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CARLO MARX - FRIEDRIK ENGELS

Continua dalla pagina precedente.
 

Proudhon non faceva altro che ereditare quelle concezioni borghesi inserendole in un quadro piccolo-borghese, cioè nel quadro di una trasformazione pacifica e graduale del capitalismo verso il socialismo, il quale conserverebbe, di quello, solo i lati positivi. La piccola borghesia -disse Marx ad Annenkov- "è abbagliata dalla magnificenza della grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo". Proudhon ad es. sosteneva che lo scambio di merce senza denaro e il credito a basso interesse o gratuito fosse sufficiente, pur senza intaccare la proprietà privata, a eliminare lo sfruttamento e le crisi del capitalismo. Viceversa, Marx si preoccupò di evidenziare che nella storia tutte le forme produttive e i relativi rapporti sociali, incluse le riflessioni ideologiche, sono soggetti a mutamenti sostanziali appena le forze produttive si scontrano con relazioni sociali inadeguate. Là dove esiste l'antagonismo di classe non ci può essere evoluzione sociale (come vorrebbe Proudhon) senza rivoluzione politica. E' -come si può vedere- una tesi dell'Ideologia tedesca, ma questa volta Marx l'applica concretamente alla storia economica e all'economia politica, e in maniera così incisiva che -a detta dello stesso Marx- il Capitale sarà appunto il tentativo di approfondire in maniera sistematica le tesi di Miseria della filosofia. Nel '47, dopo che la Lega dei Giusti di Londra aveva rotto col "Vero socialismo" e con gli utopisti, Marx ed Engels decisero di entrare nelle file dell'associazione. Dalla collaborazione coi comunisti tedeschi di Londra nacque il Manifesto del partito comunista. Si tenne infatti a Londra il Congresso della Lega: Marx, a causa di difficoltà materiali, non poté parteciparvi, ma era presente Engels, quale delegato del gruppo parigino. Il Congresso rinunciò alla tattica cospirativa e organizzò la Lega in comunità, circoli, organi centrali e congresso. Da allora si chiamò Lega dei comunisti. Essa rinunciò al precedente motto, troppo astratto: "Tutti gli uomini sono fratelli", per adottare quello più rivoluzionario: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!". Furono eliminati il rituale misticheggiante dell'ammissione dei membri, l'eccessiva centralizzazione e la concentrazione dei poteri nelle mani dei dirigenti. Il Congresso adottò l'Abbozzo di professione di fede comunista, steso da Engels in forma catechistica, con domande e risposte, com'era d'uso allora tra gli operai. Tale Abbozzo doveva essere inviato alle comunità di base per eventuali rettifiche o aggiunte, dopo di che il progetto sarebbe stato sottoposto all'approvazione del secondo congresso della Lega. Subito dopo il primo congresso, Engels, insoddisfatto dell'Abbozzo, redasse in forma catechistica alcune tesi note come I principi del comunismo. Alla fine del '47 le spedì a Marx chiedendogli di rivederle in modo storico-politico intitolandole con la parola Manifesto. I principi di Engels sono molto importanti, in quanto ad es. egli non esclude che la rivoluzione possa avvenire in maniera pacifica, anche se afferma che tale eventualità dipenderà da come reagirà la borghesia all'espropriazione della proprietà privata, la quale peraltro non potrà essere abolita di colpo con la rivoluzione. Inoltre egli sostiene che ai fini della rivoluzione le congiure (i colpi di stato) non servono, poiché le rivoluzioni non si possono fare quando mancano i presupposti reali, oggettivi. Una volta conquistato il potere, il proletariato non dovrà abolire immediatamente lo Stato, ma instaurare una costituzione statale democratica, ove sia affermato il predominio politico del proletariato. La rivoluzione comunista, infine, può essere solo internazionale, cioè deve avvenire simultaneamente almeno in Inghilterra, America, Francia e Germania. Essa poi eserciterà un influsso sugli altri paesi, accelerando il corso del loro sviluppo. Intanto Marx a Bruxelles organizza nel '47 una sezione della Lega comunista e crea un comitato direttivo. Viene anche fondata una Società operaia tedesca sul modello di un'associazione culturale operante a Londra dal 1840. Alla fine del '47 Marx tiene in questa Società una serie di lezioni di economia politica, che nel '49 saranno pubblicate nella "Nuova rivista renana", col titolo Lavoro salariato e capitale. La tesi fondamentale è che salario e profitto si trovano tra loro in rapporto inverso: infatti, sebbene a causa della crescita delle forze produttive e della produttività del lavoro, il salario possa a volte aumentare, nel complesso i profitti dei capitalisti crescono con una velocità assai maggiore. Vi è dunque una contraddizione antagonistica, inconciliabile fra le due classi fondamentali della società borghese. Sentendo avvicinarsi un clima di maturazione rivoluzionaria (per il rovesciamento dei regimi monarchici assoluti, l'eliminazione della proprietà feudale della terra, la liberazione dai gioghi stranieri, la fondazione di singoli Stati nazionali), Marx ed Engels, non disponendo di mezzi per creare un efficace organo di stampa, stabiliscono legami con la Deutsche-Brüsseler-Zeitung, che usciva dal '47. Marx e altri comunisti cominciarono a collaborare scrivendo articoli contro il governo prussiano. Dopo pochi mesi, seppure non ufficialmente, il giornale era diventato l'organo della Lega dei comunisti. Marx ed Engels erano convinti che la borghesia tedesca non sarebbe riuscita da sola a compiere una rivoluzione democratica, per cui ritenevano indispensabile l'alleanza del proletariato (operai e contadini) colla piccola-borghesia. Per la Germania essi prevedevano una rivoluzione non socialista ma democratico-borghese, nella prospettiva però di una più ampia rivoluzione permanente, a capo della quale avrebbe dovuto porsi il proletariato. Al secondo congresso della Lega vennero sostanzialmente accolti tutti i Principi elaborati da Engels e rifiutato il progetto di Professione di fede stilato da Hess. Il congresso incaricò Marx ed Engels di redigere il Manifesto. A Londra essi parteciparono ad un incontro internazionale organizzato dalla Fraternal Democrats, in occasione dell'anniversario dell'insurrezione polacca del '30. Qui affermarono che la vittoria del proletariato sulla borghesia è in pari tempo la vittoria sui conflitti nazionali, in quanto una nazione non può diventare libera e continuare ad opprimere altre nazioni. Il Manifesto del partito comunista (1848) è il primo documento programmatico del comunismo scientifico. In esso è delineata una teoria della lotta di classe quale forza motrice dello sviluppo delle società basate sull'antagonismo di classe. Il primo capitalo esordisce con la frase: "La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classe" (nell'edizione inglese del 1888 Engels aggiungerà che tale principio vale per la "storia scritta", cioè non per la storia della comunità primitiva). Questa lotta è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta. L'epoca della borghesia si distingue dalle precedenti per aver semplificato i contrasti fra le classi, che in pratica sarebbero due: borghesia e proletariato. La società capitalista viene analizzata nella sua genesi e nel suo sviluppo, a grandi linee, come risultato della necessaria dissoluzione della società feudale: in tal senso si riconosce alla borghesia un ruolo progressista (essa ad es. ha internazionalizzato la produzione e il consumo, ha superato i limiti nazionali e l'autosufficienza, ha rivoluzionato di continuo gli strumenti della produzione...). Tuttavia, una volta preso il potere, la borghesia s'è trasformata in classe conservatrice. Essa, pur avendo concentrato nelle sue fabbriche milioni di operai, dando alla produzione un carattere sociale, non vuole socializzare né la proprietà né i profitti della produzione (anzi ha "abolito" la proprietà privata per la maggioranza assoluta dei cittadini). La mancata abolizione della proprietà privata borghese impedisce una regolamentazione dell'economia e quindi il perpetuarsi di un'anarchia produttiva, basata su una esasperata concorrenzialità intercapitalistica. Di qui le periodiche crisi. Il proletariato è la classe più rivoluzionaria perché è la più sfruttata. Esso è l'unica classe della storia che, liberando se stessa, libera tutta la società e tutta l'umanità da qualunque sfruttamento. Nel secondo capitolo, Marx ed Engels esprimono la necessità di affermare un partito politico proletario che faccia valere gli interessi comuni dell'intero proletariato mondiale, indipendentemente dalle nazionalità. Non quindi un partito politico specifico, cioè non un organismo disciplinato, ma una corrente di idee e di interessi da far valere nella vita politica. E' il proletariato come classe che deve fare la rivoluzione (nella versione dell'88 Engels sostituirà però le parole "classe nazionale" con "classe dirigente della nazione"). Il proletariato deve arrivare al potere politico, socializzare la produzione (così il libero sviluppo di ciascuno è condizione per il libero sviluppo di tutti): il che non vuol dire eliminare la piccola proprietà (quella ottenuta col proprio lavoro), ma solo quella che permette di sfruttare il lavoro altrui. Una volta abolite le classi, il potere pubblico perderà il carattere politico e lo Stato sarà superato. Nel terzo capitolo gli autori criticano le varie concezioni socialiste del tempo: il socialismo reazionario che vuole tornare a forme preborghesi di economia; il socialismo conservatore o borghese (rappresentato da Proudhon) che vuole la razionalizzazione dei rapporti di produzione borghesi mediante miglioramenti amministrativi; il socialismo e comunismo critico-utopistici di Saint-Simon, Fourier, Owen... che, pur