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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE - NASCITA DEL CAPITALISMO

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA NASCITA DEL CAPITALISMO - IL CAPITALE DI CARLO MARX
 
Carlo Marx - Karl Marx - IL CAPITALE - Nascita del Capitalismo
 

Oggi, qualunque partito socialista o comunista o socialdemocratico europeo vada al potere in Europa occidentale, è costretto a fare gli interessi del capitale, quindi la stessa conquista del potere politico è diventata irrilevante, senza una trasformazione radicale dei rapporti produttivi. La domanda che ci si pone è dunque la seguente: com'è possibile compiere una rivoluzione economica ora che tutto il mondo è inglobato nel mercato capitalistico? Si può compiere una vera transizione al socialismo restando all'interno di questo mercato? Cioè si può sviluppare un mercato interno di tipo socialista accettando l'idea di dover convivere con un mercato esterno di tipo capitalista? Se esistesse una società socialista, che cosa si venderebbe sul mercato capitalistico, visto che nel socialismo si dovrebbe anzitutto produrre per soddisfare bisogni e non per accumulare profitti? Ciò che più conta infatti per il socialismo è l'uguaglianza delle condizioni o comunque il diritto per tutti ad avere quanto occorre per essere soddisfatti come persone. Dunque si venderebbe all'estero solo il surplus? esattamente come nel Medioevo e in tutte le società precapitalistiche? Se anche oggi, con una rivoluzione politica (locale, regionale, non nazionale) il proletariato di un determinato territorio riuscisse ad espropriare i capitalisti della proprietà dei mezzi produttivi e fosse così forte da contrastare il peso di una resistenza armata dei suddetti capitalisti, cioè se avesse la forza, la capacità di gestire autonomamente i mezzi e gli strumenti produttivi che in precedenza faceva funzionare in qualità di "operaio salariato" - che possibilità avrebbe questo proletariato di autogestirsi come "lavoratore libero" all'interno di un mercato globale, dominato dalle leggi dell'imperialismo? A quale livello di determinazione geografica è oggi possibile che avvenga un superamento del capitalismo nell'Europa occidentale? In che misura sarebbe possibile una riconversione industriale indirizzata verso il soddisfacimento dei bisogni vitali della popolazione? Non dobbiamo infatti dimenticare che oggi le merci vengono prodotte non per i bisogni (direttamente), ma per il mercato, al fine di ottenere profitti: la soddisfazione dei bisogni è effetto secondario e quasi incidentale, poiché molte delle merci vengono vendute senza soddisfare dei bisogni veri e propri (si pensi p.es. alla moda), o comunque vengono vendute per soddisfare bisogni non vitali ma indotti, prodotti artificiosamente dai mass-media. Siamo abituati a questo trend. Dunque forse la prima cosa da fare sarebbe quella di continuare a vendere le merci tradizionali, pensando però nello stesso tempo a come riconvertire il capitale costante in direzione del soddisfacimento dei bisogni primari, riscontrabili a livello locale o regionale, i cui principali soggetti sono gli stessi lavoratori e le loro famiglie. Occorre che sulla base di tali bisogni la produzione si autonomizzi il più possibile, sottraendosi alla tipica dipendenza dal mercato che si verifica sotto il capitalismo. E' fuor di dubbio che non si arriverà a una soluzione del genere se prima non si saranno sperimentati gli effetti più negativi dello sviluppo capitalistico (già oggi i salari permettono una semplice riproduzione della forza-lavoro: è sufficiente una crisi petrolifera o una spinta inflazionistica per mettere i lavoratori nel panico). Bisogna rieducarsi a valori oggi scomparsi: l'autoconsumo, il risparmio delle risorse, il riciclo delle scorie, la compatibilità ambientale... Le occasioni storiche di una transizione al socialismo sono andate tutte perdute, e questo ha fatto sì che i condizionamenti borghesi si siano spaventosamente accentuati. Oggi nei paesi del capitalismo avanzato è impensabile una transizione spontanea al socialismo, e forse non è neppure ipotizzabile una soluzione geograficamente limitata che non parta dalla consapevolezza critica delle masse popolari. Cioè non ha senso ipotizzare una soluzione in cui il ruolo guida venga svolto da intellettuali di tipo giacobino. Soluzioni di questo genere (o come quelle del socialismo utopistico) potevano andar bene agli albori del capitalismo, quando esisteva ancora la memoria d'un passato precapitalistico da salvaguardare. Tutto ciò oggi non esiste più. La rivoluzione comunista è avvenuta in Russia perché questo paese era l'anello debole del capitalismo mondiale. Oggi esiste un anello debole? Noi viviamo dominati da un mercato imperialistico: possiamo pensare a forme autarchiche di produzione e consumo? Forse sì, ma a condizione di essere assolutamente sicuri di poter produrre quanto effettivamente ci occorre e soprattutto di avere le forze sufficienti per rieducare la popolazione. Oggi l'anello debole del capitalismo e, se si vuole, tutto il Terzo Mondo, che è stato coinvolto di prepotenza nel mercato mondiale. Quest'area deve avere in sé la forza, anche intellettuale, di emanciparsi e di stabilire con l'occidente un rapporto alla pari, dove gli scambi abbiano la possibilità di essere equi. Ma che cos'è più importante per i paesi del Terzo Mondo: la possibilità di iniziare una rivoluzione industriale in piena autonomia (così come fecero i paesi europei 500 anni fa) oppure la possibilità di scegliere autonomamente il proprio sviluppo? Il problema infatti non è tanto quello di sapere come arrivare alle stesse conquiste dei paesi tecnologicamente o industrialmente più avanzati, quanto quello di sapere come poter ottenere un'autonomia economica che funga da base per una scelta non obbligata del proprio futuro. La cosa infatti che non si capisce nei teorici del marximo-leninismo è il motivo per cui si debba necessariamente passare, per giungere al socialismo, attraverso una rivoluzione industriale o comunque tecnico-scientifica più o meno analoga a quella che in occidente ha portato o ha accompagnato la nascita e lo sviluppo del capitalismo. L'unica plausibile ragione di questa "necessità" può essere quella che vede nella debolezza militare di un'esperienza socialista un rischio gravissimo per la sua futura sopravvivenza, in quanto la minaccia di una distruzione da parte del capitalismo sarebbe troppo forte per poterla sottovalutare. Dobbiamo però chiederci se questo sia davvero un prezzo che il socialismo deve pagare. Cioè se sia davvero indispensabile puntare sulla tecnologia per avere un efficiente apparato militare difensivo, oppure se si possa ipotizzare l'idea che una società basata su principi collettivistici in maniera consapevole non ha bisogno di un'elevata tecnologia militare per potersi difendere. In altre parole: i sistemi precapitalistici hanno perso il confronto bellico col capitalismo perché non erano sufficientemente armati o perché non erano sufficientemente coesi? Non dimentichiamo che sulla sua strada il capitalismo ha spesso incontrato civiltà in decadenza (come p.es. quelle precolombiane) e formazioni tribali divise tra loro (come quelle indiane nord-americane, che non a caso riuscirono ad avere la meglio sui coloni e sui loro eserciti solo quando scelsero l'unità). Là dove gli europei o gli statunitensi hanno trovato popolazioni relativamente unite, anche se scarsamente dotate di mezzi tecnici (India, Vietnam...), lì non c'è stato modo di realizzare un'occupazione militare. Se così dunque stanno le cose, per quale ragione non si dovrebbe autorizzare una determinata popolazione a cercare strade autonome verso la realizzazione del socialismo, prescindendo dalle dinamiche occidentali dell'accumulazione originaria e del conseguente sviluppo? In Cina, ma anche in India, lo sviluppo capitalistico è controllato a livello politico. Cioè esiste, sulla base di un certo opportunismo teorico, una parvenza di socialismo sul piano politico e una progressiva industrializzazione analoga a quella capitalistica. Anche se non vi è un pericolo di crollo dovuto a fattori endogeni (p.es. una caduta vertiginosa del saggio di profitto), quando il capitalismo non garantisce il livello minimo di sussistenza per la maggioranza della popolazione, questa, inevitabilmente, tende a non resistere alle forze esterne che minacciano l'esistenza del capitalismo. Questo in sostanza sta a significare che se il capitalismo, in teoria, è in grado di perpetuarsi all'infinito, di fatto esso deve assolutamente garantire un minimo vitale di sussistenza alla grande maggioranza della popolazione, se non vuole che questa assuma un atteggiamento di rassegnazione nei confronti delle nazioni o civiltà che premono ai confini e che si presentano come culturalmente o tecnologicamente meno avanzate (almeno rispetto ai canoni cui si era abituati in occidente). Industria e agricoltura: integrazione o primato? Marx non ha mai voluto sottoporre a critica l'industrializzazione in sé, il macchinismo in sé, prescindendo dalle esigenze del profitto capitalistico. Il Capitale vuole essere una critica dell'economia politica borghese che considera il capitalismo come una formazione sociale sovrastorica, non vuole essere una critica delle motivazioni sociali che hanno permesso lo sviluppo industriale. Marx ha sempre dichiarato di accettare le forme della società capitalistica, rifiutandone piuttosto l'aspetto pratico-oggettivo, cioè l'organizzazione spontaneistica e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi invece ci chiediamo se davvero l'industrializzazione debba prevalere in maniera così esorbitante sull'agricoltura e sull'artigianato, e se sia davvero giusto puntare sulla grande industrializzazione e non invece su quella media e piccola. Sappiamo che se non ci fosse la possibilità di realizzare un plusvalore non ci sarebbe neanche l'industria. Essa infatti è nata come tentativo di accumulare profitti da parte di un proprietario privato intenzionato a sfruttare lavoro altrui. Si dirà: questo veniva fatto anche dal feudatario attraverso il servaggio. Ebbene, la differenza sta proprio in questo, che il capitalista, prima di sfruttare il lavoro dell'operaio, sfrutta l'illusione di una libertà, quella dell'emancipazione dal servaggio. La rivoluzione industriale è nata sulla base di una falsa libertà giuridica. Quanto più ci si convince di essere liberi, tanto più si è sfruttati, poiché si è incapaci di vedere gli antagonismi da superare. Se in Occidente non ci si accorge di questo aumentato sfruttamento, è perché il capitalismo da un lato possiede i mezzi comunicativi per mascherarlo, dall'altro perché, materialmente, ne ha trasferito le forme peggiori nel Terzo mondo. Senza sfruttamento delle colonie il capitalismo non potrebbe sussistere se non facendo pagare dei prezzi altissimi ai lavoratori occidentali, rischiando così di aumentare di molto la resistenza anticapitalistica. Viceversa, nel servaggio feudale la dipendenza personale comportava sì lo sfruttamento del lavoro, ma entro i limiti imposti da un rapporto non meccanizzato con la natura: il che voleva dire che più di tanto il lavoratore non poteva essere sfruttato. L'industria invece rappresenta l'illusione di poter creare una libertà personale del lavoratore attraverso un rapporto meccanizzato con la natura: il che effettivamente comporta un notevole aumento delle forze produttive. La libertà del lavoratore è però fittizia in quanto in tale rapporto chi trae i maggiori profitti è il proprietario dei mezzi produttivi, cioè soprattutto il capitalista, il quale, sulla base dei propri profitti, tende a costruire un modello di società che invece di emancipare il lavoratore lo aliena sempre di più (non solo sul luogo del lavoro ma anche in ogni manifestazione della vita sociale). Marx credette di aver trovato la soluzione a questo problema nella socializzazione dei mezzi produttivi. Naturalmente egli non poteva allora rendersi conto che l'industrializzazione aliena di per sé l'uomo, in quanto lo allontana da un rapporto equilibrato con la natura, da un rapporto naturale con l'ambiente... Egli non poteva ancora sapere che l'aumento delle forze produttive causato dall'industrializzazione provoca delle contraddizioni dovute non soltanto al capitalismo, ma allo stesso macchinismo, che ha un impatto sulla natura quanto mai deleterio. Oggi noi dobbiamo ridiscutere il primato concesso all'industria rispetto all'agricoltura. L'industria dovrà, in futuro, essere considerata come "parte integrante" dell'agricoltura, e non come pilastro fondamentale cui anche l'agricoltura deve adeguarsi. Anche perché se il destino dell'industria è quello di diventare completamente automatizzata, tanto da escludere la presenza rilevante dell'operaio, l'esubero di manodopera risulterà catastrofico, poiché nessuno vorrà né potrà tornare all'agricoltura o all'artigianato, e non tutti potranno essere rioccupati nel terziario. L'industria libera potenti energie ma a scapito dello stesso lavoratore, che ogni giorno di più si vede sostituire dalle macchine. Il lavoro industriale crea ricchezza solo per il capitalista, non assicura un futuro ad alcun lavoratore (che non abbia una grande specializzazione), né garantisce una vera creatività nelle mansioni che si svolgono (se non a livelli intellettuali, tecnico-progettuali). E non si dica che l'automazione permetterà al lavoratore d'avere maggior tempo libero che potrà impiegare secondo la propria creatività, perché questo è in contrasto col noto principio che il lavoro deve diventare un principio vitale d'esistenza, non solo per la sopravvivenza o la riproduzione del lavoratore ma anche per la sua personale realizzazione. Le macchine non potranno mai sostituire completamente l'uomo. Nel "socialismo reale" la situazione, fino a ieri, non era migliore: i profitti andavano allo Stato, che poi dall'alto li redistribuiva secondo criteri estranei alla volontà dei lavoratori; il futuro era assicurato, ma solo perché in realtà le mansioni svolte erano poco qualificate, i prodotti di scarsa qualità, i deficit di bilancio coperti dallo Stato, ecc. Una nuova società industriale dovrà creare un'industria legata ai bisogni della comunità locale; dovrà quindi essere un'industria tendenzialmente esaustiva, con capacità globali, in grado di soddisfare molteplici esigenze. Non quindi un'industria specializzata in un settore, sempre più sofisticata perché preoccupata di non reggere la concorrenza straniera, ma un'industria multilaterale, competente in tutti quei settori richiesti dalla comunità locale (elettrodomestici, trasporti, trasformazione dei prodotti ecc.). Per il socialismo democratico - Proprietà e lavoro Il criterio del socialismo democratico secondo noi non sta tanto nella proprietà quanto nel lavoro. Cioè chi lavora ha diritto ad avere una proprietà privata