Home | Storia | Arte e letteratura | Foto | Ceramica | Moda | Info | Mappa
STORIA E LEGGENDA
HOTELS E RISTORANTI
ARTE E LETTERATURA
FOTO
CERAMICA
MODA

CARATTERISTICHE E SOCIALITA' DELL'ANTICA ROMA IMPERIALE

USI, TECNOLOGIE, URBANESIMO DELLA ROMA IMPERIALE

L'urbanesimo romano fu direttamente influenzato da due grandi esperienze artistiche del passato immediatamente precedente, fondamentali, per tutto il mondo occidentale: la civiltà etrusca e la civiltà greca.

La tradizione etrusca

Giunti dall'Oriente verso la fine dell'XI secolo, gli Etruschi rappresentano nell'Italia tribale un nuovo tipo di aggregato urbano. Esso infatti appare determinato da concetti originari dell'Oriente da cui appunto gli Etruschi provenivano. Dall'Egitto e dall'Oriente viene il carattere fortemente religioso connesso con la creazione della città: l'Egitto e la Siria suggerirono agli Etruschi i metodi dell'orientamento e della delimitazione dei confini; il mondo orientale, in generale, la tecnica di costruzione in pietra, e il concetto di arco a volta. Nell'urbanesimo etrusco questi ascendenti si concretano in due elementi specifici: il rito della fondazione della città, le tecniche costruttive. Nell'architettura etrusca si registra un fatto nuovo: In Italia, dove per l'abbondanza di foreste il legno era il materiale edilizio principale, si incomincia ad usare la pietra, dapprima per scopi difensivi, poi per i templi, ed infine per le abitazioni comuni.
La tecnica dell'architetto si arricchisce con principi di ingegneria: dall'acquisizione di nuovi terreni coltivabili, al prosciugamento delle paludi, dalla costruzione di acquedotti e fognature, alla sistemazione di porti, le tracce lasciate dagli Etruschi sul suolo d'Italia non verranno più cancellate. L'urbanesimo etrusco è alla base del primitivo urbanesimo romano. Il rito di fondazione delle città, ereditato dagli Etruschi, sarà dai Romani praticato normalmente nella fondazione delle colonie. Presso gli Etruschi la fondazione di una città comportava una serie di atti successivi: l'"inauguratio", con il quale si delimitava sul terreno uno spazio quadrato (Templum) per studiare i presagi, la definizione dei confini della città. L'"Orientatio", con il quale l'àugure, colui che procedeva con un bastone ricurvo detto "lituus", indicando il sole con il groma, determinava le due rette perpendicolari, decumanus (est-ovest) e cardo (nord-sud), il cui incrocio costituirà il centro della città. Il "Limitatio", che consisteva in due fasi successive: la delimitazione esterna e quella interna. Una serie di parallele alle due strade principali formava la pianta a scacchiera con un certo numero di isolati geometrici. In ultimo si arrivava alla determinazione della posizione della piazza (forum), nonché degli edifici pubblici, sia religiosi che civili. Con il "Consecratio" si svolgeva la cerimonia religiosa, costituita essenzialmente da preghiere e sacrifici.
La tradizione greca

Le città greche presentano, dal punto di vista degli arredi urbani, due schemi divergenti. Le città tradizionali, come Atene e Tebe, raggruppate attorno alle loro cittadelle naturali, l'Acropoli o la Cadmea, Argo, Megera, centri urbani sprovvisti di un piano d'insieme, costruiti a macchia d'olio, in generale mal costruiti. Opposto è il caso delle città europee o africane costruite dopo il V° secolo a.C cioè dopo il sistema d'Ippodamo di Mileto, che nel V° secolo costruì con un piano a scacchiera il Pireo, il grande porto d'Atene e la nuova colonia di Turii nell'Italia meridionale. In seguito Rodi (408-407), Nuova Selinunte in Sicilia (posteriore al 409), Mantinea (371), Tebe (316) saranno ricostruite conformemente allo stesso schema. Ad influire inoltre sull'urbanesimo romano è l'organizzazione dei servizi municipali nelle città greche. Un vero e proprio codice di polizia municipale, detto "Legge di Pergamo" risale alla prima metà del II° secolo a.C. Il documento è redatto su quattro colonne. Nella prima si obbliga l'abbattimento delle costruzioni edilizie e d'imporre ai proprietari delle case la manutenzione delle vie stesse; nella seconda colonna si vietava il deterioramento dei marciapiedi e il loro ingombro, nonché qualsiasi ostacolo al traffico.
Con le conquiste Roma si trasforma in una città enorme, sovrappopolata. Tale risultato è raggiunto all'inizio del III° secolo e nel corso dei secoli successivi il problema diventa sempre maggiore. Ma allora, nel settore urbanistico, si creano bisogni urgenti da soddisfare, problemi di circolazione, mancanza di locali adatti per gli affari e per il divertimento. La soluzione giunge dal mondo greco, dalle metropoli ellenistiche orientali, Pergamo, Alessandria, Antiochia, con cui in seguito alla conquista vengono stabiliti legami sempre più stretti. I problemi di circolazione trovano una soluzione parziale nei portici, vie esclusivamente riservate ai pedoni, liberando così la strada a vantaggio del traffico pesante. Il problema commerciale viene risolto con la basilica, che svolge la funzione di borsa sia di tribunale. Quanto ai divertimenti a Roma ci sono già i circhi: poi sorgeranno teatri e anfiteatri in legno che in seguito lasceranno il posto a edifici in pietra: il Teatro di Pompeo (55 a.C) e l'Anfiteatro di Statilio Tauro. Dal punto di vista urbano dal II° secolo in poi Roma viene sistemata secondo schemi ellenistici. L'esigenza di costruire sancisce il lavoro obbligatorio e l'esigenza della moneta, del denaro, specialmente sotto la forma di un bilancio imperiale, alimentato dalla indennità di guerra e dalla riscossione delle tasse imposte alle province. Con le conquiste ai materiali di costruzione del territorio morfologico romano (tufo e argilla) si aggiungono materiali nuovi e considerati all'inizio di lusso: il peperino, la lava, il travertino.
Successivamente, dopo la conquista d'Italia e degli altri paesi del Mediterraneo, Roma avrà la possibilità di usare il marmo nelle sue molteplici varietà: il marmo bianco di Luna (Carrara), quello proveniente dalla Grecia (Imetto e Pentelico) e dalle isole ioniche (Paro, Tasso e Lesbo), il marmo rosso e nero sempre dalla Grecia, quello giallo africano, quello con venature bianche e nere dalla Gallia, dall'Asia Minore e dall'Egitto, il cipollino, bianco con venature verdi (Grecia), il marmo bianco con venature violette ,e rosso con venature gialle dall'Asia Minore, quello nero con chiazze multicolori da Chio e Sciro. Si erano resi anche altri materiali di lusso, quali l'alabastro, il serpentino, il granito e il porfido. Dopo i materiali le tecniche. Fra le civiltà pre-romane quelle più significative ed originali, degli Etruschi, dei Greci e dei popoli dell'Asia Minore esercitarono su Roma un'influenza complessa e profonda.
Caratteristiche geografiche e condizioni storiche hanno giocato un ruolo fondamentale nella nascita e nello sviluppo dell'urbanesimo romano. Le diverse parti della città furono costruite sulle pendici e nelle zone pianeggianti poste fra i sette colli. Il complesso dei colli romani si dispone ad anfiteatro sulla riva sinistra del Tevere. Il palatino occupa una posizione centrale: in origine esso era diviso in due terrazze, ognuna con un nome: ad ovest il Germal e ad est il Palatual. Attorno al Palatino si sviluppano a semicerchio cinque colli. A nord il Campidoglio, con due cime nettamente distinte: il Campidoglio a ponente, l'Arce Sacra a levante, vette separate da una depressione, l'Asylum, oggi occupata dalla Piazza del Campidoglio (altezza m 36.50). A nord-est il Quirinale con il contiguo Vicinale. Ad est l'Esquilino, formato tra diversi costoni: il Cispio a nord, l'Oppio a sud, il Fagutal ad Ovest. A sud il Celio, anch'esso formato da tre diverse cime: il Celio, il Celiolo e la Sucusa, cui è adiacente il colle Aventino. Anche qui abbiamo due punte distinte: l'Aventinus major e l'Aventinus minor. Sulla riva sinistra del Tevere è ancora da menzionare un ultimo collo di secondaria importanza storica: il Pincio.