avendo svolto un ruolo positivo, ora non sa riconoscere al proletariato nessuna funzione storica autonoma. Nel quarto capitolo si precisano i rapporti dei comunisti coi vari partiti di opposizione. I comunisti appoggiano ogni movimento progressista contro il feudalesimo e lo sfruttamento borghese, e lavorano all'intesa dei partiti democratici di tutti i paesi. Sulla scia della sommossa repubblicana parigina del febbraio '48, scoppiano dei moti rivoluzionari dalla Germania all'Austria, dall'Ungheria all'Italia. Per aiutare l'armamento degli operai francesi, Marx non mancò di destinare una parte notevole dell'eredità paterna appena ricevuta. La sua partenza dal Belgio fu accelerata dal governo belga che, spaventato dalla crescita del movimento repubblicano, si diede alla repressione dei democratici. Anche Marx fu costretto a lasciare il Belgio. Il Comitato direttivo di Bruxelles prese la decisione di trasferire la sede del C.C. a Parigi. Prima che ciò avvenisse Marx e la moglie vennero arrestati per violazione della scadenza dei termini di espatrio. Solo in virtù delle numerose proteste contro l'azione di polizia, i due coniugi furono liberati, anche se dovettero lasciare immediatamente Bruxelles senza prendere con loro nemmeno lo stretto necessario. Marx formò a Parigi un nuovo C.C. Intanto a Parigi la Società democratica tedesca aveva iniziato a formare una legione militare tedesca allo scopo di suscitare in Germania una rivoluzione dall'esterno. Marx ed Engels vi si opposero e attraverso un club di operai tedeschi da loro istituito intervennero contro l'avventuristica idea della esportazione della rivoluzione, cercando di convincere gli operai a tornare in patria singolarmente. Come piattaforma politica dei comunisti tedeschi, Marx ed Engels elaborarono Rivendicazioni del partito comunista di Germania, ove si chiedeva: 1) la formazione di una Germania repubblicana, unica e indivisibile, 2) il diritto elettorale generale per tutti i maschi che avessero compiuto i 21 anni, 3) la retribuzione dei deputati eletti in parlamento, 4) l'armamento generale del popolo, 5) la gratuità dei procedimenti giudiziari, 6) la separazione di Stato e chiesa, 7) l'istruzione generale e gratuita del popolo, ecc. Sul piano economico si chiedeva: 1) la fine della proprietà privata fondiaria (base economica del dominio politico della nobiltà), 2) l'annullamento senza indennizzo di tutti i vincoli feudali contadini, 3) il passaggio nelle mani dello Stato di tutte le terre feudali, miniere, cave, ecc., 4) la centralizzazione di tutte le banche in un'unica banca di stato, 5) la nazionalizzazione di ferrovie, trasporti marittimi, poste, 6) l'istituzione di opifici statali, 7) l'assicurazione statale del lavoro per tutti gli operai, l'assistenza per gli inabili al lavoro, ecc. Queste e altre Rivendicazioni, messe per iscritto, vennero consegnate, insieme al Manifesto, a tutti i membri della Lega dei comunisti (circa 400) in partenza per la Germania. Nell'aprile del '48 anche Marx ed Engels lasciarono Parigi per recarsi a Mainz in Germania, al fine di riunificare in un unico centro tutte le società operaie tedesche. Il tentativo però fallì a causa del frazionamento della nazione, del carattere locale e prevalentemente economico delle rivendicazioni operaie, dell'immaturità politica del proletariato (in maggioranza artigiano). Allora Marx ed Engels decisero di creare un quotidiano a Colonia, che era la città più industrializzata della Renania, ove si era ancora conservato il codice legislativo francese. La Lega, che spediva emissari e propagandisti per tutto il paese, incontrava grandi difficoltà a organizzare gli operai, sia per la dura campagna anticomunista lanciata dalla reazione feudale alleata colla borghesia liberale, terrorizzata dalle insurrezioni operaie francesi, sia per l'impreparazione politica degli operai. Queste difficoltà generarono dei contrasti in seno alla Lega: una corrente illudeva gli operai che una lotta diretta per gli scopi del socialismo fosse possibile farla "legalmente"; un'altra accentuava l'attenzione degli operai sui bisogni materiali quotidiani, distogliendoli dalla lotta politica vera e propria. Marx si oppose a queste due tattiche, ma sperava che gli operai si sarebbero accorti da soli della loro erroneità. Tuttavia la Lega restava in Germania un mezzo troppo debole per organizzare gli operai (scarsa consistenza numerica e insufficiente organizzazione). Per ovviare a tale limite si favorì l'ingresso dei comunisti nelle Società democratiche della piccola-borghesia. Fu a questo punto che il giornale di Colonia prese il nome di "Nuova Gazzetta Renana", il cui direttore era diventato Marx. Il giornale combatté anzitutto l'illusione diffusa tra le masse che con le lotte del marzo '48, a risultato delle quali era giunta al potere la borghesia liberale, la rivoluzione