per uso personale. L'esproprio della altrui proprietà si rende necessario quando questo principio non riesce a realizzarsi, quando chi vorrebbe lavorare non può farlo, o può farlo solo accettando condizioni indegne di una persona umana. Per Marx il modo di lavorare questa proprietà deve per forza essere sociale e non individuale: la terra e gli altri strumenti di lavoro vanno sfruttati socialmente. Invece secondo noi che il soggetto che lavora sia individuale o collettivo non fa molta differenza: gli uomini possono associarsi per il bene comune e quindi gestire la proprietà in una maniera più efficiente che restando separati tra loro. Si tratta di una loro scelta. Le forme di socializzazione e cooperazione debbono restare un'opzione, non un criterio obbligatorio imposto dall'alto. Ogni imposizione della socializzazione si trasforma inevitabilmente in una burocratizzazione o statalizzazione del socialismo, cioè nel suo contrario. L'importante è affermare il principio che chi lavora deve poter disporre non solo della propria forza-lavoro, ma anche del diritto a una proprietà che lo aiuti a realizzarsi come persona e come lavoratore. Finché l'uomo è costretto a vendere la propria forza-lavoro a chi dispone di proprietà non si potrò mai parlare di socialismo. Valorizzare il pre-capitalismo (Spunti di riflessione per studi futuri) Marx ha sempre ritenuto che le forme comunitarie del modo di produzione asiatico siano state le più tenaci nell'opporsi allo sviluppo del capitalismo, e non in virtù di aspetti positivi, ma proprio a causa del fatto che l'individuo veniva praticamente sacrificato sull'altare dell'interesse collettivo, che a sua volta era imposto o tenuto entro certi limiti dal potere autocratico. Queste forme hanno potuto opporsi al capitalismo quando questo era allo stato embrionale; in seguito però, non avendo mutato fisionomia, sono state destinate a soccombere. In effetti, laddove è avvenuto il mutamento, questo è dipeso dall'acquisizione di alcuni elementi dell'ideologia occidentale (liberale o marxista), adattati successivamente alle esigenze di quelle comunità. Il maoismo e il gandhismo hanno potuto superare il colonialismo europeo (e anche nipponico, nel caso cinese) appunto perché avevano saputo trasformare l'ideologia borghese secondo gli interessi della lotta di liberazione nazionale (in Cina anche secondo gli interessi dell'edificazione del socialismo). (Caratteristica della Cina, tuttavia, è, a tutt'oggi, l'eclettismo ideologico da un lato e il socialismo autoritario dall'altro. Il primo aspetto ha permesso, prima di ogni altro paese socialista, l'introduzione di elementi dell'economia capitalistica). Dunque, il mancato processo d'individualizzazione dell'uomo non è dipeso da una superiorità del modo di produzione asiatico, ma piuttosto da una sua inferiorità, la cui causa Marx non ha mai pensato di attribuire alla cultura religiosa dell'indo-buddismo. Se l'avesse fatto avrebbe capito perché sotto l'influsso del cristianesimo ortodosso quello stesso modo è stato trasformato in Russia nella comune agricola, che ha resistito sino agli inizi di questo secolo. L'Europa occidentale ha spezzato le forme comunitarie di vita con l'introduzione dell'ideologia schiavista. Nell'Alto Medioevo cercò di recuperarle in nome del cristianesimo, ma poi, proprio in nome di un modo sbagliato di vivere questa ideologia religiosa, essa ha riaffermato l'individualismo in tutti quei Paesi di religione cattolica e soprattutto protestante. Marx inoltre ha dato per scontato il fatto che le forme della comunità originaria, primitiva, si siano conservate, sostanzialmente, nelle forme asiatiche, ove gli individui sono elementi puramente naturali della comunità. In realtà, non è affatto dimostrato che le forme asiatiche siano l'unico rispecchiamento delle forme comunitarie primitive. Se così fosse non si spiegherebbe la ragione per cui in Asia quelle forme non si sono evolute, mentre in Europa sì. Peraltro, il concetto stesso di potere autocratico, che ha sempre caratterizzato le forme asiatiche, esclude di per sé ch'esse abbiano conservato tracce significative della comunità primitiva. Per "cultura" non si devono intendere tanto le cognizioni tecnico-scientifiche, quanto la capacità di usarle per distruggere una tradizione comunitaria che si ritiene superata. A tale scopo occorre che l'individuo abbia piena fiducia nelle proprie risorse e si consideri assolutamente in opposizione agli interessi della collettività. Si prenda come es. il fatto che la civiltà cinese raggiunse il suo massimo splendore nei secoli XII-XIII, eppure lo sviluppo del suo potenziale tecnico-scientifico non riuscì a spezzare l'involucro della struttura sociale burocratico-agraria, e i rapporti di tipo "asiatico" sopravvissero ancora per secoli, finché vennero a contatto con il colonialismo occidentale. Marx ha affermato che nelle comunità asiatiche primitive, nelle forme greco-romane e germaniche, non ci poteva essere uno sviluppo libero e completo dell'individuo o della società, poiché la "compiutezza", la "soddisfazione" era concepita nell'ambito di uno sviluppo limitato, mentre caratteristica fondamentale del mondo moderno è l'illimitatezza. Qui Marx non ha fatto che applicare al passato un pregiudizio formulato nel suo presente. Egli cioè ha rifiutato di considerare libero uno sviluppo "limitato", cioè posto entro rigorosi limiti. Marx, in sostanza, non ha voluto accettare l'idea di considerare il passaggio dalla proprietà collettiva primitiva a quella privata antagonistica, come il frutto di una scelta soggettiva dettata da un modo arbitrario d'interpretare il senso della proprietà collettiva. Secondo Marx il passaggio era determinato da una necessità oggettiva, dettata da contraddizioni naturali, interne a quelle stesse forme primitive d'esistenza. Nel senso cioè che l'uomo avrebbe dovuto superare il collettivismo primitivo appunto per sentirsi "uomo" e non mero prodotto della "natura". Questo modo di vedere le cose è tipicamente occidentale. Il senso di "umanità" viene considerato un attributo specifico del senso di "individualità". Là dove il soggetto non emerge, col suo bisogno di distinguersi dalla massa, lì -si dice- esistono non rapporti "sociali" ma "naturali". I veri rapporti sociali sono quelli che l'individuo libero si dà da sé, non quelli che riceve dalle generazioni precedenti. La libertà quindi per Marx non sta nell'accettare la tradizione modificandola negli aspetti che richiedono innovazione, ma sta nel superare ogni tradizione per poter essere veramente innovativi. L'individuo libero è un titano che con decisione combatte contro una massa informe e senza personalità. Da qui al disprezzo della vita contadina il passo è breve. In altre parole, all'associazione, libera da dominio ma sottoposta alle leggi di natura, Marx preferiva un'associazione libera e in grado di dominare la natura: ecco perché egli ha considerato necessario, inevitabile, la disgregazione della comunità primitiva. Oggi il marxismo deve rimettere in discussione il principio che vede affermata la libertà dell'uomo nel dominio sulla natura. Ciò che è inevitabile, in realtà, è proprio una sorta di dipendenza nei confronti della natura. La libertà umana è possibile solo entro i limiti imposti dalla natura. Non a caso l'individualismo ha cercato in un rapporto di dominio con la natura quella compensazione al vuoto che gli aveva procurato la rottura dei rapporti sociali comunitari. Il dominio dell'uomo sulla natura, attraverso il macchinismo, riflette l'alienazione dell'individualismo. Il sociale dunque non può essere contrapposto al naturale. Lo "sviluppo" della forze produttive non può essere considerato legittimo se avviene solo a condizione di distruggere la comunità naturale. Non c'è sviluppo ma involuzione se l'uomo perde il rapporto sociale che dà senso alla sua esistenza. Anche perché l'iniziativa indipendente dell'uomo singolo che si stacca dalla comunità, può essere considerata "libera" solo nel senso negativo che si è "liberata" da una dipendenza collettiva. Ma in un senso positivo questa libertà è falsa poiché, per sussistere, essa ha immediatamente bisogno della schiavitù altrui. Questo aspetto il marxismo non l'ha mai sottolineato a sufficienza, poiché, nel tentativo di dimostrare la superiorità della formazione capitalistica su tutte le altre formazioni e quindi la superiorità del proletariato industriale su qualunque altra classe oppressa, esso ha sempre cercato di far vedere che il capitalismo è nato grazie allo sforzo e all'iniziativa di individui privati indipendenti. E' sul concetto di "indipendenza" che bisogna discutere. La vera libertà esiste solo in un collettivo democratico; se da questo collettivo ci si emancipa, la propria personale indipendenza viene subito pagata dalla schiavitù o servitù altrui. (Nel racconto biblico del peccato d'origine la prima schiavitù che s'è imposta, dopo la rottura dei rapporti comunitari, è stata quella della donna nei confronti dell'uomo). L'emancipazione del singolo può trovare una qualche giustificazione se il collettivo non è libero e democratico, ma anche in questo caso bisogna ribadire il valore dei rapporti collettivi: il singolo resta un'astrazione sociale, se si pone al di fuori di ogni contesto. Se l'individuo, traendo pretesto dalla crisi del collettivo, si afferma soltanto come singolo, la sua emancipazione non farà che aggravare la crisi del collettivo e non sarà, in ultima istanza, una garanzia di sopravvivenza neppure della nuova individualità affermata. Il singolo, senza comunità, è in grado di sussistere solo a condizione di poter sfruttare il lavoro altrui. VALORE D'USO E DI SCAMBIO Tra i limiti fondamentali delle comunità primitive e pre-capitalistiche, Marx annovera quello d'essere impostate unicamente sul valore d'uso, al punto che dal momento in cui vengono a contatto col valore di scambio, inizia la loro lenta disgregazione. Naturalmente a condizione che lo scambio penetri nella comunità e non resti solo un'attività tra diverse comunità. Dallo scambio infatti si svilupperà la divisione del lavoro, la proprietà privata e l'antagonismo delle classi. Questo modo di vedere le cose è di tipo deterministico o positivistico. Marx cioè esclude la possibilità che valore d'uso e valore di scambio possano coesistere: la presenza dell'uno esclude necessariamente quella dell'altro. In realtà, lo scambio di per sé non uccide alcuna comunità, neppure quando è penetrato all'interno della stessa comunità. Certo è che il primato va concesso al valore d'uso, poiché è solo il significato dell'uso che può dare il giusto valore allo scambio. Se chi pratica lo scambio si arricchisce a spese della comunità, le ragioni per cui lo fa sono due: o il valore d'uso della comunità è già entrato in crisi e un suo ripristino per via autoritaria è ovviamente impossibile, poiché qui solo la comunità, nella sua interezza, può decidere come regolarsi; oppure l'individuo ha compiuto un atto arbitrario, che la comunità, consapevole dell'importanza del valore d'uso, ha il diritto-dovere di contrastare. In questo caso o l'individuo si riadegua liberamente alle leggi comunitarie, oppure deve abbandonare la comunità. Sia come sia la comunità deve saper cogliere questo fatto come un'occasione per riflettere su se stessa, poiché se l'individuo ha cominciato a usare lo scambio per sottomettere il valore d'uso, significa che all'interno della comunità ci sono delle contraddizioni che spingono in questa direzione e che se non vengono risolte in tempo, possono svilupparsi e fossilizzarsi, al punto che la dissoluzione della comunità apparirà non come una disgrazia ma come una liberazione. Il valore d'uso può essere determinato solo dalla comunità nella sua interezza. Se la comunità agisce all'unisono, il valore di scambio non agirà mai in maniera distruttiva. Allorché accade questo, le ragioni vanno cercate non tanto nell'arbitrio del singolo, quanto piuttosto nella crisi dei rapporti sociali. Se il significato originario di questi rapporti viene recuperato dall'intera comunità (locale) e rafforzato dalla consapevolezza della loro importanza e dal timore di poterli perdere, allora il desiderio di concedere il primato al valore di scambio rientrerà in modo naturale. I frutti del commercio continueranno ad appartenere all'intera comunità, la quale ovviamente premierà ogni rischio individuale. Il segno che il valore di scambio tende a prevalere sul valore d'uso è la comparsa del denaro. E' il denaro che permette un arricchimento individuale illimitato, per quanto uno possa arricchirsi anche in una società ove esso non esista affatto, servendosi semplicemente del proprio potere politico. Ma anche una società del genere non potrebbe certo dirsi comunitaria. Quando la comunità arriva a considerare il denaro o il potere politico come fonti di arricchimento illimitato, ciò significa che la comunità, da tempo, non esiste più. In sostanza, la crisi del valore d'uso dipende dalla crisi del valore in generale. E' dunque una questione culturale e sociale, prima ancora che economica o politica. LA TRANSIZIONE DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO Marx ha affermato che le scoperte geografiche dei secoli XVI e XVII hanno accelerato il modo di produzione capitalistico (fase della manifattura) solo là dove le condizioni necessarie per l'applicazione di tale modo produttivo si erano venute creando nel Medioevo. Ed egli precisa che il monopolio privato della proprietà fondiaria costituisce la base storica del capitalismo, in quanto già nel possesso fondiario feudale si realizza un potere estraneo che aliena e opprime il lavoratore. Marx però non ha mai esaminato l'ideologia (religiosa) che ha permesso una tale evoluzione della proprietà fondiaria. Solo nella tarda maturità comprese che nell'Europa orientale la proprietà fondiaria non aveva subìto la stessa evoluzione di quella occidentale. Egli capì che rispetto alla proprietà dell'antichità classica (greco-romana), lo sviluppo del feudalesimo (nell'Alto Medioevo) rappresentò un arretramento del processo di parcellizzazione o autonomizzazione della terra, ma non ha capito che tale arretramento trovava la sua ragion d'essere nell'ideologia egualitaria del cristianesimo (che nell'Europa occidentale s'è lasciata condizionare dalle tradizioni individualistiche, mentre nell'Europa orientale ha cercato di perfezionare le tradizioni egualitaristiche). Anzi, per Marx la dipendenza personale nel Medioevo rappresenta un limite rispetto alla proprietà libera e individuale del periodo classico. Mentre in realtà essa voleva costituire una trasformazione in positivo del rapporto schiavistico in agricoltura. Colonato e servaggio rappresentano un'alternativa, seppure parziale, allo schiavismo. E tale alternativa fu resa possibile dall'ideologia del cristianesimo, non solo da fattori di ordine socioeconomico. Il marxismo inoltre dovrebbe