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ROMA ARCAICA

ROMA ARCAICA - STORIA, FILOSOFIA E LETTERATURA

LA TRADIZIONE LETTERARIA Le narrazioni sulle fasi più antiche della storia di Roma vennero svolgendosi, nel quadro della storiografia romana, dalla fine del III secolo a.C. all’età augustea con un processo di continuo arricchimento, fino ad un punto di arrivo che per noi è rappresentato dalle opere letterariamente costruite ed atteggiate di Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso. Differenti negli intenti storiografici e politici ed anche nella tecnica compositiva e per taluni aspetti anche nell’uso di fonti e di documentazione precedenti, esse non pertanto rappresentano lo stadio finale di una lunga rielaborazione di molti e svariati materiali tradizionali che, al di là delle loro prime traduzioni in forma letteraria con Fabio Pittore e Cincio Alimento, rimontavano ad opere di storici greci, che in vario modo avevano considerato Roma ed il mondo italico: più indietro ancora esse si rifacevano a filoni di notizie trasmesse oralmente, o ricavate da documenti e da monumenti, notizie che talora non erano neppure di origine romana. Da tempo si è guadagnato il principio teorico, che può e deve diventare canone di metodo interpretativo, che studiare nelle sue varie fasi storiche il farsi di questo complesso patrimonio tradizionale, nelle sue varie motivazioni ed in rapporto al mutare delle circostanze, significa propriamente esaminare lo stesso svolgimento della storia di Roma, nei suoi aspetti politici, istituzionali, culturali. L’indagine deve procedere a ritroso, risalendo dal più conosciuto e dal più sicuro verso quanto è più incerto e più oscuro. Sembra molto probabile che l’età fra il IV e il III secolo a.C. possa essere indicata come quella che ha visto crearsi in forma abbastanza definitiva, nelle sue linee generali, la struttura, che diverrà poi tradizionale, della rappresentazione della storia di Roma arcaica. 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 14 Le due opere di Livio e di Dionigi presentano narrazioni dalle origini fino all’incendio gallico molto difformi per estensione e organizzazione dei materiali, che derivano dalle differenti premesse di metodo critico dei due autori, dal loro diverso programma storiografico e letterario; tuttavia entrambi hanno rielaborato in fondo lo stesso materiale offerto dall’annalistica romana (nelle sue pur distinte fasi di sviluppo) e ad entrambi è presente un’idea abbastanza simile della storia della città, del suo sviluppo, del suo quadro istituzionale. La molto maggiore ampiezza della narrazione dionisiana dipende essenzialmente dall’intento di fornire a lettori greci un’iniziale ricostruzione etnografica del popolo romano e poi dalla precisa volontà di offrire fin nei dettagli quello che si riteneva che avrebbe dovuto essere lo svolgersi effettivo di episodi storici, taluni considerati di valore epocale, alla ricerca di una verisimiglianza che nel pensiero dello storico greco finiva per divenire una sorta di verità inerente agli episodi stessi, al di là dell’aderenza alle evidenze reali offerte dalle testimonianze. È questo un processo storiografico erroneamente definito talora come retorico, anche per la larga presenza di discorsi collocati là dove l’episodio li doveva di necessità presumere (si deve prescindere naturalmente dall’ovvio impiego di strumenti retorici nell’attuazione di questo programma). Il procedimento risponde invece alla concezione, basilare, di un ripetersi della storia per la costante coerenza della natura umana. Già Tucidide da questo rilievo traeva la conclusione della validità anche pratica della sua opera per i politici del futuro, ma anche ne ricavava la possibilità, altrettanto pratica, di ripensare e di ricostruire il passato. Nel caso romano si aggiungeva la immaginata continuità istituzionale, con la conseguenza di una probabile e possibile ricostruzione del passato sull’esperienza della realtà del presente. Di qui non soltanto la possibilità di ritrovare nel passato problemi politici contemporanei, ma anche di immaginare lo stesso passato, e di ricostruirlo concretamente, in termini inevitabilmente attualizzanti e deformati, in quanto si applicavano modelli interpretativi ricavati dalla vicenda politica contemporanea. È innegabile che lo stesso “conflitto degli ordini” risente, nelle sue motivazioni e nei suoi modi di svolgimento, quali ci sono presentati nelle tarde opere storiche, di caratteri tratti dai contrasti politici del II e I secolo a.C. A fondamento di questa continuità e coerenza storiografica e politica stava la concezione di uno sviluppo lineare e “statale” della vicenda storica romana, che, al di là di Livio e di Dionigi, e di Cicerone, risale alle origini della storiografia romana e agli stessi ripensamenti Livio e Dionigi 1.3. Drammaturgia 15 strutturali che l’avevano preceduta. Sembra che vi sia un accordo generale nel ritenere che la prima storiografia romana sia sorta verso la fine del III secolo a.C. nel quadro e secondo i principi della storiografia “locale” greca, ma con intenti politici, dimostrati dallo stesso impiego iniziale della lingua greca, rivolti soprattutto al mondo magnogreco e siciliano e poi, più generalmente, greco, in vista di un accoglimento di Roma in una comunità culturale e politica riconosciuta superiore. Fabio Pittore non esitava a servirsi di fonti greche, e a citarle, per la stessa storia arcaica della sua patria. Questa esigenza di avvicinamento al mondo greco andò crescendo, anche a livello storiografico, pur con un cambiamento di tono, in concomitanza con l’espansione imperialistica romana, fino a quando, attenuatasi la necessità di autogiustificazione anche di fronte alle ricorrenti accuse di barbarità originaria, si verificò un deciso cambiamento. La storiografia romana dalla metà del II secolo, e anzi già con le Origines di Catone, pur conservando una particolare attenzione alle vicende delle origini e alla presenza in quella fase di fattori nobilitanti di grecità (mentre importavano molto meno quelli di una pur ammessa presenza etrusca), andò piuttosto rivolgendo i propri interessi ai problemi della politica interna della città, fino a divenire nel I secolo a.C. uno strumento nell’ambito di un più complesso scontro ideologico, il che favorì quel processo di attualizzazione della storia del passato, ora accennata e sul quale si avrà occasione di ritornare. Questo precisarsi e modificarsi di interessi politici legati al fatto storiografico ebbe significativi riflessi sulla stessa struttura narrativa delle opere storiche dalla fine del III secolo all’età augustea. Non è difficile immaginare che un processo analogo avesse subìto anche la formazione della tradizione storica nelle età precedenti, reso più complicato dal carattere prevalentemente orale della trasmissione delle notizie e della ricostruzione storica. Orbene la più antica annalistica è così descritta in un passo famoso di Dionigi, 1.6.2, che, parlando di Fabio Pittore e di Cincio Alimento, dice: «l’uno e l’altro di costoro, gli avvenimenti ai quali essi stessi parteciparono, narrarono con precisione per la conoscenza diretta che ne avevano, ma i fatti antichi, quelli accaduti posteriormente alla fondazione della città, li scorsero per sommi capi». Il passo si presta ad interpretazioni in parte divergenti a seconda che si intenda il termine ktisis, secondo esempi greci, con un valore più ampio che non la vera e propria “fondazione” della città, e comprendente il periodo Storiografia in lingua latina 1.1. La tradizione letteraria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 16 connesso alle origini (nel caso in questione, l’età regia), oppure con un significato più ristretto. In ogni caso l’evidenza fornita dai magri frammenti sopravvissuti conduce all’accordo su taluni punti. Vi è un certo carattere unitario della più antica storiografia romana, da Fabio Pittore a Catone, a Calpurnio Pisone (console nel 133 a.C.) e comune anche agli Annales di Ennio (un poema epico dalle origini della città agli inizi del II secolo a.C.): l’interesse prevalente degli autori per l’età contemporanea e per quella più prossima a questa (grosso modo a principiare dalle guerre sannitiche), e quindi una loro narrazione più ampia, sembrano essersi accompagnati ad una tradizione relativamente ricca per il periodo delle origini e per l’età regia. Per contro i racconti tradizionali, che per la fase di trapasso dalla monarchia alla repubblica sono caratterizzati da un tono particolarmente ricco di fantasia e di colore, si presentano molto più scarni per il V secolo, ed anzi le notizie a disposizione degli storici sembrano ancora diminuire lungo la seconda metà del secolo. Questa disposizione non può essere casuale. In linea generale, si può pensare che per il periodo delle origini e anche per quello dei re vi sia stato già nella storiografia greca, dalla fine del IV secolo, un diretto interesse a richiamare la storia di Roma nell’alveo di quella greca; questo interesse è connesso direttamente con l’affacciarsi di Roma in Campania e in Magna Grecia. Il convergente interesse dei Romani in quella stessa direzione è testimoniato dall’accettazione supergiù in quello stesso periodo del mito di Enea, che tuttavia deve aver combattuto, o convissuto, per qualche tempo con quello di Odisseo. Le più antiche notizie, nel patrimonio mitico e leggendario greco, riconducibili direttamente o indirettamente a Roma, e meglio all’area laziale dove poi sarebbe sorta la città, sono legate alle tradizioni della colonizzazione greca in Occidente (Teogonia di Esiodo: prima metà VI sec.; Ellanico: fine V sec.). I riferimenti crebbero nel tempo: essi si inseriscono senza nessuna particolare rilevanza nella tipica rielaborazione etnografica greca relativa alle popolazioni barbare con le quali i coloni greci venivano in contatto. Queste notizie (alcune delle quali, più antiche, si riferiscono in realtà al mondo etrusco, col quale i greci avevano più strette relazioni) si collocano quindi all’interno di un processo culturale legato alla colonizzazione greca. La localizzazione in Occidente di miti greci, soprattutto connessi con la guerra di Troia e il ritorno degli eroi da essa, fu opera di mercanti e coloni greci e rappresentò per essi un fattore legittimante e nobilitante. Per questa via le popolazioni indigene a contatto con i greci recepirono e fecero propri miti e leggende Grecia e Roma 1.3. Drammaturgia 17 dei quali erano venuti a conoscenza e si creò quindi una sorta di patrimonio comune, nel quale non è facile riconoscere la parte spettante alle tradizioni locali. Si venne creando un complesso di tradizioni, genealogie e leggende per i popoli e le città dell’Occidente. In questo lungo e lento processo di localizzazione, ricezione e utilizzazione di miti Roma non ebbe per molto tempo nessun ruolo di speciale preminenza, tale da richiamare una particolare attenzione della storiografia greca. Non è chiaro né come né quando né per quali ragioni le origini romane vennero collegate con la fuga in Occidente di Enea e dei suoi Troiani. Sicuramente diverse furono, ad un certo momento, le intenzioni con le quali da parte greca fu proposto quel collegamento e quelle con le quali da parte romana la connessione fu accettata. L’accettazione certamente mirava a stringere sempre più i rapporti fra Roma e il mondo greco suditalico, e a sganciare Roma dagli Etruschi: siamo nel IV secolo. Nella seconda metà del secolo Roma è oramai presente in Campania. L’accoglimento del mito eneico creava problemi complicati di cronologia e fu necessario colmare lo iato fra l’arrivo di Enea e la “fondazione” della città con la serie dei re Albani, i quali sono già noti alla storiografia greca prima di Fabio Pittore. Ancora più singolare deve essere considerato l’accoglimento in Roma della leggenda di Romolo e Remo, probabilmente di origine locale, ma rielaborata anch’essa nel IV secolo, forse in connessione con eventi politici contemporanei. È molto importante che questo mito dei gemelli, ricco di aspetti non precisamente positivi, sia stato abbastanza rapidamente accettato anche come patrimonio popolare (si è pensato come tramite alle manifestazioni teatrali in occasione dei ludi). Quando, di fronte all’incredibile avanzata dei Romani, popolazione semibarbara, in Italia e nel Mediterraneo, con le vittorie su Pirro e su Cartagine, il mondo greco cominciò seriamente, con Timeo, ad interessarsi a Roma, l’attenzione si rivolse, più che alla storia arcaica della città, alle sue istituzioni politiche e militari, nelle quali presto si riconobbe una delle ragioni della superiorità romana; questa attenzione si concluse con il VI libro delle Storie di Polibio. Vanno fatte alcune precisazioni. Connessioni di Roma con l’ambito suditalico risalivano già con sicurezza agli inizi del V secolo (introduzione del culto di Ceres, Liber e Libera), e dovevano essere propriamente ben attestate anche sul piano documentario, per esempio a Cuma. Inoltre, se si accetta l’idea che Fabio Pittore avesse davanti a sé una tradizione già ampiamente elaborata e ricca di elementi greci, o suggeriti da storici greci (da ultimo da Timeo), non si deve affatto 1.1. La tradizione letteraria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 18 credere che questa tradizione non abbia a sua volta valorizzato elementi antichi, trasmessi tradizionalmente nello stesso ambito romano, che puntavano nella stessa direzione: basti pensare alle antiche, variegate versioni sulla storia di Demarato e di Tarquinio. Ad ogni modo va ribadito con forza da un punto di vista metodologico che la presenza, messa in chiara evidenza dalla più recente ricerca archeologica, di reperti greci a Roma per i secoli VII e VI, come anche il possibile rapporto comparativo di monumenti greci e romani, e pur l’altrettanto probabile derivazione greca di vocaboli latini, rappresentano dati documentari non comparabili con quelli offerti dalla tradizione letteraria e quindi, in definitiva, da non chiamare in supporto all’attendibilità della medesima. Le teorie della presenza di componenti greche nella tradizione storica di Roma arcaica hanno origini differenti di carattere ideologico e politico ed approderanno alla fine alla suggestiva proposta di Dionigi di un’originaria grecità dei Romani e quindi ben anteriore alla penetrazione culturale greca nell’età successiva alla guerra annibalica. Quella teoria, anche se talora elaborata su materiali antiquari e con acuti ragionamenti antropologici e comparatistici, rispondeva ad una precisa esigenza politico-culturale contemporanea dello storico ed era stata costruita per questa funzione. La più tarda rielaborazione annalistica dei racconti sui re ha accentuato e arricchito anche questi anteriori elementi di ascendenza greca. Basti citare i tratti caratteristici della propaganda antitirannica che si sono sovrapposti alla tradizione su Tarquinio il Superbo e si sono inseriti nella narrazione relativa a Spurio Cassio: essi nella versione dionisiana richiamano direttamente la pubblicistica greca su quel tema e le polemiche del I secolo a.C. a Roma. Anche la storia “politica” del V secolo è stata rifatta dall’annalistica del II e del I secolo fino a rendere difficile sceverare i pochi dati attendibili. Per esempio, tutta la problematica relativa alle contese sull’ager publicus è completamente anacronistica ed è esemplata sulle condizioni proprie dei secoli III e II. Dell’ager publicus, sia caso o meno, non vi è neppur cenno nelle Dodici Tavole per quanto ci è noto, e si può anzi aggiungere che tutto il problema agrario quale è delineato da Livio e da Dionigi dall’età di Romolo in avanti, nel quadro della società romana, si viene svolgendo con una lineare coerenza per fare da premessa a quelle che saranno le vere questioni agrarie, nate dopo le ampie acquisizioni di terra in Sabina agli inizi del III secolo. Il che non vuole naturalmente dire che si abbia a respingere la più che probabile spiegazione che nel conflitto fra patriziato e plebe entrassero Ricostruzioni dell’annalistica 1.3. Drammaturgia 19 anche aspetti sociali ed economici: soltanto che essi sono stati stravolti ed offuscati dall’attualizzazione operata nell’età della tarda repubblica. Come è stato anche di recente ribadito, spunti per lo studio della più antica società agraria romana e italica possiamo recuperarli dal calendario Numano. Il caso della legge delle Dodici Tavole pare ancor più emblematico. È indicativo che la nostra tradizione storico-letteraria non dica praticamente nulla dei contenuti della legge, che noi cerchiamo di ricostruire sulla base di citazioni e di riferimenti forniti dall’antiquaria e da testi giuridici, se si eccettuano qualche confronto in Dionigi con il testo delle presunte leggi regie e il divieto del connubium, mentre ci si dilunga sulla improbabile “storia esterna” dell’episodio. È più che legittimo in questo caso, non già negare la collocazione alla metà del V secolo della codificazione o la validità del testo trasmessoci (come torna oggi ad essere proposto), ma mettere in discussione il significato della legge intera intesa come esito di una pressione dal basso. L’esame comparativo condotto dall’Eder (nel volume edito dal Raaflaub: vd. Bibliografia) con codificazioni aristocratiche sembra suggerire piuttosto che la legge debba essere vista come prodotto della volontà di autoregolamentazione dei gruppi aristocratici e come fissazione di una situazione già in essere (il che fra l’altro è affermato da Dionigi). Anche le norme limitative del lusso funerario e del lutto riconducono alla monumentalizzazione dei sepolcri, tipico modo aristocratico di affermazione e di contrasto in società arcaiche. E non vi è alcuna ragione di pensare ad influenza di analoghe norme soloniane. Fra l’altro la tradizione di un’imitazione di leggi greche nelle Dodici Tavole, tramite un’ambasceria inviata ad Atene o in Magna Grecia o la collaborazione di Ermodoro, è con ogni probabilità tarda invenzione annalistica, con intento nobilitante. L’interpretazione “popolare” della legge si colloca notoriamente come conclusione di quella visione lineare e progressiva della storia politica di Roma. Un ragionamento non diverso va fatto a proposito delle ricostruzioni “costituzionali” di Romolo e di Servio Tullio, coerenti nella loro consequenziarietà, specialmente evidente nell’ampio discorso dionisiano. Ma le coincidenze con il testo ciceroniano del De re publica (del 52 a.C.) e in più la presenza in Dionigi, anche a livello verbale, di concezioni sociali e politiche derivate dalla Politica di Aristotele dimostrano che ci si muove nel quadro ideologico e politico postsillano. Naturalmente anche in questi casi la rielaborazione tardoannalistica ha potuto sfruttare, selezionandoli, elementi talora di molto più antica risalenza e attendibilità, riconducibili per esempio a 1.1. La tradizione letteraria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 20 Fabio Pittore, alcuni dei quali si intrecciarono anche a filoni storici non romani (etruschi, nel caso ben noto di Servio Tullio). Un ragionamento analogo può essere fatto anche a proposito di Numa Pompilio, alla cui caratterizzazione concorrono materiali già elaborati dalla storiografia magnogreca del IV secolo, e tendenti a prospettare una Roma dell’età regia socialmente e politicamente avanzata. L’idea di un discepolato di Numa presso Pitagora durò a lungo a Roma, anche quando oramai se ne era dimostrato l’anacronismo. L’interesse per questa remota acculturazione era comune alla Magna Grecia e a Roma. Questo ragionamento non deve assolutamente meravigliare. Si pensi al caso di Atene culturalmente tanto più progredita di Roma. Eppure alla fine del V secolo le conoscenze che si avevano di storia costituzionale di un passato non poi troppo remoto (l’età di Solone) erano, anche sul piano propriamente documentario, assolutamente carenti. Appunto l’opera politica e legislativa soloniana era scarsamente nota al punto che si poteva imbastire una storia politico-costituzionale della città secondo la prospettiva, ideologicamente costruita, di una progressiva democraticità da Teseo a Teramene: questa costruzione elaborata dalla pamphlettistica politica della fine del secolo V è passata tramite le Atthides nell’Athenaion Politeia aristotelica. Il caso romano è analogo. È possibile che si riesca a guadagnare questo primo risultato nel cammino a ritroso nella storia della tradizione storica su Roma arcaica. Il momento successivo all’entrata romana in Campania e fino alla guerra con Pirro pose su basi molto più ampie e complesse i rapporti fra Roma e la Magna Grecia, soprattutto nel senso di