tedesca fosse ormai compiuta. In realtà la borghesia al potere aveva scelto subito la via della conciliazione col potere monarchico, nell'elaborare una Costituzione, temendo che il proletariato francese potesse influenzare quello tedesco. A questa forma di vergognoso compromesso Marx opponeva una sovranità popolare ottenuta con la lotta armata. Soprattutto era evidente il tradimento della politica borghese nei confronti dei contadini: essa non aveva avuto il coraggio di attentare alla proprietà feudale, temendo di perdere anche la propria. Non solo, ma la borghesia tedesca aveva continuato la politica di oppressione della Prussia e dell'Austria nei confronti di polacchi, ungheresi, cechi, italiani e altri popoli. Marx ed Engels criticarono anche l'operato delle Assemblee nazionali parlamentari di Berlino e di Francoforte, che cercavano non appoggi popolari ma accordi di vertice con la monarchia e i ceti feudali. Engels sottolineò, vedendo che la sinistra parlamentare non aveva una posizione definita, che nei momenti cruciali della rivoluzione è più efficace un'azione extraparlamentare. Nel giugno del '48, 40.000 operai parigini insorsero, male armati, contro le truppe, ben più numerose, del governo. Fu una tragedia. La controrivoluzione, anche in Germania, soprattutto in Renania. ne approfittò passando al contrattacco. Cominciarono ad essere arrestati alcuni capi della Lega di Colonia, a Marx non si concesse il diritto di cittadinanza. Egli tuttavia si recò lo stesso a Berlino e a Vienna per rafforzare i legami con le organizzazioni operaie e democratiche delle due capitali più importanti, ed anche per ottenere finanziamenti per il giornale. Quando tornò a Colonia, nel settembre '48, la situazione era diventata più critica: l'Asssemblea nazionale aveva preso posizione contro l'atteggiamento reazionario degli alti ufficiali, mentre il governo prussiano, nella guerra contro la Danimarca, aveva deciso di stipulare un armistizio impedendo alla popolazione tedesca dello Schleswig-Holstein di ricongiungersi alla Germania. A causa di ciò vi fu un'insurrezione isolata a Francoforte, subito repressa dalle forze dell'ordine. Le autorità cominciarono a intraprendere una dura campagna contro il movimento operaio e democratico di Colonia. Engels e altri comunisti furono espulsi dalla Germania. Dopo essere stato espulso anche dal Belgio, Engels si recò a Parigi, ma il fallimento dell'insurrezione di giugno gli procurava un effetto deprimente. Decise allora di recarsi in Svizzera, a Berna e da qui cominciò a spedire articoli a Marx, criticando il provincialismo della borghesia svizzera, che voleva prendere come modello i piccoli-borghesi tedeschi. Intanto a Vienna nell'ottobre '48 era scoppiata l'insurrezione, perché la popolazione si era rifiutata di appoggiare la repressione della rivolta ungherese. Ma anche qui l'insurrezione fallì. Ciò fu il preludio della definitiva restaurazione del re Federico Guglielmo IV, il quale era intenzionato a sciogliere l'Assemblea nazionale. Marx si appellò ai deputati perché ordinassero l'arresto dei ministri filo-monarchici, e dichiarassero fuorilegge i funzionari che non si uniformavano ai deliberati dell'Assemblea, e lanciò l'invito al popolo a non pagare le tasse e ad armarsi. L'Assemblea però aderì solo alla proposta di non pagare le tasse, limitandosi per il resto a un'opposizione nei limiti della legalità, rifiutando soprattutto l'idea di una lotta armata. Essa inoltre non seppe centralizzare il movimento democratico indirizzandolo verso un obiettivo comune. E così nel dicembre '48 venne sciolta dal re con un colpo di stato. Nello stesso mese Marx stilò un primo bilancio del fallimento della rivoluzione tedesca, addebitandone la causa principalmente alla politica traditrice della borghesia, spaventata com'era dai possibili esiti socialisti della rivoluzione; in secondo luogo Marx metteva in evidenza le illusione dello stesso movimento rivoluzionario, che sulla base della "fratellanza universale" sperava di condurre una rivoluzione indolore. Dopo il colpo di stato in Prussia si rafforzarono le persecuzioni. Agli inizi del '49, Engels, rientrato a Colonia, dovette presentarsi, insieme a Marx, davanti ai giudici, per sostenere alcuni processi giudiziari, che però si risolsero in un'assoluzione. Intanto la popolarità dei due comunisti e del loro giornale era cresciuta enormemente, al punto che si pensò di preparare gradualmente gli operai ad una progressiva separazione dalla democrazia piccolo-borghese, per fondare un partito proletario di massa. Sulle caratteristiche di questo partito sorsero subito dei contrasti, poiché Marx era convinto che in Germania sussistessero ancora le condizioni per un'attività legale, non clandestina, dei comunisti. La sua linea ebbe la meglio, e così i comunisti uscirono dalle Società democratico-borghesi per fondare un partito più