chiedersi se la libera proprietà privata del mondo classico non traeva la sua legittimazione proprio dalla presenza della grande proprietà schiavistica. Nel senso cioè che la piccola proprietà fu lasciata sopravvivere dai grandi latifondisti finché questi ebbero l'opportunità di rifornirsi con relativa facilità di un numero ingente di schiavi. La libera proprietà basata sul lavoro individuale, già rovinata dall'esoso apparato fiscale dell'impero, scomparve definitivamente quando, per difendersi dai barbari, i piccoli proprietari chiesero ai grandi proprietari di entrare nella loro orbita. Essi così rinunciarono alla libertà personale e si trasformarono in coloni o servi della gleba. Il marxismo dovrebbe inoltre chiedersi il motivo per cui mentre in Europa occidentale la borghesia s'è sviluppata all'interno del feudalesimo, in Europa orientale ciò invece non è avvenuto. Se la differenza sta nel tipo di feudalesimo, allora la ragione di questo va ricercata nelle diverse ideologie religiose. Non a caso è stata la Russia ad aver sperimentato alla fine del secolo scorso (sino all'Ottobre) un certo sviluppo capitalistico: infatti, quale nazione più della Russia, nell'Europa orientale, aveva cercato d'abbracciare la cultura occidentale? Già al tempo di Pietro il Grande la Russia voleva occidentalizzarsi... CAPITALISMO E VIA NON-CAPITALISTICA Non si è sottolineato abbastanza il fatto che Marx precisò che l'analisi del Capitale intendeva riferirsi esclusivamente all'Europa occidentale, solo dopo che i populisti russi avanzarono la critica che il Capitale imponeva un atteggiamento negativo verso quei tentativi di cercare in Russia un'alternativa non solo al feudalesimo ma anche allo stesso capitalismo. In realtà Marx non imponeva alcun atteggiamento "negativo" verso la ricerca della via non-capitalistica (o post-feudale): semplicemente questi tentativi non li conosceva e, di conseguenza, dava per scontato che il capitalismo si sarebbe affermato ovunque, prima o poi, in un modo o nell'altro, quindi anche nella feudale Europa orientale. E' fuor di dubbio, tuttavia, che Marx simpatizzò con l'idea di una soluzione non-capitalistica solo dopo essere venuto a contatto col populismo russo, ed è assai significativo, in tal senso, che fino a quando si tenne in contatto con tale movimento, egli non ebbe mai la netta convinzione ch'esso avrebbe potuto evitare, sic et simpliciter, lo sviluppo capitalistico della Russia. Marx arrivò a ipotizzare un diverso sviluppo capitalistico della Russia, legato a una rigenerazione della comune agricola (obscina). Ma su questo non aveva delle opinioni precise. Si limitò semplicemente ad affermare che l'obscina non avrebbe potuto bloccare il capitalismo se prima non si fossero eliminate "le influenze deleterie" che l'assalivano da tutte le parti. Il che però non voleva necessariamente dire che Marx stesse pensando a una rivoluzione politica che servendosi da un lato dell'industrializzazione capitalistica e dell'altro della comune agricola, avrebbe potuto creare una società socialista. La mancanza di chiarezza su una questione così complessa dipendeva, in Marx, dal fatto ch'egli -come d'altra parte Engels- non ha mai creduto, dopo il fallimento dell'esperienza rivoluzionaria del '48, nella possibilità di superare il capitalismo prima che questi avesse esaurito tutte le proprie potenzialità. Non era quindi solo questione di non conoscere delle alternative non-capitalistiche (in atto o in potenza), ma era anche questione di non considerare possibili tali alternative prima della fine del capitalismo. Marx sembrava accettare l'eventualità proposta dai populisti solo perché in Russia il capitalismo era appena nato e quindi vi erano maggiori possibilità di contrastarlo o di incanalarlo in una strada meno dolorosa per i lavoratori, rispetto a quanto già era accaduto in Occidente. Sulla "inevitabilità" del capitalismo a livello mondiale, offre eloquenti delucidazioni la stessa Prefazione di Marx alla Ia edizione del Capitale. Egli infatti da un lato considera l'Inghilterra la "sede classica" del modo di produzione capitalistico, dall'altro però esclude a priori l'idea che in Germania si possa realizzare una via non-capitalistica. Questo perché "il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire". Cioè a dire, per Marx era proprio lo sviluppo industriale del capitalismo inglese che avrebbe obbligato gli altri Paesi a diventare capitalistici. Ogni ritardo su questa via avrebbe avuto delle ripercussioni negative sugli stessi lavoratori, i quali avrebbero avuto a che fare con un capitalismo "selvaggio", preoccupato solo di recuperare il tempo perduto e di fronteggiare la concorrenza straniera. Questo mentre in Inghilterra -dice Marx- gli operai già si difendevano dallo sfruttamento del capitale con la legislazione sulle fabbriche. Così, invece di lamentarsi d'essere oppresso "non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma pure dalla mancanza di tale sviluppo" (mancanza dovuta al fatto che in Germania continuavano a "vegetare metodi di produzione vecchi e sorpassati"), i tedeschi -dice Marx- avrebbero dovuto accettare "le leggi naturali della produzione capitalistica", cercando di "abbreviare e attutire le doglie del parto" (ciò che poi avrebbero dovuto fare -secondo Marx- i populisti russi). Da un lato insomma Marx non vedeva altra soluzione alla crisi del feudalesimo che quella "naturale" del capitalismo; dall'altro non riteneva possibile opporsi politicamente alla via capitalistica prima ch'essa non avesse mostrato tutte le sue intrinseche contraddizioni. La politica doveva restare subordinata al momento in cui si verificavano le crisi cicliche del capitale. Il "punto di vista" di Marx considerava "lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale", alla maniera deterministica del positivismo allora imperante. In questo senso era giusta la sua affermazione di non poter "fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene". Ed altrettanto giusto era il prosieguo di tale affermazione: "pure se soggettivamente egli possa innalzarsi al di sopra di essi". Tuttavia era proprio questo il punto. Se si ammette la possibilità dell'"innalzamento" del singolo sui rapporti sociali che lo precedono, cioè se si esclude il rigido determinismo del positivismo, allora per quale ragione non si deve accettare l'ipotesi di una via non-capitalistica post-feudale (o comunque di una via non-capitalistica alla disgregazione dei rapporti pre-capitalistici)? Per quale ragione la Russia non avrebbe potuto fare quel che avrebbe dovuto fare la Germania? La "naturalezza" economica delle leggi capitalistiche non poteva forse trasformarsi in "innaturalezza" per la coscienza politico-rivoluzionaria? L'"innalzamento" di cui parla Marx riguarda la sola coscienza individuale (che ovviamente di fronte alle leggi capitalistiche nulla potrebbe fare) o può far parte della mentalità collettiva? E' forse un caso che nel Poscritto alla IIa edizione del Capitale, Marx abbia riportato una lunga citazione del russo M. Block, il quale, specificatamente, ribadiva il ruolo subordinato della coscienza rispetto ai fenomeni, ovvero l'inevitabilità del capitalismo? Qui però occorre precisare, cercando di essere il più obiettivi possibile, che quando Marx affermava l'inevitabilità del capitalismo "in tutti gli stati del continente europeo" e anche negli Stati Uniti, aveva di mira le classi dominanti europee, che s'illudevano, con i loro legami assolutistici al feudalesimo, di poter fermare l'avanzata del capitalismo. Marx non ha mai avuto torto quando sosteneva che il feudalesimo, per come era strutturato nell'Europa occidentale, non sarebbe mai stato in grado di fermare il capitalismo. Ciò che gli difettava era la convinzione che non potesse esistere, in nome di valori alternativi a quelli borghesi, un modo non capitalistico di realizzare la rivoluzione industriale. Sul Colonialismo Che Marx ed Engels avessero un atteggiamento ambivalente nei confronti del capitalismo, è testimoniato anche dal fatto che la loro analisi del colonialismo non è sempre stata coerente. Da un lato infatti era esplicita la condanna del colonialismo come strumento di oppressione e sfruttamento; dall'altro però essi tendevano a considerarlo come occasione di sviluppo per popoli arretrati e "senza storia". In questo loro giudizio pesava ovviamente il retaggio della filosofia occidentale, specie quella hegeliana. Nel Capitale non è affatto chiaro l'apporto determinante del colonialismo alla realizzazione dell'accumulazione originaria. E' singolare come nel Capitale non venga mai ipotizzata l'inevitabilità di una serie infinita di guerre civili cui in Europa avrebbe portato l'accumulazione originaria, se nel contempo non fossero state conquistate America, Africa e Asia. La popolazione si sarebbe dimezzata e lo sviluppo capitalistico, se ancora ci fosse stato, avrebbe subito un rallentamento considerevole. Nel cap. XXV (libro I del Capitale) dedicato al colonialismo, Marx afferma che la proprietà basata sul proprio lavoro era presente nei territori extraeuropei successivamente colonizzati dalle nazioni capitalistiche più industrializzate. Anche questo però è un modo astratto di vedere le cose, poiché al tempo di Marx la proprietà libera in Asia non esisteva più, mentre in Americalatina era già in forte disuso nel XV sec. Solo in Africa si poteva ancora ampiamente costatare. Marx ed Engels capivano perfettamente i limiti del colonialismo, ma, poiché nutrivano forti pregiudizi nei confronti delle società pre-capitalistiche, preferivano indulgere verso certe interpretazioni contraddittorie piuttosto che dover ammettere la sostanziale inadeguatezza delle soluzioni capitalistiche, globalmente intese, all'arretratezza dei paesi pre-capitalistici. In Miseria della filosofia Marx scrive: "Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era l'accumulazione dei capitali, facilitata dalla scoperta dell'America e dall'introduzione dei suoi metalli preziosi... e dall'aumento delle merci messe in circolazione dal momento in cui il commercio penetrò nelle Indie orientali per la via del Capo di Buona Speranza, dal regime coloniale, dallo sviluppo del commercio marittimo... dal licenziamento dei numerosi seguiti dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima di entrare nell'officina... molti contadini, cacciati di continuo dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in praterie o in seguito al fatto che i lavori agricoli richiedevano meno braccia per la coltivazione della terra, affluirono nelle città per secoli interi"(ed. Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 174). Poi riassume dicendo: "L'allargamento del mercato, l'accumulazione dei capitali, i mutamenti intervenuti nella posizione delle classi sociali...". Dunque si noti: per Marx, in questo testo, il capitalismo nasce anche e soprattutto in forza dell'espansione dei commerci, resa possibile dalla conquista dell'America, delle Indie ecc.; egli non sembra riporre le cause della nascita del capitalismo soltanto all'interno della nazione capitalistica, ma le fa dipendere anche dall'esterno, soprattutto dalla conquista militare di paesi non europei. Viceversa, nel Capitale (cap. XXIV) Marx dirà che il capitalismo nasce tutto all'interno della nazione mercantile; il rapporto con le colonie è marginale o comunque conseguente rispetto al ruolo che ha avuto il commercio interno, che, raggiunto un certo livello, ha appunto generato il capitalismo e che, raggiunto un livello superiore, genera il colonialismo. In pratica il ragionamento del Marx maturo è di tipo hegeliano: da una serie di determinazioni quantitative ad un certo punto sorge una nuova qualità. Il giovane Marx era invece convinto che il commercio interno si fosse sviluppato grazie soprattutto al commercio estero, che, a sua volta, dipendeva dal colonialismo. Le domande rimaste senza risposta nel periodo giovanile portarono il Marx della maturità a formulare delle tesi fataliste. In realtà il marxismo non ha mai spiegato perché il colonialismo sia una caratteristica tipica dell'Europa occidentale e soprattutto perché la nascita del capitalismo abbia favorito in maniera decisiva soltanto in Europa occidentale (specie nei paesi protestanti) la nascita del capitalismo. L'Italia comunale, con le sue città marinare, era già un paese colonialista (attività commerciale + attività militare) nei confronti del Medio Oriente (sin dai tempi delle crociate), e tuttavia non diventò un paese capitalista industriale, ma si fermò allo stadio commerciale; anzi, con la controriforma regredì a livelli para-feudali. Anche la Polonia, tra i paesi cattolici nord-europei, reagì al progredire del capitalismo delle nazioni vicine, accentuando il peso del servaggio. Spagna e Portogallo, che pur erano già delle nazioni, ebbero bisogno di diventare prima di tutto paesi colonialisti, al fine di poter fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi manifatturieri del Nord Europa: eppure gli imperi coloniali che riuscirono a creare non servirono loro per diventare potenze industriali. Questo significa che se il colonialismo appartiene come eredità culturale all'Europa occidentale pre-industriale (anzi, addirittura pre-borghese), il capitalismo invece ha bisogno di un terreno culturale specifico, quale solo la religione protestante poteva offrire. Singolare inoltre il fatto che Marx abbia visto nel colonialismo soprattutto la possibilità per l'operaio salariato immigrato di diventare un capitalista. Marx cioè non ha mai analizzato il rapporto di stretta dipendenza che legava le colonie alla madrepatria occidentale. Eppure il colonialismo era iniziato con la scoperta-conquista dell'America. Era cioè tempo di rendersi conto che il capitalismo non è mai stato un fenomeno tipicamente euroccidentale, nato in Inghilterra e da qui trasferito in tutto il mondo. Esso in realtà è nato come fenomeno mondiale. In altre parole, senza colonialismo non ci sarebbe stato il capitalismo, che non avrebbe potuto sopravvivere nel mero ambito dell'Europa occidentale. Esso aveva necessariamente bisogno di espandersi ovunque fosse possibile. Marx insomma considerò il colonialismo un effetto del capitalismo, mentre esso in realtà ne è una concausa. Non bisogna inoltre mai dimenticare che proprio in virtù dell'apporto decisivo delle colonie allo sviluppo delle metropoli europee, la borghesia imprenditoriale ha potuto corrompere, con salari relativamente alti, una parte del proletariato, creando la cosiddetta "aristocrazia operaia". In Occidente il proletariato industriale è sì sfruttato dalla classe dei capitalisti, ma insieme essi partecipano, secondo proporzioni diverse, allo sfruttamento dei proletari del Terzo Mondo. E' quindi dubbio, sotto questo aspetto, che il proletariato occidentale potrà mai solidarizzare col proletariato terzomondista finché resterà immutata questa copertura favorevole