Tra i molteplici eventi storici che influirono sulla nascita e sullo sviluppo dell'urbanesimo romano possiamo considerare come fondamentali i seguenti: la fondazione sul Palatino, il carattere federale della prima comunità romana, quella del Septimontium, l'unificazione della città ad opera dei re etruschi, la disfatta contro i Galli del 390, ed infine la conquista del mondo, che farà di Roma la capitale di un impero. Nel 390 a.C, i Galli, dopo la vittoria su fiume Allia, entrano in Roma. Soltanto il Campidoglio, degno del suo ruolo di cittadella fortificata, resiste. Partiti i Galli invasori i Romani si affrettarono a ricostruire la città. Lo fecero in tali condizioni che il lavoro fu compiuto senza metodo, per cui per lunghi secoli l'urbanesimo romano ne pagò le conseguenze. Le proporzioni stesse del disastro avrebbero permesso di applicare un metodico piano urbanistico sconosciuto in passato (dal livellamento delle colline, dall'addolcimento dei pendii, al colmo delle valli troppo profonde, alla costruzione di una rete di fognature, al miglioramento della viabilità. Ciò non avvenne e per secoli Roma resterà la "Vetus Roma", fino a quando con le conquiste dell'Impero si assimileranno quelle conoscenze che cambieranno radicalmente la progettazione urbanistica.
I Romani dell'epoca classica, dal punto di vista etnico si presentano sotto due aspetti, in quanto sono Prisco-Latini e Romani nel senso geografico del termine. In quanto Prisco-Latini appartengono alla grande famiglia etnica italiota. Degli Italioti hanno i difetti cronici: accentuata grettezza, sensibilità mediocre, poca immaginazione, sfiducia istintiva nell'individualismo, ma anche alcune qualità, come il senso pratico, innata propensione per la disciplina e la gerarchia, tenacia nello sforzo, ardente patriottismo. Ma in quanto Romani, i più Latini dei Latini, la dura vita trascorsa tra foreste e paludi servì a sviluppare fino ad un grado altissimo le proprie carenze e le intrinseche qualità razziali. Nella concezione e nella realizzazione di piani urbani, queste doti peculiari hanno lasciato tracce profonde. Sotto questo aspetto tre caratteristiche sono particolarmente notevoli: il piacere della disciplina, il senso del concreto e la naturale tendenza alla grandiosità.
Dal punto di vista urbanistico lo Stato fin dai tempi della Repubblica aveva risolto i problemi essenziali; le acque, gli scoli, la circolazione, la viabilità, gli approvvigionamenti, l'assistenza pubblica. Per le acque la città possedeva quattro acquedotti: Acqua Appia, Acqua Marcia, Acqua Tepila, Anio Vetus. La circolazione è risolta con l'insieme delle strade e dei ponti. Tra le costruzioni pubbliche religiose e civili, templi, due circhi (Maximus e Flaminius), un teatro (di Pompeo), molte basiliche (Aemilia, Opimia, Porcia, Sempronia), un certo numero di portici (Metello, Minucia, d'Ottavio, di Filippo, di Pompeo). Ma rimanevano alcuni problemi. Tra questi la congestione del centro, sull'area ristretta occupata dal Foro e dal Comitium, dove si svolgeva la vita politica e quotidiana dell'agglomerato. Poi l'insufficienza della rete stradale: non esistevano comunicazioni pratiche nel cuore stesso di Roma, tra il Foro e il Campo di Marte. Inoltre la città aveva soltanto tre ponti: Sublicius, Aemilius, Cestius Fabricus. Cesare, scrive Svetonio, "sognava di giorno in giorno progetti sempre più numerosi e sempre più grandiosi. Il fine era di dare allo Stato romano una degna capitale in grado di competere con le grandi metropoli elleniche. Il programma era strutturato in due punti: un problema edilizio, delle sue carenze abitative e dell'ingombro del centro di Roma, un problema monumentale, dell'arredo urbano.
Le prime soluzioni che vennero definite da Cesare furono la lottizzazione almeno parziale dei giardini e dei parchi e l'utilizzazione delle zone pianeggianti periferiche. Ma quest'ultimo aspetto innescava il problema della distanza e della mancanza di trasporti pubblici. La zona dei giardini e dei parchi non fu toccata, al fine di conservare alla capitale sovrappopolata una cintura di verde e riserva di aria pura. Fu quindi inevitabile riversarsi sulla seconda soluzione, ossia l'utilizzazione delle zone pianeggianti periferiche: la pianura trastiberina a ovest, la subaventina a sud, quello del Campo di Marte a nord. Ma le prime due si eliminavano automaticamente, la pianura trastiberina perché troppo stretta e perché già sovrappopolata, la pianura subaventina per la presenza del porto e dei suoi annessi. Restava quindi la maggiore delle tre zone pianeggianti, il Campo di Marte con 2 km di lunghezza e 1900 metri di lunghezza, che aveva inoltre il vantaggio di essere il più vicino alla città. La soluzione di Campo di Marte urtava comunque con la grossa difficoltà dell'assenza delle comunicazioni. Per crearle occorrerà creare un considerevole varco tra il Campidoglio e il Quirinale. Il programma di Cesare si impernia così su due punti fondamentali: la lottizzazione del Campo di Marte e la creazione di comunicazioni comode tra il centro città e il Campo di Marte, operazione che sarà conclusa sotto Traiano.
Alla morte di Cesare il piano di lottizzazione del Campo di Marte era già stato iniziato. Il Foro di Cesare è inaugurato nel 46: i nuovi edifici del Foro, la Basilica Julia, Saepta Julia, Teatro di Marcello sono in costruzione. Tuttavia la legge Julia Municipalis, con tutti i regolamenti di ordine urbano inerenti, non entrerà in vigore fino alla morte di Giulio Cesare. Ottaviano Augusto si pose come esecutore testamentario di Cesare. Ma consapevole che il progetto del suo predecessore avrebbe costretto all'abbandono delle case da una parte considerevole della popolazione, porterà a quei programmi delle profonde modifiche. Augusto completerà la costruzione degli edifici monumentali ma abbandonerà il progetto della lottizzazione del Campo di Marte e della deviazione del Tevere. All'idea di Cesare si era ormai sostituita una nuova soluzione: spostare verso il nord il centro monumentale tradizionale della città e sistemare il Campo di Marte. In tal modo Augusto e i suoi successori lo riempiranno di monumenti pubblici: il Campo di Marte diverrà sotto l'Impero un quartiere ufficiale come il Palatino, il Foro e il Campidoglio mentre la zona periferica dei giardini e dei parchi sarà lasciata intatta.
Con la costruzione di un secondo Foro Imperiale contiguo a quello di Cesare, Augusto continua l'impresa di allacciamento tra il centro della città e il Campo di Marte concepita dal suo predecessore e soprattutto la realizzazione della Città dalle XIV regioni, l'"Urbs XIV regionorum". L'opera urbana di Augusto si concentrò così su due obiettivi principali: l'annessione dei sobborghi e la divisione della nuova città in quattordici regioni. Fuori dalla città ufficiale si erano ben presto costituiti sobborghi importanti in particolar modo lungo le grandi vie Flaminia, Salaria, Nomentana, Tiburtina, Prenestina, Labicana, Appia, Ostiense e Aurelia. L'insieme di questi sobborghi portava un nome ufficiale, si chiamava infatti "continentia" ed era compreso in una zona nettamente determinata, la zona suburbana dei mille passi, 1478 metri di distanza dall'Urbs vera e propria. Nel 7 a.C, Augusto creò con l'annessione dei sobborghi la grande città, sobborghi che formavano attorno a Roma una serie di "pagi" e gli abitanti erano designati col nome di pagani. Fin dai tempi della Repubblica due "pagi" risultavano integrati nella città, il Capitolino e l'Aventino, mentre gli altri avrebbero mantenuto una certa autonomia. La creazione della Città delle XIV regioni e l'estensione del perimetro urbano determinarono per i sobborghi una duplice conseguenza: la sparizione di pagi periferici e l'assorbimento da parte della città di un certo numero di sobborghi.