scambi culturali che possono anche essersi configurati come recezione in Roma di istituti giuridico-politici (si pensi alla civitas sine suffragio, vale a dire al riconoscimento della qualità di cittadino, ma senza il diritto di voto). Si è già detto come sia venuto crescendo l’interesse magnogreco per i romani, fino al tentativo di accaparramento pitagorico di Numa Pompilio. Ripetiamo che è fra IV e III secolo che viene accolto a Roma il collegamento delle origini cittadine con Enea, che diverrà presto strumento di politica interstatale. Anche la leggenda dei gemelli si consolida in quel tempo con apporti greci. Sarà infine Timeo a collocare Roma e la sua storia nel quadro della grecità di Occidente, anche sfruttando tradizioni anteriori, indigene e greche. È importantissimo notare che è agli inizi del III secolo che si venne precisando la tradizione sul ruolo di Bruto nella caduta della monarchia, come può dimostrare la risalenza a quella data della statua 1.3. Drammaturgia 21 capitolina. Intorno al 300 si data anche la lupa degli Ogulnii sul Palatino, e in generale sono da riportare alla stessa cronologia le statue dei re davanti al tempio di Giove Capitolino, indizio di un consolidamento della tradizione. Si possono agevolmente supporre motivazioni politiche che si collocano nel quadro delle grandi trasformazioni nella società romana e nello stato che si ebbero dalla seconda metà del IV secolo. Il precisarsi della tradizione storica con l’accentuazione degli elementi greci delle origini comportò verisimilmente una riduzione del ruolo dell’Etruria per quella stessa età e in quella della monarchia, proprio nel momento in cui gli Etruschi sostenevano fino a Sentino la principale opposizione alternativa all’egemonia di Roma. 1.2. I DATI DELL’ANTIQUARIA Sui modi nei quali la tradizione sia andata organizzandosi si può prospettare qualcosa di più che un’ipotesi. Alla base vi era già di sicuro quell’idea di uno svolgimento lineare e progressivo dello stato romano che si ritroverà poi sempre in seguito, anche se si ammetteva con Catone (secondo la citazione di Cicerone, De re publica, 2.2) uno sviluppo costituzionale con successivi apporti di generazioni; punto finale di arrivo sarà la “costituzione” di Romolo. L’idea di “statalità” sembrava acquisire concretezza con la proiezione nell’età regia di istituti politici e giuridici perché così acquistassero, con la vetustà, una maggiore legittimazione e avvalorassero l’idea di uno stato già precisamente organizzato fin dalle origini: si pensi a questo proposito anche al problema delle leges regiae (norme religiose e costituzionali che una tarda tradizione attribuiva ai re). Si aggiunga la teoria di una regolare fondazione della città, secondo il modello coloniario greco (poi messa in discussione da storici greci antiromani), e inoltre l’insistenza sul ruolo degli auspicia (vd. § 9.13) che, al di là delle interpretazioni e sistemazioni antiquarie ed augurali del I secolo a.C., rappresentavano concretamente l’importanza, nelle mani dei patrizi, della religione e dei riti tradizionali, in campo politico e la loro funzione storica fin dai principi. La stessa storificazione dei miti e delle origini sembra comportare consapevoli interventi di ordine religioso e politico. Questa delineazione complessa ed articolata dell’età regia veniva necessariamente a condizionare anche il momento del passaggio dal- 1.2. I dati dell’antiquaria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 22 la monarchia alla repubblica, nel senso che lo stacco poteva venire “riempito” con una teoria (solo in parte nuova), quella di una progressiva acquisizione di “libertà” fino al Decemvirato. Il criterio della “statalità”, inteso come metodo ricostruttivo della storia romana più antica, può prestarsi a suggestive nostre ricostruzioni di quella storia. Chi nel IV secolo ripensava la storia più antica della città e ne ricostruiva la tradizione avrà immaginato lo stato del VI e V secolo in termini non molto difformi da quelli del suo tempo, se pur su di una base territoriale più ridotta. Un punto pare, ad ogni modo, di particolare rilevanza: la pratica dell’assimilazione e dell’integrazione a tutti i livelli entro la cittadinanza romana propriamente esercitata dal IV secolo in poi permetteva agevolmente di immaginare una società altrettanto aperta nella Roma dell’età regia e protorepubblicana, e quindi di recuperare nel quadro lineare ed unitario componenti etniche di diversa provenienza con le relative tradizioni storiche. Anche quello che è per noi il fenomeno importantissimo di una mobilità, non soltanto delle élites, fra VI e V secolo nell’area etrusco- laziale, attestato anche da tradizioni non romane, veniva riportato nella cornice costituzionale di un apparato statale. Noi oggi insistiamo maggiormente su di un altro aspetto di questo processo di assimilazione, quello linguistico: pur significative presenze etrusche nella Roma dell’età regia e pur significativi e antichi contatti con il mondo greco (con la conseguenza di prestiti dal greco ben anteriori all’età ellenistica) non hanno mai portato a condizioni di bilinguismo, né scalfito il carattere latino della città. La tipicità romana di questa ricostruzione della tradizione secondo il criterio dello “stato” veniva a contrapporsi a differenti modi di intendere e di rappresentare la storia. Si pensi agli affreschi della Tomba François di Vulci (vd. § 2.1), come documento della storiografia etrusca nella seconda metà del IV secolo, relativo a fatti storici in diverso modo presenti anche nella tradizione romana. Pur considerando che il mezzo pittorico della trasmissione ha imposto certe regole, la ricostruzione ideologica antiromana di eventi storici comparati ad analoghi dell’età dell’epica greca (il che, fra l’altro, sembra dimostrare già avanzata l’equivalenza Troiani-Romani) appare sganciata da un contesto “statale” e collocata in un’atmosfera mitica e simbolica. Al di sotto della formazione della tradizione storica secondo il criterio della “statalità” operavano molto probabilmente, ad un livello profondo, parametri ricostruttivi di tipo ideologico-strutturale. Secondo le teorie recentemente riformulate da Enrico Campanile e da 1.3. Drammaturgia 23 Enrico Montanari, è possibile che la coerenza del quadro tradizionale sia anche dovuta alla continuità della presenza di un nucleo originario di elementi culturali indoeuropei, che naturalmente non può contenere dati storici attendibili, ma opera, ha operato, nel senso che i ricordi degli accadimenti sono riferiti ed inseriti in un «preciso sistema di valori, di usi e di esigenze». La mentalità indoeuropea deve essere concepita soltanto come specifico modo di analizzare il reale, di organizzare concettualmente la realtà. Questa mentalità sembra indubbiamente apparire tanto nella funzione della regalità e quindi nella rappresentazione della peculiare posizione sacrale dei re (specialmente dei primi tre re di Roma), quanto e più nell’organizzazione e nella comprensione del patrimonio religioso più antico inserito in una prospettiva storificata. Ne deriverebbe non già una garanzia di attendibilità per il discorso storico, ma una validità storica inerente al modo di presentazione degli accadimenti. In ogni caso questa tappa nella formazione della tradizione, verso la fine del IV e gli inizi del III secolo, deve aver visto una forte selezione dei dati storici trasmessi oralmente ed anche da fonti documentarie: selezione nel senso che anche molti materiali che sono a noi pervenuti per il tramite dell’antiquaria, e che quindi erano certamente già allora noti, non sono mai stati trasferiti a livello storiografico. Elementi preziosi di contenuto giuridico, economico, sociale, culturale dei secoli V e IV sono stati lasciati da canto dall’annalistica e prima d’essa dalla tradizione che ne fu alla base. Le ragioni di questa trascuranza possono essere varie; fondamentale la loro marginalità o estraneità al quadro politico lineare che si intendeva proporre. Ne deriva, sembra, una conseguenza di metodo di grande importanza. Noi non siamo legittimati ad inserire questo materiale nel racconto tradizionale, magari al posto di dati che possono apparire incongruenti. Essi devono essere trattati a parte: facciamo un esempio. Cicerone nel De legibus (2.45-53) introduce un’ampia, interessante discussione sulla successione dei culti domestici e sul passaggio dal diritto pontificale al diritto civile laico (vd. § 9.9). È evidente che Cicerone descrive consapevolmente delle differenti fasi nello svolgimento della società romana. Problemi di questo genere sono estranei alla tradizione storica trasmessa in forma letteraria. L’attenzione di quest’ultima privilegia accadimenti politico-militari e si incentra sul contrasto fra patriziato e plebe visto nelle sue manifestazioni esteriori; lo sviluppo di una società non faceva parte della narrazione degli accadimenti. Livio nel famoso capitolo iniziale del libro sesto si rendeva conto, Antiquaria 1.2. I dati dell’antiquaria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 24 anche se ricavava da altri l’osservazione, dell’oscurità, e quindi dell’incertitudine, della storia della città dalla fondazione all’incendio gallico. La spiegazione era indicata nella carenza di un tradizione letteraria risalente a quei tempi, sola custodia fedele del ricordo degli accadimenti, e nella distruzione dei commentari dei pontefici e di altri monumenta pubblici e privati avvenuta durante l’incendio gallico della città. Senza tornare ad analizzare questo testo, non si può però non notare che la prima osservazione avrebbe dovuto mettere in guardia Livio sulla validità e sulla attendibilità di larghi squarci narrativi che egli tuttavia riporta. Anche in seguito Livio, per esempio a proposito della seconda sannitica (8.40), riferisce talora incertezze topografiche e cronologiche e sa di possibili falsificazioni dovute alle vanterie nobiliari, ma non sembra aver nessun dubbio sulla storicità della complicata e complessa tradizione sull’episodio delle Forche Caudine, che egli riporta per esteso, e che in questa forma è evidentemente molto tarda. Né si comprende come egli intendesse che la documentazione pontificale, e altra conservata in pubblico e in privato, potesse servire a rimpolpare e a chiarire quelle fasi oscure della storia della città. In età augustea erano a disposizione gli Annales Maximi, in 80 libri, che contenevano la stesura delle annotazioni che il pontefice massimo veniva registrando nel corso dell’anno sulla tabula dealbata esposta al pubblico sulle pareti della sua residenza, la Regia. Le annotazioni, accanto ai nomi dei magistrati, dovevano essere prevalentemente di carattere pratico e sacrale, ma vi saranno stati registrati anche avvenimenti importanti. La ricopiatura nei commentari avrà assunto una qualche forma letteraria. Si ritiene di norma che gli Annales Maximi siano stati pubblicati verso il 130 a.C., durante il pontificato di P. Mucio Scevola, ma altri pensano invece ad una edizione proprio di età augustea ad opera dell’erudito Verrio Flacco. Sarebbe molto importante sapere a quando risalivano le registrazioni pontificali: difficilmente ad un’età anteriore all’incendio gallico, sebbene non si possa escludere che dopo quell’evento i pontefici abbiano cercato di ricostruire la documentazione andata distrutta; certamente ad un certo momento venne premessa una sorta di introduzione, relativa alle origini della città e all’età monarchica, che risentiva di chiara influenza greca. Ad ogni modo, per quel che si può arguire dalle rare citazioni, gli Annali dei pontefici non dovrebbero aver avuto molto peso sulla storiografia annalistica, se non, appunto, sull’impianto annuale della stessa. Lo schema di questa narrazione era dato dalla lista dei magistrati annuali eponimi, i Fasti Consolari. Questa li- Annales Maximi Fasti Consolari 1.3. Drammaturgia 25 sta, che noi ricostruiamo appunto dalla tradizione letteraria e dalla copia fatta incidere da Augusto, è stata riconosciuta sostanzialmente sicura nella sua autenticità con l’eccezione dei primi collegi all’inizio della repubblica. Essa è un documento di valore eccezionale per la storia più antica della città. Ma per tornare alla già ricordata riflessione liviana a 6.1, essa è anche erronea. Lo storico non si è accorto che al fondamento dei dati su certi avvenimenti stava un’inferenza legata alle dediche di molti templi (dunque un materiale epigrafico), dei quali dovevano essere conosciute la datazione e l’occasione: di qui era stato possibile risalire al fatto che era stato all’origine della costruzione. Questo stesso ragionamento può valere per altre grandi opere pubbliche, alcune delle quali venivano rinviate, non senza ragione, all’età regia e devono aver contribuito a dare all’azione di alcuni re una precisa connotazione. Altri dati erano forniti dalla trasmissione orale. Il problema dell’autenticità di questi dati si pone in modo diverso. Ottime indagini recenti consentono importanti precisazioni. I quesiti principali paiono essere i seguenti: chi trasmette e che cosa viene trasmesso e per quale scopo; e poi quanto è passato dalla trasmissione orale, tramite un filtro selezionatore, nella ricostruzione storica. Le tradizioni orali sono molteplici a seconda degli usi e del milieu sociale che le conserva, le elabora e le trasmette: le tradizioni gentilizie sono molto differenti da quelle appartenenti agli strati popolari. Formule e materiali giuridici e contenuti legislativi (a cominciare dallo stesso testo della legge delle Dodici Tavole) hanno avuto un loro impiego e una loro vita indipendente, estranea alla tradizione storica vera e propria (valga qui l’esempio del passo ciceroniano; per la fase orale della giurisprudenza romana pontificale si può rinviare all’opera di Aldo Schiavone su giuristi e nobili: vd. Bibliografia). Un buon numero di dati relativi a fatti storici devono essere stati trasmessi nell’ambito delle famiglie nobili; essi possono essere stati connessi alla lista dei consoli e quindi ad una cronologia abbastanza sicura. Il pericolo della deformazione non è da sottovalutare, come già sapevano gli antichi, ma va anche considerato che la trasmissione avveniva sotto il controllo del gruppo sociale. La costruzione di ascendenze regali sarà stata almeno in parte un fatto pertinente alla gens, ma abbastanza generalmente accettato se è poi potuto penetrare nella tradizione annalistica già per tempo. Tali ascendenze presuppongono già esistente un patrimonio di notizie sui re ed avranno, per altro, anche contribuito ad accrescerlo. Dati relativi alla religione e ai riti si potevano appoggiare alla sor- 1.2. I dati dell’antiquaria 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica 26 vegliata continuità della ripetizione ed anche a documentazione templare, e la loro trasmissione era certamente vincolata e meno deformabile. La loro incidenza sulla formazione della tradizione non è da sottovalutare, dato che quel processo di formazione è certamente avvenuto ad opera di senatori e pontefici. Possono forse sembrare più dubbie le nozioni relative ad istituti politici e a procedure costituzionali per la tendenza, che sarà già stata in atto nel V e IV secolo, a spostarli all’indietro nel tempo e a concentrarli in certi periodi. Monumenti, statue, anche iscrizioni, toponimi, dei quali si era anche in parte perso il ricordo delle origini e delle cause, devono aver alimentato interpretazioni e tradizioni leggendarie, anche a livello popolare, collocate però in momenti storici che si pensavano precisi. Infine, al momento fra IV e III secolo nei quali tutti questi svariati materiali furono selezionati per entrare a formare il corpo storico, che sarebbe poi stato trasmesso alla prima annalistica, sarà stato agevole organizzarli anche tenendo conto di confronti con quanto si sapeva dello svolgimento storico e istituzionale di città greche ed etrusche. È probabile che si possano ricercare anche in questa situazione le origini di quella concezione di una koiné italica, che è divenuta, pur con molte varianti, per opera della moderna storiografia, uno dei canoni interpretativi della storia di Roma fra VII e V secolo, togliendola così dal suo isolamento lineare e consequenziale. Che un regime monarchico potesse assumere tono popolare e antiaristocratico, che talora finisse nella tirannide e che questa venisse rovesciata dall’aristocrazia, la quale a sua volta sarebbe venuta a contrasto con il popolo, rappresentava uno schema che, al di là della sua aderenza alla realtà romana, doveva essere ben conosciuto. Va comunque ribadito il concetto che filoni diversi di diversa documentazione debbono essere tenuti distinti nell’analisi e non comparati a sostegno vicendevole di notizie o di dati, o anche giustapposti o semplicemente inseriti in un contesto non loro. È preferibile creare quadri disgiunti, elaborati con le oramai raffinate tecniche metodologiche per i differenti tipi di documentazione; soltanto allora sarà possibile e utile un confronto che non dovrà poi mai significare conciliazione ad ogni costo e ricostruzione unitaria. 2. L’età arcaica 34 2.2. LA ROMA DEI TARQUINII Un saggio memorabile di Giorgio Pasquali – La grande Roma dei Tarquinii, pubblicato nella «Nuova Antologia», 16 agosto 1936, pp. 405-416 – ha rappresentato un momento epocale nello svolgimento della ricerca moderna sulla Roma del VI secolo a.C., nell’età della monarchia etrusca. Come era inevitabile, la visione e l’interpretazione prospettate nell’articolo hanno suscitato, e continuano a suscitare, una serie infinita di discussioni; ed è singolare che il grado di assenso, molto più alto soprattutto in Italia che non il dissenso, non sia mai diminuito, sebbene alcuni degli argomenti principali portati dal Pasquali a sostegno della sua tesi siano oramai apparsi insostenibili. Questo favore permanente è in larga parte dipendente dalla diffusa teoria che l’indubbio amplissimo progresso di conoscenze legato alle scoperte archeologiche abbia portato ad una conferma sostanziale della tradizione storico-letteraria. Non per niente l’enfasi sulla Grande Roma dei Tarquinii è stata accentuata da ricche mostre archeologiche. Si pone, in questo caso e in primo luogo, un delicato problema epistemologico sulla possibilità di comparare serie documentarie diverse, lontane nel tempo e da affrontarsi con metodologie proprie. Il criterio stesso della conferma è in se stesso equivoco. In realtà il rischio di cadere e la frequentissima caduta in un ragionamento circolare vizioso sono evidenti: dati della tradizione letteraria e conferme archeologiche si sorreggono a vicenda nel senso che prima il dato archeologico è valutato, implicitamente o esplicitamente, in un quadro generale offerto dalla tradizione letteraria; questa è poi “confermata” dall’evidenza archeologica così interpretata. Inoltre il dato archeologico viene spesso generalizzato e quindi enfatizzato. Ad ogni modo, senza rifare qui la storia dell’idea pasqualiana nei successivi sessant’anni (tanto più che essa è già stata esaminata da Ampolo con sostanziale approvazione, e da Kuhoff con un approccio nuovo al problema: vd. Bibliografia), è necessario ricordare che per il Pasquali la Roma della monarchia etrusca si presentava come città ampia e ricca, con spiccato carattere grecanico, nelle manifestazioni artistiche e culturali e nella stessa struttura politica di fondo, con carattere mercantile e attività industriose. A questa fase alta sarebbe seguita alla fine del VI e all’inizio del V secolo una generale decadenza, durata a lungo, inevitabile conseguenza proprio della caduta della monarchia etrusca. Nel complesso quadro delineato entravano, come è stato detto, 1.3. Drammaturgia 35 taluni elementi di per sé non nuovi, altri frutto di recentissime indagini e non da tutti accettati, che venivano ripensati in modo unitario e apparentemente coerente. Come è affermato nella frase finale del saggio, il quadro portava nella propria unità la garanzia della propria verità. L’affermazione potrebbe mascherare un’intrinseca debolezza, appunto perché parecchi degli elementi del quadro erano già allora (e tanto più lo sono ora) insicuri e, se presi di per sé, non indicativi. Nello stesso anno 1936 Giorgio Pasquali aveva pubblicato il volumetto Preistoria della poesia romana, nel quale sosteneva che la creazione del saturnio recitativo risaliva alla fase finale dell’età regia per diretta influenza greca, probabilmente da Cuma. La teoria di per sé non traeva seco di necessità implicazioni politiche, non più per esempio dell’adozione greca dell’alfabeto fenicio. Essa era inquadrata nella prospettiva di una vasta penetrazione culturale