all'occidente e allo sfruttamento delle ingenti risorse umane e materiali del Terzo Mondo. * * * Il capitalismo nasce da un centro (l'Europa occidentale), ma ha bisogno immediatamente di una periferia per svilupparsi. La periferia può essere cercata inizialmente all'interno della stessa nazione che ha imboccato la strada del capitalismo (il Mezzogiorno p.es. può essere considerato una colonia interna dell'Italia), ma, poiché il capitale ha bisogno di una riproduzione allargata... ed è così che la Luxemburg spiega la necessità intrinseca del colonialismo. In realtà noi vorremmo fare un discorso più culturale: poiché il capitalismo, per evolversi, ha bisogno di una ideologia favorevole alla libertà individuale e poiché la consapevolezza di questa libertà porta a un atteggiamento di ribellione nei confronti delle imposizioni (vedi la resistenza prima contadina poi operaia durata sino alla fine del XIX secolo, ma in Italia, p.es., sino alla fine della mezzadria e alla costituzione del movimento cooperativistico), il capitalismo, ad un certo punto, per riprodursi agevolmente, ha bisogno di espandersi in territori periferici extranazionali, ove il livello culturale sia più basso di quello nazionale. Il capitalismo, infatti, da un lato, per imporsi, deve promettere benessere per tutti, dall'altro però non può mantenere le proprie promesse, poiché il benessere di pochi è frutto della miseria di molti. Di qui l'esigenza di sfruttare altri lavoratori, di paesi coloniali, il cui livello culturale è troppo basso perché siano in grado di ostacolare lo sviluppo del capitale e il cui grado di sfruttamento sia tale da permettere al capitalismo metropolitano di soddisfare le esigenze di libertà (economica e culturale) dei lavoratori occidentali. Ecco perché là dove esiste solo "precarietà di mezzi" o produzione per l'autosussistenza, il capitalismo crea miseria, degrado e sottosviluppo. Questo significa che fino a quando i lavoratori del Terzo Mondo (il sottoproletariato) non si emanciperanno dallo sfruttamento imperialistico (e non solo dalla dipendenza politica), sarà molto difficile che i lavoratori dei paesi occidentali lottino per la realizzazione del socialismo. Lenin aveva già capito molto bene che in presenza dell'imperialismo, la consapevolezza rivoluzionaria della classe operaia occidentale arriva a porre, come massimo, delle rivendicazioni di tipo sindacale, cioè perde quell'istinto sociale alla rivoluzione che invece Marx le aveva riconosciuto, condizionata com'è e da un relativo benessere pagato altrove e dai potenti mezzi persuasivi (propagandistici) del capitale. Quando Lenin cominciò a predicare la necessità di offrire dall'esterno una vera consapevolezza rivoluzionaria, egli non fece altro che constatare una situazione di fatto: spontaneamente gli operai occidentali, nel sistema dell'imperialismo, non sono rivoluzionari ma piccolo-borghesi, non meno degli intellettuali di sinistra che li rappresentano. Commento di Balibar al cap XXIV del Capitale (L. Althusser - E. Balibar, Leggere il Capitale, ed. Feltrinelli, Milano 1971) Balibar esordisce osservando giustamente che la transizione dal capitalismo al socialismo non può essere il frutto di una progressiva evoluzione da una struttura a un'altra, in quanto occorre una vera e propria "rottura", un momento di "dissoluzione": "il passaggio da un modo di produzione a un altro, per esempio dal capitalismo al socialismo, non può consistere nella trasformazione della struttura attraverso il suo stesso funzionamento, cioè a dire in nessun passaggio dalla quantità alla qualità"(p. 294). Tuttavia, dice Balibar, il cap. XXIV del Capitale sembra prospettare proprio una soluzione del genere: "la trasformazione come un processo dialettico di negazione della negazione"(p. 295). Marx infatti ne parla così: "la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E' la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell'era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso"(p. 61 nell'edizione di Marx). Il ragionamento di Marx -come si può notare- è di tipo hegeliano: se la tesi è il capitale e l'antitesi il proletariato che gli si oppone, la sintesi è una formazione sociale che supera entrambe le opposizioni, conservandone gli aspetti che meritano d'essere riprodotti. Quindi non più un ritorno alla proprietà pre-capitalistica, in cui non c'era cooperazione, collettivizzazione dei mezzi produttivi ecc., ma la nascita di un nuovo modo di lavorare. Come ciò materialmente possa avvenire non è dato di sapere, in quanto Marx parla di "ineluttabilità di un processo naturale". Balibar non ha dubbi nell'affermare che "l'analisi dell'accumulazione originaria [in tal senso] appare relativamente indipendente dall'analisi propriamente detta del modo di produzione, anzi come un'enclave di storia 'descrittiva' in un'opera di teoria economica"(p. 295). Il cap. XXIV sembra infatti suggerire l'idea "che il modo di produzione (capitalistico) si trasformi 'da sé' attraverso il gioco della sua propria 'contraddizione', cioè a dire della propria 'struttura'"(ib.). Su questo bisogna aprire una parentesi. Se il cap. XXIV suggerisce l'idea di cui parla Balibar, secondo noi non è cosa di cui ci si dovrebbe preoccupare più di tanto, in quanto è fuor di dubbio che il capitalismo ha in sé contraddizioni così antagonistiche che o il suo superamento deve essere considerato inevitabile, o inevitabile sarà l'acuirsi degli antagonismi, fino alla possibile autodistruzione del genere umano, come le due guerre mondiali hanno già lasciato presagire: se nazioni come Cina, India, Russia, Brasile... pretendessero di rimettere in discussione, in chiave imperialistica, la ripartizione del mondo anche a costo di scatenare un nuovo conflitto mondiale, è dubbio, con il potenziale bellico attuale, che l'umanità riuscirebbe a sopravvivere a se stessa. Semmai sono i modi per realizzare la transizione al socialismo che meriterebbero d'essere oggetto di discussione. La specie umana non è votata all'autodistruzione né a vivere rapporti sociali antagonistici, per quanto la necessità di vivere rapporti sociali di tipo collettivistico debba essere considerata solo come una possibilità soggetta a decisione libera e consapevole, non potendo essere una necessità imposta da qualcosa, sia questa la storia o la natura. Oggi siamo più che convinti che la consapevolezza della necessità di questi rapporti deve sempre prevedere un loro rifiuto non meno consapevole. La perestrojka gorbacioviana è stata in fondo la presa di coscienza che la libertà non può mai essere imposta, neanche in nome della verità, e che una qualunque sua imposizione è una forma di dittatura politica. E' vero che i paesi est-europei non sono passati dal collettivismo forzato a quello libero, ma è anche vero che quelli dell'ovest non hanno ancora sperimentato alcuna forma di socialismo. Cioè mentre all'est hanno avuto il coraggio di rinunciare al collettivismo forzato, qui invece non si è ancora avuto analogo coraggio di mettere in discussione il forzato individualismo. Chiusa la parentesi. Molto interessante il fatto che Balibar si sia accorto che "anche il modo di produzione capitalistico appare [nel suddetto capitolo] come il risultato dell'evoluzione spontanea della struttura"(ib.). L'affermazione è interessante perché in effetti l'impressione è proprio quella. Oggi nessuno è in grado di escludere l'idea di una certa "continuità" nel passaggio dal servaggio al lavoro salariato, come d'altra parte la si può notare nel passaggio dallo schiavismo al servaggio. Tuttavia, ogni forma di passaggio (di transizione) implica, secondo noi, e inevitabilmente, anche una sorta di "discontinuità" nelle forme sociali che si susseguono, che lottano per imporsi: nel senso che non bisogna mai dare per scontata l'evoluzione di un determinato sviluppo socioeconomico. Questo però significa che nel processo di affermazione di una forma di transizione in luogo di un'altra devono concorrere fattori che non sono strettamente economici ma extraeconomici, cioè sostanzialmente culturali o, se si preferisce, sovrastrutturali (teologia, filosofia, diritto, politica ecc.). La discontinuità è in stretta correlazione anche con le elaborazioni teoriche che, in maniera più o meno originale, producono le classi intellettuali o dirigenti, e che sono conseguenti al mutamento di determinate condizioni socioeconomiche. Insomma non c'è mai transizione spontanea senza un qualche riflesso consapevole tra le fila degli intellettuali. Senonché proprio su questo il marxismo classico (escluso ovviamente il leninismo e il gramscismo) ha sempre sofferto di un limite nell'analisi storica: non a caso è noto il riduzionismo di tale analisi a una storia dell'economia. Si è tanto più appoggiata l'idea di una transizione "spontanea" da una formazione a un'altra, quanto meno si andava a cercare nella sovrastruttura quelle motivazioni teoriche che in un modo o nell'altro avrebbero potuto favorirla. Balibar ovviamente condivide la critica marxiana dell'economia politica classica che vede nelle leggi del capitalismo qualcosa di "naturale" o di "sovrastorico", mentre sappiamo che il capitalismo è frutto di un processo drammatico in cui il lavoratore è stato forzatamente separato dalla proprietà dei mezzi produttivi o comunque da un loro uso relativamente autonomo (come appunto nel servaggio). Con molto acume Balibar ha capito come uno dei fondamentali problemi attorno a cui Marx s'è spesso arrovellato senza mai trovare una soluzione definitiva o quanto meno convincente, e per il quale oggi ci vorrebbe un nuovo Marx, che riprendesse le tesi di Gramsci e che avesse nel contempo una grande padronanza della scienza economica, è stato il seguente: "la storia della separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione non ci dà il capitale monetario [e qui Balibar riporta la domanda cruciale di Marx: "di dove vengono originariamente i capitalisti? Poiché l'espropriazione della popolazione rurale crea in via immediata soltanto dei grandi proprietari fondiari"(p. 35 nel libro di Marx)]; da parte sua la storia del capitale monetario non ci dà il lavoratore 'libero'"(p. 302). Ovviamente ogni storico sa benissimo che nell'ambito delle leggi specifiche del servaggio e della rendita feudale non è mai esistita da alcuna parte una "espropriazione della popolazione rurale" che permettesse di generare dei "grandi proprietari fondiari". Si era "grandi proprietari" in rapporto diretto alla grandezza della popolazione da sfruttare, e la rendita non permetteva comunque uno sfruttamento che andasse oltre un certo fabbisogno naturale. Quando l'esproprio ha cominciato a verificarsi in maniera così drammatica si era già in presenza, da qualche parte, di processi di produzione che si ponevano in antagonismo con quelli classici della rendita feudale. L'espropriazione dei contadini è la risposta capitalistica di un proprietario fondiario (il gentleman) che vuole continuare a vivere di rendita in forme e modi diversi, ma non è esattamente questo che fa nascere il capitalismo, anche se certamente contribuisce a svilupparlo. Un atteggiamento del genere presuppone già una rivoluzione economico-commerciale (che nel XVI sec. era sicuramente presente in Olanda e nelle Fiandre in particolare), ma anche una rivoluzione culturale, non trattata nel suddetto cap. XXIV, ove non si prendono in esame le idee della Riforma (da John Wycliffe sino al calvinismo scozzese più radicale). "La formazione delle fortune mobiliari -dice Balibar- è prodotta dal capitale commerciale e da quello finanziario il cui movimento avviene fuori di queste strutture, 'marginalmente'..."(p. 302). La seconda parte di ciò che scrive Balibar -ripresa da Marx- non è meno vera. La storia del capitale monetario (in cui può essere coinvolta una determinata zona geografica non europea: p.es. la Cina, l'India o il mondo islamico) non ci dà il lavoratore "libero". Infatti la "libertà giuridica" sembra essere un connotato specifico della formazione capitalistica. L'operaio può essere "sfruttato" appunto in quanto persona "libera". Il capitalismo concede una libertà "formale" per poter imporre una diversa schiavitù sostanziale. Una rivoluzione del genere -qui bisogna dirlo senza equivoci, ma Balibar non lo dice-, che è insieme sociale e culturale, poteva essere compiuta solo nell'ambito di un'ideologia che nel contempo avesse radici cristiane e posizioni anticristiane. La tesi che sosteniamo è dunque la seguente: il tradimento di queste radici cristiane raggiunse l'apogeo col protestantesimo, specie nella sua variante calvinista, ma esso era iniziato molto tempo prima, con la stessa separazione del cattolicesimo-romano dall'ortodossia greco-bizantina; separazione che è avvenuta intorno al Mille, ma le cui basi erano state poste alcuni secoli prima, con la creazione del Sacro Romano Impero d'Occidente (sulla base del compromesso tra i Franchi e la Chiesa di Roma), con la creazione del potere temporale del papato e con la revisione ideologica delle fondamentali tesi cristiane (dal Filioque al dogma dell'infallibilità pontificia). Dice Balibar, chiosando con grande acume Marx: "gli elementi di cui si fa la genealogia hanno esattamente una collocazione 'marginale', cioè a dire non determinante"(p. 303). Il capitalismo, in altre parole, nasce in virtù di elementi che nell'ambito del feudalesimo sono del tutto marginali rispetto al modo di produzione dominante e che pur tuttavia riescono a scardinarlo; e riescono a farlo -qui sta la stranezza- dapprima in un contesto geografico che sul piano culturale era relativamente omogeneo (l'area protestante del Nord-Europa e degli Stati Uniti), e secondariamente nell'area cattolica di tutti gli altri paesi europei, che ad un certo punto s'è vista indotta ad accettare la svolta. La conclusione di Balibar si pone solo come occasione di ulteriori approfondimenti, perché in sé non è sufficiente a chiarire i passaggi culturali che hanno portato alla nascita del capitalismo. Lui stesso lo dice: "nell'analisi dell'accumulazione originaria non abbiamo tratto tutte le conseguenze"(p. 305). Scrive, in particolare: "la formazione del modo di produzione capitalistico è totalmente indifferente all'origine e alla genesi degli elementi di cui abbisogna, che essa 'trova' e 'combina'"(p. 304). Questo è vero sino a un certo punto, proprio perché la differenza si pone nel modo di "combinare" gli elementi: un "modo" che, a sua volta, deve riflettere un "criterio" o una forma di rappresentazione teorica della realtà ben specifica e nient'affatto irrilevante. Se queste forme non sono ancora state trovate è perché si è andati a cercarle in luoghi sbagliati, in cui fosse visibile, evidente, il nesso tra teoria e prassi capitalistiche. In realtà i nessi, i fili che collegano le entità sono invisibili e vanno cercati in quelle espressioni del pensiero che solo indirettamente producono effetti sulle relazioni sociali, sul comportamento degli individui, sul costume, sui modi di pensare... Queste forme di pensiero sono squisitamente teologiche e vanno cercate in tutta quella produzione ideologica che va appunto, come si diceva, dall'elaborazione del Filioque sino alla Riforma protestante (i dogmi cattolici successivi alla Riforma costituiscono solo un tentativo maldestro della chiesa romana di sopravvivere come istituzione feudale in un modo sempre più borghese). Il lavoro da fare è immane e potrà essere svolto solo da un'équipe di intellettuali che partano da presupposti scientifici appartenenti non solo all'umanesimo laico ma anche al socialismo più democratico, intellettuali capaci di analizzare la struttura come Marx e la sovrastruttura come Gramsci. * * * La seconda parte del testo di Balibar (prima del paragrafo 4, che è il più interessante) riflette in un certo senso i limiti politici del marxismo occidentale e quindi l'esigenza che ad esso venga associato il grande contributo del leninismo, poiché quest'ultimo ha capito, meglio di ogni altra corrente, che il marxismo non è solo una critica del capitalismo ma anche una prassi politica per realizzare il socialismo. Balibar non può nascondersi che nel cap. XXIV del Capitale, ancorché si lasci indefinito il modo di realizzare la transizione, vi sono passi che possono essere interpretati nel senso di una progressiva evoluzione dal capitalismo al socialismo, fatta salva la conditio sine qua non della garanzia del processo, e cioè l'esproprio della proprietà privata capitalistica. Ebbene, su questo -come noto- il leninismo è sempre stato categorico: l'espropriazione dei capitalisti può essere solo il frutto di una consapevole rivoluzione, quanto cruenta o incruenta solo il livello di resistenza degli stessi capitalisti potrà deciderlo. Le contraddizioni strutturali del capitalismo -si chiede Balibar, all'inizio degli anni '70- possono essere il "motore" del suo superamento?