omogeneo. Intanto continuava la lotta di liberazione nazionale del popolo ungherese contro la monarchia asburgica. Marx ed Engels (quest'ultimo si stava sempre interessando di questioni militari) speravano che questa guerra servisse da punto di partenza per una nuova ondata rivoluzionaria in Francia, Germania e Italia. Ma l'Italia contro l'Austria non aveva conseguito fino a quel momento alcun successo significativo e la Germania già complottava con la Russia per frenare la rivolta ungherese. All'interno, il governo prussiano rifiutò di riconoscere la Costituzione pangermanica elaborata dall'Assemblea di Francoforte, represse delle rivolte isolate in Renania e in altre regioni, emanò un ordine di espulsione di Marx e intentò un altro procedimento giudiziario a carico di Engels e altri comunisti. La Nuova gazzetta renana venne chiusa nel maggio '49. Marx ed Engels si recarono a Francoforte per esortare i deputati di sinistra a chiamare il popolo a prendere le armi in difesa dell'Assemblea, e chiesero di dichiarare fuorilegge tutte le monarchie tedesche, attirando dalla loro parte i contadini con l'annullamento senza indennizzo dei vincoli feudali. Ma i leaders di sinistra rimasero sordi a questi consigli. Visti vanificati tutti i loro tentativi, Marx ed Engels, dopo essere stati di nuovo arrestati e rilasciati, decisero di separarsi: il primo recandosi a Parigi, il secondo arruolandosi come aiutante nel reparto volontario di Willich, che copriva la ritirata dell'esercito del Baden-Palatinato. Nel luglio '49 anche Engels abbandonò il territorio tedesco varcando la frontiera svizzera. A Parigi le operazioni militari intraprese dal presidente Luigi Bonaparte contro la rivoluzionaria repubblica romana avevano provocato grande scontento popolare. Si costituì così un comitato socialista clandestino che propagandava l'insurrezione, pronto, in caso di vittoria, a proclamare la Comune. Tuttavia il partito piccolo- borghese della Montagna rifiutò la proposta e decise di organizzare una dimostrazione pacifica, che fu poi dispersa dalle truppe governative, cui seguirono repressioni di massa. Nell'agosto del '49 Marx decise di trasferirsi a Londra scrivendo a Engels di raggiungerlo. IL GIOVANE MARX Già emigrato a Parigi (e forse proprio a causa del suo interesse per il socialismo francese), Marx aveva chiarissima l'idea -a differenza di Bauer e degli altri giovani hegeliani di sinistra- che tutta l'emancipazione politica affermata dalla rivoluzione francese (culminata nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo) non aveva minimamente toccato il problema dell'emancipazione sociale dei lavoratori e dei cittadini in genere. Tuttavia il socialismo utopistico anglo-francese era arrivato alla medesima conclusione molto prima di lui. L'arretratezza della filosofia tedesca, nonostante l'acume di Hegel, Marx, Engels ecc., era appunto da attribuirsi alla scarsa consapevolezza politico-democratica dei prussiani in generale, i quali erano convinti d'aver dato il massimo contributo alla storia dell'emancipazione umana con la riforma protestante prima e con la filosofia idealistica dopo. Oggi infatti dovremmo studiare molto di più le realizzazioni teorico-pratiche del socialismo utopistico europeo, che non le astrattezze della filosofia cattolica, aristocratica e borghese, poiché, senza di esso, non sarebbe potuto nascere il socialismo scientifico di Marx ed Engels. SIngolare inoltre resta il fatto che mentre Marx discuteva con Bauer della "questione ebraica", Engels aveva già capito che i problemi principali della società moderna erano quelli di natura economica, elaborando per primo i Lineamenti di una critica dell'economia politica. Ancora più singolare è il fatto che Marx, dopo aver polemizzato a sufficienza con Bauer, dopo aver capito, attraverso Hess e soprattutto Engels, che il problema principale era quello economico, si sia messo a polemizzare nuovamente, e in maniera pedissequa, con Bauer e gli altri esponenti della Sinistra hegeliana nel volume, mai pubblicato, della Sacra famiglia, cui Engels collaborò certo malvolentieri. A Marx era mancata, in sostanza, la capacità di coinvolgersi personalmente col movimento socialista francese. Se l'avesse fatto non solo avrebbe saputo approfondire immediatamente le idee di Engels (cosa che poi farà nei Manoscritti del '44 e soprattutto in Miseria della filosofia), ma avrebbe anche cominciato ad affrontare sul piano pratico una disciplina ancora più importante dell'economia, e cioè la politica. Il giovane Marx era ancora convinto che per contribuire al mutamento generale della società borghese (e, come quella prussiana, tardo-feudale), fosse sufficiente criticare in maniera radicale (alla stregua di Bakunin) tutto l'esistente, a partire -appunto come lui fece- dalla filosofia hegeliana del diritto. In tal senso, la differenza dalla posizione di Bauer