greca in Roma nel VI secolo, che era sorretta da altri elementi più decisamente sviluppati nell’articolo della «Nuova Antologia». Questi fattori congruenti erano: l’ampia presenza di frammenti di terracotte architettoniche, di ispirazione ionica, appartenenti verosimilmente ad edifici monumentali; resti di una muraglia probabilmente risalente all’età serviana, delimitante una vasta area urbana e il ricordo di templi riferiti alla fine dell’età regia e dedicati a divinità greche; la prosperità economica connessa ad un’attività di traffici commerciali, e specialmente del legname: essa era confermata dalla menzione di artigianati e mestieri (i collegia opificum venivano fatti risalire dalla tradizione al re Numa Pompilio); il latino era interpretato, di conseguenza, come un idioma più di ceto mercantile e artigiano che non rurale; l’ordinamento timocratico centuriato attribuito al re Servio Tullio (che avrebbe spezzato il dominio delle gentes e che presupponeva una società evoluta) era ritenuto ispirato dalle analoghe costituzioni greche, anche nei suoi aspetti militari: la falange oplitica sarebbe stata importata dalla Grecia. Il Pasquali accettava con entusiasmo l’interpretazione che Plinio Fraccaro dava dell’identità strutturale fra le centurie della fanteria pesante della legione romana e le centurie dei iuniores delle prime tre classi dell’ordinamento centuriato, ne condivideva la risalenza all’età serviana e quindi l’attribuzione all’inizio dell’età repubblicana, per la presenza di due consoli, del raddoppio dei quadri legionari con il dimezzamento degli organici. In questa prospettiva la presenza dell’elemento etrusco era decisamente minoritaria, malgrado il dominio esercitato da re etruschi. Tuttavia l’accoglimento della datazione polibiana del primo trattato romano-cartaginese al primo anno della repubblica (509 a.C.) 2.2. La Roma dei Tarquinii 2. L’età arcaica 36 induceva a ritenere che Cartagine avesse considerato Roma come una delle città etrusche con le quali, come sappiamo da Aristotele (Politica, 3.1280a.36), aveva stipulato trattati. Molte delle componenti questo quadro, con le relative argomentazioni, sono incertissime. Non discuto di proposito della risalenza al VI secolo della creazione del saturnio e di quanto attiene alla storia linguistica (è andata sempre più accentuandosi la ricerca di vocaboli di origine greca nel latino arcaico), in quanto non sembrano elementi essenziali per una interpretazione globale della Roma di VI secolo. I punti di forza sono altri. Il fattore archeologico fondamentale era rappresentato dalla preesistenza, rispetto al muro “serviano” di IV secolo, di una muraglia di VI secolo, la cui estensione permetteva calcoli sull’area urbana e sulla popolazione, e confronti con altre città contemporanee. Di fatto, come riconosce lo stesso Pallottino, di questo eventuale muro dell’età regia non si sa nulla. Dubbi molto forti sono stati avanzati, a ragione, anche a proposito di altri grandi manufatti e complessi edilizi, fatti risalire ai re etruschi, e che avrebbero dovuto fornire una prova archeologica per la tradizione annalistica (tempio di Giove Capitolino, cloaca maxima, circo massimo). Pare chiaro che le terracotte architettoniche, fra l’altro presenti in varie altre località laziali, non possano reggere da sole l’onere della dimostrazione richiesta all’evidenza archeologica. Un altro pilastro della costruzione del Pasquali era rappresentato dall’accoglimento delle teorie del Fraccaro su La storia dell’antichissimo esercito romano e l’età dell’ordinamento centuriato, che diedero luogo negli anni trenta ad un’accesa discussione, che è continuata, su di un tono più pacato, anche in seguito. Il problema coinvolgeva aspetti politico-costituzionali, militari ed economici, in quanto suggeriva una visione “modernizzante” della società romana. L’osservazione, o meglio la scoperta (come riconobbe il De Sanctis) del Fraccaro riguardava l’identità strutturale fra le 60 centurie delle fanterie di linea della legione romana e le centurie degli iuniores delle prime tre classi del cosiddetto ordinamento serviano (40+10+10 = 60). Anche le 25 centurie degli armati alla leggera dell’ordinamento serviano corrispondevano agli altrettanti veliti assegnati ad una legione (2400). La coincidenza sembra dimostrare che in un certo momento storico le classi serviane formavano la legione, l’intero esercito romano, di circa 6000 opliti (100 per centuria). Era stata evidentemente superata la fase anteriore “romulea” dei 3000 armati forniti dalle tre tribù genetiche, e dei 300 cavalieri. In età sicuramente storica una legione comprendeva una media di 50 uomini per centuria, vale a dire L’antichissimo esercito romano 1.3. Drammaturgia 37 un totale di circa 3000 fanti. E poiché ogni esercito constava di norma di due legioni, sembra naturale ricavare la conclusione che erano stati raddoppiati i quadri della singola legione precedente, per formarne due, e che era stato diviso fra le due legioni il contingente totale di 6000 fanti. Questo raddoppio era messo in relazione dal Fraccaro con l’istituzione dei due consoli all’inizio della repubblica, al posto del precedente unico comandante, il re o un suo delegato. Premessa e conseguenza del ragionamento del Fraccaro era la risalenza serviana dell’ordinamento serviano, quale ci è descritto dalla tradizione letteraria, anche se nella discussione con il De Sanctis, che seguì alla sua scoperta, egli riconobbe che l’ordinamento stesso, e quello della legione, potevano aver subito mutamenti e adattamenti nel tempo (per esempio la distinzione fra iuniores e seniores). Una spiegazione, ipotetica ma non priva di un certo grado di probabilità, è quella prospettata da vari studiosi, e fondata su di un passo di Catone riferito da Gellio (Noctes Atticae, 6.13), che l’originario ordinamento “serviano” comprendesse, accanto agli equites, la classis, forse non solo composta da uomini della prima classe di censo, corrispondente alla legione di 6000 fanti, e gli infra classem, cioè truppe armate alla leggera e anche non combattenti. I punti problematici restano parecchi, e in sostanza possono essere così formulati: quale possa essere l’eventuale risalenza di questo ordinamento con le sue implicazioni politiche e rispetto al quadro generale, sociale ed economico, che esso presuppone. Inoltre quali sono state le fasi di svolgimento attraverso le quali si sarebbe passati per arrivare allo schema finale dell’ordinamento centuriato, sia sul piano socio-economico, sia militare e politico. Che lo schema dell’ordinamento serviano a noi descritto dalla tradizione letteraria, cinque classi di censo e 193 centurie, pur prescindendo dai valori monetari che avrebbero contraddistinto le stesse classi, non possa risalire alla metà del VI secolo è ora abbastanza generalmente ammesso. Questa struttura presuppone una complessa articolazione della società e una consistenza di capacità economiche non ammissibile neppure per l’ultima età regia. L’idea di Roma nella fase dei re etruschi come di una città di sviluppate attività artigianali e commerciali era connessa anche all’accoglimento, pressoché acritico, dei dati tradizionali sulla risalenza al re Numa dei collegia opificum (passo fondamentale Plutarco, Numa, 17), e su una pretesa conferma archeologica di quei dati (che i collegia siano presupposti nelle Dodici tavole è infondato). Nessuno dubita, e anzi abbiamo spesso ripetuto, che Roma abbia avuto una sua centralità per i traffici connessi con il Tevere e il suo L’economia di Roma arcaica 2.2. La Roma dei Tarquinii 2. L’età arcaica 38 attraversamento, e che debba a questa sua posizione il ruolo rilevante che essa andò assumendo, ma la situazione economica della Roma etrusca era ancora legata all’agricoltura e dominata da gruppi gentilizi. In altri termini, come indica bene il caso ateniese, si può pensare per il VI (e il V) secolo, nel quadro di forme economiche premonetarie, ad una società gentilizia, che aveva al suo interno differenziazioni economiche, non ad una città politicamente organizzata su vari livelli di censo. In questo modo potevano venire valorizzate differenti capacità economiche ai fini della milizia, ma si era ben lontani da quella teorizzazione ideologizzata dell’ordinamento centuriato (capacità economiche-servizio militare-diritti politici), che ci offre l’immagine di un corpo civico globalmente e coerentemente integrato nello stato, e che non è se non l’interpretazione dell’esito finale di un processo storico svoltosi a lungo nel tempo. È stato da più parti rilevato che questo processo deve aver conosciuto un momento decisivo fra V e IV secolo, in relazione ad una precisa contingenza, quando durante l’assedio di Veio la tradizione colloca l’istituzione dello stipendium e del tributum (vd. più avanti). Sulla scia della tradizione annalistica si attribuisce di norma all’ordinamento serviano un preciso significato statale cittadino, con una valenza più propriamente “popolare” (sebbene nella storiografia antica sia presente anche quella opposta, sfruttata dalle valutazioni politico-ideologiche dell’età postgraccana). Ma anche sugli aspetti propriamente tecnico-militari dell’ordinamento serviano è necessario presentare delle precisazioni. L’ordinamento oplitico, con il suo tipico armamento, la tecnica del combattimento e soprattutto i suoi presupposti sociali ed economici, si andò sviluppando lentamente nel mondo greco dalla metà dell’VIII secolo, in una società di guerrieri aristocratici, senza nessun particolare riflesso politico, anche quando nel VII e VI secolo la struttura politica cittadina si andò allargando a più vasti strati di proprietari terrieri. Ancora alla metà del V secolo il «Vecchio Oligarca» (come viene spesso chiamato l’autore della pseudo-senofontea Costituzione degli Ateniesi) considera legittimamente gli opliti a fianco degli aristocratici e in opposizione al demos. Il modello greco degli opliti fu introdotto in Etruria, a quel che sembra, non prima della metà del VII secolo, lentamente e gradualmente fra quella data e la metà del VI secolo. Fu adottato da una società oligarchico-gentilizia senza che ne derivassero, per quel che si sa, mutamenti al suo interno e senza che si possa pensare ad una qualsiasi scansione timocratica, anche se, evidentemente, i militi saranno provenuti dalla classe subalterna, la Ordinamento oplitico 1.3. Drammaturgia 39 quale, tuttavia, nelle città etrusche di età classica non pervenne mai ad elevarsi a quella posizione cittadina e a quella coscienza civica che contraddistinsero, poi, l’esercito centuriato romano. D’altra parte è difficile poter determinare come si sia andata formando la peculiare struttura della società etrusca, caratterizzata da domini e da servi, non privi di una certa autonomia economica anche se politicamente dipendenti (oltre che da schiavi). Essa certamente non ebbe origine in situazioni confrontabili con il mondo greco, nel quale forme di servaggio furono l’effetto della sottomissione di popolazioni preesistenti a nuclei di conquistatori sopraggiunti dal di fuori. Almeno dal III secolo fu poi nell’interesse del governo romano mantenere il più possibile inalterato il tipico carattere della società delle città etrusche. Il sistema oplitico-falangitico con il relativo armamento passarono dall’Etruria a Roma fra il VI e il IV secolo: una precisa cronologia è naturalmente impossibile da determinare. La derivazione etrusca era riconosciuta dalla tradizione romana (Diodoro, 23.2; Ineditum Vaticanum, III), alla quale non interessava la remota risalenza ellenica. Anche se questa introduzione dovesse essere collocata nell’età della monarchia etrusca, non c’è nessun motivo per credere che essa abbia tratto con sé, immediatamente, una diversa struttura della società romana, e un differente valore politico. Si era pur sempre in un contesto gentilizio, e sarà più tardi che l’ordinamento serviano venne assumendo quel valore politico, che sarà proiettato all’indietro alle sue pretese origini. Ancora nei primi decenni del V secolo le armate gentilizie erano formate dai membri delle gentes e dai loro clienti. Il problema storico fondamentale sta proprio nel diverso sviluppo che, all’interno di una struttura comune alle città etrusche, ebbero in Roma le forze della classe subalterna (plebe). Ma Roma non era mai stata una città etrusca; era più aperta ad esperienze e influenze culturali esterne; era socialmente più vivace. La progressiva valorizzazione militare degli strati inferiori, necessaria per una politica di pur modesta espansione, e anche di difesa, portò con sé conseguenze politiche e istituzionali che mutarono l’intero impianto cittadino. La struttura statale andò acquistando consistenza e organicità; la stessa classe aristocratica dominante dovette darsi un’autoregolamentazione per mantenersi al potere. Se si accetta l’idea che lo schema dell’ordinamento centuriato “serviano” sia andato completandosi nelle sue cinque classi nel corso del V secolo, proprio riflettendo la sempre più vasta utilizzazione nella milizia di elementi inferiori cresciuti economicamente, si po- 2.2. La Roma dei Tarquinii 2. L’età arcaica 40 trebbe ipotizzare che la magistratura dei tribuni militum consulari potestate, che dal 444 al 367 a.C., in numero variabile da tre a otto, sostituirono in molti anni i consoli, potrebbe aver corrisposto ad aumenti della forza bilanciata romana. In tal caso potrebbe risalire alla fine del V – inizi del IV secolo il rapporto fra ordinamento serviano concluso e la struttura della legione individuato dal Fraccaro. In questo caso il raddoppio dei quadri della legione potrebbe essere riferito al ripristino definitivo dei due consoli, uno dei quali obbligatoriamente plebeo, nel 366 a.C. Dunque anche l’ordinamento serviano, del quale è anche discutibile la derivazione greca, non può avvalorare la ricostruzione della Roma regia proposta dal Pasquali, ed è significativo che l’Ampolo, nel suo ripensamento del lavoro pasqualiano, abbia praticamente lasciato cadere questo argomento. Resta, e certamente problema di non poco conto, il primo trattato fra Cartagine e Roma, che Polibio datava al 509 a.C., con tutte le sue implicazioni politiche, prima fra tutte il riconoscimento da parte di Cartagine di un controllo romano sulla costa tirrenica dalla foce del Tevere a Terracina. Per affermazione esplicita di Polibio la stessa clausola ricorreva anche nel secondo trattato, che viene normalmente riferito a circa centocinquant’anni dopo (Polibio, 3.22-23). La data del primo trattato è stata, ed è, oggetto di una discussione senza fine. Le difficoltà sono principalmente dovute al modo con il quale Polibio riporta, non propriamente il testo, ma il contenuto del trattato (lo stesso vale anche per il secondo), riferendolo in modo frazionato e intercalando commenti e spiegazioni proprie, che dimostrano la confusione e l’insicurezza, non soltanto dipendenti dalle difficoltà dell’arcaico linguaggio testuale, con le quali lo storico e i suoi esegeti romani avevano affrontato i documenti. Accogliendo la datazione al primo anno della repubblica avremmo un’altra prova dell’interesse di Cartagine a stringere rapporti con città etrusche della costa, per quanto il già ricordato passo di Aristotele che attesta condizioni di isopoliteia fra Cartagine e Etruschi (qualcosa di analogo è previsto anche nel finale del secondo trattato polibiano) non consenta una collocazione cronologica sicura. Le tavolette auree con iscrizioni fenicie e etrusche rinvenute a Pyrgi, porto di Caere, databili agli inizi del V secolo, e che contengono una dedica “bilingue”, da parte di chi in Caere deteneva il potere, alla divinità fenicia Astarte, confermano, non la datazione del trattato al 509, come si suole ripetere dai più, ma quei rapporti certamente di carattere mercantile. L’aspetto principale dei due trattati, non sempre te- Trattati romanocartaginesi 1.3. Drammaturgia 41 nuto nel debito conto nelle analisi critiche, è la profonda diseguaglianza fra i due contraenti, che spiega anche il dissimile carattere dei loro impegni. Roma è in netta condizione di inferiorità. Al di là di alcune clausole di apparente reciproca parità, sicuramente tralatice, le limitazioni nei movimenti marittimi imposte a Roma appaiono gravissime e senza contropartita. È chiaro che i Cartaginesi possono invece sbarcare militarmente nel Lazio e agirvi come meglio credono. In questa prospettiva, anche ammettendo che nel 509 Roma controllasse la costa laziale, o meglio si impegnasse anche a nome di località costiere, non si può certamente parlare di Roma come di una città potente. La Roma dei Tarquinii non era grande. E comunque la struttura urbana cittadina non era, anche in questo caso, conferma di stabilità politica. 2.3. Roma e i Latini 81 4.3. LE DINAMICHE ECONOMICHE E LA PRIMA MONETAZIONE Il primo esito economico delle guerre vittoriose fu la grandiosa espansione del territorio romano: si calcola che tra il 338 a.C. e il 264 a.C. passò da circa 5.500 a quasi 27.000 km2 e venne redistribuito attraverso la fondazione di colonie (ne vennero fondate una ventina nelle aree centromeridionali) e l’assegnazione di terre ai cittadini. Probabilmente già in questo periodo si poté assistere alla prima formazione della grande proprietà terriera, che tendeva ad espandersi a spese della piccola proprietà. Le leggi Liciniae Sextiae, che limitavano l’uso, cioè il possesso e non la proprietà, dell’ager publicus (vd. § 2.6) a 500 iugeri di terra (ca. 125 ha), sono più verosimili in questo periodo di grande espansione territoriale che non nella prima metà del IV secolo a.C., secondo la datazione tradizionale. Su queste grandi tenute agricole vennero impiegate sempre più intensamente le masse schiavili catturate in guerra, impostando rapporti di lavoro che in Italia domineranno per alcuni secoli. La città di Roma ricomiciò a ingrandirsi, a popolarsi, ad ornarsi di grandi templi e monumenti finanziati con il bottino di guerra e a divenire lo spazio urbano di alcune importanti attività artigianali. Il sarcofago di Scipione Barbato e la cosidetta Cista Ficoroni, un cofanetto di bronzo firmato dal suo artefice con il nome romano di Novius Plautius, sono tra gli esempi più noti di questo artigianato romano. Nell’ambito della produzione più di massa, la ceramica a vernice nera venne esportata non solo in Italia, ma anche in Gallia, Spagna, Sicilia e Africa cartaginese. Del resto Roma sarà sempre una città importatrice di grano e di beni alimentari, che deve in qualche modo ripagare con altri tipi di esportazione. L’allargarsi degli scambi rese oggettivamente necessario aumentare e qualificare i mezzi di scambio attraverso l’adozione della moneta, che era stata inventata in Grecia già attorno al VI secolo a.C. Venne superata l’antica forma di pagamento attraverso barre di rame indistinte e senza iconografia che valevano secondo il loro peso (aes grave). Si introdussero lingotti di rame fuso contraddistinti da immagini diverse: il maiale, l’elefante (dopo Pirro), l’ancora navale ... Il loro standard ponderale era definito intorno ai 1625 gr ed il loro va- Moneta 4.3. Le dinamiche economiche e la prima monetazione 4. La conquista dell’egemonia in Italia 82 lore nella circolazione e negli scambi doveva essere superiore a quello del loro peso: cominciava cioè la civiltà della moneta. Del resto, già dai primi anni del III secolo a.C. i Romani avevano cominciato ad imitare le monete della Magna Grecia, facendo coniare didracmi di argento con diverse raffigurazioni e legende. È difficile spiegare come potessero coesistere forme di pagamento così diverse come l’ancor primitivo aes signatum e le belle doppie dracme di tipo greco: probabilmente circolavano in aree diverse e differentemente evolute. Alla fine del secolo (tra il 214 e il 211 a.C.) i Romani introdussero un loro particolare sistema monetario che, attraverso innumerevoli evoluzioni, giungerà a dominare tutta l’ecumene. Il sistema originario che rapidamente si evolse a causa di una serie di riduzioni ponderali può essere così schematizzato. PESI Libbra di circa 325 grammi Oncia di 1/12 di libbra (ca. 28 gr.) Scrupolo di poco più di 1 gr. MONETA DI RAME Denominazione Peso Segno valore Immagine Immagine Diritto Rovescio Asse 12 once I Giano Prua nave Semiasse 6 once (1/2) S Giove » Triente 4 once (1/3) .... Minerva » Quadrante 3 once (1/4) ... Ercole » Sestante 2 once (1/6) ... Mercurio » Oncia 1 oncia (1/12) . Bellona » MONETA D’ARGENTO Denario: da un iniziale 1/72 di libbra passa a 1/84 e poi, con Nerone, a 1/96. Il suo segno di valore è inizialmente X (= 10 assi) e, dalla metà del secondo secolo a.C., diviene XVI, siglato in forma di asterisco X (= 16 assi). Quinario = 1/2 denario, sigla V Sesterzio = 1/4 di denario, sigla HS MONETA D’ORO Dopo tre emissioni tra il III e il II secolo le coniazioni vennero abbandonate fino a Silla e ripresero in grande stile solo con l’Impero e le sue ampie coniazioni di Aurei. Ma il denario di argento costituì a lungo il perno del sistema: era una moneta di circa 4 grammi dal valore di circa 4 dollari. Le coniazioni furono subito massicce e, a volte, ci è possibile calcolarle: nel- 83 l’89 a.C. vennero coniati più di 39 milioni di denari, soprattutto per pagare le spese belliche e le opere pubbliche. Originariamente il valore del metallo e quello della moneta erano molto vicini, ma era interesse dello stato divaricare il più possibile questi valori. Dal III secolo d.C. il valore del metallo divenne un’infima percentuale del valore attribuito forzosamente dallo stato alla moneta. Grande fu il guadagno per le casse dello stato, che poteva produrre moneta al costo di 1 e venderla virtualmente a 100. Ma l’artificio finanziario contribuì ad innescare un’inflazione vertiginosa, con un aumento incontenibile dei prezzi. Nel IV secolo d.C. il problema venne risolto tornando ad una moneta dal valore corrispondente al peso del metallo che la componeva (quindi una non-moneta). Questa volta il metallo sarà l’oro dal fascinoso colore giallo rilucente. La moneta si chiamerà solidus, da cui il nostro «soldo». 