Roma imperiale comprende tre grandi parti: la città vera e propria, "Urbs XIV Regionum", i sobborghi, "Continentia", e la periferia. Non essendo pervenuta nessuna pianta geografica antica che permetta di determinare il perimetro di queste parti, per ricostruire il perimetro della Città delle XIV regioni si utilizzano le fonti antiche e le scoperte risultanti da scavi recenti e dalla costruzione di nuovi quartieri. I principali elementi utilizzabili sono i seguenti: il tracciato del perimetro della città alla fine della Repubblica che fornisce i dati per un punto di partenza; la linea di Pomerio urbano sotto l'Impero; la cinta daziaria; le indicazioni statistiche relative alla censura di Vespasiano e Tito (73-74) riportate da Plinio Il Vecchio; l'iscrizione dell'obelisco dinanzi alla tomba di Antinoo; il tracciato delle mura aureliane; le guide delle regioni del IV secolo. Alla fine della Repubblica i confini ufficiali comprendono sei dei sette colli sulla riva sinistra: Palatino, Quirinale, Vicinale, Esquilino, Celio, Campidoglio, tutti inglobati nella cinta muraria serviana. Soltanto l'Aventino ne è escluso. La linea pomeriale coincideva col tracciato delle mura serviane. La line adaziaria, creata da Vespasiano, fu segnata da un muro, la "moenia urbis" di Plinio il Vecchio che delimitava la città delle XIV regioni. Le statistiche elaborate sotto Vespasiano e Tito dicono che il perimetro segnato dalla linea daziaria era di 13.200 passi (19.536 metri), il numero delle porte 37.
Il limite ufficiale dell'Urbe alla fine della repubblica è dato dalla linea del Pomerio. Ne deriva come prima conseguenza che la Roma imperiale si stende interamente sulla riva sinistra del Tevere, mentre la regione transiberiana ne resta fuori. A ciò va aggiunto che la linea pomeriale si confonde col perimetro della cinta muraria. In confini ufficiali alla fine della Repubblica comprendoni, dunque, sei dei sette colli della riva sinistra, Palatino, Quirinale, Vicinale, Esquilino, Celio, campidoglio, tutti inglobati nella cinta muraria serviana. Soltanto l'Aventino ne è escluso. Staccandosi dal Tevere di fronte alla punta meridionale dell'isola Tiberina, il confine traversava in linea retta la stretta pianura compresa tra il fiume e il campidoglio, seguendo a mezza costa la scarpata settentrionale del colle capitolino e, attraverso la depressione tra Campidoglio e Quirinale, raggiungeva quest'ultimo colle di cui coronava le pendici settentrionali fino alla porta Collina. A questo punto le mura ripiegavano verso sud-est, tagliando obliquamente la zona dell'Esquilino di cui racchiudevano in città gli sproni occidentali: il Cispius, l'Oppius e il fagutal. In seguito le mura attraversavano perpendicolarmente la vallata che separa l'Esquilino dal Celio e, descrivendo una grande curva con la convessità volta a sud, chiudevano nella città tutta la parte settentrionale del Celio. Oltre porta Capena, attraverso cui passava la Via Appia, il limite urbano si staccava dalla cinta serviana raggiungendo la sommità dell'Aventino che seguiva fino al Tevere, quindi, correndo lungo la riva sinistra del fiume, tornava al punto di partenza. Il perimetro della città, così delimitata, era di circa 9.650 metri e la superficie inclusa di 320 ettari circa.
Il tracciato delle vie di Roma in epoca imperiale è il risultato di due elementi necessari e complementari: uno è naturale, la topografia del suolo, l'altro artificiale, l'assenza di metodo che dopo la distruzione ad opera dei Galli nel 390 a.C caratterizzò la ricostruzione della città. Il centro geografico della rete stradale è la depressione del Foro, dove all'interno s'incrociano due grandi arterie, la Via Sacra (da nord-ovest a sud-est) e il Vicus Cuscus (da nord-est a sud-ovest). Dalla depressione centrale le vie principali si aprono a ventaglio verso l'esterno, seguendo generalmente le zone piane che dividono le diverse colline di Roma. Le vie più importanti, partendo dal Tevere e procedendo in senso orario da ovest a est, sono le seguenti:
La Via Flaminia, iniziata dal console Caio Flaminio nel 223 e terminata dal figlio nel 187. Partiva dall'estremità meridionale del Campo di Marte, da cui con una salita, il Clivus Argentarius, aggirando l'Arce a nord-est, giungeva al Foro. La via, sotto il nome di Via Lata dapprima, e poi di Via Flaminia, attraversava il Campo di Marte da sud a nord, oltrepassando la cinta Aureliana per la Porta Flaminia, e si dirigeva quindi verso Rimini, per l'Etruria meridionale e l'Umbria. L'Alta Semita, la grande via del Quirinale, partiva dai pressi del Foro di Traiano, superava la salita del Quirinale traversandolo da parte a parte per giungere fino alla Porta Collina: a questo punto si biforcava; a nord-ovest la Via Salaria, a nord-est la Via Nomentana.
Un'altra via, il Vicus Longus, seguiva la depressione fra Viminale e Quirinale, e superato questo colle raggiungeva l'Alta Semita a sud della Porta Collina. La grande arteria dell'Esquilino partiva dalla Via Sacra, nel Foro, col nome di Argiletum, seguiva la depressione naturale nel quartiere della Suburra e si divideva in seguito in due rami: uno a nord-ovest, il Vicus Patricius, correva fra Viminale ed Esquilino, oltrepassava la cinta Serviana alla Porta Viminalis e quella Aureliana; l'altro ad est, il Clivus Suburanus, cioè la salita della Suburra, raggiungeva le mura serviane alla porta Esquilina. A quel punto si divideva in due bracci: a nord la Via Tiburtina, che superava le Mura di Aureliano puntando poi su Tivoli. A sud la Via Labicana, che oltrepassate le Mura di Aureliano si divideva in due ulteriori diramazioni: a nord la Via Prenestina, strada per Preneste, a sud la Via Labicana, strada per Labico. Tutte e due le diramazioni raggiungevano successivamente la Via Latina.
Dall'estremità sudorientale della Via Sacra, nella zona dell'Anfiteatro Flavio, partiva la Via Asinaria, che correva lungo la depressione fra Esquilino e Celio, traversava le mura Serviane per la Porta Caelemontana, le Mura di Aureliano per la Porta Asinaria e raggiungeva Tuscolo e la regione dei Monti Albani. La celebre Via Appia, la grande via di comunicazione fra Roma e l'Italia meridionale, aveva inizio a sud del Foro Boario. Percorreva successivamente le due vallate fra Aventino e Palatino, attraversava le Mura Serviane alla Porta Capena, e le mura Aureliane alla Porta Appia, e toccava successivamente Capua, Benevento, Taranto e Brindisi. Nel tratto urbano la Via Appia costituiva il punto di partenza per numerose altre vie importanti. Sulla sinistra a metà strada tra Porta Capena e Porta Appia se ne diramava la Via Latina, che dopo aver superato la cinta Aureliana alla Porta Latina, attraversava il Lazio da nord-ovest a sud-est, per ricongiungersi all'Appia in Campania, presso Capua. A destra, nella zona meridionale della depressione del Circo Massimo, si diramava il Vicus Piscinae Publicae, che, dopo aver percorso l'avallamento fra le due cime dell'Aventino, traversava le mura di Sevio alla Porta Raudusculana e successivamente si biforcava: a sud la Via Ardeatina attraversava le Mura di Aureliano alla Porta Ardeatina e puntava su Arde e il litorale del Lazio; a sud-ovest la Via Ostiensis: la grande via di comunicazione fra Roma e il suo porto raggiungeva Ostia dopo aver superato le mura alla Porta Ostiensis. La grande strada che collegava Roma alla regione trasteverina, partiva dal Foro Boario, attraversava il Tevere sul Ponte Sublicio e sulla riva destra si divideva in due: la Via Portuensis a sud, la Via Aurelia a nord, che attraversava la zona di Trastevere in linea retta, saliva il Granicolo con una serie di tornanti, passava le mura alla porta Aurelia e dopo aver percorso l'Etruria meridionale raggiungeva il litorale tirrenico che seguiva fino alla Gallia. Elementi fondamentali del tracciato viario urbano durante l'impero sono dunque il centro nella depressione del Foro e l'impostazione radiale delle strade.



LA NOMENCLATURA DELLE STRADE


I nomi delle strade a Roma avevano origini molto diverse. Possono essere suddivisi in alcune grandi categorie. Le fonti d'informazione sono principalmente la Base capitolina, per i vici delle Regioni I, X, XI, XII, XIII, XIV, del 136 d.C e l'editto del prefetto dell'Urbe Terraccio Basso, posteriore al 368.