(p. 307) Sì, ma a condizione che nello stesso tempo si formi un soggetto rivoluzionario che le sappia svolgere nella maniera più democratica possibile. Sarebbe infatti insensato pensare a un processo automatico di transizione, quando la stessa nascita del capitalismo ha comportato, da parte della borghesia, notevoli battaglie teoriche e pratiche contro il feudalesimo e il clericalismo. Balibar vuole qui giustificare i ritardi della transizione, limitandosi a dire che la tendenza al superamento del capitalismo "si realizza solo alla lunga"(p. 308). E poi prosegue dicendo che esiste una legge obiettiva (quella della caduta tendenziale del saggio di profitto) che pur portando al superamento del capitalismo, di fatto viene ostacolata da "circostanze esterne che non dipendono da essa e la cui origine rimane (per il momento) inspiegata"(p. 308). Queste "circostanze esterne" sono in realtà l'assenza di un vero movimento rivoluzionario, ovvero la presenza di rapporti imperialistici così forti tra Occidente e Terzo Mondo, da rendere la coscienza rivoluzionaria prigioniera di questi rapporti. Gli intellettuali occidentali più progressisti sanno che il capitalismo va superato, ma non si pongono il problema di come farlo, perché la loro condizione sociale, nei rapporti imperialistici, è analoga a quella di una classe di privilegiati, in grado di vivere un'esistenza più o meno agiata. Balibar in sostanza è convinto che occorra attendere l'acuirsi della suddetta caduta tendenziale dei profitti: cosa che inevitabilmente porterà ad aumentare il grado di sfruttamento del lavoro e il livello di concorrenza tra i capitali e quindi, se l'estensione della scala della produzione avrà raggiunto limiti insuperabili (quali siano però non viene specificato), il rischio reale di conflitti insanabili tra le classi. Il fatto è però -lui stesso lo dice- che il capitale sembra essere in grado di risolvere i guasti della propria struttura attraverso periodiche crisi di riproduzione, realizzando così una sorta di relativo equilibrio (fino alla prossima drammatica crisi). Tuttavia, dice ancora Balibar, l'equilibrio è solo apparente: i limiti del capitale sono in realtà quelli del capitale stesso, che paiono essere risolti -e qui Balibar riprende Marx- solo perché vengono posti "su scala nuova e più alta". * * * Nell'ultimo paragrafo: Caratteristica delle fasi di transizione, Balibar sostiene che Marx, nel cap. XXIV, ha descritto le origini ma non gli inizi del capitalismo. Sembra un sofisma, ma ha ragione, perché in quel capitolo non c'è un'analisi vera e propria della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Le enclosures, p.es., vengono imposte quando la mentalità dei landlords era già sostanzialmente di tipo borghese. Lo stesso Marx afferma che, mentre la vecchia nobiltà feudale era stata inghiottita dalle grandi guerre feudali (qui si devono presumere quella esterna dei Cento Anni con la Francia [1337-1453] e quella interna delle Due Rose [1455-1485]), la nuova nobiltà, invece, "era figlia del proprio tempo per il quale il denaro era il potere dei poteri"(p. 10 del testo di Marx): di qui l'esigenza di trasformare i campi arativi in pascoli per le pecore. Col che però egli non spiega come essi si fossero formati tale "mentalità". Tuttavia Balibar pensa che si possano trovare gli "inizi" del capitalismo nella manifattura, che in effetti fu presente anche in Italia, dove però il capitalismo industriale nascerà tre secoli dopo. Secondo noi si può dire quel che si vuole sulle differenze di "forma" tra manifattura e industrializzazione capitalistica, resta comunque fuor di dubbio che con la manifattura era già stata posta in essere una decisione consapevole in direzione del capitalismo, cioè di una netta fuoriuscita dal modo di produzione feudale. Tant'è che già con la manifattura si ha a che fare con produttori totalmente privi di proprietà, ancorché sfruttati sulla base delle loro specifiche competenze o abilità e non sulla base di un processo produttivo le cui dinamiche fossero a loro del tutto estranee. Nella manifattura il lavoratore è ancora padrone (in senso morale) della macchina (a volte anche in senso materiale, se la manifattura non è concentrata in un unico luogo); nel capitalismo è sempre vero il contrario. La manifattura è una forma di transizione verso il capitalismo industriale: a noi invece interessa una forma di transizione dal servaggio al lavoro salariato in cui l'elemento culturale abbia giocato un ruolo chiave di legittimazione, ne fossero o no consapevoli i protagonisti. Molto più interessante, in tal senso, è l'affermazione di Balibar secondo cui nei processi di transizione coesistono differenti modi di produzione che potrebbero essere oggetto di un'analisi sincronica di una futura ricerca marxista (p. 331). Ricerca che però noi non abbiamo mai visto, a parte qualche spunto offerte dalle ricerche di Groethuysen. E' evidente infatti che se il capitalismo si è sviluppato nel Medioevo, ciò è potuto avvenire perché ad un certo punto quel che era un'eccezione è diventata una regola e diventando tale essa ha finito col modificare radicalmente tutte le forme dell'attività produttiva dominante in precedenza. Un'analisi sincronica del genere dovrebbe altresì sviluppare il fatto che la borghesia, per imporsi come classe, si è servita del diritto e della politica dello Stato come arma di offesa ideologica nei confronti della popolazione interna alla propria nazione ed esterna (nelle colonie), a testimonianza che il borghese, come soggetto economico, ha saputo far leva su intellettuali e politici non meno borghesi di lui (cfr p. 330). Non ha più senso studiare la storia della formazione delle monarchie nazionali dal punto di vista meramente politico (o politico-religioso, se si pensa alle infinite guerre di religione che devastarono l'Europa). Occorre avere una visione sincretica e mettere sullo stesso piatto della bilancia gli aspetti sociali, culturali e politici. Conclusioni Nell'analisi del feudalesimo gli storici pongono lo spartiacque che divide l'Alto dal Basso intorno al Mille, allorché effettivamente si verificò una rivoluzione culturale di tipo borghese. In realtà questa rivoluzione è stata resa possibile perché la chiesa romana aveva posto le basi, già col conferimento (abusivo) del titolo di imperatore del Sacro Romano Impero a Carlo Magno, ai fini di un progressivo distacco politico, amministrativo e ideologico dal mondo bizantino-ortodosso. Se non si comprende che la rivoluzione economica borghese è stata non ovviamente prodotta ma comunque resa possibile dalla involuzione politico-ideologica della chiesa romana, che ha spezzato l'unità imperiale cristiana sotto tutti i punti di vista, noi, sul piano culturale, non avremo mai le coordinate spazio-temporali della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Soprattutto non si riuscirà mai a comprendere il motivo per cui al porsi di determinate condizioni economiche favorevoli al sorgere o allo sviluppo del capitalismo, può di fatto accadere anche un regresso verso forme di produzione para-feudali, di cui l'Italia controriformista costituisce l'esempio più eclatante. La recrudescenza del feudalesimo nell'Europa orientale alla fine del XV sec. è appunto la dimostrazione che in quei territori non erano state ancora poste le basi di un'autentica rivoluzione culturale. E' vero, l'Italia umanistica e rinascimentale aveva posto ampiamente tali basi, e tuttavia qui la classe borghese ha rivelato la sua pochezza nel momento in cui non ha saputo trasformare le proprie conquiste culturali in una battaglia politica contro la reazione clerico-feudale. Se l'Umanesimo e il Rinascimento avessero lottato politicamente è probabile che non ci sarebbe stata neppure una Riforma protestante (almeno non in Italia), in quanto l'ideologia umanistica era già talmente evoluta da considerare come irrilevante una "riforma" della "religione cattolico-romana", in quanto ampiamente sufficiente una separazione degli ambienti laici da quelli religiosi. Tutta la cultura del '400 e del '500 (e quella scientifica del '600), ma anche certa cultura del '300 (si pensi a Marsilio da Padova, cui John Wycliffe s'ispirò) era chiaramente orientata a tenere separati i campi d'indagine e d'intervento, e solo per esigenze di opportunità politica si ammetteva la possibilità di un compromesso con le istituzioni ecclesiastiche. Gli intellettuali italiani avevano raggiunto livelli culturali incredibilmente elevati per quei tempi, specie in relazione alle esigenze della laicità, e solo a motivo del loro distacco aristocratico dalle masse non si riuscì a tradurre politicamente le loro conquiste culturali e scientifiche. Probabilmente l'Italia, se avesse avuto questo coraggio, sarebbe giunta, prima di altri paesi europei, a realizzare il capitalismo industriale, proprio perché la maggior parte di questi intellettuali nutriva idee di stampo borghese. Il fatto che ciò non sia avvenuto, se non secoli dopo, deve farci riflettere. E' stato forse un bene per l'Italia essere giunta relativamente tardi al capitalismo, visto e considerato che in Inghilterra questa introduzione comportò dei rivolgimenti che dir "tragici" è poco? E' stato forse un bene per l'Italia non essere arrivata a tempo debito al capitalismo e aver continuato, in maniera anacronistica, sulla strada del tardo-feudalesimo? (Si badi: l'anacronismo non rispetto al capitalismo delle altre nazioni: Olanda, Inghilterra..., ma rispetto alle palesi contraddizioni dello stesso feudalesimo, che gli intellettuali italiani avevano preso a contestare sin dal secolo XI). Che possibilità reali aveva l'Italia umanistica e rinascimentale o anche quella controriformistica di realizzare una riforma del feudalesimo senza finire nelle contraddizioni antagonistiche del capitalismo? Esistono in tal senso delle testimonianze documentate che ci autorizzano a formulare un'ipotesi del genere? Può essere considerato storicamente giustificabile (a prescindere dalle forme oppressive in cui ciò di fatto si è manifestato) l'accettazione, da parte della società italiana del '600, dei rapporti politici dominanti, orientati verso il predominio delle istituzioni clerico-feudali, contro le tesi intellettuali in direzione dello sviluppo borghese dei rapporti produttivi? Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del "Capitale" di Marx (ed. Laterza, Bari 1971) Secondo Rosdolsky Marx non fece, nel cap. XXIV, una storia vera e propria della transizione dal feudalesimo al capitalismo, in maniera ortodossa dal punto di vista della metodologia storica, semplicemente perché non ne ebbe il tempo (p. 315 n. 3). Nei Grundrisse lo stesso Marx afferma che "per enucleare le leggi dell'economia borghese, non è necessario scrivere la storia reale dei rapporti di produzione", in quanto basta -aggiungiamo noi- la fenomenologia dell'economia. E tuttavia Marx si era proposto di fare anche un lavoro di ricerca storica vera e propria. Senonché Rosdolsky secondo noi ha sottovalutato la difficoltà di Marx, in quanto per poter fare una vera storia dell'economia (della transizione al capitalismo) occorre un approccio storico che non può privilegiare l'economico su tutto. A Marx ha sempre fatto difetto l'analisi integrata degli aspetti culturali con quelli sociali ed economici del capitalismo, specie in relazione alle sue origini storiche. * * * Interessante la sottolineatura che Rosdolsky fa circa un'apparente contraddizione di Marx che in alcuni testi, elencando le epoche della storia economica comincia non col comunismo primitivo ma coi modi di produzione asiatici, mentre in altri fa discendere tutta la storia della civiltà dal comunismo primitivo (la proprietà comune naturale spontanea), ribadendo che questa è la forma originaria (Urform) riscontrabile in Asia, presso gli antichi romani, presso gli slavi e i germani, i celti ecc. (n. 17 di p. 321). Cioè a dire per Marx non è mai esistito un modo di produzione asiatico particolare, che non rientrasse in quelli già enumerati: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo. Rosdolsky però avrebbe dovuto sottolineare due cose: 1) che al tempo di Marx gli studi sul comunismo primitivo erano scarsissimi, 2) che Marx ha sempre ritenuto necessario il passaggio dal comunismo primitivo alle civiltà: il che ha sempre reso limitata la sua analisi del processo di transizione dal capitalismo al socialismo. * * * Rosdolsky ha ben capito che Marx s'è arrovellato tutta la vita senza trovare una soluzione soddisfacente al seguente problema: il capitalismo non viene dalla proprietà fondiaria, né dalle corporazioni, ma dal patrimonio mercantile e usurario. E' un prodotto della circolazione monetaria avanzata. Tuttavia la circolazione è solo uno dei presupposti, non l'unico, altrimenti il capitalismo si sarebbe dovuto formare anche nell'antica Roma, a Bisanzio ecc. Dunque come spiegare l'arcano? Nella n. 26 di p. 323 Rosdolsky riporta una frase molto importante di Marx, presa