consisteva unicamente nel fatto che la critica di quest'ultimo non era sufficientemente radicale (si trattava ancora di uno scontro tra filosofie opposte), in quanto ferma al rapporto ateismo-religione. Negli anni 1842-43, in qualità di redattore della Rheinische Zeitung, egli aveva cominciato a interessarsi dei problemi economici della Prussia, proprio partendo dalla situazione dei contadini della Mosella, situazione per la quale egli aveva già capito che la proprietà privata era il risultato d'una appropriazione privata, monopolizzatrice, d'un bene comune. Tuttavia, in quegli anni Marx non nutriva particolare interesse per le idee "comunistiche" degli ambienti contadini e artigiani. Il suo stesso proto-socialismo si rivolgeva alla borghesia illuminata e agli intellettuali progressisti della Prussia, anche quando in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel citerà per la prima volta il nome del proletariato industriale. Sarà solo nel Manifesto che si rivolgerà esplicitamente al proletariato industriale, rinunciando nel contempo a qualunque identificazione geografica. La polemica col movimento comunista di Weitling fu sempre molto forte. Nel Manifesto parlerà addirittura di "idiotismo della vita rurale" (Engels, riferendosi alle lotte di classe del '48, in riferimento ai contadini cechi, slovacchi, croati, ruteni... parlerà di "popoli senza storia"). Il meglio di sé, sul piano politico, il giovane Marx lo diede fino al 1848, con la stesura del Manifesto (che pur nell'ultima parte, quella dove avrebbe dovuto esserci una sorta di "Che fare?" leniniano, lasciava alquanto a desiderare). Già coi saggi storici del 1850-52, scritti a Londra, si può notare una certa tendenza involutiva. Con la sua prima grande opera economica, Per la critica dell'economia politica, del 1859, il determinismo economicistico ed evolutivo prende piede definitivamente, almeno fino a quando Marx, venendo a contatto coi populisti russi (se si esclude la parentesi dei comunardi parigini) non comincia ad avere dei ripensamenti. La rivoluzione socialista -questa fu la conclusione, che verrà poi ripresa da Lenin- forse poteva avvenire anche in un paese sostanzialmente feudale, facendo leva su quanto di meglio avesse espresso il Medioevo russo: la comune agricola. Ma ormai era troppo tardi, ed Engels, dal canto suo, mostrerà ancora più perplessità di Marx sui progetti dei populisti. Persino il giovane Lenin cadrà nell'errore di concedere il primato all'industrializzazione capitalistica e alla volontà politica rivoluzionaria del proletariato industriale. Nella sua polemica coi populisti egli anteporrà, alle questioni tattiche e strategiche, una astratta filosofia marxista! Insomma il giovane Marx aveva delle idee così estreme sull'inutilità dell'attività politico-parlamentare (tradizionale) ai fini della rivoluzione sociale, ovvero sulla vacuità di uno Stato politico borghese che si pretende "democratico" o "di diritto", che meraviglia alquanto il fatto ch'egli non abbia dedicato tutta la sua vita -come appunto fece Lenin- a costruire praticamente una politica rivoluzionaria alternativa. Probabilmente egli rimase vittima dello stesso individualismo borghese che pur egli tanto aveva criticato. Forse anzi egli s'illuse di poter superare i limiti di tale individualismo sottoponendolo a una critica radicale, che investisse anche i campi dell'economia, della società civile ecc., fino ad allora considerate "indegni" di una riflessione filosofica vera e propria. FRIEDRICH ENGELS Era nato a Barmen, in Renania, nel 1820. Suo padre, un industriale tessile, non gli fece neppure terminare il ginnasio per poterlo mandare a lavorare dapprima nel suo ufficio commerciale, in seguito (nel '37) a Brema per fare un tirocinio economico presso un console che gestiva un'importante ditta di esportazioni. Non si iscrisse quindi all'università e venne educato in un clima rigidamente pietistico. A Brema si lega al movimento letterario della Giovane Germania, che subiva l'influsso di Heine e Börne, nonché dei giovani hegeliani con le loro discussioni sulla religione. Nel '39, sul Telegrafo per la Germania, pubblica un articolo dal titolo Lettere dal Wuppertal, in cui descrive le condizioni di vita miserevoli, la diffusione del misticismo e dell'alcolismo nel suo ambiente natìo, elencando i dati sulle malattie professionali dei tessitori, sul lavoro dei fanciulli, sull'ipocrisia pietistica degli imprenditori, che impiegano i bambini più piccoli dando loro i salari più bassi. Ciò che soprattutto lo infastidisce è l'oscurantismo dei pietisti e dei mistici, che impediscono la lettura dei romanzi, la frequenza ai concerti, lo studio della scienza e della filosofia, l'applicazione alle arti, le simpatie per l'illuminismo... A detta di Engels, fu proprio il direttore del Telegraph, Gutzkov, a imprimere un carattere politico, di impegno sociale, al