a) Nomi che ricordano una caratteristica geografica
Via Lata (VII e IX regione), via larga, tratto meridionale della Flaminia fino al Campo di Marte

b) Nomi in ricordo della zona preesistente
Vicus Loreti Maioris e Vicus Loreti Minoris (XIII), via del grande e del piccolo bosco di lauro (loretum) che si trovavano in quella zona
c) Nomi provenienti dalla data di costruzione
Novia Via (IV-VIII regione), via nuova, via Nova (XII), via nuova, costruita da Caracalla per raggiungere il Tevere
d) Nomi in rapporto al traffico predominante
Via Salaria (VII), strada del sale; destinata al trasporto verso l'interno montagnoso del sale ricavato dalle saline del litorale
e) Nomi in rapporto all'attività economica del quartiere
Vicus Vitrarius (I), via dei Vetrai, Vicus Argentarius (VIII), via degli agenti di cambio. Il quartiere posto fra le pendici occidentali dell'Aventino e il Tevere era, fin del V secolo a.C, centro del commercio del grano.
f) Nomi della località cui conduce la strada
Via Latina (I) portava nel Lazio meridionale, Via Tiburtina (V), via di Tivoli, portava alla città omonima. Via Nomentana (V), via di Nomento, portava alla città omonima.
g) Nomi che ricordavano i magistrati costruttori della strada
Clivus Scauri (II), salita di Scauro. Via Appia (I), dal nome di Appio Claudio, censore dal 312 al 308 a.C. Via Flaminia (VIII e IX regione), dal nome di Flaminio, console nel 223 o di suo figlio console nel 187. Via Aurelia (XIV) dal nome di un Aurelio che la costruì nel corso del II° secolo a.C
h) Nomi che ricordavano un fatto storico avvenuto
Vicus Scelaratus (IV), via scellerata: la tradizione narrava che là Tullia, figlia di Servio Tullio aveva fatto passare il cocchio sul corpo del padre
i) dal nome del quartiere attraversato
Clivus Suburanus (IV), salita della Suburra, dal nome del quartiere di cui costituiva l'arteria principale
l) Dal nome di un qualsiasi monumento esistente nella strada o cui si arrivava per quella strada
Vicus Portae Collinae (IV), via di Porta Collina, conduceva all'omonima porta delle mura serviane. Clivus Martis (I), salita di Marte, per il tempio omonimo. Vicus Drusianus (I), via di Druso, portava all'arco di Druso sull'Appia.
m) Nomi di abitanti o di un gruppo di abitanti
Nome di abitanti o di un gruppo di abitanti
Vicus Africus (III), via d'Africa, dove, secondo Varrone, vennero tenuti gli ostaggi originari dell'Africa durante la guerra punica. Vicus Patricus (VI), via dei Patrizi.
n) Particolarità diverse
Vicus che portano il nome derivato da quello del quartiere: Vicus Veneris Almae, Vicus Quirini. Nella Roma Imperiale le piazze comprendono; le piazze propriamente dette, le spiante o spiazzi, i fori, i crocicchi. Le piazze propriamente dette erano di dimensioni diverse e avevano il nome di "aerae". Tra queste: l'Area Palatina, nella parte centrale del Palatino, l'Area Capitolina, che costituiva la parte centrale del Campidoglio. Gli spiazzi o spianate erano indicate col nome di "campi". Le guide delle regioni ne contano otto fornendone i nomi: Agrippae, Bruttinaus, Codetanus, Lanatarius, Martius, Octavius, Pecuarius, Viminalis. Ma oltre a questi campi ne esistevano altri. I campi erano molto più grandi delle piazze, come il Campus Viminalis, 500 metri per 700, cioè 350.000 m², che era costituito dalla parte del Vicinale al di fuori delle mura serviane fra il castro pretorio e la Porta Viminalis.
Le guide delle regioni elencano una serie di undici Fori esistenti nella Roma imperiale: Romanum Magnum, Caesaris, Augusti, Nervale, Traiani, Aenobarbi, Forum Boarium, Suarium, Pistorum, Gallorum et Rusticorum. I Fori Caesaris, Augusti, Nervale, Traiani costituiscono il complesso dei Fori Imperiali, il Forum Romanum Magnum era l'antico Foro repubblicano. Nelle liste delle guide mancano il Forum Vespasiani o Pacis, il Forum Holitoriun, il Forum Vinarium. I crocicchi sono l'incrocio di diverse strade. A secondo del numero di strade il "compitum" (crocicchio) è un bivium, un trivium, un quadrivium. Centro del quartiere (Vicus), il crocicchio (Compitum) col tempietto dei Lari che sempre vi sorge assume durante il periodo imperiale un carattere ufficiale. Al IV secolo si conteranno 322 crocicchi.
Contrariamente alle città greche ed ellenistiche le vie di Roma sono pavimentate: le piazze con lastre di travertino, le strade con blocchi poligonali di selce. Il lavoro, iniziato nel 174 a.C durante la censura di Fulvio Flacco e Postumio Albino e proseguito per due secoli di repubblica, fu compiuto solo durante l'Impero. Le strade più larghe, e solo quelle, avevano anche dei marciapiedi. Nel periodo imperiale il centro urbano era estremamente povero di giardini: i principali erano gli Horti Agrippae ed il Campus Agrippae nel Campo di Marte ma in un raggio più ampio la città era circondata da una ricca cintura di giardini e parchi. Tre gruppi di parchi facevano parte di questa cintura: la zona del Pincio-Quirinale, la zona dell'Esquilino, la zona della regione transtiberina.
Zona del Pincio Quirinale: Horti Domitiorum, Horti Aciliorum, Horti Luculliani, Horti Sallustiani.
Zona dell'Esquilino: Horti Maecenatis, Horti Taurini, Horti Lamiani e Maiani, Horti Torquatiani, Horti Pallantiani, Horti Epaphroditiani, Horti Liciniani
Gruppo della regione transitberina: Horti Caesarus, Horti Getae, Horti Agrippinae, Horti Domitiae, cui vanno aggiunti gli Horti Lolliani, sul Viminale e gli Horti Servilliani a sud dell'Aventino.
La maggior parte di questi giardini, in particolar modo quelli delle cintura verde, divennero gradualmente nei primi due secoli dell'Impero proprietà degli imperatori. Come parte integrante del demanio imperiale sono proprietà privata dell'imperatore che spesso vi risiede ed è naturale, eccezion fatta per qualche privilegiato, che l'ingresso sia vietato ai cittadini. Dato dunque che nel periodo dell'Alto Impero i giardini del demanio imperiale erano chiusi al pubblico le uniche passeggiate agibili erano i parchi di proprietà pubblica. Dalle fonti è possibile affermare che Roma imperiale aveva quattro giardini pubblici. I Giardini di Cesare, nella regione transtiberina, i Giardini di Agrippa e il Campus Agrippae e i Giardini che circondavano il Mausoleo di Augusto nel Campo di Marte. I Giardini di Cesare erano assai vasti, almeno da 1500 a 200 metri di lunghezza per 500 metri di larghezza e avevano un lussuoso apparato di edifici e di costruzioni tra cui due templi, quello della Fortuna Virile e quello del dio Sole di Palmira, portici, sale pavimentate di marmi, albastri e mosaici, ninfei, statue ed opere d'arte. I Giardini di Agrippa, tra la Via Lata e le terme omonime, erano arricchiti di numerosi capolavori d'arte, tra cui il leone morente di Lisippo, erano attraversati da un canale, l'Euripo, alimentato dall'Aqua Virgo e da un lago, lo Stagnum Agrippae, su cui Nerone organizzava delle feste nautiche. Tuttavia per la loro distanza dal centro urbano li rendeva poco fruibili, ad eccetto dei Giardini del Campo di Marte che si trasformarono ben preso nel luogo preferito di ritrovo dei Romani. Il sistema del portico, passaggio coperto parallelo alla via, si sviluppò durante l'Impero. Il principato di Augusto è caratteristico da questo punto di vista. Tutti i portici costruiti in questo periodo furono eretti nel Campo di Marte, con l'unica eccezione del Portico di Livia sull'Esquilino.