dal libro III del Capitale: il capitalismo è il prodotto dello sviluppo del capitale commerciale, ma anche di "altre circostanze". Dice Rosdolsky: "non fu dunque la ricchezza monetaria in quanto tale, ma il processo storico della separazione dei mezzi di produzione dal lavoro e dal lavoratore, a fare dei mercanti e possessori di denaro dei secoli XV-XVII dei capitalisti"(p. 324). Tuttavia, il processo se è "storico" non può essere solo "economico": è anche sociale, culturale e politico. Solo allorché questo processo ebbe raggiunto "un certo stadio" -dice Marx- si verificò la nascita del capitalismo. Può questo stadio essere misurato con un metro meramente quantitativo? Secondo noi no. Non possono essere state determinazioni quantitative progressive a generare una nuova qualità, poiché qui si ha a che fare con una qualità troppo diversa. Tra schiavismo e servaggio le varianti sono infinitamente minori rispetto a quelle tra servaggio e lavoro salariato. Marx ha individuato un processo storico di dissoluzione del modo di produzione feudale, ma non ne ha individuato gli intrecci tra riflessione culturale e produzione economica. Egli ha cercato in tutti i modi di evitare che nelle sue analisi economiche si rischiasse di cadere nel circolo vizioso di cui parla nel cap. XXIV del Capitale (vedi n. 30 di Rosdolsky). Ma non si può uscire da questo circolo senza uno studio approfondito dei possibili nessi tra una cultura teologica non ancora espressamente protestante e una prassi economica non ancora espressamente borghese. Qui c'è uno scarto che va ancora colmato. Le origini culturali del capitalismo sono nell'individualismo, che nella società feudale era rappresentato dai vertici della gerarchia cattolico-romana (culturalmente superiore ai vertici delle popolazioni cosiddette barbariche) e quindi dalle elaborazioni teologiche degli intellettuali che hanno giustificato quell'individualismo. Il processo di separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione è potuto avvenire perché la chiesa romana aveva già realizzato il processo di separazione dei propri vertici gerarchici dall'ecumene cristiano: il che mise la chiesa in grado di tollerare, al proprio interno, in maniera lenta ma progressiva, lo sviluppo di una prassi economica che di cristiano aveva sempre meno, quella prassi che porterà alla nascita della figura del mercante cristiano e poi del borghese cristiano. Questa prassi non era dominante nel Medioevo, però la chiesa romana assunse un atteggiamento sempre più benevolo, sempre più concessivo, di fronte alle continue richieste di autonomia e di profitto privato dei mercanti, finché il processo le sfuggì di mano. Quando si accorse che la classe mercantile poteva minacciare il suo potere politico, era troppo tardi per tornare indietro, e i tentativi di fermare la storia indirizzata verso il trionfo del capitale, come p.es. la Controriforma, non fecero che ritardare di secoli un processo che, stante quelle condizioni, doveva comunque imporsi. Commento al cap. 4 "Lo sviluppo del Capitale" del Trattato marxista di economia di E. Mandel (vol. I) (ed. ErreEmme, Roma 1997) Mandel parte subito male: "Il sovrapprodotto agricolo è la base di ogni sovrapprodotto e quindi di ogni civiltà"(p. 163). Anche in queste affermazioni apparentemente banali possono celarsi grandi limiti. Attribuire la nascita delle civiltà, cioè di formazioni sociali basate sulla divisione in classi contrapposte, a una mera questione quantitativa, a sua volta determinata da un puro e semplice progresso tecnologico, significa non comprendere il dramma del passaggio dal comunismo primitivo alle civiltà. Non c'è stata evoluzione ma rottura tra le due formazioni sociali. Altrimenti noi non riusciremmo a spiegare storicamente, se non affidandoci al caso (che è categoria utile per miti e leggende), il motivo per cui il capitalismo non sia nato in paesi non europei. A dir il vero Mandel sa bene che "il sovrapprodotto agricolo, fornito sotto forma di lavoro non pagato o di corvée, appare agli albori di qualsiasi società di classe"(ib.). Però questo non può significare che nelle formazioni tribali non potesse esistere surplus agricolo, né che questo surplus, in dette formazioni, fosse il frutto di un pluslavoro non retribuito. Un marxista non dovrebbe far coincidere la quantità con la qualità. L'eccedenza, il surplus (in questo caso alimentare) non sta di per sé ad indicare la presenza di un conflitto di classe, di un antagonismo sociale. Altrimenti saremmo costretti a dire che la tecnologia può svilupparsi solo in contesti conflittuali: il che per milioni di anni non è mai stato. Non c'è nulla sul piano quantitativo che possa giustificare la presenza di questa o quella qualità. Neanche un'automazione completa della produzione industriale può supporre, di per sé, la presenza di un capitalismo avanzato. Mandel sbaglia anche in un'altra cosa, là dove dice che "l'incremento progressivo della produzione agricola è accaparrato dai signori che, per parte loro, la vendono al mercato. Ma per la stessa ragione la gran massa della popolazione non è in grado di acquistare prodotti artigianali fabbricati nelle città. Questi prodotti restano dunque, soprattutto, prodotti di lusso. La ristrettezza del mercato limita all'estremo lo sviluppo della produzione artigianale"(p. 165). Qui dunque si è già in presenza di una civiltà in cui la città è più importante della campagna: infatti il "signore" vuol subito vendere le eccedenze sul mercato per acquistare prodotti artigianali di lusso, mentre il contadino, da parte sua, avrebbe bisogno di fare la stessa cosa per ottenere "prodotti artigianali urbani" per il proprio fabbisogno. Una situazione di questo genere è già di tipo capitalistico e non feudale o precapitalistico, in cui si poteva ugualmente avere un rapporto col mercato senza per questo dover subordinare il valore d'uso al valore di scambio. Non è vero -come dice Mandel- che "il carattere di queste civiltà è fondamentalmente agricolo"(p. 166). Quando c'è "dipendenza" dal mercato, la produzione agricola è inevitabilmente di tipo capitalistico. Infatti, in tutte le civiltà precapitalistiche il contadino era anche artigiano o comunque poteva ottenere dall'artigiano della comunità di villaggio in cui viveva ciò di cui aveva bisogno e per la manutenzione del quale fruiva di una relativa autonomia, essendo il funzionamento della tecnologia alla sua portata. Non era la "ristrettezza del mercato" che "limitava" la produzione artigianale; questa semmai era in rapporto ai bisogni tecnologici di una produzione agricola basata sull'autoconsumo. Il passaggio dall'autosussistenza alla dipendenza dal mercato non è avvenuto per motivi contingenti, per sviluppi di tipo quantitativo, per cause di tipo tecnologico o per un aumento improvviso o progressivo di bisogni vitali. Niente di tutto questo (se non in via eccezionale e transitoria) è in grado di spiegare il dramma di una transizione che il mondo contadino ha vissuto come un'imposizione. Se un contadino fosse costretto a cercare sul mercato ciò che gli occorre per la sua economia di autoconsumo, non avrebbe bisogno di aspettare la trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro, per sentirsi "sconvolto da cima a fondo"(p. 166). Il giudizio che Mandel dà dell'economia feudale è decisamente negativo. Si tratta di "un'economia naturale e chiusa"(ib.), come se ciò che è "naturale" sia di per sé "chiuso", nel senso di "ristretto", "limitato", "rozzo", "primitivo"... "La vita economica esce dal suo torpore secolare -dice Mandel- e dal suo relativo equilibrio per diventare dinamica, squilibrata, spasmodica"(ib.). "Torpore secolare" e "relativo equilibrio" sono qui stranamente equivalenti: perché dunque passare dall'"equilibrio" allo "squilibrio"? In realtà per Mandel il concetto di "equilibrio" indica solo "staticità", "fissità", "povertà" a tutti i livelli (tecnologici, economici, culturali...). Solo il capitalismo è "dinamico": è questo il primo aggettivo usato. Il fatto che sia anche "squilibrato", "spasmodico" rientra nel suo "dinamismo". Più interessante invece il fatto che Mandel dica che "la trasformazione del sovrapprodotto agricolo da rendita in natura in rendita in denaro non è il risultato inevitabile dell'espansione del commercio e dell'economia monetaria, ma risulta da rapporti di forza dati tra le classi"(p. 167). E qui cita Postan: "in mancanza di una grande riserva di liberi lavoratori senza terra e al di fuori delle garanzie legali e politiche dello Stato liberale, l'espansione dei mercati e l'aumento della produzione possono portare piuttosto al rafforzamento delle corvées che al loro declino"(ib.). Questo è vero, ma andava spiegato diversamente. Non basta parlare di "rapporti di forza tra le classi". La forza di questo scontro fisico (politico-militare) si è basata anche sulla forza delle idee, che Mandel però neppure vede. Se lo sviluppo del mercato porta al rafforzamento delle tradizionali corvées, significa che il conflitto non è solo tra "signori" e "contadini", ma anche tra "signori" e "borghesi" e che in questo conflitto un ruolo decisivo viene giocato dall'ideologia, perché se il borghese riesce a convincere il contadino che è meglio per lui emanciparsi dal servaggio, mettersi in proprio, trasferirsi in città e trasformarsi in borghese come lui..., nessuna coercizione extraeconomica sarà in grado d'impedire questo passaggio di mentalità e questa possibilità di mutamento della condizione sociale. Mandel però non è interessato alle motivazioni culturali: gli basta sapere che le classi possidenti, "in cambio della parte del sovrapprodotto agricolo che non arrivano a consumare direttamente, possono acquistare prodotti di lusso, gioielli, utensili domestici di grande valore e bellezza, che tesaurizzano per acquistare un prestigio sociale e per sentirsi sicuri in caso di catastrofi"(p. 169). Dunque delle due l'una: o questi possidenti avevano un'inconscia psicologia borghese che attendeva la nascita del mercato per venire alla luce, oppure la mentalità borghese, propagandata ai quattro venti, doveva per forza aver condizionato anche loro. Ma se è vera la seconda, perché Mandel preferisce la prima, che da un punto di vista storico ha un valore uguale a zero? Queste classi tardo-feudali chiedono di comprare sul mercato cose di cui fino a quel momento avevano potuto fare a meno, o comunque sono disposte a sconvolgere dalle fondamenta l'economia che fino a quel momento aveva loro garantito introiti sicuri, soltanto per il gusto di avere degli oggetti di lusso. Mandel non si rende conto che anche per i nobili non meno che per i contadini (ovviamente in gradi e forme diverse) fu un trauma la nascita e lo sviluppo del mercato capitalistico, e che ben pochi di loro furono in grado di adattarsi a questa dipendenza economica. Altro che acquistare prodotti "per sentirsi sicuri in caso di catastrofi"! La catastrofe era già arrivata, ed era quella di dover spartire il potere con una nuova classe sociale. La nobiltà semmai fu responsabile del fatto che pretendeva di avere i vantaggi del capitalismo facendone pagare il prezzo ai contadini. Cioè nel momento della minaccia non vide nel contadino un possibile alleato in funzione anti-borghese, ma una bestia da soma da sfruttare più di prima. Tuttavia la cosa più strana nell'analisi di Mandel è un'altra, ed è il fatto che, secondo lui, la classe borghese s'arricchisce a dismisura proprio in conseguenza del fatto che quella feudale acquistava delle merci sul mercato per un puro e semplice godimento personale, senza mai pensare a produrre, investire, capitalizzare... (p. 171). Cioè sembra che i nobili abbiano assunto una mentalità da figliol prodigo, causata da un capitalismo che in realtà doveva ancora nascere! Questi nobili feudali si comportano come i "signori" e "possidenti" d'ogni epoca storica o civiltà, salvo che, in questo caso, il loro sperpero, il loro consumo fine a se stesso fa arricchire smisuratamente una categoria di persone molto più furba di loro, al punto che farà nascere una nuova civiltà, che manderà a picco quella precedente. "Il denaro viene accumulato per fruttare plusvalore"(p. 171). Come se dallo "sperpero" al "plusvalore" non si fossero in mezzo un'altra miriade di passaggi da fare! I borghesi non sono diventati capitalisti solo perché non lo sono diventati i signori feudali: non è stata una questione di opportunità, di occasioni. In Inghilterra p.es. lo diventarono contemporaneamente: la piccola e media nobiltà, a differenza di quella grande, acquisì velocemente la mentalità borghese. Qui entrano in gioco dei processi culturali di cui Mandel non sospetta neppure l'esistenza (e chissà perché questo suo limite lo si ritrova anche in tutto il marxismo della IV Internazionale). Gli stessi borghesi non avrebbero potuto diventare capitalisti semplicemente limitandosi a vendere per il mercato. Occorreva un insieme di fattori che sono nel contempo sociali, culturali e politici. Una storia dell'economia che non prendesse in esame gli elementi extraeconomici, avrebbe lo stesso valore di una storia meramente politica o meramente religiosa. Se Mandel l'avesse fatto, non avrebbe mai detto che "la prima forma con cui il capitale si presenta in un'economia ancora fondamentalmente naturale, agricola, produttrice di valori d'uso, è quella del capitale usurario"(p. 172). Questa non è la prima forma di capitale ma la seconda, perché la prima resta sempre quella del capitale commerciale o mercantile, che è legale. L'usura acquista un certo potere solo nelle civiltà dove esiste già un certo capitale commerciale o mercantile, e non tanto o non solo per l'ovvia ragione che non c'è usura senza denaro (se non in forme limitate), quanto perché la mentalità usuraia è una conseguenza di quella mercantile. L'usuraio, che nelle civiltà è sempre esistito, non è mai un capitalista ma un semplice commerciante di denaro: se diventa capitalista smette di essere usuraio. Contro di lui la chiesa feudale inventò i monti di pietà, molti dei quali, poi, si trasformarono in banche (ed entrambi, per molti versi, si trasformarono in usurai legalizzati). Peraltro i prestiti in natura in cambio di un interesse si fa fatica a definirli "usurari", poiché c'è usura solo quando il prestito stesso è un modo per far fallire chi lo riceve. Il fine dell'usura non è tanto quello di riottenere un rimborso del prestito maggiorato di un interesse esoso, quanto quello di mettere sul lastrico la persona indebitata per spogliarla di tutto (fino a schiavizzarla, come spesso succedeva nel passato, ma potrebbe benissimo accadere anche oggi). Una mentalità del genere poteva essere solo un'eccezione persino nelle società dove il capitale commerciale era molto avanzato. Se diventava la regola, ed era comunque una regola illegale, anche le persecuzioni o le ritorsioni, non meno illegali, contro gli usurai lo diventavano, senza che nessuno