movimento della Giovane Germania, sulla base delle idee liberali giusnaturalistiche e costituzionali, della partecipazione popolare all'amministrazione dello Stato, dell'emancipazione degli ebrei e, più in generale, della libertà di coscienza e di religione. Nel '39, leggendo Strauss, Engels comincia a dubitare della fede religiosa, rinunciando anche alle posizioni mistiche di Schleiermacher. Grazie a Strauss pensa di cominciare a studiare la filosofia hegeliana. Agli inizi del '41 scrive un importante articolo sul Telegraph, parlando di un certo E. Arndt, un antico oppositore di Napoleone, costretto dapprima a fuggire dalla Germania, per poi rientrarvi al momento della guerra di liberazione. Engels aveva considerato positivo non solo il fatto d'essersi liberati, in quanto tedeschi, dal giogo straniero, ma anche il fatto che il popolo si fosse ribellato senza aspettare il permesso dei sovrani, anzi costringendo quest'ultimi a capeggiare l'insurrezione. Il miglior risultato di quegli anni -scrive Engels- fu che, dopo la guerra, gli uomini che avevano assunto un atteggiamento più consapevole e risoluto, parvero alquanto pericolosi ai governanti prussiani. Engels evidenzia anche che Napoleone aveva realizzato cose significative, come l'emancipazione degli ebrei, l'istituzione delle giurie, l'introduzione del Codice civile, ecc., per cui il monarchismo indifferenziato di Arndt, secondo cui è sufficiente che tra principi e sudditi vi sia un reciproco impegno per il benessere del paese, appare ad Engels molto equivoco, in quanto tale impegno, perché diventi giusto, deve essere regolato dal diritto e non dalle buone intenzioni o dalle manifestazioni di moralità (ovviamente Engels non si riferiva alla scuola storica tedesca del diritto, per cui il sovrano, qualunque cosa facesse, restava inamovibile). Alla fine del '41 Engels si reca a Berlino per prestare servizio militare. Nel tempo libero frequenta come uditore i corsi universitari e si avvicina al circolo dei giovani hegeliani. Pur rimproverando ad Hegel di non aver capito la rivoluzione parigina del 1830, si entusiasma per i suoi principi filosofici (soprattutto per la dialettica), ma ne rifiuta le conclusioni illiberali. Accetta la filosofia baueriana dell'autocoscienza. Scrive un articolo e due opuscoli contro Schelling. Per Engels, come per i giovani hegeliani, Hegel aveva concluso il ciclo filosofico iniziato con Cartesio: ora il problema era diventato quello di innalzare tutta la Germania alle migliori conquiste dell'hegelismo. In tal senso la posizione di Schelling, che cercava d'introdurre la fede, il misticismo, la mitologia e la fantasia gnostica nella filosofia, andava -secondo Engels- decisamente condannata, per evitare di riportare la filosofia ai livelli pre-hegeliani. Se il mondo non è razionale, è il mondo che va cambiato, non la filosofia. Schelling, secondo Engels, non ha avuto il coraggio di dirlo, portando così avanti un'opposizione persa in partenza. Per Engels è attraverso la filosofia dell'autocoscienza che il mondo può essere cambiato. E' con questo spirito che dal '42 comincia a collaborare alla Gazzetta renana. Sempre nello stesso anno scrive un saggio su Federico Gugliemo IV, re di Prussia, pubblicato nel volume miscellaneo di Herwegh, Ventun fogli dalla Svizzera, che uscì nel '43, con contributi di Bauer, Strauss, Hess e altri. Engels sottolinea che l'opinione pubblica è interessata soprattutto a due cose: la costituzione parlamentare e la libertà di stampa (ottenuta la seconda sarà facile ottenere la prima. Ottenute entrambe sarà facile rompere l'alleanza con la Russia). Il '42 fu importante per Engels per altre due ragioni: la prima perché conobbe di persona Hess alla redazione della Gazzetta renana di Colonia, maturando, dopo quell'incontro, delle precise convinzioni comuniste; la seconda perché si trasferì in Inghilterra per lavorare nella filanda di Manchester di comproprietà del padre. Durante il viaggio deviò di nuovo per Colonia, dove s'incontrò per la prima con Marx; ma, dato che Engels, durante il suo soggiorno berlinese, era stato legato al gruppo dei "Liberi", coi quali Marx aveva avuto serie divergenze, l'incontro ebbe carattere alquanto distaccato. La vita in Inghilterra diede moltissimo a Engels. Egli prese a studiare con grande interesse la situazione degli operai, frequentando le riunioni dei cartisti, stringendo legami con i leaders dell'ala sinistra del loro movimento, come pure con esponenti socialisti seguaci di R. Owen, e collaborando alla loro stampa. Conobbe inoltre i capi della sezione londinese della Lega dei Giusti. Studiando la struttura economica e statale dell'Inghilterra, Engels arrivò alla conclusione che alla base delle lotte politiche vi fossero degli interessi materiali. Egli scoprì il carattere di classe sia dei partiti politici che dello Stato inglese, e individuò nel