Il Portico dì Ottavio, nel Campo di Marte, fu costruito da M.Ottavio dopo una vittoria navale su Perseo, re di Macedonia. Il Portico di Metello venne costruito nel 146 da Cecilio Metello dopo la vittoria campagna macedone. Il Portico Minicia fu voluto attorno al 110 da Minicio Rufo. Il Portico di Ottavia nella parte meridionale del Campo di Marte, tra il Circo Flaminio e il Teatro di Marcello, fu fatto costruire nel 32 a.C da Augusto sul luogo in cui fece abbattere il Portico di Metello per dedicarlo alla sorella Ottavia. Nello stesso periodo al portico si aggiunsero i due templi di Giove di Giunone. Il complesso divenne di 130 metri di lunghezza e 110 di larghezza e comprendeva due parti: uno spiazzo in cui si trovavano i due templi ed il portico che ne costituiva la delimitazione in conci rivestiti di marmo prezioso, adorno di una duplice fila di colonne. Oltre ai due templi vi si trovava una biblioteca e una sala curia, di solito usta per le riunioni del Senato. Il Portico di Pompeo fu il più importante di quelli esistenti in età repubblicana, in grado di rivaleggiare per lusso con i fastosi portici orientali. Era stato costruito da Pompeo nel 55 a.C nel corso del suo secondo consolato. L'edificio era di forma rettangolare con al centro un vasto spiazzo tenuto a parto, abbellito da alberi, circondato da un colonnato. Ogni portico aveva ore di particolare affluenza: nel pomeriggio era preferito il Portico di Vipsania nel Campo di Marte, ma se era troppo caldo era preferibile il Portico di Pompeo per la freschezza delle fontane. Nel Campo di Marte i giovani fidanzati si davano appuntamento, come scrisse lo stesso Orazio. I portici costituivano spesso un'alternativa di svago. Il Portico di Ottavia conteneva una biblioteca e una sala di riunione, nel Portico di Vipsania si trovava esposta al pubblico la monumentale carta del mondo eseguita per volontà di Agrippa. Nel Saepta Julia si tenevano rappresentazioni teatrali, audizioni, mostre, combattimenti di gladiatori. Questi portici in genere occupavano uno spazio rettangolare, chiuso da una o più file di arcate; al centro vi erano giardini con cascate, statue, spesso anche templi. Per le opere d'arte esposte al pubblico spesso erano veri e propri musei. I Romani nutrirono sempre una certa passione per i bagni. Tuttavia i primi bagni pubblici (balnea) verranno costruiti tardi, nel II secolo a.C. In epoca imperiale il numero dei bagni si moltiplicò rapidamente. Marziale ne cita alcuni, frequentati da un'ambigua clientela di persone parassite e viziose: i Bagni di Fortunato, quelli di Grillo, quelli Lupo. I bagni furono luoghi frequentatissimi e di grande rumore, come appare nel resoconto di Seneca in una lettera inviata a Lucilio: "Ed eccomi nel bel mezzo del più orrendo casino. Sono sistemato proprio al di sopra di uno stabilimento balneare e lascio alla tua immaginazione figurarsi ciò che l'umanità riesce a fare, in quanto ad esasperanti rumori….". Per quanto lussuosi e frequentati fossero questi bagni vennero presto soppiantati nel favore pubblico da stabilimenti concepiti in modo più grandioso e con una struttura più complessa, destinate a divenire la passeggiata favorita e il luogo di svago per eccellenza del popolo romano. Tanto successo si spiega con molte ragioni: la grandiosità, l'ammirevole funzionalità dei locali, la fastosità delle decorazioni, ed il numero eccezionale di divertimenti che potevano offrire. Le dimensioni sempre crescenti permettevano di accogliere un numero sempre maggiore di clienti: in seicento potevano contemporaneamente bagnarsi nelle Terme di Caracalla, in tremila in quelle di Diocleziano. Tra le strutture presenti all'interno un piccolo stadio, una palestra, biblioteche, sale di conversazione, auditori letterari o musicali, un teatro. Vi si tenevano esposizioni diverse, vi si trovavano negozi di vario tipo e ristoranti. Come i portici le terme furono i grandi musei di Roma durante il periodo dell'Impero. Dalle Terme di Traiano ci giungono il Lacoonte di Agessandro, Atenodoro e Polidoro di Rodi, la Venere Callipigia, e il Plutone con Cerbero del Museo Capitolino. L'entrata alle terme era a pagamento, al contrario che per i portici. La tariffa comunque era molto bassa, un quarto di asse per gli uomini, un po' più alta per le donne, mentre i ragazzi entravano gratuitamente. Le terme furono il centro di passeggio di tutta la popolazione romana fino alla caduta dell'Impero. Il problema dell'habitat nella Roma Imperiale è dominato da due fattori: un'enorme popolazione, fra il milione e l milione e mezzo da alloggiare,e la necessità, in mancanza di adeguati mezzi di trasporto, di restare in uno spazio limitato, specialmente per la città vera e propria. Dal III° secolo in poi, quando Roma diventa una grande città, esiste un'unica soluzione concreta: guadagnare in altezza con edifici di tipo verticale, ad appartamenti sovrapposti, le insulae. Gli edifici costruiti a Roma, pubblici i privati che siano, andavano sotto la comune denominazione di "aedificia". L'aggiunta del termine "privata" indica chiaramente una costruzione privata, che si distinguono in due tipologie: domus e insulae. "Sarebbe difficile contare il numero di domus, insulae e templi che andarono distrutti", scrisse Tacito a proposito del grande incendio del 64. Le domus sono le case private, le ville, in genere abitate da una sola famiglia, con personale di servizio. Le domus di Roma, con la caratteristica comune dell'orizzontalità, sono però di due modelli differenti: o presentano il classico schema etrusco-romano ad atrio (stanze impostate attorno ad un atrium, un unico accesso dall'esterno, spesso fiancheggiato da botteghe), quale ad esempio la cosiddetta Casa di Livia sul Palatino; oppure lo schema ad atrio e peristilio, ellenistico-romano, in cui il lusso dell'ultimo secolo della repubblica si esprime attraverso le aggiunte di un colonnato ed il moltiplicarsi degli annessi (balconi, verande), schema che si ritrova ad esempio nei ruderi scoperti dietro i templi B e C di largo Argentina. Queste domus inoltre potevano essere delle più svariate dimensioni. Nei quartieri centrali, Palatino, Foro, Campidoglio, Velabro, Argiletum, dato il numero dei monumenti pubblici, la densità della popolazione e, di conseguenza, la scarsità di terreno disponibile, queste case erano in generale di dimensioni ridotte. Il reperimento delle case del periodo repubblicano sul Palatino, al di sotto del Palazzo dei Flavi, ce ne dà una prova. Tutte queste case furono smembrate e sfigurate durante la costruzione dei Palazzi Imperiali.
Quello che resta della vasta dimora dell'imperatore Nerone è un immenso padiglione di circa trecento metri di lunghezza per cinquanta di larghezza, una serie di enormi stanze, oggi quasi completamente buie e prive delle preziose decorazioni in marmo. L'incendio del 64 d.C, che devastò la città colpì anche le costruzioni imperiali, così si diede inizio alla costruzione di una nuova residenza che verrà ricordata nella leggenda grazie ai racconti di antichi scrittori come per esempio Svetonio. Gli architetti progettisti della Domus Aurea furono Severo e Celere mentre il pittore Fabullus ebbe il compito di decorare gran parte della residenza. Secondo gli studi recenti l'edificio superstite venne probabilmente costruito in due tempi successivi e i lavori vennero completati dall'imperatore Ottone e forse anche da Tito. La Domus si distribuiva, alternando giardini ed edifici, lungo le pendici del Colle Oppio, occupando l'area dello stagno e risalendo il versante orientale del Palatino. Causa del definitivo abbandono fu la costruzione delle terme di Traiano, avvenuta dopo l'incendio del 104 d.C che contribuì a rendere inagibile la parte della Domus Aurea ancora abitata. Secondo la prassi edilizia dei romani, dopo aver asportato tutto ciò che poteva essere riutilizzato, gli ambienti della dimora neroniana vennero inglobati nelle murature delle fondazioni delle terme e interrati, limitando così al minimo i costi di demolizione.