avesse da ridire qualcosa. Nell'antico popolo ebraico l'usura veniva tollerata solo nei confronti degli stranieri. Mandel dà troppa importanza al capitale usurario, ed è costretto a farlo non avendo argomentazioni di tipo culturale. E' molto raro che un usuraio diventi capitalista, perché l'usuraio non ama rischiare i propri capitali. Anche un usuraio ricchissimo non andrebbe mai oltre l'investimento immobiliare o comunque diversificherebbe l'investimento del proprio patrimonio guardandosi bene dall'impegnarsi direttamente a livello industriale. L'usura, in genere, distrugge il tessuto economico, non crea alcunché. Viceversa il capitalista ha bisogno di sfruttare legalmente la forza-lavoro di operai formalmente liberi, i quali potrebbero anche coalizzarsi e ribellarsi. Per un'operazione del genere ci vuole tutt'altra mentalità e cultura. Mandel sostiene che il capitale usurario "ripiega verso gli strati oscuri della società, in cui sopravvive per secoli a spese della gente minuta"(p. 176), solo dopo che si è generalizzata l'economia monetaria. In realtà l'usura non ha un prima o un dopo nei confronti dell'economia monetaria. L'usura, nelle civiltà, coesiste sempre con l'economia ufficiale, dominante, che può essere prevalentemente agricola o basata sulla circolazione monetaria. L'usura aumenta all'aumentare delle crisi sociali ed economiche e tende a diminuire quando la società intera, le sue istituzioni, prendono provvedimenti contro le crisi (utilizzando generalmente i conflitti bellici, le dittature politiche, ma anche il credito agevolato). * * * Anche sull'origine del capitale mercantile Mandel è esagerato, come tutti quelli che affrontano la realtà in maniera schematica, semplicistica. A suo parere l'accumulazione primitiva di capitale monetario proviene da due fonti principali: "la pirateria e il brigantaggio, da un lato, l'appropriazione di una parte del sovrapprodotto agricolo o persino del profitto necessario del contadino, dall'altro"(p. 176). Questa però non può essere stata un'accumulazione primitiva che ha trasformato il mercante in un imprenditore capitalista. Pirateria e brigantaggio non hanno mai portato, di per sé, al capitalismo; al massimo un capitalismo ancora imberbe poteva servirsene per contrastare capitalismi più maturi, nati in precedenza. I capitalismi ultimogeniti di Italia e Germania furono costretti a far scoppiare due guerre mondiali per recuperare il tempo perduto (la Spagna si accontentò, si fa per dire, di una sanguinosissima guerra civile). E per quanto riguarda l'appropriazione del surplus va detto ch'essa già suppone il capitalismo, quindi non ha nulla di "primitivo". Marx non ha mai detto cose del genere. Mandel non si rende conto che il capitalismo ha avuto bisogno di una buona dose di legittimità storica per poter nascere e svilupparsi. Se fosse nato sulla base di un "furto" (come voleva il socialismo utopistico) ci sarebbe stata una reazione di massa. Il "furto" è senza dubbio una componente intrinseca a qualunque attività commerciale, ma è una componente "legale", che l'acquirente accetta e da cui sa di doversi difendere. Finché i commerci restano subordinati a mercati urbani o fiere con cadenze periodiche, in cui si va a vendere il surplus o ad acquistare ciò che scarseggia o non si trova nella comunità di villaggio, la regola del "furto" può essere tranquillamente accettata: non sarà qualche raggiro subìto involontariamente che manderà a pezzi un'economia di autosussistenza. Le civiltà precolombiane non sono crollate quando gli spagnoli scambiavano specchietti per oggetti d'oro, ma quando gli indigeni furono costretti ai lavori forzati. I problemi sorgono quando in virtù dell'accrescere dei commerci e dell'incapacità culturale e politica di contrastarli, l'economia di autosussistenza si trasforma progressivamente in un'economia di dipendenza dalle leggi di mercato. Questi processi avvengono contro le dinamiche comunitarie tradizionali, ma sotto una parvenza di legalità che inganna gli individui. E' dunque assurdo sostenere "che i primi mercanti navigatori raccolgono il loro piccolo capitale iniziale" col brigantaggio e la pirateria (che a loro volta, se vogliamo, sono non cause ma conseguenze dello sviluppo del capitalismo commerciale), e che "l'accumulazione del capitale-denaro dei mercanti italiani che dominarono la vita economica europea dall'XI al XV secolo, proviene direttamente dalle crociate"(p. 176-77). Qui si confonde la causa con l'effetto. Il commercio si sviluppa indipendentemente dalle crociate, come il capitalismo indipendentemente dal colonialismo, anche se crociate e colonialismo furono scatenate subito dopo, o comunque diedero un forte impulso alla nascita del capitalismo, che ha motivazioni interne alla società europea, la quale, una volta basata sul commercio o sul capitalismo, tende ad impoverire la maggior parte della propria popolazione. Crociate e colonialismo furono le risposte borghesi alle contraddizioni che la stessa borghesia aveva creato nel proprio paese d'origine. La prima crociata è intorno al Mille, ma intorno al Mille si formarono anche i primi Comuni. Questo significa che la classe dei mercanti esisteva in Italia ben prima del Mille. Peraltro Mandel dà una giustificazione delle crociate e del colonialismo, ovvero del commercio estero, del tutto sbagliata. Non sono semplici difficoltà economiche ("un commercio strettamente limitato e regolato", p. 178) che inducono a scatenare guerre commerciali che durano per dei secoli e che comportano sempre perdite colossali di uomini, risorse e mezzi, e che si rivelano davvero produttive solo dopo un certo tempo. Non ci si avventura in imprese belliche così onerose per poter avere la possibilità di smerciare "prodotti di lusso destinati alle classi possidenti"(ib.). Crociate e colonialismo servirono piuttosto a far espatriare quelle categorie di persone che nella madrepatria risultavano eccedenti, oltre che per avere scali portuali per qualunque tipo di merce (o anche solo per mettere dei dazi per il transito delle merci, come spesso i turchi s'accontentavano di fare). E questo mercato estero ebbe bisogno di motivazioni culturali per essere giustificato e legittimato. Ai tempi delle crociate si proponeva di liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli; ai tempi del colonialismo di diffondere ovunque la civiltà europea, ritenuta, grazie a scienza e tecnica, superiore a ogni altra. Erano piuttosto i trasporti che rendevano un lusso questo commercio, ma là dove furono create delle colonie non si pensò mai a produrre qualcosa che solo poche persone avrebbero potuto comprare. Andava bene qualunque tipo di commercio che sostenesse gli ingenti costi di trasporto (equipaggio, mezzi, dogane... ivi inclusa la pirateria). Se vogliamo dare per scontato che il commercio fosse solo per i prodotti di lusso, allora dobbiamo anche dare per scontato che il commercio non aveva ancora permeato di sé l'intera economia. Possiamo accettare l'idea del "lusso" in occasione delle crociate, in quanto l'attività dominante era quella agricola nella madrepatria, certo non in relazione al colonialismo. E comunque resterebbe sempre da spiegare il modo in cui un'economia prevalentemente agricola sia diventata prevalentemente commerciale in virtù di un commercio estero basato sui prodotti di lusso. Inoltre è sciocco pensare che un "grande mercante" si sforzasse "di limitare qualsiasi nuova espansione, pena il distruggere per sua stessa opera le radici monopolistiche dei profitti"(p. 181). Un atteggiamento del genere andrebbe spiegato sul piano culturale, perché se può essere appartenuto alle città marinare al tempo delle crociate, non è tipico della borghesia coloniale. Mandel fa citazioni di autori che sono vissuti in periodi storici diversissimi, al fine di mostrare delle analogie trasversali nello spazio e nel tempo, ma il problema è proprio questo, che per spiegare le origini del capitalismo le analogie non bastano, anzi sono fuorvianti. Marx l'aveva già capito. Cioè anche se si volesse sostenere che i mercanti medievali accumulavano capitali per poi reinvestirli in gran parte in beni immobili o in speculazioni di borsa, o in operazioni di credito..., e che solo i loro discendenti arrivarono a investirli in attività capitalistiche vere e proprie, il passaggio da un tipo di mercante all'altro resterebbe comunque da dimostrare, perché di per sé non può essere considerato un passaggio logico o inevitabile. E' tutto da dimostrare infatti che un imprenditore capitalistico, agli albori del capitalismo, avesse necessariamente origini mercantili. Cioè non è di per sé il capitale commerciale che fa nascere il capitalismo, ma una serie di circostanze (economiche, tecnologiche) in cui la cultura dominante (o che vuole diventarlo) gioca un ruolo chiave. Parlare di "rivoluzione commerciale" (p. 128) solo perché si scoprì l'America o si cominciò a commerciare con India e Cina, o perché i prezzi salirono alle stelle o perché si verificarono importanti innovazioni tecnologiche, è esagerato. La Spagna, da tutto questo, non ebbe alcuna "rivoluzione commerciale", anzi sprofondò nel baratro sino al Franchismo, mentre l'Italia, che era la più avanzata d'Europa nel XVI sec., insieme all'Olanda, si bloccò sino alla fine dell'800. Non esistono determinazioni quantitative che ad un certo punto producono, automaticamente, una nuova qualità. Si eredita, è vero, ciò che ci precede, ma per far nascere il capitalismo occorre porre in essere delle dinamiche culturali completamente diverse dal passato. P.es. la rivoluzione scientifica non è semplicemente nata per aiutare gli uomini a emanciparsi dalla religione e neppure soltanto per rispondere alle esigenze delle nuove forze produttive (commerciali prima e capitalistiche dopo). E' nata anche -e da qui si comprende l'importanza della cultura- come forma di risposta che l'uomo ha dato alla propria alienazione, quella causata da una nuova civiltà. Per la prima volta nella storia delle civiltà gli uomini hanno avvertito il bisogno di non riconoscere alla natura alcuna autonomia, ma anzi di sottometterla in ogni forma e modo. L'esigenza di applicare senza ritegno il macchinismo alla natura, per sfruttarne al massimo ogni risorsa, non a caso è emersa nel momento stesso in cui gli uomini si sentivano estranei tra loro da non avere alcuno scrupolo nell'usare tutti i mezzi possibili per sfruttare il lavoro altrui. Se non si esamina la cultura si sarà indotti a ritenere che il capitalismo non nacque nel periodo delle crociate solo perché allora mancava la tecnologia adeguata. Eppure gli spagnoli avevano una grande tecnologia per la produzione delle armi: per quale ragione non riuscirono ad applicarla per allestire fabbriche di tipo capitalistico? In realtà sotto le crociate il capitalismo non poté nascere proprio perché la cultura borghese non era ancora sufficientemente elaborata e spregiudicata, in grado di produrre tecnologia per sfruttare il lavoro di persone formalmente libere. Non ci sarebbe mai stato il capitalismo senza riforma protestante, e là dove il capitalismo s'è imposto senza i traumi della nascita di questa riforma, è stato perché questa era stata esportata nella sua fase più avanzata e definitiva (ecco perché oggi sono gli Stati Uniti a guidare il capitalismo mondiale). "Solo nel Giappone -dice Mandel-, i cui mercanti-pirati infestano il mare della Cina e delle Filippine a partire dal XIV secolo, e accumulano un capitale considerevole mentre contemporaneamente l'autorità dello Stato si dissolve, la supremazia borghese commerciale e bancaria sulla nobiltà e poi lo sviluppo di un capitale manifatturiero, hanno permesso di ripetere, dal XVIII secolo, cioè con due secoli di ritardo, l'evoluzione del capitalismo in Europa occidentale, indipendentemente da questo"(p. 213). Non una parola sullo shintoismo, questa particolare religione priva di un qualunque "ordine etico", in grado di far convivere aspetti feudali e capitalistici con grande disinvoltura. Secondo Mandel è il capitale commerciale (tipico della colonizzazione) che trasforma il commercio di lusso (tipico del capitale mercantile) in commercio generalizzato. In realtà non si tratta affatto di un progresso nel commercio estero: p.es. una maggiore estensione delle zone geografiche (susseguente alla scoperta dell'America). Anche qui si ragiona in termini hegeliani: dalla quantità alla qualità. Il capitalismo non nasce dal colonialismo, perché il colonialismo è una caratteristica anche dell'epoca feudale. Le crociate, volute dal mondo cattolico-romano, possono aver contribuito, indirettamente, allo sviluppo del capitalismo, ma solo perché hanno contribuito allo sviluppo delle idee che porteranno alla Riforma, senza la quale il capitalismo non sarebbe mai nato. Noi non dobbiamo dimenticare che la prima opposizione alle idee mercantili fu quella organizzata dalle eresie pauperistiche, che la chiesa cattolica, con l'aiuto dell'impero e delle forze comunali e feudali in genere, riuscì a liquidare in maniera irreversibile. Dopo quei movimenti, che si svolgevano in una cornice di capitalismo mercantile, vi furono le guerre contadine (la più famosa forse è quella tedesca) e le rivolte degli operai salariati (a partire, in Italia, da quella dei Ciompi). Ma le idee della borghesia ebbero bisogno di tempo per affermarsi. Cioè il fatto che la chiesa eliminasse con la forza le eresie pauperistiche non sta di per sé a significare che le idee borghesi riuscirono, dopo di allora, ad avere la strada spianata. In Inghilterra, per imporsi, dovettero fare la rivoluzione del 1688, in Francia quella dell'89, in Italia, nonostante l'umanesimo e il rinascimento, vi fu il regresso della controriforma. Questo per dire che se anche poniamo intorno al Mille la nascita delle prime idee a chiaro orientamento borghese, ci vorranno ancora 500 anni prima che si possa parlare di nascita del capitalismo. Se dovessimo guardare la storia col metro delle determinazioni quantitative, verrebbe subito da chiedersi il motivo per cui una borghesia, già cosciente di sé intorno al Mille, ci abbia messo ben 500 anni prima di imporsi all'attenzione dell'intera società. Non era solo questione di limitatezza dei commerci o delle tecnologie; era piuttosto il fatto che la borghesia aveva bisogno di darsi delle motivazioni culturali convincenti, sufficientemente elaborate, supportate da un benessere dimostrabile, che rompessero definitivamente i ponti con la cultura cattolico-feudale, la quale, mentre sul piano politico da un lato concede e dall'altro impone, sul piano sociale è eccessivamente legata alle tradizioni del mondo contadino e nel complesso nutre degli ideali in cui religione e politica si mescolano continuamente (come nell'ebraismo e nell'islam). Non per nulla il movimento comunale, pur essendo originato da istanze borghesi, in Italia fu spesso caratterizzato da lotte intestine di tipo ideologico-politico, tra