4.4. La frontiera settentrionale: i Galli e le prime colonie 8. L’ECONOMIA TRA LA FINE DELLA REPUBBLICA E L’IMPERO L’incessante successione di guerre civili, esterne, rivolte schiavili, pulizia dei mari contro i pirati, mutò apparentemente i connotati dell’economia romana. Ampi spazi si aprirono a fornitori degli eserciti, mercanti, banchieri, usurai, finanziatori di leaders politici in lotta. Il capitale finanziario sembrava assumere un ruolo emergente rispetto all’economia agraria fondamentale. Inoltre l’immanenza della guerra incideva sulla forma e distribuzione della ricchezza, sulla metamorfosi della struttura fondiaria, sull’articolarsi e il definitivo espandersi dei mercati su scala intercontinentale (Europa, Asia, Africa). L’ineludibile necessità di pagamento delle legioni accelerò i ritmi produttivi delle zecche, gonfiò i flussi finanziari aumentando la massa monetaria, ma concentrando la liquidità nelle scelte mani di persone che simultaneamente potevano essere banchieri, speculatori, appaltatori di opere pubbliche e rifornimenti per l’esercito. Mentre costoro potevano succhiare l’enorme liquidità messa in circolazione dallo Stato, i tradizionali rappresentanti della ricchezza terriera, assieme al popolo minuto, potevano contemporaneamente soffrire di carenza di mezzi di pagamento (inopia nummaria). Per questo si doveva ricorrere a banchieri-argentarii anche per acquisti e crediti di minima entità. Nel 92-91 a.C. si cercò – con la lex Papiria – di svalutare la moneta spicciola di rame al fine di aumentarne il volume, ma il cambio tra le monete divenne così instabile che si dovette stabilizzarlo d’imperio. Anche gli interventi sul problema dei debiti e dei tassi di interesse si moltiplicarono. In questo contesto assunse un ruolo emergente il capitale finanziario (o usuraio) che si accaparrava la liquidità, in un sistema in cui il ruolo delle banche è circoscritto e limitato da tecniche bancarie che lentamente si affineranno ma non giungeranno mai propriamente all’impiego di strumenti come l’assegno con girata. Paradigmatica è la figura di Rabirio Postumo. Figlio di un poten- 8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero 150 tissimo pubblicano, dominò il settore degli appalti pubblici, probabilmente ancora nel 46 a.C., quando Cesare lo incaricò dei rifornimenti della Sicilia. Prestò denaro a nazioni e re, come Tolemeo Aulete di Egitto. Nel 55 a.C. si fece nominare ministro delle finanze del regno di Egitto per recuperare i suoi crediti: un finanziere assume una figura istituzionale per salvaguardare i propri interessi. Non diversa appare la figura di Bruto, il tirannicida. Nel 56-50 a.C. aveva prestato enormi cifre alla città di Salamina di Cipro al tasso esorbitante del 48% annuo, facendosi convalidare l’operazione da ben due deliberazioni del senato e, davanti alla difficoltà nel riscuotere il credito, ottenne l’invio di alcuni squadroni di cavalleria per assediare la sede del senato di Salamina, nella quale cinque consiglieri morirono di fame. Il circuito zecca-esercito-lavori pubblici-appaltatori aveva polarizzato la ricchezza mobiliare nelle mani di un’oligarchia finanziaria che – come sempre sotto il sole – dopo avere prosciugato la liquidità, si trovava a sua volta in difficoltà a recuperare i crediti concessi a tassi di interesse così esorbitanti da dovere essere ridotti per legge. Tuttavia la politica monetaria dello stato sostenne attivamente una tale domanda di liquidità. La massa monetaria in circolazione si faceva enorme, anche se nei momenti di guerra aumentava il numero dei tesori monetari sotterrati e non recuperati, fenomeno che incise sulla liquidità contraendola sensibilmente. Noi ci possiamo approssimare al suo ordine di grandezza calcolando il numero dei conii impiegati e moltiplicandolo per il presumibile numero di monete che ogni conio può produrre: dagli anni 90 ai 50 a.C. circolarono più di 400 milioni di monete romane d’argento (oltre a quelle in oro e rame). Comunque i circuiti di circolazione di questa massa monetaria erano quelli imposti dalle esigenze di rifornimento ed equipaggiamento degli eserciti, così da determinare l’inaridimento monetario di intere regioni: è eloquente il fatto che, dopo che Pompeo ottenne il diritto di attingere alle risorse finanziarie dell’Asia per pagare la guerra asiatica e quella contro i pirati che infestavano i mari, il governatore della provincia di Ponto-Bitinia del 61-59 a.C., Papirio Carbone, abbia dovuto rimonetizzare la regione facendo funzionare ben otto zecche. 8.1. DALL’ECONOMIA DEL BOTTINO AL FISCO IMPERIALE Con l’esaurirsi dell’espansionismo militare non fu più possibile gestire le finanze dello stato con gli enormi bottini conquistati ai popoli 151 vinti. Si rese necessario coordinare un sistema fiscale e tributario che convogliasse un flusso regolare di risorse a Roma, da dove venivano redistribuite secondo le necessità imperiali. Se il tributo è un premio alla vittoria, deve dunque essere pagato dai popoli vinti. I cittadini romani, esentati dall’imposta patrimoniale dopo Pidna, pagavano solo il 5% sulla manomissione degli schiavi e sull’eredità, oltre alle imposte indirette (dazi, dogane, ...). Per gli altri abitanti dell’impero la categoria fiscale era quella dell’imposta inversamente proporzionale: la quota fiscale è più alta quanto più è basso lo status socio-giuridico. Ma il sistema non era omogeneo su scala imperiale. I conquistatori si limitarono ad ereditare e perfezionare le fiscalità precedenti, organizzate con particolare cura durante il periodo ellenistico. L’imposta più gravosa, quella fondiaria, veniva riscossa come 1% del valore monetario in Siria e Cilicia, mentre in altre province si pagava una sorta di decima sulla produzione. A queste imposte centrali se ne aggiungevano svariate altre, diverse da provincia e provincia: sull’artigianato (che in epoca tardo-antica comprese anche la prostituzione), sui cambi monetari, dazi, dogane, corvées, imposte del registro ... Rapidamente mutò il modo di riscossione: un severo controllo sugli appalti aveva nientificato i peccati speculativi dei pubblicani, che vennero sostituiti da burocrati o da persone fiscalmente vincolate alla riscossione (munera personalia). Nel giro di pochi decenni la morsa fiscale si fece più acuta: a metà del I secolo d.C. province come la Gallia e l’Egitto dovevano pagare un tributo circa dieci volte superiore a quello che inizialmente avevano dovuto pagare a Cesare e Augusto (Frank). È impossibile ricostruire l’entità delle entrate fiscali. Utilizzando fonti incerte e imprecise ed elaborando estrapolazioni statistiche si possono approssimativamente valutare queste entrate in 1,4 miliardi di sesterzi in epoca flavia e un PIL di 6 miliardi di sesterzi. Ma una buona parte di questa quota veniva impiegata per il mantenimento dell’esercito, che però spendeva i propri stipendi nelle diverse province dove era stanziato, attivando una domanda solvibile che sollecitava positivamente le economie locali. Veniva messo in moto così un processo di accentramento dei surplus estorti e di redistribuzione parziale degli stessi che induceva importanti dinamiche economiche. Un complesso meccanismo di redistribuzione permette di differenziare tra province importatrici di imposte e province che attraverso il fisco subivano un salasso di ricchezze. Le élites dominanti insediate a Roma non si limitavano a consumare risorse procurate at- 8.1. Dall’economia del bottino al fisco imperiale 8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero 152 traverso lo sfruttamento fiscale delle province, ma le ripartivano ad altre élites provinciali che divenivano protagoniste di una riuscita economica che permetteva di uscire da uno spazio periferico per divenire centri nuovi in espansione. È il caso della Gallia Belgica. Lo stanziamento permanente di consistenti forze armate romane la trasformò in un polo di attrazione di ricchezze e quindi di opportunità per i proprietari terrieri, prevalentemente Celti, che nel rifornimento degli eserciti romani trovarono il modo per ottimizzare i profitti. 8.2. IL MONDO DELLE MERCI Già da secoli l’economia romana aveva superato il limite di una produzione e di un commercio tesi quasi esclusivamente all’esigenza primaria dell’approvvigionamento alimentare, dentro un orizzonte dove l’acquisizione di oggetti preziosi e voluttuari presentava i preminenti connotati simbolici e di prestigio che caratterizzano una società antropologicamente primitiva. Ormai, malgrado le reiterate leggi contro il lusso, la domanda di beni sontuosi (marmi, opere d’arte, vestiti preziosi, cibi esotici, abitazioni alla greca, schiavi colti, ...) si costituiva come un circuito economico quantitativamente circoscritto alle élites, ma qualitativamente significativo a causa dell’alto valore aggiunto di queste merci provenienti dalle lontananze di ogni punto cardinale. L’economia del lusso delle classi agiate appariva simmetrica all’economia di sussistenza di larga parte della popolazione. Ovunque emergeva una borghesia municipale che – anche nei centri periferici come Aquileia – abitava case invidiabili ornate di mosaici ellenistici e che si concedeva il lusso raffinato di gemme, ambre del Baltico, vetri preziosi, ceramiche fini, ora importate dall’Oriente, ora di produzione locale, perché anche in Italia stava nascendo un artigianato, talvolta di dimensione manifatturiera, sempre più autonomo dal legame con l’agricoltura e aperto – ovviamente più al centro che alla periferia – alla suggestione dei nuovi gusti ellenistici. Strutturalmente la dimensione del commercio doveva essere ampia, sia per il trasporto delle tasse in natura, sia per la domanda della massa dei contadini che, pur ai limiti di sussistenza, domandavano vestiti, strumenti di lavoro e occasionali oggetti di lusso, almeno per le feste rituali e per i matrimoni. È stato valutato che, se il 10-15% della popolazione dell’Impero viveva in città, questo comportava un commercio di oltre un milione di tonnellate di grano (o equivalente) 153 solo se la popolazione urbana avesse consumato un minimo vitale di circa 220 chili di grano. Le carestie ricorrenti sollecitano questi flussi commerciali (vd. anche § 14.2). I rifornimenti all’esercito ne gonfiavano sensibilmente il volume: quattro legioni al consumo di un litro di vino giornaliero pro capite richiedono un commercio di settecentomila ettolitri l’anno. E nei momenti cruciali le legioni saranno alcune decine. Gli scambi si intrecciavano anche al di là delle frontiere romane. Già nel II secolo a.C. una fitta trama di traffici connetteva Roma con la Gallia meridionale. Il vino, di cui i Celti erano inesausti bevitori, costituiva una delle prime voci delle esportazioni italiche, tanto più che una norma protezionistica impediva ai transalpini di impiantare vigneti (Cicerone, De re publica, 3.9.16). I guadagni per i mercanti dovevano essere cospicui, ma ancora superiori erano le entrate doganali che allora potevano arrivare al 300% del prezzo del prodotto. Su tutto il mondo conquistato dilagavano i commercianti, anche i rappresentanti dei senatori, cui la lex Claudia del 219/218 a.C. pur interdiceva il grande commercio. Fin dall’inizio delle guerre mitridatiche i Greci in rivolta contro l’oppressione romana trucidarono migliaia di questi avventurosi commercianti. Se le cifre trádite di ottantamila o centocinquantamila italici uccisi sembrano, come al solito poco credibili, forniscono tuttavia un ordine di grandezza drammatico del fenomeno. Il porto franco di Delo diventò il centro ombelicale di questi scambi e si specializzò nel commercio – spesso gestito da ex-schiavi – di schiavi, venduti su quel mercato prevalentemente da pirati che avevano fatto razzie nelle città della costa asiatica. Se la cifra iperbolica fornita da Strabone (14.5.2) di decine di migliaia di schiavi venduti quotidianamente pare ancora una volta incredibile, tuttavia è certo che la probabile sede di questo mercato (l’agorà des Italiens) di uomini e donne poteva contenere fino a diciottomila persone. Gli schiavi erano del resto una delle merci più ricercate. In Roma stessa esisteva un mercato degli schiavi (venalicium: Cicerone, Orator, 232.6; equivalente allo statarion greco) situato nella zona dell’Aventino e gestito da commercianti specializzati, i magistri Capitolini. Ma i mercanti non si costringevano entro i limiti dell’impero. Già prima della conquista traianea (vd. § 12.6) la Dacia era percorsa da negotiatores alla ricerca di prodotti locali come il miele e il sale, ma soprattutto per acquistare schiavi per il cui pagamento veniva accettata la moneta romana d’argento, la quale godeva di un tale apprezzamento da dare origine a massicce imitazioni barbariche. Ma tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. i commerci italici segnarono un declino. 8.2. Il mondo delle merci 8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero 154 Un’analisi condotta sull’importante mercato di Ostia indica una rapida crescita delle importazioni dalla Spagna, Gallia e Africa. Simmetricamente la ceramica del tipo di Arezzo (dopo un grande successo sui mercati) cominciava a sparire dalle frontiere germaniche, mentre più tardi l’intera produzione ceramica italica sembrò soppiantata dalle officine galliche e africane. Con la fine delle guerre civili, il costituirsi dell’Impero e l’instaurarsi della pax augusta l’economia raggiunse una dimensione mondiale. «L’Europa è totalmente autonoma: possiede una massa inestinguibile di uomini per la guerra, per lavorare la terra, per amministrare le città. Un’altra delle sue superiorità sta nel fatto che produce i frutti migliori e necessari alla vita, oltre a tutti i minerali utili; importa dall’esterno solo profumi e pietre preziose la cui scarsezza o abbondanza non aggiunge niente al benessere della vita. Allo stesso modo l’Europa fornisce una grande abbondanza di animali, mentre sono scarse le bestie feroci» (Strabone, 2.5.26). Si era formata un’economia-mondo: dall’Europa e da tutto il mondo conquistato e pacificato giungevano a Roma, la metropoli-capitale, merci di ogni tipo, che ne ostentavano la ricchezza e il predominio. Difatti, come noterà Appiano, l’impero romano aveva esteso le proprie conquiste e i propri confini come mai nessun impero precedentemente. Nell’Oceano erano soggetti ai Romani la maggior parte dei Britanni. Superate le Colonne d’Ercole comandavano su tutte le isole e le terre del Mediterraneo: i Mauritani, i Numidi, i Libici, i Cirenaici, i Marmaridi, gli Alessandrini che abitavano la grande città fondata da Alessandro Magno, e tutto l’Egitto fino all’Etiopia erano soggetti a Roma. Più ad Oriente il dominio si estendeva su Siria, Palestina, parte dell’Arabia, fino a Palmira e al deserto che circonda il fiume Eufrate; comprendeva tutta l’Anatolia fino al Mar Nero e alle regioni nordiche della Mesia e della Tracia. Dentro lo stesso impero erano la Grecia, la Tessaglia, la Macedonia e l’Illiria, la Pannonia e l’Italia stessa con le sue popolazioni nordiche di Celti e le popolazioni celtiche della Gallia, fino ai Celtiberi di Spagna. I confini dell’Impero erano dunque segnati a sud da Mauretania ed Etiopia, ad est dalla Russia meridionale e in Europa dalla linea Reno-Danubio. Ma anche oltre questi confini numerosi popoli erano sotto il protettorato di Roma, che non li annetteva perché «poveri, senza profitto e inutili». Nella prefazione dell’ultimo libro, perduto, della sua Storia Romana Appiano avrebbe fornito una contabilità dettagliata delle entrate e delle uscite complessive. Questo tipo di unificazione politica di ampie regioni di Europa, Africa ed Asia non chiudeva però il mon- Economiamondo 155 do romano in se stesso. Le frontiere erano militarmente controllate, ma non impedivano sempre più intensi scambi con le più lontane terre oltre frontiera. Gli scambi attraverso il confine del fiume Reno con la Germania più orientale e fino alla Scandinavia (oggetti di vetro e metallici, monete e vino contro animali, sapone, carri e vestiti) furono intensi e contribuirono all’evoluzione di tipo feudale delle tribù germaniche. Dalle regioni baltiche l’ambra grezza raggiungeva via terra i centri di lavorazione specializzati come Aquileia ed Alessandria d’Egitto, da dove si diffondeva per tutto il Mediterraneo. Colonia alle foci del Reno divenne un centro di produzione vetraria, con esportazioni in tutto il nord-ovest europeo. Verso l’Africa gli enormi depositi di anfore attorno al porto di Alessandria e ancora al confine meridionale dell’Egitto (Kasr Ibrim) mostrano l’intensità dei rapporti con il regno di Meroe e con l’Etiopia. Nemmeno l’Estremo Oriente restò fuori da quest’orbita: Greco- Romani si insediarono in India, dove acquistavano avorio, stoffe preziose e spezie in cambio di monete d’oro e d’argento, mentre nel tardo impero gli scambi con lo Sri-Lanka avvenivano soprattutto attraverso monete di bronzo. Il commercio della seta cinese procedeva sia via terra, attraverso l’Afghanistan, sia passando in India e proseguendo via mare sino al Golfo Persico e al Mar Rosso. Fonti cinesi come gli Annali Han menzionano l’arrivo alla corte di un ambasciatore dell’imperatore Marco Aurelio, intenzionato a stabilire rapporti diretti con la Cina, evitando l’intermediazione della Persia. Secondo questo testo i Romani «sono onesti nelle loro transazioni e non fanno due prezzi ... Il bilancio si basa su un tesoro ben provvisto». Solo l’estremo confine occidentale, segnato dall’Oceano Atlantico, rimase insormontato (ma un accampamento romano è stato trovato anche in Irlanda). In tutte le altre direzioni l’immenso e spopolato spazio dell’impero fu solcato da una trama fitta di relazioni che lo posero al centro di un orizzonte mondiale. Sotto questa vivacità degli scambi agiva però il limite strutturale dei costi di trasporto, in particolare via terra. I rapporti di costo fra trasporto via mare, via fiume, via terra nell’impero romano sono (dato 1 il mare): 1:4,9:28. Gli stessi rapporti nelle zone impervie oltre la frontiera del Reno diventano: 1:5,9:62,5. Nell’Inghilterra del XV-XVI secolo abbiamo invece 1:4,7:22,6, con una sensibile riduzione dei costi di trasporto via-terra. Nel mondo romano accadeva così che molte merci a basso valore aggiunto raddoppiassero il prezzo nel giro di poco più di duecento chilometri, mentre in tutto il Trecento italiano il trasporto anche a lunga distanza di fustagni e panni avrà un’incidenza sul costo com- L’Oriente 8.2. Il mondo delle merci 8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero 156 plessivo tra l’8 e il 28%. Un’iscrizione in greco e in latino della prima età imperiale trovata in Turchia fornisce un’informazione ravvicinata sui problemi del trasporto via terra (Gara 1994, pp. 86-87). È una regolamentazione dell’impiego dei mezzi di trasporto nella zona di Sogolassus. Viene fissato un tariffario per tali mezzi di trasporto e si elencano le categorie di persone che ne potevano usufruire (militari, procuratori, senatori, ...). Ogni carro deve costare 10 assi (circa 2 dollari) all’ora, 4 assi un mulo, 2 un asino. Sono dati rilevanti: «due assi per un carico di 70- 80 kg (carico di un asino) per un’ora di percorso, [sono] una cifra non irrisoria, soprattutto considerando che il territorio di Sogolassus è montagnoso e la distanza coperta in un’ora non poteva essere rilevante » (Gara 1994). L’editto conferma dunque che il prezzo del trasporto non veniva calcolato in base al valore della merce (ad valorem), ma in base al peso: merci pesanti e a basso valore aggiunto venivano penalizzate rispetto a quelle più leggere e preziose. 