo, che cantò temi rurali e pastorali.
Il nuovo stile puntava a costruire moduli preziosi, e quasi lambiccanti, su temi semplici e anche futili, riducendo lo spessore dei sentimenti e dei concetti.
Comune è lo sperimentalismo metrico: si escogitano forme nuove (ad es., il falisco), oppure, sempre in segno di rottura rispetto ai grandi classici, si cantano temi tradizionali su metri inattesi e apparentemente impropri (abbiamo addirittura forme di metrica figurata).
Concorrevano a formare il loro gusto la tendenza arcaicizzante dell’età adrianea, i modi dei "neoteroi" previrgiliani e la poesia greca contemporanea.