opposte fazioni la cui identità si poneva in relazione all'accettazione o meno del primato della chiesa sull'impero o sugli stessi comuni (guelfi e ghibellini, per fare un esempio). Senza riforma protestante, che non a caso per imporsi dovette fare guerre colossali contro la chiesa romana e i sovrani che la difendevano, la borghesia sarebbe rimasta inesorabilmente a livello "mercantile", rischiando, come p.es. in Italia, inaspettati regressi. * * * Un'altra delle cose singolari nell'analisi economica di Mandel è il passaggio automatico dal capitalismo commerciale all'industria a domicilio. Si noti la seguente incongruenza: "Malgrado l'estensione del grande commercio internazionale a partire dall'XI secolo nell'Europa occidentale, il modo di produzione urbano era rimasto fondamentalmente quello della piccola produzione mercantile"(p. 189). Ora, passare all'industria a domicilio, cioè alla manifattura sparsa, significa inequivocabilmente passare al capitalismo. Cosa ha determinato questo passaggio? Ecco la risposta di Mandel: "l'aumento progressivo della popolazione e del numero degli artigiani"(p. 190). Cioè ancora una volta semplici determinazioni quantitative portano la famiglia contadina a produrre non più per se stessa ma per un mercante che la paga. Una cosa del genere non sarebbe mai stata possibile senza emancipazione dal servaggio, ma un'emancipazione del genere ha bisogno di lotte politiche e di battaglie culturali, di cui Mandel non dice nulla. Se non si parla di queste cose si finisce col dire sciocchezze come la seguente: "Per portare i propri prodotti a una fiera lontana, un tessitore o un ramaio deve fermare la produzione e non può riprenderla che al suo ritorno. E' inevitabile che taluni di essi, in particolare i più ricchi, in grado di procurarsi un sostituto in casa, si specializzino ben presto nel commercio"(pp. 190-91). Ragionamenti analoghi vengono fatti dai teologici quando per spiegare il peccato originale lo danno per scontato. Mentre pensa di portare i propri prodotti in fiera, l'artigiano è ancora legato al mondo feudale, ma siccome teme di dover fermare la produzione... Quale "produzione"? Ovviamente quella per il mercato. Ma allora mentre ha "timore", l'artigiano, come se potesse azionare una macchina del tempo, si ritrova a vivere qualche secolo dopo; e questo artigiano cripto-capitalista o malgré soi non si comporta, come sarebbe stato naturale per un parvenu come lui, "controllando" la produzione e mandando qualcuno a vendere le sue merci, ma fa esattamente il contrario, come se vivesse nel Medioevo! Ma la cosa più comica è un'altra: questi artigiani -dice Mandel- "in un primo momento portano al mercato, assieme ai loro prodotti, i prodotti dei vicini solo per rendere un servizio. Finiscono poi con l'acquistare direttamente i prodotti di una gran massa di mastri artigiani e con l'incaricarsi esclusivamente della vendita in luoghi lontani"(p. 191). Cioè l'artigiano non solo non controlla la propria produzione, ma addirittura si trasforma in mercante, cioè smette di lavorare e di essere magnanimo, si toglie la maschera del "buonista" e comincia tranquillamente a sfruttare il lavoro altrui. Ora è diventato un mercante in grado d'impedire a dei mastri artigiani "proprietari dei loro mezzi di produzione"(p. 191), di andare a vendere i loro prodotti sul mercato. Anzi, questi mastri artigiani sono addirittura costretti a comprare la materia prima dal mercante e a rivendergliela finita o semilavorata ad un prezzo irrisorio. E' davvero incredibile che un processo che ha sconvolto l'esistenza di milioni di persone, distruggendo tradizioni consolidate di secoli, sia avvenuto in maniera così naturale, senza che nessuno abbia opposto un minimo di resistenza. E' forse questa la "scientificità" che l'analisi economica vuol dare alla conoscenza storica? A dir il vero Mandel parla di una certa opposizione da parte degli artigiani, ma per dire, subito dopo, che quanto più resistevano tanto più facevano il gioco dei mercanti (p. 192). Insomma la categoria della "necessità storica" viene in soccorso, ancora una volta, alla trasformazione della quantità in qualità. "La legge ovunque è favorevole ai mercanti" -dice Mandel (p. 192), senza rendersi conto che la legge ha ostacolato l'attività dei mercanti per almeno 500 anni (nei paesi est-europei almeno sino alla fine dell'800). Tutte le battaglie furibonde tra chiesa e comuni o tra comuni e impero, ovvero tra cattolici e protestanti (esistono guerre durate 30, 100 anni) ha sempre avuto come unico scopo quello di mettere un freno all'attività della borghesia, che per le forze tardo-feudali stava accumulando troppi poteri economici e politici. E se la legge era davvero favorevole perché i mercanti si rivolgevano agli artigiani residenti in campagna? E' Mandel stesso che lo dice: "per sfuggire alle regole delle corporazioni urbane e agli alti salari degli artigiani"(p. 192). Mandel ha posto una suddivisione cronologica dei fatti che lascia molto a desiderare. Questo perché la sua scelta metodologica è quella di porre una linea evolutiva tra i fatti, senza rotture significative. La sua ambizione è stata addirittura quella di mostrare che detta linea può essere estesa a civiltà ed aree geografiche del tutto estranee all'Europa occidentale. Il che non ha senso, almeno per quanto riguarda la genesi del capitale moderno. * * * Le illogicità di Mandel cominciano a essere troppe. Ecco l'ultima prima di passare al cap. "Particolarità dello sviluppo capitalistico in Europa occidentale"(p. 205): da un lato i "mercati lontani"(p. 185) subordinano la piccola produzione mercantile al capitale monetario; dall'altro la borghesia commerciale "non investe che una frazione dei propri capitali e profitti nell'industria a domicilio"(p. 205). Primo errore di comparazione: "Nella piccola produzione mercantile, il produttore, padrone dei mezzi di produzione e dei suoi prodotti, può vivere solo vendendo questi prodotti per acquistare mezzi di sussistenza. Nella produzione capitalistica, il produttore, separato dai propri mezzi di produzione, non è più padrone dei prodotti del suo lavoro e può vivere solo vendendo la propria forza-lavoro in cambio di un salario che gli consenta di acquistare questi mezzi di sussistenza"(p. 205). Se la si mette così, il passaggio dall'una all'altra diventa obbligato, e la seconda appare migliore perché non "piccola" ma "grande" produzione. Nel capitolo sopra citato Mandel non può non porsi la domanda fondamentale che Marx s'è posto tutta la vita: "Perché questa accumulazione di capitale usurario e mercantile non ha dato origine al capitale industriale in queste civiltà [precapitalistiche]?"(p. 207). Tutte le risposte che dà Mandel prescindono dalle questioni culturali e in tal senso non servono a molto; infatti molte delle cose che dice indicano un livello culturale non "arretrato" ma "avanzato", in quanto la rinuncia ad adottare metodi di tipo capitalistico va considerata come un segno di "civiltà" superiore, dal punto di vista dei valori etici, soprattutto se il rifiuto era consapevole (questo naturalmente a prescindere dal fatto che con tale rifiuto si sono volute perpetuare forme di sviluppo socioeonomico tutt'altro che democratiche). Nelle civiltà extraeuropee hanno fatto difetto "le forme di organizzazione intermedie tra l'artigianato propriamente detto e la grande fabbrica... l'industria a domicilio e la manifattura"(p. 207), il commercio è rimasto di lusso, "la schiacciante maggioranza della popolazione non partecipa alla produzione di merci"(p. 208), non c'è stato sviluppo del macchinismo, che "è il solo a consentire alla grande fabbrica di spezzare la concorrenza dell'industria a domicilio e dell'artigianato..."(p. 209), "il disprezzo verso il lavoro manuale"(p. 210) - cosa però riscontrabile anche nell'Europa occidentale, nelle classi colte, nobiliari..., almeno sino allo sviluppo della borghesia, "la concorrenza di una manodopera a buon mercato..."(p. 210) - che oggi invece è quella più temuta dai monopoli occidentali, "l'impiego produttivo dell'energia idraulica a fini non agricoli... entrava in conflitto con le esigenze dell'irrigazione del suolo"(p. 210) - questa è una tesi che si ritrova anche in Max Weber, il quale poi la prese da Marx, l'assenza di una classe, quella borghese, in grado di contrapporsi a quella dominante il cui potere è legato all'uso della terra, persino in grado di contrapporsi allo Stato: temendo confische, supertasse, persecuzioni... la borghesia non europea, invece di concentrare i capitali li disperde, tesaurizza invece di investire. E pontifica Mandel, senza capire nulla dei tentativi istituzionali di porre un freno al dilagarsi dei traffici: "Invece di progredire verso l'autonomia e l'indipendenza, marcisce nella paura e nel servilismo"(p. 212). L'unica eccezione il Giappone, di cui già si è detto. Infine una motivazione che ricorda la teoria dei climi di Montesquieu: "L'agricoltura ben più primitiva dell'Europa medievale non poteva sopportare il peso di una densità paragonabile a quella della Cina o della vallata del Nilo nelle epoche di prosperità"(pp. 213-14). Questa tesi è davvero strana, poiché l'aumento della densità demografica in Europa occidentale era già effettivo intorno al Mille in relazione allo sviluppo del capitale mercantile, all'urbanizzazione, al commercio internazionale ecc. Quello stesso commercio che invece di sacrificare la piccola produzione, le aveva dato un grande impulso. Mandel non dice una sola parola sui processi culturali, salvo questa piccola noticina, riferita però ai processi politici: la borghesia fece il proprio "apprendistato di lotta politica nei liberi Comuni del Medioevo"(p. 211). Come se i mercanti dei paesi extraeuropei appartenessero a civiltà che impedivano loro di fare qualunque lotta politica! * * * Si può forse concludere questo breve commento al cap. 4 del Trattato di Mandel dicendo, molto semplicemente, che la classe dei mercanti è sempre esistita, generalmente per il commercio di beni di lusso (anche le spezie lo sono state per molto tempo) o per tutte quelle merci che non si potevano trovare (o che si trovavano con molta difficoltà) nei mercati locali o nelle fiere, cui poteva tranquillamente accedere la comunità di villaggio (una delle merci più importanti per tantissimo tempo è stato il sale). Questi mercanti facevano spesso lunghi viaggi, a loro rischio e pericolo, e solo dopo un certo tempo si presentavano nei mercati locali o nelle fiere, oppure agivano come ambulanti. Oltre a questa classe, la cui attività è sempre stata tollerata da qualunque civiltà contadina o precapitalistica, lo stesso contadino poteva vendere (o meglio: barattare, perché per molto tempo s'è fatto questo) sul mercato le proprie eccedenze o persino i propri prodotti artigianali (spesso fabbricati dalle donne, specie se il prodotto era tessile). Quando l'abilità artigianale si separò da quella contadina, e l'artigiano si trasferì in città, il prodotto artigianale si specializzò e diventò una merce che poteva essere venduta in maniera regolare, senza aspettare le eccedenze. Questo distacco dell'artigianato dall'agricoltura fu l'inizio della divisione della città dalla campagna: in sé non avrebbe comportato nulla di pericoloso per l'autosussistenza della comunità di villaggio, se contestualmente a tale separazione non fosse nata una classe mercantile che voleva trasformare la città in un luogo di dominio della campagna. I mercanti avevano scarsi legami con le comunità di villaggio, perché erano come dei nomadi, o comunque era gente che, anche se stanziale, mostrava più interesse al proprio profitto che non al bene collettivo. E' sempre stato così e le società contadine hanno tollerato queste eccezioni appunto perché erano tali. Quando il mercante si arricchiva con traffici più o meno leciti, di regola acquistava della terra, delle proprietà e assumeva degli operai che lavoravano per lui. Poteva anche comprare dei titoli nobiliari. Anche questo processo, fintantoché la terra e i mezzi per lavorarla rimasero in mano ai contadini (o in proprietà o in uso), non costituì alcun vero pericolo per l'autosussistenza della comunità. Anche se il mercante, invece di acquistare della terra, voleva gestire un'impresa artigiana, doveva comunque sottostare a dei controlli rigorosi, tipici delle corporazioni. Questi processi sono andati avanti per dei secoli in Europa occidentale senza che venisse minacciata l'esistenza delle comunità di villaggio. Un mercante non poteva arricchirsi oltre un certo livello né poteva aspirare a un particolare potere politico. E' fuor di dubbio che i mercanti hanno cominciato ad acquistare un certo peso (economico e politico) nelle città marinare, che per loro natura sono a contatto con realtà molto diverse tra loro e dove il rispetto di tradizioni consolidate è sempre stato più debole. Non a caso le città marinare parteciparono volentieri alle crociate contro l'islam e per il saccheggio dell'impero bizantino in decadenza. Grazie a queste crociate, che praticamente durarono 200 anni, la classe dei mercanti ebbe un notevole impulso. Si può anzi dire che senza lo sviluppo della classe mercantile difficilmente ci sarebbero state le guerre tra Comuni e Impero o tra Comuni e feudatari (laici ed ecclesiastici). E' grazie ai mercanti che si sviluppa un'ideologia anticlericale, antifeudale, antimperiale, a tutto vantaggio delle autonomie comunali. I primi elementi di ideologia laico-umanistica furono introdotti dai mercanti nella teologia cattolica. Sarebbe tuttavia un errore far coincidere "laicità" con "umanesimo". I mercanti non introdussero l'umanesimo nella teologia cattolica, ma la laicità, cioè la riduzione a termini umanistici dei termini teologici. L'umanesimo dei mercanti è sempre stato viziato dall'individualismo, come mezzo fondamentale per ricercare un fine economico: il profitto, la proprietà, il capitale. Nella misura in cui la chiesa romana tollera questo trend, anche nella speranza di trarne un vantaggio personale, la borghesia può facilmente svilupparsi, per quanto si sviluppino anche i movimenti contestativi (pauperistici), che denunciano a più riprese le collusioni tra cattolicesimo istituzionale e mercantilismo. E' noto come tali movimenti verranno bollati col marchio dell'eresia e liquidati dalla chiesa romana. Sarà proprio la persecuzione di questi movimenti che porterà alla definitiva affermazione sociale (anche se non ancora politica) delle idee borghesi. La riforma protestante erediterà la contestazione pauperistica per volgerla a favore della borghesia e per chiedere a questa un distacco (culturale in Germania, politico in Francia, Inghilterra ecc.) dalla chiesa romana. Conclusa la riforma, la borghesia non avrà più alcuna riserva per affermare se stessa. (Karl Marx, L'accumulazione originaria, Ed. Riuniti, Roma 1991).

 
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