1.3. Drammaturgia 255 9.15. LE ASSEMBLEE POPOLARI I Romani impiegavano tre parole per indicare un’assemblea legittima, con(ven)tio, comitia, concilium, che etimologicamente rinviano all’azione di venire, andare o chiamare a raccolta. La contio si tiene per «parlare al popolo senza sottoporre alcuna proposta al suo voto» (Gellio, 13.16.3). In ciò si distingue nettamente dalle altre due forme, che hanno funzione deliberativa (e delle quali sole, perciò, fa menzione una legge di fine II secolo, la lex Latina tabulae Bantinae, ed. Roman Statutes, nr. 7, lin. 5, nel disporre la perdita del diritto di voto a carico del trasgressore: «Qualunque magistrato terrà i comitia o il concilium, non gli consenta di esprimere il suffragio»). Lo scopo primario della contio era, quindi, la comunicazione al pubblico delle ordinanze magistratuali, che avevano perciò il nome di edicta, sebbene spesso la loro complessità ne imponesse la pubblicazione anche per iscritto. La contio, tuttavia, rappresentava anche la principale arena in cui si formavano gli orientamenti politici della massa urbana, specialmente a partire dall’età dei Gracchi, con una progressione che raggiunse l’apice con la tattica popolare di Publio Clodio Pulcro all’inizio degli anni cinquanta. Vi potevano avere luogo, infatti, anche veri e propri dibattiti, come, ad esempio, a favore (suasio) o contro (dissuasio) una proposta di legge da sottoporre ai comitia o al concilium. Tali dibattiti, per la verità, erano più simili a moderne conferenze stampa che alle assemblee greche, dominate dalla libertà di parola: «Tutti gli affari pubblici dei Greci sono amministrati dall’audacia di un’assemblea che siede per deliberare» 9.15. Le assemblee popolari Contio 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 256 (Cicerone, Pro Flacco, 16). La contio romana, infatti, era confinata politicamente in uno stretto spazio istituzionale, dominato dai tribunali, dai magistrati e dal senato (Cicerone, Pro Flacco, 57) ed era sottoposta a rigidi controlli nel suo svolgimento. Era «convocata da un magistrato o da un sacredote pubblico per mezzo di un araldo» (Festo, Pauli excerpta, p. 34.1 L.) e spettava al presidente concedere il permesso di parlare. Di fatto, ottenerlo era pressoché impensabile per chi non fosse attualmente un magistrato o non lo fosse stato. Basti dire che, nell’ultimo secolo della repubblica, sono stati contati solo cinque individui che salirono alla tribuna senza esserlo; è emblematico, inoltre, che un cittadino impegnato e oratore facondo come Cicerone non abbia preso la parola in una contio prima d’avere quarant’anni e la carica di pretore. Perciò a Roma, sebbene chi aspirasse a fare carriera politica dovesse essere un buon oratore, per parlare in una contio occorreva avere già fatto carriera. Ciò dimostra, ancora una volta, che l’avanzamento nelle magistrature dipendeva, innanzitutto, dall’estrazione familiare e l’arte della parola, piuttosto che nell’oratoria politica (riservata, semmai, ai dibattiti nel chiuso del senato), si esercitava soprattutto nelle arringhe giudiziarie, che rappresentavano, come s’è accennato, una delle strade maestre per dare prova di essere all’altezza degli antenati (§ 9.4). In definitiva, nella contio esponenti del gruppo dirigente si rivolgevano alla plebe urbana per sollecitare una qualche mobilitazione a sostegno delle proprie politiche: i limiti di quest’assemblea sono bene definiti dal frequente paragone di essa con i giochi e gli spettacoli gladiatori, come momenti di socializzazione. Comitium, al singolare, è parola che indica un luogo «così detto a coeundo, cioè “andare insieme”» (Festo, Pauli excerpta, p. 34.13 L.). A Roma è l’area nella quale si prolunga la parte settentrionale del Foro; la sua prima pavimentazione, che testimonia la definizione d’uno spazio politico, è assegnata agli anni intorno al 625 a.C. Al plurale, la parola è passata a designare l’assemblea. Fra i comitia, la forma più antica era quella dei comitia curiata, che risalgono all’età monarchica (Varrone, De lingua Latina, 5.32: «Comitium è così detto dal fatto che vi “andavano insieme” per i comitia curiata e per le liti»). Erano la riunione delle curiae, divisioni della popolazione che avevano probabilmente origine in aggregati parentelari addirittura precivici (la parola deriva forse da *coviriae, luoghi di riunione dei viri; cfr. osc. covehria). Le trenta curie dei tempi storici, i cui nomi erano in parte toponimi, in parte antroponimi, erano inquadrate per dieci nelle tre tribù genetico-territoriali dei Comitium e comitia Comitia curiata 1.3. Drammaturgia 257 Tities, Ramnes e Luceres, anch’esse radicate in organizzazioni preurbane (vd. § 2.1). Quando scrive Polibio, i comizi per curie sono un relitto d’altri tempi e, del resto, i loro compiti furono sempre disomogenei rispetto a quelli d’un’assemblea repubblicana. I comitia calata (sintagma che designa l’assemblea con riferimento al rito di convocazione, detto calare, che per le curie era affidato a littori, mentre per le centurie a sonatori di corno, come spiega il giurista Labeone presso Gellio, 15.27.2) assistevano per curie all’inaugurazione dei flamini e del rex sacrorum, figura quest’ultima nella quale si vedeva la continuazione del re nella sua veste di sacerdote; il rito si svolgeva in conformità alla decisione del collegio dei pontefici. Inoltre, arbitri ancora i pontefici, le curie deliberavano sull’adrogatio, cioè l’adozione di un pater familias da parte di un altro capofamiglia. Le curie emettevano, infine, una lex, detta appunto curiata, che era un atto d’investitura dei magistrati che seguiva l’elezione vera e propria effettuata nei comizi centuriati o tributi. Benché vi fosse una sicura relazione fra questa lex curiata e l’esercizio del comando militare (si sa, oltretutto, che i consoli interessati presiedevano a questo scopo essi stessi i comizi, cui assistevano gli àuguri), sembra tuttavia non fosse richiesta solo per le magistrature cum imperio, ma per tutte quelle «patrizie» – esclusi cioè, i tribuni e gli edili plebei (vd. § 9.13) – con la sola eccezione della censura (Cicerone, De lege agraria II, 26-27; Marco Messala, Liber de auspiciis, in Gellio, 13.15.4). L’estraneità dell’assemblea per curie al gioco politico e, al tempo stesso, il tenace attaccamento dei Romani alla tradizione sono segnalati dal fatto che la lex curiata, nella tarda repubblica, pur continuando a essere emanata, perché ritenuta indispensabile sotto il profilo degli auspicia, veniva votata dai trenta littori curiati in rappresentanza delle trenta curie. Per avere un quadro vivace delle assemblee nelle quali, invece, a quel tempo si svolgeva la partecipazione politica dei cittadini si può leggere il discorso che Livio, 39.15.11, attribuisce al console del 186 a.C. Spurio Postumio Albino. Deplorando le illegittime riunioni notturne degli adepti dei culti bacchici, in gran parte donne, il console affermava: «I vostri antenati vollero che neppure voi [ossia, i cittadini di sesso maschile] vi riuniste alla rinfusa e senza motivo, bensì solo quando, innalzato il vessillo sull’Arce, l’esercito fosse stato condotto fuori per i comitia oppure quando i tribuni avessero indetto un concilium per la plebe oppure uno dei magistrati avesse chiamato alla contio. E ovunque vi fosse un assembramento, ivi ritenevano dovesse esserci anche un capo legittimo della folla». Il testo, che appunto passa sotto silenzio i comitia curiata, allude, per così dire in ordi- 9.15. Le assemblee popolari 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 258 ne decrescente di solennità, ai comitia centuriata, al concilium plebis e alla contio (nell’ambito della quale Sp. Postumio teneva il suo discorso). S’è già osservato che quest’ultima si differenzia dalle prime due perché non ha funzione deliberativa. La differenza fra comitia e concilium, invece, sta nel fatto che i primi comprendono «il popolo al completo», «in ogni sua parte e in tutti i suoi ordini», il secondo «una parte», ossia la plebe; infatti, «non vi sono comprese le genti patrizie dei cittadini». La differenza è concettualmente netta, come precisano i giuristi Capitone e Lelio Felice con le parole appena riportate (Gellio, 10.20.5; 15.27.4) e come tale è rispettata, con poche eccezioni, anche nel lessico non specialistico: resta a ricordare, come una ferita mai rimarginata, i tempi della lotta fra gli ordini. Tuttavia, nell’epoca di cui discorriamo, ridottisi demograficamente i patrizi a un piccolo campione e, di conseguenza, divenuta di fatto quasi omogenea la composizione personale delle due forme assembleari, a tenerle distinte valevano molto di più i sistemi di voto che vi si praticavano. A essi – e all’iter legis, con le suasiones, le dissuasiones e la promulgatio – allude efficacemente un brano di Cicerone, il quale pure, come poi Livio, ne attribuisce l’ideazione agli antenati, personificando la natura tradizionale delle istituzioni romane: «Quei nostri concittadini pieni di saggezza e di virtù ... vollero che le delibere della plebe o i comandi del popolo fossero approvati o respinti solo dopo che fosse stata sciolta la contio, previa distribuzione delle unità di voto, avendo distinto per tribù e per centurie gli ordini, le classi, le età, dopo avere ascoltato pareri autorevoli e lasciata a lungo affissa in pubblico la proposta, perché se ne potesse prendere conoscenza» (Pro Flacco, 15). I comitia centuriata, come ricorda il discorso consolare immaginato da Livio, sono un’assemblea cui il popolo prende parte inquadrato militarmente (exercitus). Le unità di voto, come precisa per parte sua Cicerone, sono le centurie, che costituiscono anche le unità di base dell’ordinamento oplitico-falangitico (sostituite nel IV secolo dal manipolo: vd. § 3.5), le unità di leva (soppiantate nel III secolo dalle tribù) e i quadri di prelievo tributario (che fu sospeso nel 167 a.C.). A ricordare l’origine militare di questi comizi restava, fra l’altro, la terminologia, il rituale e il luogo di convocazione. Anche in funzione politica, l’exercitus era convocato al suono delle trombe militari, in un’area dedicata a Marte esterna al pomerio, cioè allo spazio inaugurato che circondava le mura cittadine e poneva termine all’auspicium urbanum. Nella forma più antica a noi conosciuta, che la tradizione attribui- Comitia centuriata Centurie Classi 1.3. Drammaturgia 259 sce al re Servio Tullio, ma che si perfezionò verosimilmente solo verso la fine del V secolo – a seguito dell’introduzione a Roma dall’Etruria della tattica oplitico-falangitica, che si compì probabilmente fra VI e V secolo, e in connessione con l’introduzione della legione di sessanta centurie (vd. § 2.2) – le centurie di fanteria erano distribuite in cinque classi di censo: ottanta nella prima, venti nella seconda, nella terza e nella quarta, trenta nella quinta. Entro ciascuna classe le centurie erano ripartite per età, in uguale numero, fra iuniores, cioè adulti atti alle campagne militari esterne e seniores, lasciati a difesa della città. L’attribuzione ad una certa classe di censo determinava anche l’armamento di cui ciascun fante si doveva provvedere, che andava dalla panòplia oplitica della prima classe (elmo, scudo, schinieri e corazza, tutti in bronzo, lancia e gladio) alle fionde e pietre della quinta (le centurie dei iuniores delle prime tre classi corrispondono, per numero e armamento, all’originaria legione unica di sessanta centurie di cento uomini). Quattro centurie aggiuntive erano destinate ai servizi non armati: due erano composte da falegnami e da fabbri (assegnati alle macchine da guerra) ed erano aggregate ai fini del voto alla prima o alla seconda classe, due da sonatori di tuba e sonatori di corno, aggregate alla quarta o alla quinta. Fra i cittadini più abbienti erano reclutate, invece, diciotto centurie di cavalieri, che militavano su cavalli forniti a spese pubbliche; altri cittadini dotati del medesimo censo equestre, ma non insigniti dell’equus publicus e, pertanto, iscritti nella prima classe di fanteria, potevano essere chiamati per esigenze belliche a integrare le file dei cavalieri, militando su cavalli acquistati e mantenuti a spese proprie. Completava il sistema un’ultima centuria, nella quale confluivano i cittadini che non raggiungevano la soglia patrimoniale minima ed erano perciò censiti solo in quanto persone (capite censi) ed erano esclusi anche dalla milizia di fanteria (ad essi attinse, invece, Mario: vd. § 7.1). Il totale è di centonovantatré centurie (Livio, 1.43.1-11; cfr. Dionigi, 4.16-18; 7.59). Nel corso del III sec. a.C. una riforma pose il sistema in relazione con le tribù territoriali, le quali, con l’istituzione della Quirina e della Velina, avevano raggiunto nel 241 a.C. il numero definitivo di trentacinque. I particolari di questa riforma sono oscuri (e sono stati solo di riflesso illuminati dalla lex Valeria Aurelia epigrafica, che riguarda i comizi d’età augustea e tiberiana: ed. Roman Statutes, nr. 37). Di certo sembra esserci solo che il numero delle centurie della prima classe fu ridotto a settanta, sì che, almeno entro di essa, ciascuna centuria di iuniores e ciascuna centuria di seniores veniva a essere collegata biunivocamente con una delle trentacinque tribù, tanto da 9.15. Le assemblee popolari Riforma del III sec. a.C. 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 260 poter essere chiamata «parte d’una tribù» (Cicerone, Pro Plancio, 49; vd. anche Livio, 24.7.12, del 215 a.C.). Come si è detto, il principio costitutivo di quest’ordinamento è quello censitario. È incerto se all’origine la sola forma di ricchezza stimata fosse quella immobiliare. In astratto, è possibile che si tenesse conto fin dall’origine anche della ricchezza mobiliare e in particolare (pre)monetaria, forme della quale affiorano già all’epoca cui la tradizione fa risalire l’introduzione del reclutamento su base censitaria, come attesta a livello numismatico l’aes signatum del tipo più antico, lingotti contrassegnati dall’emblema del «ramo secco». Tuttavia, a parte le illazioni che si possono trarre da termini come adsidui e proletari (§§ 2.1, 9.6), è significativo il rilievo che il criterio della proprietà immobiliare possiede ancora nei censimenti del II secolo a.C., come sembra ad esempio emergere da Livio, 45.15.2, relativo all’iscrizione dei libertini nelle tribù. Ad ogni modo, secondo un’interpretazione persuasiva, Livio, 1.43.2-7, consente di conoscere i limiti inferiori di censo per l’iscrizione nelle cinque classi in vigore nel III secolo, cioè, rispettivamente 10.000, 7.500, 5.000, 2.500 e 1.100 assi librali ridotti, di dieci once (limiti che Livio moltiplica per dieci, per tradurli nella moneta circolante nella tarda repubblica, l’asse unciale, 1/12 di libbra). Non si conoscono con sicurezza i successivi ritocchi subiti in conseguenza della riduzione del peso dell’asse a un sesto di libbra, verificatasi al tempo della guerra annibalica. Tuttavia, sembra che nel corso del II secolo la distanza fra la prima e la quinta classe si sia accentuata in termini reali, come riflesso normativo della forbice che s’apriva sempre più fra ricchi e poveri e, al tempo stesso, della proletarizzazione dell’esercito (cioè l’estensione del reclutamento ai ceti meno abbienti, cui si provvedeva abbassando la soglia d’ingresso nei proletari, nozione il cui significato tecnico resta peraltro discusso: vd. anche § 3.5). Quanto al censo equestre, in origine non sembra sia stato esplicitamente distinto da quello della prima classe, ma fu poi fissato in una somma pari a dieci volte tanto intorno al 150 a.C. Fino a quando fu mantenuta, la coincidenza fra i quadri di combattimento, di leva, tributari e di voto da una parte e la distribuzione in essi della cittadinanza in base alla ricchezza dall’altra facevano sì che la misura degli oneri militari e tributari e dei diritti politici spettanti a ciascun cittadino fosse funzione della ricchezza. Poiché da ogni centuria era reclutato un uguale numero di soldati e levato il medesimo tributo complessivo e poiché gli appartenenti alle singole centurie della prima classe erano meno numerosi di quelli delle altre, i più abbienti dovevano servire più spesso e pagare una quota d’im- Censo Proporzionalità di oneri e diritti politici 1.3. Drammaturgia 261 posta più elevata. Cicerone, De re publica, 2.40, afferma addirittura che una sola centuria delle classi inferiori alla prima conteneva quasi più individui dell’intera prima classe, anche se il riferimento cronologico a questa situazione è impreciso; per Dionigi, 4.18.2, la centuria dei capite censi era da sola più numerosa della somma delle restanti. La contropartita è la proporzionalità dei diritti politici. Poiché ogni centuria esprimeva un voto, determinato dalla maggioranza dei suffragi espressi al suo interno, il voto dato in una centuria meno affollata pesava più di quello dato in una centuria stipata. Inoltre, la maggioranza nei comizi centuriati era costituita da novantasette voti e, quindi, prima della riforma del III secolo a.C., poteva essere raggiunta con il voto compatto delle centurie dei cavalieri e della prima classe (novantotto in totale) e, dopo la riforma, con la semplice accessione di nove centurie delle altre classi. Inoltre, l’ordine di chiamata – almeno, dopo la riforma del III secolo – era congegnato in modo tale che una centuria della prima classe estratta a sorte votasse per prima (praerogativa) e il risultato fosse proclamato immediatamente, perché fungesse da autorevole indicazione di voto per tutte le altre. Cicerone notava che «una sola centuria praerogativa ha tanta autorità che non è mai capitato che un candidato sia riuscito il più votato da essa e non sia stato poi eletto console, in quegli stessi comizi o almeno in quell’anno» (Pro Plancio, 49). Può darsi che si riferisse a un superamento di questo privilegio Dionigi d’Alicarnasso, 4.21.3, quando parlava, per esperienza diretta, d’una trasformazione in senso democratico dei comizi, ottenuta senza alterarne la struttura, ma solo, appunto, modificando l’ordine di chiamata. L’ordinamento centuriato, nel suo riflesso politico, aveva dunque carattere spiccatamente timocratico, secondo una valutazione esplicitamente teorizzata nel I sec. a.C. (per la precisione, anche gerontocratico, perché, a paragone delle centurie dei iuniores, costituite da adulti fra i 17 e i 45 anni, quelle dei seniores, comprensive della fascia d’età fra i 46 e i 60 anni, erano naturalmente meno affollate), controbilanciato dai maggiori oneri militari e finanziari che gravavano sui più abbienti. Tuttavia, nel giudicare il sistema politico romano, non bisogna trascurare che, nel tempo, questa simmetria andò perduta, lasciando sul piatto della bilancia solo gli onori: la percezione del tributum, come s’è accennato, fu sospesa dal 167 a.C. e il principio del reclutamento censitario, dopo essere stato progressivamente eroso, fu abbandonato, anche se non abolito, nel 107 a.C. (vd. § 7.1). La struttura centuriata sopravvisse, tuttavia, nei comizi: Mario che arruolò i capite censi volontari, eludendo la leva basata sulle classi, fu 9.15. Le assemblee popolari Principio timocratico e gerontocratico 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 262 eletto console per cinque volte consecutive da comizi in cui continuava a vigere il principio timocratico. Nel concilium, l’assemblea della plebe, le unità di voto sono le tribù, vale a dire divisioni della popolazione in base al luogo ove si trovava la proprietà immobiliare o la residenza (sul numero e gli incrementi: vd. § 2.4). L’annalistica data al 471 a.C. l’istituzione del voto per tribù, riferendolo tuttavia apparentemente ai comitia, non al concilium. Ad ogni modo, in età meglio documentata, il concilium plebis svolse un ruolo cruciale nel conflitto fra gli ordini, assicurando il reclutamento dei tribuni e la formulazione delle politiche plebee. La definitiva conclusione del conflitto coincide con il riconoscimento della portata vincolante delle sue delibere per l’intero popolo, inclusi i patrizi, riconoscimento che, nonostante le incertezze della tradizione, non può essere stato anteriore alla fine del IV secolo e forse venne solo intorno al 287 a.C., dopo una secessione sul Gianicolo, con una lex Hortensia. Ciò che può ammettersi è che, anche prima di allora, i tribuni usassero i loro poteri per evitare