L'area settentrionale del Palatino è occupata dalla vasta spianata a forma rettangolare degli attuali Giardini Farnesiani, ultima testimonianza degli insediamenti cinquecenteschi sul colle. In effetti, il grande pianoro non è altro che una sorta di giardino pensile che copre i resti della dimora dell'imperatore Tiberio (14-37 d.C), la Domus Tiberiana che doveva avere uno sviluppo planimetrico di centocinquanta metri di lunghezza e di centoventi di larghezza, per un'altezza di circa venti. L'edificio, sede preferita degli imperatori Antonimi, doveva contenere una biblioteca e l'archivio imperiale, che bruciarono durante il regno dell'imperatore Comodo (176-192 d.C). Lungo il lato sudorientale della Domus Tiberiana è ricavato un corridoio sotterraneo lungo circa centottanta metri e illuminato da una serie di lucernari. Il lungo criptoportico, oggi percorribile, si collegava con la Casa di Livia e attraverso una deviazione trasversale raggiungeva anche la Domus Flavia. Questo cripotoportico e gli altri, scoperti o parzialmente individuati, rappresentavano una serie di vere e proprie strade di servizio percorribili con carri che collegavano tutti i palazzi imperiali. Gli scavi condotti nell'area nordorientale del palazzo dei Flavi, edificato al Palatino da Domiziano, hanno permesso di localizzare la presenza di edifici più antichi, sottostanti i livelli imperiali. Il rinvenimento più importante si fece durante gli scavi del 1912 nel larario del palazzo. Qui accuratamente tagliate dalle fondazioni flavie, si sono conservati i resti di una casa romana su due piani (Casa dei Grifi) databile tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. Le stanze inferiori conservano ancora i pavimenti e le decorazioni pittoriche relative al "primo" e "secondo stile pompeiano", imitanti rivestimenti marmorei e trabeazioni; mentre in una stanza, in una splendida lunetta, sono rappresentati due grifi in stucco, contrapposti su campo rosso. Del piano superiore si conservano le tracce di un cortile all'aperto su cui si aprono alcuni ambienti. I rivestimenti pittorici di alcune stanze sono conservate nell'Antiquarium Palatino.
L'angolo occidentale del Palatino è forse la zona più importante di tutto il complesso archeologico perché conserva le testimonianze più significative della storia e delle leggende alla fondazione e ai primi secoli della vita della città. Nel 1869, per incarico di Napoleone III, l'archeologo Pietro Rosa mise in luce una casa di epoca repubblicana con murature databili tra il 75 e il 50 a.C che erroneamente, interpretando un passo di Svetonio, venne detto casa di Livia. La casa è profondamente incassata nel suolo e in origine si sviluppava su due piani, collegandosi con gli altri edifici coevi circostanti. Allo stato attuale si accede attraverso un corridoio, che conserva intatto il pavimento e l'intonaco delle pareti, in un cortile, con pavimentazione a mosaico, forse coperto in origine da un tetto spiovente. Sul cortile si aprono vari ambienti: tre aule lunghe affiancate e una quarta isolata a ovest. Nell'aula centrale, ritenuta la sala di ricevimento, sono ben conservati gli affreschi della parete di destra, databili intorno al 30 a.C. La decorazione, caratteristica del "secondo stile pompeiano", ripartisce la superficie con una serie di architetture fantastiche, esili colonne su basi, con una visione prospettica che si apre su paesaggi, case e personaggi. Al centro della composizione è immaginata una finestra aperta, dove è dipinta la leggenda di Io, sacerdotessa di Giunone, che è qui seduta sotto l'idolo della Dea; sulla destra è Argo con lancia e spada e, a sinistra, Mercurio.
Lungo la via Salaria è stato individuato il complesso cemeteriale di gallerie ipogee articolate su più piani delle catacombe di Priscilla. Le catacombe comprendono tre nuclei principali: la regione degli Acilii, l'arenario, la regione della "Cappella Greca". Un' attenta lettura delle opere murarie ha portato a riconoscere nella regione degli Acilii una serie di ambienti che in origine non avevano nessuna destinazione cemeteriale, ma appartenevano a settori semisotterranei di una villa privata, quasi sicuramente quella degli stessi Acilii, antica famiglia romana. Si possono riconoscere in questa regione un tratto di corridoio in mattoni con volte a crociera e un ambiente che per il suo caratteristico rivestimento di impermeabilizzazione era quasi sicuramente una cisterna. Nella Cappella greca si individuano i resti di un criptoportico, poi parzialmente trasformato in cisterna, e una sala a pianta ottagonale con quattro nicchie absidale chiaramente pertinente a un ninfeo. Tutti i locali qui descritti vennero successivamente inglobati nelle catacombe di Priscilla, ma non prima del III° secolo, quando anche un braccio del criptoportico fu trasformato in ipogeo cemeteriale e riccamente affrescato con scene relative alla nuova religione cristiana. Probabilmente la proprietà e la villa degli Acilii furono poi messe a disposizione della comunità cristiana. Quando l'imperatore Vespasiano diede inizio alla costruzione dell'Anfiteatro Flavio si procedette al prosciugamento del laghetto della Domus Aurea neroniana e si iniziò a gettare la fondazione in calcestruzzo romano. La grande platea di fondazione, a forma di corona ellittica, aveva uno spessore di tredici metri e nel suo interno gli ingegneri romani ricavarono una serie di mirabile canalizzazioni per il deflusso delle acque piovane e di falda. Una volta costruito l'elevato del monumento, si procedette all'interramento delle aree circostanti fino a raggiungere il piano attuale della piazza che venne poi lastricato. I tavolati della vasta area dell'arena poggiavano su una serie di muri paralleli, nei quali vennero ricavati gli alloggiamenti degli ascensori che venivano utilizzati per trasportare le belve e i gladiatori. Ai sotterranei del Colosseo, illuminati dalle torce e dalle lampade ad olio, si accedeva attraverso quattro corridoi posti lungo gli assi dell'edificio, così che era possibile raggiungere questi ambienti anche con i carri. Il cripotoportico a nord collegava i sotterranei del Colosseo con il Ludus Magnus (la vicina caserma dei gladiatori), dove esisteva una serie di edifici di abitazione che si aprivano su un cortile con palestra scoperta di forma ellittica, un anfiteatro in miniatura. Dai sotterranei, presso il palco dove l'imperatore assisteva agli spettacoli, salgono alcune scalette, che consentivano il collegamento diretto con il palco imperiale. Da questo parte un altro corridoio ipogeo, illuminato da lucernari, che in origine aveva un rivestimento in marmo e la volta decorata con stucchi dipinti, era utilizzato dagli imperatori per accedere al Colosseo senza essere visti.
I resti del teatro di Pompeo e del grande portico retrostante la scena sono quasi completamente scomparsi sotto le costruzioni che già in epoca medievale li utilizzarono come fondazione. La costruzione del teatro e degli edifici annessi per Roma fu un avvenimento singolare: la legge infatti proibiva l'edificazione i teatri in muratura, e quindi stabili, nella città. In genere quando si volevano organizzare spettacoli si ricorreva alla costruzione di strutture lignee, poco sicure e facilmente preda delle fiamme. Pompeo, avvalendosi della carica di console, costruì nel 55 a.C su un altopodio, un tempio dedicato a venere Vincitrice e nell'are antistante una gradinata a forma di esedra dal diametro di centocinquanta metri. Questa cavea era delimitata da una scena monumentale lunga novanta metri decorata con nicchie e absidi. Secondo la tradizione, Pompeo fece anche costruire un doppio portico (180 per 35 metri), ornato di sculture e marmi preziosi, affinché vi si potessero rifugiare gli spettatori in caso di pioggia o vi trovassero sollievo fra il verde dei giardini. Il complesso monumentale fu più volte restaurato e mantenuto costantemente agibile. Tra gli ambienti del portico vi era una sala adibita a "curia" dove si poteva riunire il senato di Roma e dove, all'inizio di marzo del 44 a.C, i settanta congiurati uccisero Cesare. Prima della costruzione dello stadio di Domiziano, in questa area del Campo Marzio, presso il Pantheon, sorsero le terme Neroniane Alessandrine, fatte costruire da Nerone nel 62 d.C e completamente restaurate da Alessandro Severo nel 227. Presso le terme Nerone fece realizzare una grande palestra contornata da giardini che, secondo Svetonio, suggerì all'imperatore Domiziano l'idea di costruire un nuovo stadio per abbellire il Campo Marzio e per poter far svolgere le gare ginniche e le corse dei cavalli. Sulle gradinate dello stadio vennero costruiti in successione di tempo gli edifici che delimitano l'odierna Piazza Navona, coincidente quasi alla perfezione con l'arena degli spettacoli. Lo stadio, che fu costruito per ordine di Domiziano nell'86 d.C, aveva 275 metri di lunghezza e 106 di larghezza, le gradinate erano divise in due settori e secondo le stime degli antichi catasti regionali potevano accogliere circa trentamila spettatori. Lo stadio di Domiziano era perfettamente conservato e funzionante ancora nel 356 d.C.