che gli scita plebis restassero lettera morta. Per completare la panoramica delle assemblee romane, occorre accennare ai comitia tributa, assemblea deliberante di tutto il popolo organizzato per tribù. La loro storia è misteriosa (si ricordi la tradizione annalistica sulle sue origini nel 471 a.C.) e si è quindi addirittura dubitato della loro esistenza – essi, del resto, mancano anche nel quadro tracciato dal console Postumio nel suo discorso in Livio – e si è stati indotti pensare che si tratti d’una semplice mutazione del concilio plebeo, reso accessibile ai patrizi. Tuttavia, ciò sembra da escludere, considerato il formalismo dei Romani. D’altra parte, la difficoltà che talora si incontra a differenziarli dai comizi centuriati dipende dal fatto che, come s’è accennato, con la riforma del III secolo era stata istituita una connessione fra il sistema delle tribù e l’organizzazione centuriata, almeno nella prima classe, così che non è raro che talvolta nelle fonti s’incontri menzione delle tribù dove ci si aspetterebbero le centurie. Tuttavia, nonostante queste interferenze, un passo come questo di Cicerone, De legibus, 3.44: «Il popolo diviso per censo, ordini, età vota con maggiore riflessione di quello convocato in massa per tribù», rende certo che vi fosse una precisa differenza fra comitia centuriata e tributa e quindi questi ultimi siano da considerare un’assemblea generale dotata di un’autonoma identità. La contiguità fra le due forme comiziali, ma al tempo stesso la loro differenza, è testimoniata dalla disinvoltura con cui Cesare, nel 44 a.C., all’annuncio della morte di uno dei consoli, convertì nel giorno stesso del voto i comitia Concilium plebis Comitia tributa 1.3. Drammaturgia 263 tributa convocati in Campo Marzio per l’elezione dei questori nei comitia centuriata per eleggere un sostituto del console morto (Cicerone, Ad Familiares, 7.30.1: quel consul suffectus era destinato a restare in carica poche ore, essendo ormai passato il mezzogiorno dell’ultimo dell’anno; perciò Cicerone poté redigere un sarcastico rendiconto della sua magistratura, nello stile degli elogia, segnalando che, durante la carica di questo console, nessuno pranzò). È evidente – per passare ora a una comparazione delle varie forme – che l’equiparazione del plebiscitum alla lex e la convocazione a comizio del popolo per tribù, produssero, almeno a partire dal III secolo, una sia pur incompleta concorrenza fra i comitia centuriata da una parte e il concilium plebis e i comitia tributa dall’altra, in cui si praticavano, tuttavia, sistemi di voto divergenti. Un sistema topografico, quello del voto per tribù, entrava cioè in concorrenza con il sistema timocratico del voto per classi e centurie, in astratto minacciando la preponderanza dei ceti abbienti che quest’ultimo assicurava. La differenza fra i diversi meccanismi è ben presente, ad esempio, a Cicerone, nel passo del De legibus (3.44) citato poco sopra, dove contrappone il voto più «meditato» dei comizi centuriati a quello dei tributi (vd. anche Dionigi, 7.59). Tuttavia, la “minaccia” rappresentata dal voto per tribù non dev’essere enfatizzata. Da una parte, infatti, come s’è detto, alcune decisioni rimanevano formalmente attribuite ai comizi centuriati (prima di tutte, l’elezione dei magistrati più elevati) e, comunque, il potere di convocazione e di proposta alle varie assemblee era pur sempre nelle mani della magistratura, la quale – compresi i tribuni della plebe – era soggetta a vari vincoli, sia pure d’intensità diversa nella varie fasi storiche. D’altra parte, anche nell’organizzazione per tribù, come in quella per centurie, non tutti i voti avevano il medesimo peso. Il voto emesso dai cittadini iscritti nelle tribù rustiche contava più di quello emesso nelle urbane, che erano più affollate, come lo erano le centurie della classi inferiori rispetto a quelle della prima. Il maggiore affollamento dipendeva dall’obiettiva maggiore densità della popolazione urbana, ma anche dal fatto che i censori vi iscrivevano, a prescindere dalla loro sede, i liberti, i quali, intorno al 230 a.C., furono distribuiti nelle quattro tribù urbane, per essere poi, con poche eccezioni, concentrati addirittura in una sola da Tiberio Sempronio, padre dei Gracchi (i tentativi di redistribuirli nelle trentacinque tribù che furono compiuti nel I secolo a.C., da Publio Sulpicio Rufo a Clodio, non passarono o ebbero vita breve). Più in generale, i censori vi relegavano gli individui e i gruppi che volevano emarginare per il loro modo di vita, come, ad 9.15. Le assemblee popolari Confronto fra sistema centuriato e tributo 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 264 esempio, gli attori (esclusi quelli di atellanae). Perciò, il fulcro del concilium era comunque la classe dei contadini. Di fatto, poi, la partecipazione al voto nelle tribù rustiche doveva essere piuttosto bassa, se si considera la maggiore distanza dal luogo dell’assemblea rispetto alle urbane. Questo fa supporre che l’esito del voto fosse determinato dai proprietari che erano iscritti nelle tribù rustiche, ma risiedevano a Roma e da quanti potevano comunque permettersi di abbandonare la propria occupazione e recarsi più volte l’anno nell’urbe per esercitare il diritto di voto, cioè, ancora una volta, dai più abbienti. Delineata la struttura delle assemblee deliberanti, occorre precisare, riprendendo un tema già sfiorato, che comizi e concilio si riunivano e deliberavano esclusivamente per iniziativa di un magistrato che ne avesse il diritto. L’exercitus, ovviamente, era convocato a comizio da un magistrato cum imperio; lo stesso valeva per le tribù; il concilio plebeo era indetto da tribuni e edili della plebe; inoltre, il censore convocava l’exercitus centuriatus per procedere alla chiusura quinquennale del censimento e il questore, sporadicamente, per processi criminali, scopo per cui l’edile curule poteva convocare i comizi tributi. Il quadro essenziale delle competenze delle assemblee popolari è quello tracciato da Polibio, 6.14, che descriveva i vari atti da un punto di vista contenutistico, secondo un modello d’ascendenza greca (esaminato al § 9.12). I Romani riconducevano efficacemente l’insieme di questi atti a tre categorie, ossia «la creazione dei magistrati, i giudizi popolari, gli ordini e divieti» (Cicerone, De legibus, 3.10), l’ultima delle quali – «gli ordini e i divieti», ossia le leggi – raggruppa, quindi, una serie di decisioni assembleari che, in Polibio, sono invece enumerate distintamente. Fra le materie sulle quali il popolo era chiamato a pronunciarsi, ve n’erano alcune sulle quali era «signore», vale a dire erano di sua riserva. Secondo l’elencazione di Polibio, che trova nelle altre fonti conferme e precisazioni, interrogare il popolo era necessario per attribuire le cariche (Polibio, 6.14.4; Cicerone, De lege agraria II, 11; Pro Plancio, 11; Dionigi, 5.19; 6.66.2; 7.56.2), mettere a morte un cittadino (Polibio, 6.14.4, 6; cfr. Cicerone, Ad Atticum, 4.17: vd. § 9.16), richiamarlo da un giusto esilio (Livio, 5.46.11), conferire o togliere la cittadinanza (Livio, 26.33.10), munire o privare del diritto di voto (Livio, 38.36.8; 45.15.3), dichiarare guerra (Polibio, 6.14.10; Livio, 4.30; 38.45.6; Dionigi, 6.66.2; 7.56.2; Appiano, Bella civilia, 3.229), concludere la pace (Polibio, 6.14.10; Sallustio, Bellum Iugurthinum, 39.3; Cicerone, De officiis, 3.3; Livio, 9.5.1-6; 9.8.5; 9.9.4-19; Dionigi, Convocazione delle assemblee Competenze delle assemblee Materie riservate 1.3. Drammaturgia 265 6.66.2; 7.56.2) e ratificare le alleanze e i trattati (Polibio, 6.14.11, 15.9). Queste materie compongono un quadro coerente e facilmente riconoscibile. Vi si ritrova la città-stato con le sue caratteristiche fondamentali. I componenti del gruppo sono chiamati a dare il loro voto su questioni che riguardano l’esistenza fisica (condanna a morte) o politica del civis (cittadinanza, esilio, diritto di voto), l’attribuzione del potere (elezione dei magistrati), la guerra e la pace. Occorre, tuttavia, ricordare – ricollegandoci alla valutazione sostanziale del ruolo del popolo che già davano Polibio e Cicerone (vd. § 9.12) – che, in talune di queste materie, sebbene il voto dei cittadini fosse formalmente indispensabile, esso costituiva comunque l’ultimo elemento di un processo di decisione che aveva il suo fulcro altrove, in genere nel senato (vd. gli esempi al paragrafo precedente). A parte queste materie riservate al voto dei cittadini, ben prima che i populares vi si aggrappassero nella rincorsa al potere, si affermò l’idea che il popolo fosse la fonte ultima di legittimità e, pertanto, potesse intervenire in ogni decisione di rilievo politico, con la pretesa riconosciuta di prevalere sulle altre istituzioni (salvo, naturalmente, il parere del senato, che in taluni casi, come s’è ripetuto, era addirittura sentito come obbligatorio). Tuttavia, esaminando l’uso che di questo potere fu storicamente fatto, senza limitarsi cioè alle dichiarazioni astratte (per quanto importanti nel determinare lo statuto del civis, come s’avrà modo di osservare), si può misurare una notevole distanza fra l’ideologia e la realtà, nel senso che il principio della potestas omnium rerum attribuita al popolo, lungi dal dare adito a una trasformazione radicale delle istituzioni, fu per lo più utilizzato da esponenti della classe dirigente per alterare a proprio favore il corso normale dei processi decisionali oligarchici. Per sua natura, questo tipo di attività “strumentale” (o strumentalizzata) delle assemblee non è suscettibile d’una descrizione sistematica. Si può procedere per esempi: la provincia non attribuita dal senato poteva essere chiesta al popolo (minacciò di farlo Scipione nel 205 a.C. se non gli fosse stata affidata l’Africa); il trionfo negato dal senato poteva essere celebrato per plebiscito (come fece Gaio Flaminio nel 223; non a caso, Polibio, 2.21, vedeva in lui «l’iniziatore della politica demagogica »); il console poteva essere obbligato a nominare un dittatore indicato dal popolo; al concilium plebis poteva chiedersi che risolvesse un appalto aggiudicato dai censori; l’autorizzazione a nominare legati, di solito concessa dal senato – che attraverso questi incaricati di missione esercitava un certo controllo sull’operato dei magistrati in provincia – poteva essere data dal concilium. 9.15. Le assemblee popolari Prevalenza popolare 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 266 Stretta fra le decisioni che scandiscono i momenti essenziali e simbolici della vita cittadina da una parte e gli interventi strumentali dall’altra, ebbe storicamente poco spazio la legge, intesa, come la si intende nel moderno Stato legislativo, come norma generale ed astratta (vd. anche § 9.7, per il diritto privato). Tacito esprimeva perfettamente questa consapevolezza (Annales, 3.27.2): «Le leggi che seguirono le Dodici Tavole, sebbene fossero talvolta dirette alla repressione dei reati, più spesso sono state emanate fra i disordini, per la lotta fra gli ordini o per ottenere cariche illecite o per bandire uomini illustri o per qualche altro motivo perverso». Naturalmente, questa scarsità della produzione legislativa – a parte il fatto che il giudizio di Tacito è comunque un po’ troppo severo, poiché oltre alle Dodici Tavole e a quelle di diritto criminale, non mancarono altre leggi materiali importanti, specialmente nel campo del diritto pubblico – non toglie che alla lex sia stato sempre riconosciuto ideologicamente il primato fra le fonti di diritto. Si può ora conclusivamente tornare sul ruolo dei cittadini nel processo di decisione politica, sempre attenendoci al quadro dipinto da Polibio, che godeva di un’impareggiabile visione della res publica. Si deve ribadire, innanzi tutto, che il ruolo politico del popolo variò nel tempo. Basti pensare che i quadri organizzativi rimasero sostanzialmente immutati dalla metà del III secolo a.C., con l’istituzione delle due ultime tribù e la parallela riforma delle classi, quando cioè si era appena agli inizi della fase imperialista. In particolare, sebbene le fonti si contraddicano nel descrivere i provvedimenti seguiti alla concessione della citttadinanza romana agli Italici dopo la guerra sociale, che moltiplicò il numero degli aventi diritto al voto, concordano, tuttavia, nel presentarli come miranti a non consegnare il predominio delle assemblee ai nuovi arrivati (vd., in particolare, Appiano, Bella civilia, 1.214-215; vd. anche §§ 7.2, 7.3). Le diverse velocità cui procedevano l’espansione e l’adeguamento delle istituzioni causarono una crescente divaricazione fra corpo sociale e assemblee. Ciò significa che i comizi che – per fare un esempio – approvarono nel 264 a.C. contro il parere del senato la spedizione militare in aiuto ai Mamertini, rappresentavano i «molti» – per usare l’espressione di Polibio, 1.10.1-3 (polloì) – ben più di quanto gli stessi comizi li rappresentassero nel I secolo a.C., dopo l’immissione degli italici nella cittadinanza romana. In questo senso, anzi, il crescente attivismo delle contiones e delle stesse assemblee deliberanti a partire dall’età graccana può essere considerato un effetto del distacco dalla base. È evidente, in secondo luogo, che il principio censitario e la ri- Legge materiale Ruolo politico dei cittadini in assemblea a) variabilità nel tempo 1.3. Drammaturgia 267 partizione per tribù impediscono valutazioni generalizzanti del ruolo politico dei cittadini, che presuppongono la fungibilità degli individui come soggetti politici. A Roma, la misura della parte potenziale di ciascun civis nel processo di decisione politica era determinata dalla posizione specifica che occupava nelle tribù e nelle classi. Poste queste due premesse, un punto che deve attirare l’attenzione è l’irrisoria partecipazione dei cittadini alle assemblee. Stime approssimative, ma indicative, rivelano che in media votava solo l’1-2% degli aventi diritto. La percentuale è così bassa da apparire oggi inconcepibile, anche per società meno propense alla partecipazione al voto di quella italiana. Addossarne la responsabilità alle difficoltà materiali che si frapponevano fra il diritto e la sua realizzazione, tuttavia, non è sufficiente. In realtà – e si tocca così un secondo punto importante – la disaffezione al voto non può essere disgiunta dalla mancanza d’un vero interesse, che è a sua volta l’effetto d’una scarsa libertà di scelta, che la teoria moderna ha invece individuato come uno dei requisiti fondamentali perché si possa parlare di democrazia in senso sostanziale. Secondo una visione imperniata sugli studi prosopografici condotti nelle scie di M. Gelzer e, soprattutto, di F. Münzer, questa scarsa libertà sarebbe da imputare alla rete di relazioni, familiari, socio-giuridiche (come la clientela) e politico-culturali (come l’amicitia) in cui ciascun cittadino si trovava avviluppato e che predeterminava la direzione del suo voto. La revisione cui quest’impostazione è stata sottoposta negli ultimi decenni, da una parte ha condotto ad accertare che l’estensione e la tenuta di queste reti erano minori di quelle immaginate; d’altra parte, si riconosce ora che non mancarono contese intorno a specifici temi d’azione politica (diremmo programmi, o, addirittura, ideologie, se le parole non rischiassero d’ingigantire fenomeni comunque limitati). In particolare, era inevitabile che la competizione s’accendesse per ottenere l’elezione alle cariche, obiettivo che necessariamente metteva l’uno contro l’altro esponenti della classe dirigente (non è un caso che il voto scritto sia stato introdotto in primo luogo proprio nei comizi elettorali, dalla lex Gabinia tabellaria del 139 a.C.). Tali contese avevano, quindi, indubbiamente come effetto, da un lato, di aprire rivalità all’interno delle stesse coalizioni familiari e clientelari e, d’altro lato, di stimolare i vari leader a cercare anche al di là delle rispettive coalizioni il consenso necessario per fare prevalere le proprie istanze. A ciò servivano campagne sempre più accurate, con dispiegamento anche di notevoli mezzi finanziari, sia per l’allestib) variabilità soggettiva 9.15. Le assemblee popolari c) scarsa affluenza d) scarsa libertà di scelta 9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana 268 mento di spettacoli sia per distribuzioni fra i votanti, spesso oltre i limiti via via più stretti che le leggi posero alla sollecitazione del voto (ambitus). Pur con queste precisazioni, tuttavia, nel valutare la libertà di scelta lasciata ai cittadini, non bisogna dimenticare che l’iniziativa era nelle mani dei magistrati, senza la cui convocazione e proposta le assemblee non potevano deliberare e, indirettamente del senato, attraverso lo strumento formale dell’auctoritas patrum o quello politico della consultazione preventiva su cui vigilavano i tribuni della plebe. Dal lato passivo, poi, la competizione per le cariche magistratuali era strozzata dalla limitazione dell’eleggibilità ai soli cavalieri e, nelle assemblee legislative, come s’è visto poco sopra, i temi in discussione erano molto spesso il riflesso di lotte di potere interne all’élite, prive o quasi d’interesse per la generalità del pubblico; marginali, nel complesso, erano infine i processi popolari. È sicuramente partigiana e condizionata dalla causa, ma tuttavia efficace la diagnosi degli orientamenti politici della massa che Cicerone presenta nella Pro Sestio: «oggi ormai non c’è quasi alcun punto sul quale il popolo la pensi diversamente dagli aristocratici; non chiede nulla né aspira a cambiamenti rivoluzionari» (104). È noto, del resto, l’ammonimento che Quinto Tullio Cicerone rivolgeva al fratello candidato console, «durante la campagna elettorale, meglio non occuparsi di politica né in senato né nella contio» (Commentariolum petitionis, 53). Tornano insomma alla mente le parole di De re publica, 1.47, che descrivono, in una prospettiva radicale che certo non era quella degli ottimati romani, le città nelle quali «a parole sono tutti liberi», visto che «votano, attribuiscono comandi, magistrature, sono corteggiati dai candidati, li si interroga sulle proposte di legge»; a ben guardare, tuttavia, ci si accorge ch’essi «danno ciò che anche se non lo volessero, dovrebbero dare e che manca proprio a loro, cui gli altri lo chiedono» (vd. anche § 9.12). In definitiva, vincoli sociali e scarsa attrattiva dei temi in discussione si traducevano nella disaffezione al voto. Se quel che si è venuto dicendo descrive, per usare un’espressione eloquente, il «concreto del votante», ciò non toglie, tuttavia, che per avere una visione equilibrata della condizione popolare si debba tenere nella giusta considerazione anche l’ideologia della potestas populi (in cui si vede, a ragione, l’equivalente del greco demokratia). Del resto, nel passo poco sopra citato della Pro Sestio, fra le istanze che un tempo, prima della concordia attuale, erano state oggetto di contrasto fra massa e aristocratici, Cicerone menzionava proprio l’introduzione del voto segreto nelle assemblee, per effetto di quattro e) realtà e ideologia 1.3. Drammaturgia 269 plebisciti emanati – appunto in mezzo a vivi contrasti – fra il 139 e il 107 a.C. (definiti, per la forma scritta del voto ch’essi prescrivevano, leggi tabellariae: Cicerone, De legibus, 3.35-36): «il popolo riteneva che si trattasse della sua libertà». Quest’esempio è la riprova del fatto che il diritto di voto contribuiva in modo essenziale a definire lo statuto di civis, anche al di là delle sue realizzazioni («quia populo licere satis est»: Cicerone, De legibus, 3.39). 9.16. La repressione criminale 13. L’impero nel secondo secolo 344 Movimenti di popolazione entro l’impero e integrazione 13.3. GLI EQUILIBRI ETNICI E SOCIALI L’arrivo degli schiavi in Italia nel corso dell’espansione aveva significato sostanzialmente l’immigrazione forzata di un grosso numero soprattutto, ma non solo, di orientali nella penisola. La composizione etnica della penisola ne fu mutata, anche perché, attraverso la pratica della manomissione, considerata in modo ambivalente come un fatto positivo e negativo, dagli osservatori stranieri e dagli stessi politici romani, l’integrazione di questi nuovi immigrati di provenienza orientale con gli altri abitanti dell’Italia poteva attuarsi piuttosto facilmente: non ostavano a questo processo atteggiamenti o pregiudizi razzistici, che erano del tutto assenti nella società romana. 345 L’integrazione fu anche culturale e per esempio determinò il diffondersi di pratiche religiose e di culto, soprattutto in quelle regioni della penisola che erano legate da più stretti rapporti con l’oriente come le città della Campania: così, ad esempio, si diffusero gli Isei e i Serapei, gli edifici di culto delle due divinità egiziane di Iside e Serapide. Si ebbe dunque un’integrazione nella penisola che riguardò la popolazione nel suo complesso e anche i ceti subalterni. Ma il processo di osmosi etnica e sociale non toccò solo l’Italia: alla lunga interessò anche le province dove stazionavano gli eserciti. Se nel periodo della conquista l’emigrazione dall’Italia aveva riguardato soprattutto i mercanti e gli uomini d’affari, con lo stabilimento della pax Augusta furono proprio i legionari, che erano inizialmente di provenienza esclusivamente italica (§ 10.6), a rappresentare il più potente veicolo della romanizzazione: della diffusione cioè della cultura romana e della lingua latina. Anche in seguito l’esercito legionario ebbe un ruolo decisivo nella dinamica dell’integrazione. Si è già visto come le aree del reclutamento legionario nel I secolo fossero le province più precocemente romanizzate, quali la Gallia Narbonense e la Betica, oltre l’Italia, mentre gli ausiliari provenivano dalla Gallia Comata e dalla Tarraconense. Queste unità militari costituite ormai da Romani o da appartenenti a popolazioni profondamente romanizzate furono quelle che valsero a romanizzare, a loro volta, profondamente i distretti territoriali vicini al limes. Ma forse più importante di questo processo, per le sorti future dell’organismo imperiale, fu l’integrazione delle classi dirigenti dell’impero. L’ascesa economica delle province fu parallela all’ascesa sociale delle élites delle città provinciali. I senatori e i cavalieri cominciarono a provenire dalle regioni più precocemente romanizzate, le Gallie, le Spagne, l’Africa. Ad aiutare potentemente questo processo contribuì in misura decisiva la promozione consapevole, da parte dell’autorità imperiale, del modello di organizzazione sociale basato sulle città: mentre le istituzioni cittadine di Roma, con la nascita del principato, si snaturavano, esse mantenevano la loro vitalità nei centri urbani dell’Italia e delle province. Questi centri vennero organizzati e strutturati dall’autorità imperiale secondo una precisa gerarchia, che vedeva i municipi di diritto romano e le colonie, soprattutto quelle che godevano del privilegio del ius Italicum, al gradino più alto, mentre il ius Latii manteneva la sua funzione di gradino intermedio rispetto alle comunità peregrine nel processo di adeguamento al modello romano. L’integrazione conobbe però un limite: fu, appunto, in larghissi- La dinamica dell’integrazione 13.3. Gli equilibri etnici e sociali 13. L’impero nel secondo secolo 346 ma misura piuttosto un’integrazione orizzontale che verticale: non fu, se non entro limiti modesti, un’integrazione fra i vari gradini della gerarchia sociale. Il governo romano cercò sempre l’appoggio delle élites locali: ma per renderle fedeli e interessate al mantenimento della supremazia politica di Roma e alla stessa sopravvivenza dell’impero, dovette garantire la loro posizione di preminenza a livello locale. Di più: anche là dove erano presenti strutture sociali più egualitarie e mancavano le élites, il governo romano le creò ex-novo. Le società provinciali, perciò, nelle quali pure non mancava una certa mobilità sociale, determinata se non altro dal fatto che il regime demografico vigente, con la sua altissima mortalità, provocava frequentemente l’estinzione delle famiglie, videro cristallizzarsi le differenze al proprio interno: le élites locali, formate dal ceto decurionale (dal ceto di coloro, cioè, che facevano parte dei consigli cittadini, un ceto che era tendenzialmente ereditario), si distinguevano dalle plebi intramurane – la maggioranza della popolazione cittadina – e da quelle extramurane – i contadini, che costituivano la grande massa della popolazione. Paradossalmente, a rappresentare l’elemento potenzialmente più in grado di garantirsi un’agevole ascesa sociale, era quello dei liberti. I liberti, che, come si è visto (§ 11.3), erano colpiti da limitazioni dei propri diritti, per esempio al livello della partecipazione politica, spesso godevano, all’atto della manomissione e specialmente se erano stati fatti eredi dai propri ex-padroni, di disponibilità economiche impensabili per gli ingenui (i nati liberi) di più umili condizioni, e non erano condizionati, nel gestire le loro ricchezze, dai pregiudizi ideologici che distoglievano gli appartenenti ai ceti alti dalle attività commerciali e da alcune di quelle professionali, considerate sordide e comunque indegne di un uomo di nascita libera. Erano perciò potenzialmente più in grado di arricchirsi e, per questa via, di garantirsi una certa ascesa sociale, di cui avrebbero potuto poi valersi pienamente i propri figli nati dopo la manomissione (e perciò ingenui). Il discrimine sociale fra ricchi e poveri venne ulteriormente a rafforzarsi nel momento in cui, proprio nel corso del II secolo, cominciò a valere un criterio di discriminazione sociale nella repressione criminale (§ 18.9). La procedura affermatasi alla fine dell’età repubblicana era quella che affidava il giudizio per i reati più gravi alle quaestiones (§ 9.16): questi tribunali dovevano solo decidere se l’imputato fosse o meno reo, ma la pena era fissa e stabilita a priori. Con l’affermarsi della repressione criminale extra ordinem (§ 18.9), i giudici ebbero inizialmente ampia discrezionalità nel graduare l’entità della pena Honestiores e humiliores 347 alla gravità del reato e al grado di colpevolezza del reo, anche attraverso una valutazione della sua stessa personalità. Da qui a stabilire una diversità della pena in base alla condizione sociale del reo il passo era breve. Si affermò, dunque, già a partire dall’età adrianea, il criterio della differenziazione delle pene pro qualitate personarum: alcune pene, e segnatamente quella di morte, non venivano comminate, di norma (e salvo nel caso di delitti politici), agli honestiores, agli appartenenti ai ceti più elevati (senatori, cavalieri, decurioni delle città); se la pena di morte veniva comminata, assumeva comunque la forma della decapitazione e non quella della crocefissione o dell’esposizione alle belve feroci nell’anfiteatro. Nel contempo si riconosceva un valore diverso alle testimonianze a seconda della condizione sociale del testimone. La distinzione delle pene pro qualitate personarum non faceva che ribadire la radicalità della differenziazione sociale all’interno della popolazione dell’impero. Era in questa differenziazione sociale che si risolveva, peraltro, la stessa differenziazione tra i singoli in termini di statuto giuridico personale: lo stesso possesso della cittadinanza romana, come diceva il retore greco Elio Aristide in una sua celebre orazione in lode di Roma, recitata davanti ad Antonino Pio in uno degli anni iniziali del suo regno, non indicava più l’appartenenza al popolo dei conquistatori (26.63), ma era divenuto ormai il segno di un discrimine sociale. Ciò vuol dire che correva più differenza tra il decurione e il povero artigiano di una città dell’Asia Minore, che tra il medesimo decurione e il suo omologo di una città spagnola. 13.4. La duplicità linguistica e culturale dell’impero 1.3. Drammaturgia 369 14.2. UNA PECULIARE ECONOMIA PREINDUSTRIALE Al di là dei problemi posti dai costi proibitivi dei trasporti, va sottolineato tuttavia che, per questo specifico aspetto del volume degli scambi, sembra che l’economia romana imperiale abbia registrato una situazione assai più favorevole rispetto ai secoli successivi alla disgregazione dell’organismo imperiale: il volume degli scambi che si raggiunse nell’area del Mediterraneo tra il I secolo a.C. e il III d.C. probabilmente non sarebbe stato eguagliato che molto tardi dopo la rottura della continuità in epoca tardoantica. Questa comparativamente elevata consistenza degli scambi sembra essere il diretto portato della creazione di un’organizzazione politica “imperiale”, che riunifica tutta l’area del Mediterraneo antico. L’ampliarsi del settore del mercato e la stessa “crescita” e lo stesso “sviluppo” dell’economia imperiale romana sono in una prima fase il prodotto diretto della conquista, mentre in una seconda fase sono il prodotto, si potrebbe dire, del persistere dell’unità politica dell’organismo imperiale. E in effetti le caratteristiche peculiari che differenziano l’economia romana imperiale da altre economie preindustriali hanno a che fare con l’impatto che ha sulla vita economica delle varie aree l’esistenza dell’impero territoriale di grandi dimensioni e dell’organizzazione politica su cui esso si basa. Quali sono queste caratteristiche peculiari dell’economia imperiale? Anzitutto l’urbanizzazione accentuata e capillarmente diffusa, ma soprattutto caratterizzata da centri urbani di dimensioni assolutamente ragguardevoli. Tra questi centri aveva naturalmente un posto a sé la città di Roma, che avrà raggiunto e forse superato il milione di abitanti nel corso della prima età imperiale. A Roma si affiancavano altre “metropoli” con diverse centinaia di migliaia di abitanti, tanto nell’Occidente quanto nell’Oriente: Cartagine, Alessandria, Antiochia, Seleucia, Efeso, Pergamo, ma soprattutto una miriade di città medio-grandi (dell’ordine di alcune decine di migliaia di abitanti), sparse per tutto il territorio dell’impero, anche se non uniformemente diffuse. Le città dell’impero assommavano a diverse migliaia. Calcolare il loro numero pone problemi: la città nel mondo antico era un’entità politica, prima di essere un aggregato di strutture abitative di dimensioni consistenti. Centri di poche centinaia di abitanti potevano vantare lo status di città, mentre grandi concentrazioni di migliaia di abitanti restavano nella condizione di villaggi: per esempio il centro egiziano di Karanis, la cui popolazione è stata valutata a 4.000 abitanti, era un villaggio della chora egiziana del distretto arsinoite. Tra le L’urbanizzazione 14.2. Una peculiare economia preindustriale 14. I caratteri dell’economia imperiale 370 regioni più urbanizzate figurava, ovviamente l’Italia, con le sue 430 città in età augustea: ma vi erano differenze tra una regione e l’altra: le città della Cisalpina erano mediamente più grandi e dunque verosimilmente più popolate, ma anche assai meno numerose e dunque con territori assai più vasti. Altre regioni occidentali conobbero una precoce e notevole urbanizzazione, come la Gallia meridionale, la Betica e, più tardi, l’Africa. Alcune regioni orientali erano già fortemente urbanizzate quando vennero annesse dai Romani. Un caso a sé è quello dell’Egitto, che aveva, oltre ad Alessandria, centri urbani di notevoli dimensioni e che come tali giocavano un notevole ruolo economico, quali Ossirinco o Ermopoli, ma che non avrebbero avuto che molto tardi (§ 15.2), il carattere di autonome comunità cittadine. Sebbene gli studi più recenti abbiano posto il grado dell’urbanizzazione dell’Europa del basso medioevo e della prima età moderna a un livello assai più elevato di quanto non si ritenesse in passato (tanto per le dimensioni di singoli centri urbani, quanto per il loro stesso numero), sembra innegabile che esso non abbia raggiunto che molto tardi il livello al quale era pervenuta l’urbanizzazione nei territori dell’impero. Nell’Europa dell’età medievale e della prima età moderna, in ogni caso, mancavano, o erano molto poco numerose le grandi concentrazioni con centinaia di migliaia di abitanti. Solo dopo il 1700 ci sarebbero state tre città, nell’area occupata in antico dall’impero, con una popolazione superiore a 500.000 (Istanbul, Parigi e Londra). Questa così accentuata urbanizzazione era anzitutto causa ed effetto a un tempo di un livello del popolamento complessivo non più raggiunto, per alcune regioni meridionali e orientali del bacino mediterraneo, sino al diciannovesimo o ventesimo secolo (e al di là del problema di una determinazione quantitativa della popolazione, che rimane problema assai discusso, e che comunque può riguardare solo alcune regioni per le quali c’è la possibilità di arrivare a dati numerici attendibili, come l’Italia o l’Egitto). Lo sviluppo delle città e un forte popolamento dei centri urbani, infatti, non può che presupporre, in uno scenario preindustriale (caratterizzato da una limitata produttività di tutti i fattori di produzione, dalla terra al lavoro), un forte popolamento rurale, che garantisca le condizioni di sopravvivenza della popolazione urbana non impegnata nella produzione dei beni primari. Alcuni sparsi dati cifrati registrati nelle nostre fonti hanno sollecitato tentativi ingegnosi dei moderni per individuare le dimensioni del popolamento in alcuni momenti dell’epoca imperiale e in talune spe- Il livello del popolamento 1.3. Drammaturgia 371 cifiche aree. Registrazioni di tipo censuale per varie ragioni nelle diverse aree e a seconda dei tempi in effetti non mancavano nel mondo romano. Una testimonianza assolutamente singolare che la tradizione antica ci ha lasciato, traendola ovviamente da documenti ufficiali, e che non pare avere paralleli nella storia del mondo premoderno, è quella costituita dalle cifre risultanti da molte fra le enumerazioni che si succedettero nel corso dell’età repubblicana e della prima età imperiale (si tratta di una quarantina di cifre, relative al periodo che va da Servio Tullio, che avrebbe secondo la tradizione introdotto il sistema, sino a quelle dei tre censimenti effettuati nel 28 a.C., nell’8 a.C. e nel 14 d.C. che Augusto stesso ci ha tramandato nelle Res gestae, 8.2- 4, e ancora alla cifra risultante dal censimento compiuto dall’imperatore Claudio nel 47 d.C., ricordata da Tacito nei suoi Annales, 11.25). Le cifre in età repubblicana si riferiscono ai maschi adulti, a coloro che per la loro età sono «atti alle armi»: non è dunque difficile, ipotizzando quale potesse essere, in termini percentuali, il numero dei maschi in una popolazione come quella romana, stimare il numero complessivo dei cittadini dei due sessi e di tutte le età. Nonostante fossero previste pene molto severe per chi non effettuava la sua dichiarazione, eludendo in tal modo i propri obblighi militari e fiscali, non tutti i cittadini si saranno tuttavia sobbarcati all’onere di andare a Roma e presentarsi davanti al censore, per farsi registrare: e la stessa autorità non avrà perseguito con molto rigore quei cittadini che erano troppo poveri per servire nell’esercito e pagare il tributo, i proletarii (§ 9.6). I cittadini non censiti (incensi) andarono naturalmente divenendo sempre più numerosi, a mano a mano che l’ager Romanus si andò estendendo nella penisola sino a ricomprenderla, dopo la guerra sociale, nella sua interezza. Sicché le cifre che la tradizione ci ha conservato devono essere considerate dei semplici minimi. Negli ultimi convulsi decenni dell’età repubblicana fu peraltro impossibile procedere con regolarità alle operazioni di censimento. La situazione dovette cambiare quando, con Cesare, venne introdotto un nuovo criterio per effettuare la registrazione: d’ora in avanti il cittadino capo famiglia non era più obbligato a recarsi a Roma a effettuare la sua dichiarazione davanti al censore, ma la doveva effettuare nel municipio o nella colonia dove era domiciliato e davanti ai magistrati locali. Anche i cittadini romani residenti nelle province, ormai molto numerosi, poterono essere ricompresi nel computo globale. È forse come conseguenza di questa nuova maniera di effettuare il censimento che si spiega come mai, nel 28 a.C., quando Ottaviano 14.2. Una peculiare economia preindustriale 14. I caratteri dell’economia imperiale 372 riuscì a censire nuovamente dopo più di quarant’anni i cittadini romani, essi siano risultati più di quattro milioni, e cioè più di quattro volte il numero dei cittadini romani nel 70, a meno di non voler pensare, come una lunga tradizione di studi vorrebbe suggerire, che, a partire da Augusto, siano stati enumerati non più soltanto i maschi adulti, ma i cittadini di entrambi i sessi e di tutte le età. Se riteniamo che i cittadini romani contati da Augusto erano i soli maschi adulti, abbiamo modo di stimare l’ordine di grandezza della popolazione libera dell’Italia romana, escluse le isole, nella prima età imperiale: dieci-dodici milioni; a questi bisogna aggiungere un imprecisabile numero di schiavi. L’Italia che aveva conquistato l’impero e che era padrona del Mediterraneo risultava, non per caso, essere anche la regione più popolata del mondo antico. Un pari livello di popolamento sarebbe stato raggiunto di nuovo dalla penisola solo nell’avanzata età moderna. Non possediamo, putroppo, un documento paragonabile alle cifre dei censimenti per i peregrini, nettamente maggioritari, com’è ovvio, nelle province, anche se sappiamo che Augusto stesso introdusse, a fini prevalentemente fiscali, il censimento nelle province, come ci dice tra l’altro un luogo famoso del Vangelo di Luca (2.1-3). Qualche indicazione delle fonti antiche consente, tuttavia, di formulare ipotesi circa l’entità del popolamento nelle varie aree dell’impero: per esempio da un luogo della Naturalis historia di Plinio (3.28) è possibile inferire l’entità del popolamento di alcuni conventus della Spagna e ancora da due luoghi di Diodoro (1.31.6-9; cfr. 1.80.6) e di Flavio Giuseppe (Bellum, 2.385) quella della popolazione complessiva dell’Egitto (anche se si tratta di notizie di cui rimane discusso il significato). Questi dati confermano che tra le regioni più fittamente popolate era, per l’appunto, la parte fertile dell’Egitto, e cioè la valle del Nilo col Fayum e il Delta, dove venne raggiunto nella prima età imperiale un livello di popolamento che sarebbe stato conseguito di nuovo solo verso la fine del diciannovesimo secolo. Ma regioni densamente popolate erano anche la Siria e buona parte dell’Asia Minore, e l’Africa del nord avrebbe sperimentato nei primi secoli dell’età imperiale un forte incremento demografico. Meno popolate erano le regioni dell’Occidente, come alcune aree della Gallia e della Spagna, e ancora le zone più prossime ai confini settentrionali. 