Alle pendici del piccolo Aventino, verso oriente, nel 206 d.C, Settimio Severo gettò le fondazioni delle terme che presero il nome da Marco Aurelio Antonino detto Caracalla, che le inaugurò nel 216. In effetti i lavori continuarono fino al 235, con opere di sistemazione e con l'aggiunta di altri edifici e portici. La costruzione della grande platea portò al seppellimento e alla parziale distruzione di una serie di abitazioni private. L'edificio termale è costituito da un grandioso recinto con portici e giardini (337 per 328 metri), un corpo centrale con padiglioni e piscine e un complesso di cisterne (64 camere) su più piani, alimentate da un ramo dell'acquedotto dell'Aqua Marcia e della capacità di ottantamila litri. Nel corpo centrale si riconosce una piscina scoperta di acqua fredda (frigidarium), un'aula di collegamento (tepidarium), una sala circolare per il bagno caldo (calidarium). Ai lati altri ambienti, l'ingresso degli spogliatoi, le grandi palestre. Gli scavi che iniziarono a partire dal XVI secolo, hanno restituito un'enorme quantità di oggetti preziosi e opere d'arte sparse oggi in vari musei. L'edificio posto lungo la Via Salaria antica, presso un'area cemeteriale, fu scoperto casualmente nel 1923 in Via Livenza a nove metri di profondità. Nella stanza, a pianta rettangolare e coperta a volta, si distingue al centro una vasca profonda tre metri con un bordo di pietra. Sui lati corti si aprivano due porte di accesso ad altri locali, oggi ignoti, che non vennero esplorati al momento della scoperta. Il lato lungo presenta una nicchia absidata, spostata rispetto all'asse della parete, decorata con pittura imitante un rivestimento in marmo; in alto è raffigurato una cantharos su cui poggiano alcune colombe. Ai lati della nicchia si conservano due scene dipinte, una che rappresenta Diana alla caccia di due cervi mentre estrae dalla faretra una freccia, l'altro una ninfa in abiti venatori che carezza un capriolo. Nella parete parallela a quella di fondo si aprono tre archi. Quello centrale conserva sulla sinistra i resti di un mosaico policromo dove si distinguono le parti inferiori di due figure, dove si vuole riconoscere Pietro che fa sgorgare l'acqua dalla roccia per battezzare il centurione convertito.
Negli anni 1934-1939 durante le indagini condotte da padri di Santa Prisca nei sotterranei della chiesa alla ricerca dell'antica domus ecclesiae, nel quale avrebbero trovato asilo Pietro e Paolo, si rinvenirono i resti di almeno due abitazioni private e un grande mitreo. Le case romane, databili al I e II secolo d.C, subirono vari adattamenti e forse quando nel lato sud si impiantava il titulus paleocristiano a nord sorgeva il mitreo. Il culto di Mitra giunse a Roma dalla lontana Persia fin dal I secolo e si diffuse ampiamente nel II e III secolo tanto da costituire un temibile avversario del nascente cristianesimo. Il mitreo individuato sotto la chiesa di Santa prisca all'Aventino è conservato in buono stato, se si considera che al tempo di Teodorico (378-395) venne distrutto e profanato intenzionalmente, forse dagli stessi cristiani. Il vero e proprio mitreo è costituito da una grande sala coperta a volta, ai lati della quale sono disposti due banchine in muratura, che venivano utilizzate dai partecipanti al banchetto sacro. Sulle parete esterna della nicchia l'intonaco conserva un graffito datato al 202 d.C, nel quale, secondo recentissimi studi, si dovrebbe riconoscere una dedica commemorativa della costruzione del mitreo stesso. Sulle pareti dell'aula si conservano due fasce affrescate tra il 200 e il 220, dove sono rappresentate una sequela di scene relative alle cerimonie sacre mitriache e dove personaggi in processione rappresentano tutti i gradi dell'iniziazione. Intorno al mitreo sono stati individuati vari locali secondari: la stanza degli arredi sacri dove il pontefice e gli altri membri del collegio indossavano le vesti, quella delle iniziazioni e quella per le cerimonie di purificazione.
Il complesso archeologico della basilica di San Sebastiano, localizzato tra il II e il III miliario della Via Appia, ha restituito molti avanzi di costruzioni antiche relativi a case private, sepolcri, catacombe ed edifici di culto cristiano. I tre sepolcri monumentali vennero rinvenuti durante gli scavi di una porzione dell'arenario. Qui vennero ricavate, già verso la fine della Repubblica una serie di sepolture pagane e nel II secolo, a seguito di un crollo in un 'area poi detta "piazzola" si edificarono tre importanti sepolcri a camera con ingresso monumentale, denominati di "M.Clodius Hermes", per l'iscrizione ancora in luogo; degli "Innocentories"; e dell'"Ascia", per un'ascia scalpellata sulla facciata. Verso la metà del III secolo l'area della piazzola e l'ingresso delle tombe fu colmato di terra e sul piano così ricavato si diede inizio alla costruzione della Triglia (cortile utilizzato per le funzioni religiose) ove si veneravano gli apostoli. Il sepolcro di Hermes conserva una facciata in mattoni e tracce di una pittura con rappresentazioni relative a un banchetto funerario. All'interno, nella prima aula, si conserva ancora la pavimentazione in mosaico con decorazioni geometriche, mentre sulle pareti si riconoscono resti di pitture relative forse al repertorio pagano. Il sepolcro degli Innocentories conserva anch'esso la facciata monumentale d'ingresso in mattoni.
Attraverso una ripida scala coperta a volta, si accede alla cella dove sono i vari loculi e resti di decorazioni in stucco. Sull'epigrafe tombale di un'Ancozia e di un Atimeto (forse del II secolo) compaiono i simboli dell'ancora e del pesce: la circostanza farebbe pensare a famiglie o collegi pagani già permeati delle nuove credenze religiose o addirittura ad antichi e interessantissimi casi di promiscuità religiosa nelle sepolture. Il sepolcro dell'Ascia conserva una grande cella con loculi caratterizzata da stucchi rappresentanti paraste con capitelli destinate a sorreggere un gioco di volte decorate da rami di vite con pampini e grappoli, che partono da vasi posti agli spigoli della volta stessa. L'espressione "Ad Catacumbas" indicava, nell'antichità romana, una località presso la via Appia, comprendente anche la chiesa di San Sebastiano, dove secondo la tradizione cristiana sarebbero state trasportate le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo. Il termine, che in principio voleva ricordare la sepoltura dei due celebri personaggi della chiesa, venne successivamente usato per indicare tutti i cimiteri collettivi cristiani scavati nel suolo, le catacombe. Per gli antichi cristiani la morte era soltanto un lungo sonno in attesa della resurrezione e quindi i cadaveri dovevano essere seppelliti, e non cremati, in grandi cimiteri, posti come voleva le legge romana fuori dalle mura. Così si cominciarono a scavare le gallerie funerarie, adattando spesso ampi vani di cave abbandonate e inglobando vecchi sepolcri ipogei pagani o sotterranei di ville e abitazioni private. I cunicoli, molto alti e non troppo larghi, si sviluppavano orizzontalmente con tracciati spesso irregolari o a griglia, ed erano disposti su più piani, comunicanti per ripide scalette (si sono individuati fino a cinque piani successivi). Lungo le pareti si scavavano su più livelli una serie di loculi nei quali venivano deposti i defunti dopo essere stati avvolti da lini e bende incrociate e cosparsi di oli ed essenze profumate. Il loculo veniva poi sigillato con lastre di pietra o mattoni e sulla calce fresca si applicavano oggetti vari relativi al culto. Naturalmente nei corridoi sotterranei abbondavano lucerne e fiaccole, che erano anche utilizzate per l'illuminazione.