18. IL DIRITTO DA AUGUSTO AL THEODOSIANUS 18.1. LA GIURISPRUDENZA CLASSICA: CARATTERI GENERALI Per tutta l’età repubblicana, come s’è appreso (vd. cap. 9), il diritto privato ebbe natura eminentemente giurisprudenziale, nel senso ch’era rimesso in ultima analisi ai giuristi – dapprima in quanto pontefici, poi in quanto riconosciuti esperti – d’individuare quale fosse il ius, dichiarandolo nei responsa che fornivano a quei concittadini che li interrogavano sui propri casi. Nell’individuare quale fosse il ius, i giuristi erano guidati da criteri e scelte di valore che raramente trovavano enunciati in leggi o in altri atti normativi espliciti. Benché la lex votata dalle assemblee popolari occupasse il vertice delle fonti del diritto e, in particolare, le leges delle Dodici Tavole non abbiano mai cessato d’essere considerate la matrice dell’intero ordinamento, di fatto raramente si ricorreva ad una legge per fornire la massima di decisione d’un conflitto d’interessi (vd. §§ 9.7, 9.8). In questo quadro, i criteri normativi cui i giuristi per lo più ispiravano le proprie decisioni erano elaborati per via di “costruzione giuridica”, spesso ancorata alla struttura formale degli atti oppure – specialmente in seguito all’apertura mercantilistica della società romana, cui corrispose un processo di deformalizzazione – erano ricavati dalla struttura socio-economica dei rapporti presi in considerazione. Per questo, il sistema giuridico romano è definito oggi un “sistema aperto”, per contrapporlo a quei sistemi – fra i quali, ad esempio, quelli attuali dei paesi europei continentali – nei quali i giuristi trovano appunto già poste le massime di decisione e non partecipano alla loro statuizione (sotto questo profilo, può essere invece avvicinato al common law inglese). Pur se alieni dalle teorizzazioni, i giuristi romani non potevano non essere coscienti di quest’assetto, come traspare ad esempio dalla definizione del ius come ars boni et aequi, ossia come tecnica del Diritto giurisprudenziale Sistema aperto 18. Il diritto da Augusto al Theodosianus 466 buono e dell’equo, formulata dal giurista Celso (D. 1.1.1 pr.). L’interpretatio giurisprudenziale non era, quindi, o era solo marginalmente attività di esplicazione di testi normativi, come potrebbe invece far pensare la corrispondente parola moderna «interpretazione », solitamente riferita a un “sistema chiuso”. Insieme alle leges, quest’interpretatio costituiva il ius civile in senso stretto, al quale, a partire dal III sec. a.C., si venne sovrapponendo la iurisdictio del pretore, come momento di realizzazione pratica, attraverso il processo, del ius civile stesso, ma anche come occasione per correggerlo e integrarlo e le cui linee erano esposte nell’editto. La natura giurisprudenziale del ius sopravvisse alla trasformazione della costituzione mista in principato ossia in monarchia temperata nelle forme (che è illustrata al cap. 10). Naturalmente, la presenza di un’istituzione accentratrice come il princeps, che tendeva, come costatavano i contemporanei, «ad appropriarsi delle prerogative del senato, dei magistrati, delle leggi» (Tacito, Annales, 1.2.1), non rimase senza conseguenze sul piano del diritto. Tuttavia, specialmente se si eccettua la stagione della legislazione etico-demografica augustea (nella quale, oltretutto, la volontà del princeps fu pur sempre rivestita delle forme della lex publica), si può affermare che l’influenza imperiale si sia manifestata meno sui contenuti del ius e piuttosto sull’organizzazione giudiziaria e sul ruolo socio-politico dei giuristi. In particolare, sebbene fosse stato precocemente riconosciuto al principe il potere di emettere norme giuridiche, nella forma di constitutiones (vd. § 18.6), storicamente l’uso di tale potere fu abbastanza sporadico fino alla metà del II sec. d.C. Anche quando, in seguito, le constitutiones si fecero più frequenti, esse rimasero prevalentemente iscritte all’interno dell’impianto casistico del diritto romano. Infatti, se si eccettuano gli editti, le costituzioni del principe erano per lo più emesse con riferimento appunto a casi concreti, affrontati in sede giudiziaria o sulla base di una petizione, e tendevano quindi ad applicare e riprodurre il diritto vigente. Anche quando se ne allontanavano, dovevano comunque passare per il crivello dei giuristi, alla cui interpretatio spettava di vagliare l’effettiva portata di queste statuizioni, inserendole nel circuito del diritto giurisprudenziale. Per quel che riguarda poi specificamente la tecnica giurisprudenziale, nei primi tre secoli della nostra era essa continuò a seguire i canoni fissati dai giuristi repubblicani. Ciò non toglie che, in connessione con le mutevoli condizioni politiche e culturali e grazie a individualità di grande valore, la giurisprudenza del principato abbia una sua profondità storica. Inoltre, specialmente dall’età adrianea, in Interpretatio Persistenza del carattere giurisprudenziale del diritto nel principato Classicità della giurisprudenza 1.3. Drammaturgia 467 coincidenza con l’emergere della personalità del giurista Salvio Giuliano, e fino a tutta l’età dei Severi, la produzione letteraria dei giuristi si intensificò notevolmente in quantità e s’aprì anche a nuovi temi, capitalizzando il patrimonio di pensiero dei secoli precedenti e incrementandolo d’ulteriori sviluppi. Se si aggiunge che, per effetto di vari fattori per lo più socio-politici, una letteratura giuridica originale cessò, quasi all’improvviso, intorno alla metà del III secolo d.C. e che perciò le epoche successive dovettero rivolgersi principalmente proprio agli scritti dei giuristi adrianei, antonini e severiani e se si rammenta, inoltre, che, proseguendo lungo questa linea, l’imperatore Giustiniano ne redasse un’antologia, il Digesto, che portò in salvo proprio queste opere, consegnandole al medioevo occidentale e all’età moderna, si comprende perché, fin dall’Umanesimo, la giurisprudenza di questo periodo (e, più in generale, quella del principato) sia considerata «classica». Per un insieme di circostanze, in parte attribuibili a suoi effettivi valori, in parte alla sua fortuna letteraria, la giurisprudenza del principato (e, per una serie d’impercettibili, ma storiograficamente rischiosi slittamenti, il “diritto” di questo periodo) è insomma considerata il tratto più alto d’una parabola, iniziata da Sesto Elio, se non già da Appio Claudio e Gneo Flavio e destinata a concludersi con Giustiniano. 18.2. I RUOLI DEL GIURISTA: I CONSULENTI E IL PUBLICE RESPONDENDI IUS Come s’è accennato, il mutamento principale, rispetto all’epoca precedente, investì la posizione socio-politica del giurista. Da una parte, infatti, con il mutare dell’assetto costituzionale, si sfaldò il modello stesso dell’aristocratico, di cui la cognizione del ius era una componente e, di pari passo, crebbe il peso del principe nel fornire alla giurisprudenza una legittimazione. D’altra parte, se nell’età repubblicana l’ufficio di giurista era – o almeno appare essere stato – un ruolo monolitico, nel corso del principato si andò articolando in vari ruoli specialistici. Quest’articolazione fu il risultato d’una più generale tendenza alla specializzazione che investì tutte le discipline e le abilità, ma anche della progressiva diffusione del diritto romano nell’impero, che incrementò la domanda d’esperti in tutte le regioni. Fra le varie vesti sotto cui si presenta il giurista fra la fine del I secolo a.C. e la metà del III secolo d.C., cioè quella del consulente, 18.2. I ruoli del giurista 18. Il diritto da Augusto al Theodosianus 468 quella dell’insegnante e quella del pratico, la più solenne, che più l’avvicina al ruolo che aveva avuto in età repubblicana, è la prima, quella dell’esperto autorevole che offre gratuitamente responsi ai concittadini che gli sottopongono i loro casi. Tuttavia, anche sull’ufficio della consulenza giuridica, sul respondere, si stese subito l’ombra del nuovo regime, nel senso che i giuristi, a partire da Augusto, furono presi sotto l’ala del princeps di turno, che concedeva (solo) ad alcuni il publice respondendi ius, cioè il diritto di dare responsi al pubblico (publice qui equivale a populo: cfr. Pomponio, D. 1.2.2.48 e 50). Questa prerogativa, concessa spontaneamente da Augusto e Tiberio e poi elargita come un beneficio a richiesta degli interessati, oltre a imporre loro di rilasciare i responsi per iscritto e sigillati, doveva comportare alcune facilitazioni materiali, forse anche un pubblico ritrovo (statio) ove fare professione. Tuttavia, l’effetto principale del publice respondendi ius era di aggiungere all’autorità personale del giurista il sostegno del favore imperiale. Si creava così, fra l’altro, all’interno dei cultori della giurisprudenza, una élite di giuristi “ufficiali”, che rispondevano al pubblico appunto ex auctoritate principis, distinti dalla restante massa. Con Adriano, addirittura, questo incremento d’autorità si tradusse in efficacia giuridica dei responsa emessi dai giuristi autorizzati. Infatti, un rescritto (vd. § 18.6) di questo princeps dichiara che se su una data questione coincidono le opinioni di tutti i giuristi «ai quali è stato accordato di creare norme giuridiche» – locuzione, questa, per la verità ambigua, ma che viene di solito intesa come allusiva proprio ai giuristi muniti di publice respondendi ius – «ciò su cui le opinioni coincidono possiede valore di legge; se invece hanno opinioni diverse, al giudice è lecito seguire l’opinione che voglia » (Gaio, Institutiones, 1.7, da confrontare con il passo parallelo delle Institutiones di Giustiniano, 1.2.8). Ovviamente, come contropartita, rilasciare o negare il privilegio di publice respondere equivaleva a sottoporre ad un gradimento politico un’attività che, almeno nei due secoli anteriori, era stata invece libera, fondata non su una patente d’ufficialità, ma solo sulla «fiducia nella propria preparazione » di chi si offriva a dare responsi (il paragone fra i due diversi sistemi è già in Pomponio, D. 1.2.2.49). Tuttavia, questo gradimento non implica necessariamente che i contenuti tecnici dei responsi ne abbiano risentito; come si vedrà, esso influì piuttosto sul profilo sociologico del ceto dei giuristi. Oltre che attraverso il publice respondendi ius, il mutamento costituzionale ebbe un altro contraccolpo sul ruolo di consulente. Nel corso del principato, al più tardi con Adriano, si affermò la prassi di Il giurista consulente e il publice respondendi ius Responsi dei giuristi e rescritti dei principi 1.3. Drammaturgia 469 cittadini e sudditi di ogni parte dell’impero di sottoporre i propri quesiti, invece che ai giuristi, direttamente al princeps, il quale, per lo più, rispondeva loro per iscritto, ossia mediante rescripta (vd. § 18.6). Ciò non comportò, tuttavia, la scomparsa della funzione respondente dei giuristi (muniti o privi del diritto di farlo publice). Infatti, a differenza di quel che a lungo s’era ritenuto, si sa ora che i giuristi continuarono a svolgere l’ufficio di consulenza almeno fino al V secolo, sia in Occidente sia in Oriente (vd. § 18.6). Si può parlare, dunque, della consulenza privata come d’una costante dell’esperienza giuridica romana, che perdura anche nella tarda antichità. Più che avvicendarsi, responsa dei giuristi e rescripta dei principes, pertanto, coesistettero. È significativo che nel 239, quando ormai si stavano spegnendo anche gli ultimi fuochi dell’ispirazione letteraria dei giuristi, l’imperatore Gordiano III invii un rescritto a un cittadino che aveva già rivolto il medesimo quesito – e non ne faceva mistero – al giurista Erennio Modestino. A conferma della intercambiabilità, si può aggiungere che la doppia interrogazione non può essere stata motivata dalla difficoltà della questione in gioco, che, anzi, appare addirittura banale ed ottenne non a caso dal giurista e dal principe identica risposta (CI. 3.42.5). Resta, tuttavia, evidente che l’autorità d’un rescritto imperiale avrebbe comunque prevalso sulla risposta difforme d’un giurista e ciò non poteva che subordinare ulteriormente i giuristi al principe, che faceva loro concorrenza direttamente nel campo nel quale avevano costruito e mantenuto il loro secolare primato. Inoltre, come meglio vedremo (vd. § 18.4), per far fronte alla crescente massa di quesiti che venivano loro sottoposti, i principi, già nel corso del II secolo, dovettero assorbire nei ranghi dei propri uffici un notevole numero di giuristi, spesso anzi i migliori, indebolendo ulteriormente la libera professione. 18.3. La trasmissione del sapere scientifico 19. LA RELIGIONE NEL MONDO ROMANO 19.1. PER UNA CRITICA DELLE FONTI Questo capitolo non è un elenco, più o meno ragionato e critico, degli dei del pantheon romano e riconosciuti tali dallo stato, con annesse funzioni. A partire specialmente dal volume fondamentale di Georg Wissowa sulla religione e sul culto dei Romani, noi disponiamo di strumenti di primo piano in materia (vd. Bibliografia). «Però, lo scopo di un lavoro storico non è semplicemente quello di riversare la conoscenza accumulata. Un lavoro storico dovrebbe essere, piuttosto, un fermento che stimoli il ragionamento personale del lettore» (Bickerman 1988, p. IX). Forti di questa dichiarazione di metodo, tenteremo di suggerire alcuni spunti di interpretazione della religione romana. Lo scopo unitario di questa esposizione è quello di dare una delle possibili risposte alla domanda che riesce più spontanea, qualora si affronti il tema di una religione di oltre duemila anni fa: è possibile ricostruire, dopo tanti secoli trascorsi, frammenti di identità del sentimento religioso antico? Come è ovvio, ci limiteremo a produrre alcuni esempi che sono sembrati significativi; senza pretese (assurde) di esaustività. Mettere anche in guardia dagli inevitabili fraintendimenti e anacronismi delle moderne ricostruzioni rientra nel novero delle considerazioni propedeutiche alla religione romana. Infatti, senza una preliminare analisi critica delle fonti antiche che ci hanno conservato compiuto ricordo della religione romana, noi corriamo il rischio di sottovalutarne alcuni aspetti che, pure, dovevano essere centrali alla riflessione e all’esperienza contemporanee. Per usare un esempio classico: Varrone, citato da Agostino, è fonte canonica e indispensabile per la comprensione dell’antica religione romana. Noi, però, nell’impiegarla, non dovremmo fare come Agostino che attualizza un’o- Scopo della ricerca Varrone 19. La religione nel mondo romano 536 pera, le Antiquitates rerum divinarum, pubblicata circa quattro secoli e mezzo prima del De civitate Dei; proprio come se Varrone fosse un suo contemporaneo. Le circostanze che hanno portato il Santo a utilizzare un’opera così arcaica per i suoi tempi non sono del tutto comprensibili. Quello che appare sicuro è che in cinque secoli la religione romana non poteva non essere mutata. Le speculazioni di Pietro Bembo sopra la lingua possono essere considerate testimonianza attuale da chi ai nostri giorni voglia riprenderne la questione? L’opera di Varrone, anteriore di quattro secoli e mezzo circa, non è solo collocata dal Santo a fronte di una temperie storica e culturale cristiana estranea del tutto alla sua origine e formazione, e non è solo, di conseguenza, misurata secondo i parametri e i valori istituiti dal cristianesimo e dal suo sviluppo (ai tempi in cui Agostino vive) oramai secolare. Anche se riusciamo ad esaminare in sé il valore della testimonianza di Varrone, depurandola, per così dire, dalle osservazioni di Agostino, deve rimanere dubbio che l’analisi erudita (quale doveva essere quella di Varrone) sappia cogliere la complessità, l’articolazione e la varietà del sentimento religioso vissuto nella vita reale e quotidiana e non nel mondo dei dotti e dell’accademia. Ad esempio, i sincretismi, che probabilmente pullulavano nello scritto di Varrone e, comunque, pullulano nei frammenti conservati, appartengono al mondo dei dotti. Erano grammatici e filosofi a disputare se Vacuna potesse essere identificata con Vittoria, Cerere, Minerva o Diana (F 1 Cardauns). Il fedele, però, che prega e adora le divinità, si sarà posto con distacco questi interrogativi. Inoltre, come se Varrone fosse suo contemporaneo, Agostino colloca e sente le sue affermazioni sopra la presunta ignoranza della religione patria sullo sfondo della progressiva affermazione del cristianesimo. Questa circostanza può indebolire e offuscare una lettura critica dei frammenti delle Antiquitates rerum divinarum. Leggiamo il frammento introduttivo citato da Agostino: «egli (i.e. Varrone) diceva di temere che gli dei perissero non per un’aggressione nemica, ma per la negligenza dei concittadini; dalla quale egli dice che essi sono da lui liberati come da una frana e che essi per la memoria dei buoni, per mezzo di libri di questo genere, sono riposti e conservati con una cura più utile di quella con cui si celebra la liberazione, da parte di Metello, dei sacra vestalia o la liberazione dall’eccidio troiano dei penati da parte di Enea» (F 2a Cardauns). Lo spirito di questa parafrasi agostiniana del pensiero di Varrone, unito in specie alle accorate e ripetute professioni di pessimismo di un Cicerone, ha finito per risultare influente, 537 se non decisivo, sulla costituzione di un cliché fisso sulla religione romana e sul suo “stato di salute”. Dovremmo distinguere, però, le preoccupazioni apologetiche di Agostino, formulate dopo il sacco di Roma da parte di Alarico (410 d.C.), da quelle di una parte della classe dirigente romana formulate nella metà del I secolo a.C. e sollecitate, forse, dal sommo pontificato di Gaio Giulio Cesare (come è noto, l’opera di Varrone, da cui il Santo attinge, era dedicata a Cesare, pontefice massimo). Un’esigenza specifica e contingente, avvertita da una parte della classe dirigente romana verso la fine della repubblica, non può assurgere a canone fisso di interpretazione storica di un fenomeno millenario quale è quello della religione cosiddetta politeista del mondo romano. Inoltre, l’ignoranza delle risalenze dotte delle divinità non significa in sé attenuazione o addirittura cancellazione del sentimento religioso tradizionale. Tanto più che il risvolto patriottico della religione romana, così solennemente enfatizzato nel libro secondo del De natura deorum e del De legibus di Cicerone, non riesce a esaurirne la complessa identità; ad esso era particolarmente sensibile, però, quella cerchia della classe dirigente la quale, specialmente negli anni quaranta a.C., agitava, contro lo spauracchio del lassismo e dell’anarchia degli “epicurei”, le religioni e la restaurazione del sentimento religioso tradizionale, intesi come cemento di una nuova coesione della compagine civica: si sentenziava con amarezza che la repubblica fosse andata perduta anche perché si erano perduti gli dei. Il progetto ciceroniano di rifondare la costituzione romana prendeva l’avvio dalle leges de religione. Noi abbiamo conservati dalla tradizione gli echi di questa concezione aristocratica ed elitaria del sentimento religioso e delle sue motivazioni e giustificazioni. Essa però non avrà rappresentato che in parte l’identità del più diffuso sentimento religioso. Dalle parole introduttive di Varrone, sopra riportate e tramandate da Agostino, dipende in buona misura anche la nostra enfasi sul cosiddetto aspetto utilitaristico, formalistico e ritualistico della religione romana. Ad esempio, dai frammenti citati dal Santo apprendiamo che Varrone ammoniva che «non giova a niente sapere che esiste il dio Esculapio, se poi non sai che egli aiuta la buona salute e, così, non sai perché tu debba supplicarlo». Questa affermazione di Varrone sembra essere tanto pertinente e rappresentativa del sentimento religioso corrente quanto quella di chi, ai nostri giorni, sostenga che, prima di pregare Nostra Signora di Lourdes, sia necessario informarsi da un prontuario in che cosa possa aiutarci. Con difficoltà immaginia- Aspetto utilitaristico 19.1. Per una critica delle fonti 19. La religione nel mondo romano 538 mo che l’affermazione di principio di Varrone, «essere così utile la conoscenza degli dei, qualora si sappia quale potenza e facoltà e potestà abbia ciascun dio di ciascuna cosa» (F 3 Cardauns), rispecchi il sentimento religioso comune; essa sarà venuta incontro, piuttosto, a un piano di risistemazione erudita e antiquaria delle istituzioni sacre romane. Come dice Cicerone con enfasi: «Infatti i tuoi libri ricondussero come a casa noi che peregrinavamo nella nostra città e vi andavamo errando come ospiti, così che potessimo finalmente conoscere chi siamo e dove siamo. Tu hai svelato l’età della patria, i computi delle età, i diritti dei sacra, quelli dei sacerdoti, la scienza in pace e in guerra, la sede delle regiones, dei luoghi, tu i nomi, i generi, le funzioni, le cause di tutte le cose divine e umane» (T 1 Cardauns). Questa ispirazione generale dell’opera di Varrone ha enfatizzato e cristallizzato, nelle nostre analisi, l’aspetto contrattualistico e utilitaristico delle relazioni del romano con la divinità. Tale aspetto, però, più che per essere rappresentativo del sentimento religioso corrente, è sottolineato come antidoto a una diversa concezione della religione; una concezione che desta preoccupazioni: esso ha la prevalente funzione di porre argini alla forza dirompente della “superstizione”, cioè il terrore inconsulto del soprannaturale. Questo appare essere il leitmotiv di opere contemporanee a quella di Varrone (ad esempio, il trattato De divinatione di Cicerone, come pure il De rerum natura di Lucrezio). Certamente, le leges arae delle nostre iscrizioni (ad esempio, la lex arae Iovis salonitanae: ed. Laffi 1980) suggeriscono minuziosi rituali; essi, però, erano per “gli addetti ai lavori”. Mutatis mutandis, postulare una religione ritualistica diffusa presso l’antico romano da testi di questo genere sarebbe come postulare ai nostri giorni la conoscenza minuta, da parte dell’uomo della strada, del cerimoniale religioso sulla base della liturgia e dei rituali osservati dai sacerdoti nelle chiese. I frammenti dell’opera di Varrone sembrano auspicare che il senso del soprannaturale e del trascendente sia moderato e ridotto a una visione “utilitaristica”. Il fatto che Varrone valorizzi questo aspetto delle religioni non significa di necessità che esso fosse diffuso. In tutti i casi, il nostro autore non vuole ridestare un sentimento religioso che sarebbe sopito, ma riportare alla luce conoscenze utili a un rapporto con la divinità da lui giudicato più corretto e sano. In sostanza, noi non dovremmo confondere la decadenza delle conoscenze con quella del sentimento religioso. L’aspetto pedante e ritualistico della religione romana, sottolineato da Agostino nella ricostruzione di Varrone, non può essere elevato a manifesto della religione romana. 539 Varrone si preoccupa «perché non facciamo come sono soliti fare i mimi e finiamo per desiderare da Libero l’acqua e dalle Linfe il vino» (F 3 Cardauns 1976). Egli doveva, prima di tutto, giustificare la sua ricerca antiquaria, da qualunque fine e circostanza, più o meno contingenti, fosse stata suscitata. Il grammatico reatino mostra di non accorgersi che la gente prega e invoca la divinità anche – e soprattutto – perché non ne conosce i poteri al dettaglio.