Lo sviluppo complessivo delle rete cemeteriale romana pare oscillasse tra i cento e i centocinquanta chilometri con un numero di tombe superiori al mezzo milione. Le catacombe, a differenza delle tombe ipogee pagane i cui ingressi venivano sigillati e nascosti alla vista per timore dei predatori, erano frequentate dai fedeli che mantenevano un contatto diretto con i defunti e spesso celebravano cerimonie nelle cappelle sotterranee. Questa consuetudine è testimoniata proprio nella catacomba di Priscilla, dove un graffito ricorda un "refrigerio" (cerimonia per dar sollievo al defunto consistente nello spargere liquido sulla tomba) avvenuto nel febbraio del 375 da parte di Fiorentino, Fortunato e Felice. E' molto probabile che dopo le persecuzioni dell'imperatore Valeriano (257 d.C) molti cristiani si nascondessero nelle catacombe anche per lunghi periodi. Dopo il riconoscimento del Cristianesimo le catacombe fecero parte dei titoli (parrocchie) e quindi si smise di seppellirvi, anche perché nel corso nel IV° secolo, ci fu lo sviluppo dei cimiteri all'aria aperta. Molte catacombe vennero abbandonate e depredate per la costruzione delle basiliche soprastanti finché papa Damaso (366-384) ne dispose la tutela. Nel VI secolo molte catacombe subirono l'oltraggio del saccheggio dei Goti. Quando le aree extraurbane divennero sempre più insicure si iniziò, nel VII e VIII secolo, la traslazione dei corpi dei martiri nelle grandi basiliche romane; nell'817 papa Pasquale I fece eseguire il trasferimento di ben 2300 salme. Per quanto riguarda il nome della catacomba si ritiene generalmente che Priscilla possa essere la proprietaria del sopratterra che mise con generosità il suolo a disposizione dei suoi fratelli di fede.
Il rinvenimento dell'ipogeo avvenne nel 1919. Il sepolcro, che è oggi compreso dal circuito delle mura di Aureliano (272) venne costruito lungo una via cemeteriale e successivamente utilizzato come ingresso di una serie di gallerie catacombali di limitata estensione. Attraverso l'antica porta si accede alla camera superiore, sorta di vestibolo, costruito in mattoni e rivestito di intonaco dipinto; sul fondo inizia la scala di accesso agli altri ambienti ipogei. Nella camera sono ricavati tre arcosoli, le cui lunette conservano pitture con scene del Vecchio Testamento; nel pavimento si riconoscono i resti di sepolture scavate in epoche successive. Una scala, che poi si divide, da accesso ai due locali ipogei sottostanti. Il primo ipogeo, a sinistra, conserva la pavimentazione in mosaico con i nomi dei proprietari che lo fecero realizzare (Aurelio Papirio, Aurelio Prima, Aurelio Felicissimo). Le pareti sono affrescate con pitture di particolare bellezza; nella parte inferiore sono rappresentati dodici personaggi quasi a grandezza naturale, uno dei quali poi distrutto per l'apertura di un varco. Nella fascia superiore si conservano sette pannelli con varie scene di incerta interpretazione: un pastore sul monte, un cavaliere in trionfo seguito dal popolo festante, una città con grandi palazzi. Il soffitto è suddiviso in fasce comprendenti quadrati e cerchi, al centro è raffigurato il Buon Pastore, negli altri spazi personaggi togati, geni e animali fantastici caratteristici del repertorio decorativo del periodo. Il secondo ipogeo è costituito da due ambienti, un piccolo vestibolo e un'aula più grande con tre arcosoli. Nella parete destra del vestibolo è dipinta una figura con pallio che alza la mano verso la croce; in altre parti vi sono figure umane con in mano un rotolo o una frusta. Nelle lunette degli arcosoli sono dipinti molti personaggi maschili e donne velate. Molto si è discusso sul senso di queste pitture che sembrano unire soggetti pagani e cristiani. Alcuni autori sono propensi a considerare gli Aureli personaggi convertiti da poco ala fede cristiana e quindi ancora legati all'antico credo pagano; altri vorrebbero riconoscere nelle pitture le rappresentazioni di una setta cristiana eretica vicina ai Montanisti e a Ippolito che nei suoi scritti alludeva spesso all'avvento dell'Anticristo.
Lungo la via Ardeatina in un'area cemeteriale che ha restituito tombe databili fino al I° secolo d.C e che era forse proprietà di una Flavia Domitilla, di famiglia imperiale, si impiantò verso il III° secolo una catacomba, che utilizzò, anche in questo caso, una serie di sepolcri ipogei pagani precedenti. Le catacombe, poi dette di Domitilla, si svilupparono in varie regioni cemeteriali. La più importante è quella attorno alla basilica semisotterranea dei santi Nereo e Achilleo e di Petronilla, la leggendaria figlia di Pietro, costruita nella seconda metà del IV secolo e identificabile con certezza dai resti, ritrovati nello scavo, di un'epigrafe damasiana con i nomi dei martiri. Un'altra regione è detta dei Flavi, nata dalla ristrutturazione di un ipogeo pagano costruito intorno all'anno 200. In origine il sepolcro era costituito da un ampio corridoio, sul quale si aprivano quattro nicchie destinate a contenere altrettanti sarcofagi, e che terminava all'esterno con un ingresso monumentale in mattoni, addossato alla collina. Successivamente la galleria venne ristrutturata e utilizzata per nuove sepolture, mentre all'esterno, intorno al III° secolo, vennero addossati alcuni ambienti coperti a volta sorretta da pilastri. I nuovi locali così ricavati dovevano essere utilizzati dai fedeli come sale per i refrigeri e le cerimonie in onore dei defunti, perché vennero dotati di un pozzo, una vasca e un bancone in muratura.
Lungo il tratto urbano della Via Appia a poche decine di metri dalla porta San Sebastiano del circuito delle mura di Aureliano, si conservano i resti del sepolcro dell'antica famiglia romana degli Scipioni. Fu scoperto una prima volta nel 1614 e quindi riesplorato nel 1780 durante lavori di scavo. In origine il mausoleo, scavato completamente nel banco di tufo, era costituito da una grande sala quadrangolare, ricavata dall'intersezione di una serie di gallerie e divisa da pilastri. La facciata monumentale si apriva su un diverticolo della Via Appia; consisteva in un alto basamento con cornice in peperino, che sorreggeva un muro con semicolonne scanalate su base attica a imitare un porticato. Nei corridoi ipogei si sono rinvenuti molti sarcofagi, oggi ai Musei Vaticani, alcuni monolitici, altri composti da lastroni. Il più antico e importante è quello di L.Cornelio Scipione Barbato, console nell'anno 298 a.C: fu il costruttore del sepolcro e vi fu deposto per primo. Si è certi che il sepolcro, costruito verso l'inizio del III secolo a.C, fu utilizzato con almeno una trentina di deposizioni fino alla metà del II secolo a.C, quando la nobile famiglia si estinse.
Durante gli scavi condotti nel 1831, presso l'area del sepolcro degli Scipioni, si scoprì un piccolo colombario, in ottimo stato di conservazione, il cui ingresso dava su un diverticolo della Via Latina. Il sepolcro presenta tutte le caratteristiche di una deposizione collettiva di persone di un certo rango; è stata quindi particolarmente curata la decorazione e la sistemazione delle celle. Attraverso una ripida scala addossata a una parete, su cui si aprono sei file sovrapposte di nicchie con arco, si giunge alla camera sepolcrale, che ha pianta rettangolare (4 per 3 metri) con un lato absidato. In fondo alla scala si conserva in un incavo un pannello di mosaico incorniciato da file di conchiglie, sul quale è disegnata una tabella inscritta con i nomi dei fondatori dell'ipogeo. Nella parte basale sono raffigurati due grifi alati contrapposti, al centro una cetra. Questo motivo di significato apotropaico serviva ad allontanare il malocchio dal sepolcro. Al centro si conserva l'edicola più importante, che aveva le colonne a tutto tondo sulle quali poggiavano trabeazione e timpano. Nel timpano è raffigurato un satiro tra due tritoni e nel fregio sottostante una scena del mito di Orfeo. In questo settore del sepolcro si sono rinvenute le sepolture più antiche, quelle di Celadius, servo di Tiberio addetto ai bagni imperiali, e di Pudens, addetto al seguito. Ai lati della cella, che conserva quattro urne cinerarie, sono dipinti un uomo con toga e rotulo e una donna, forse immagini di defunti di cui qui furono deposte le ceneri: ne conosciamo i nomi dall'epigrafe incisa nel marmo e qui infissa, Granius Nestore Vinileia Pedone. Il sepolcro venne costruito tra i regni di Tiberio e Nerone (14-68 d.C) e subì successive trasformazioni specialmente in epoca flavia, quando vennero ristrutturate le edicole della parete sinistra. Un particolare avvenimento è ricordato dal primo scavatore dell'ipogeo che qui scoprì un sarcofago in terracotta sigillato, contenente il corpo, ancora intatto, di una donna con ricche vesti che al momento dell'apertura si polverizzò immediatamente.