proletariato cosciente la forza più progressista. Nell'estate del '42 i cartisti avevano organizzato un grande sciopero, ma il governo, reagendo con durezza, lo fece fallire. Questo e altri episodi fecero maturare ad Engels la convinzione che in quella situazione una rivoluzione pacifica era impossibile. Se a tale conclusione gli inglesi non erano ancora arrivati, dipendeva dal fatto che consideravano lo Stato e la legge al di sopra delle parti, ma Engels prevedeva che una generale disoccupazione del proletariato, e quindi il timore di dover morire di fame, avrebbe sicuramente portato a una rivoluzione sociale, non semplicemente politica, dettata cioè da interessi concreti, materiali, non da principi astratti, teorici, cui gli inglesi per tradizione erano refrattari. La lotta della democrazia contro l'aristocrazia in Inghilterra era già una lotta dei "poveri" contro i "ricchi", per cui -dice Engels- era impossibile un'alleanza politica della borghesia col proletariato. Come si può vedere, anche Engels, come Marx, vedeva nella rivoluzione politica un momento poco significativo rispetto alla rivoluzione sociale. Entrambi cioè erano convinti che il proletariato, messo di fronte a situazioni di estrema indigenza, avrebbe trovato da solo, in se stesso, spontaneamente, la forza per ribellarsi, senza bisogno d'essere guidato da un partito specifico. Nei Lineamenti di una critica dell'economia politica, un lungo saggio apparso nel numero unico degli Annali franco-tedeschi, Engels gettava le basi di una critica scientifica dell'economia politica borghese e quindi del capitalismo. Marx ne restò fortemente impressionato. In effetti, Engels rilevò che la prassi della libera concorrenza teorizzata da Smith, Mill, Malthus, Ricardo e Say, era penetrata in tutti gli aspetti della vita inglese portando a perfezione la reciproca schiavitù degli uomini: ovvero, lotta dei capitalisti fra loro per accaparrarsi il mercato, salario dei lavoratori ridotto al minimo, conflitto dei lavoratori tra loro, crisi economiche di sovrapproduzione, rovina assoluta di chi dispone di pochi capitali, di piccoli possessi fondiari, di scarsa professionalità, concentrazione della proprietà e formazione dei monopoli, ecc. Tutte le contraddizioni -dice Engels- nascono dalla separazione originaria del capitale dal lavoro, cioè dalla scissione dell'umanità in capitalisti e lavoratori. Queste contraddizioni potrebbero essere risolte eliminando la proprietà privata e organizzando razionalmente la produzione, in modo che i produttori conoscano esattamente i bisogni dei consumatori. Oltre a questo importante saggio, Engels ne aveva spedito un altro dall'Inghilterra per gli Annali franco-tedeschi: La situazione dell'Inghilterra, che conteneva parecchie notazioni sociologiche sulla rivoluzione industriale. Egli inoltre evidenziava il fatto che i socialisti inglesi conoscevano, dello sviluppo filosofico euroccidentale, solo il materialismo francese, ignorando completamente la filosofia tedesca. Praticamente Engels, in Inghilterra, era giunto alle stesse conclusioni di Marx in Francia. Lui stesso ricorderà che quando, ritornando nell'estate del '44 in Germania, fece visita a Marx a Parigi, risultò che concordavano in tutti i campi della teoria. Da quell'incontro cominciò il loro stretto lavoro comune. IL GIOVANE ENGELS Annali Franco-Tedeschi. Abbozzo di una critica dell'economia politica Il giovane Engels era molto più severo nei confronti del capitalismo di quanto non lo fosse nella maturità. Quando scrive negli Annali che "il sistema delle fabbriche e la schiavitù moderna non è per nulla inferiore all'antica per inumanità e crudeltà...", esprime senza dubbio un giudizio etico incontestabile, ancorché non storicamente documentato. "Dietro la farisaica umanità dei monopolisti si nasconde una barbarie che gli antichi non conoscevano" - dice ancora. Tuttavia, nella maturità, quand'egli avrà occasione di fondare tale giudizio storicamente, il giudizio etico diventerà più sfumato, molto meno categorico. L'Engels maturo considerava il capitalismo una inevitabile barbarie, frutto di una necessaria evoluzione storica, e quindi, sotto questo aspetto, un progresso rispetto allo schiavismo antico o al servaggio feudale. L'approfondimento storico portò a indebolire il giudizio etico di riprovazione. Questo atteggiamento fu una conseguenza del fatto che il marxismo occidentale non riuscì a organizzare alcuna rivoluzione politica. Viceversa, ai tempi degli Annali, e fino al '48, questa speranza era stata molto forte nei giovani comunisti tedeschi. Va tuttavia detto che già nel giovane Engels vi era la tendenza a considerare come necessaria una determinata evoluzione della civiltà occidentale, in quanto che egli ha sempre visto come un progresso indiscutibile il passaggio dal clericalismo feudale al panteismo borghese e quindi all'ateismo comunista. Egli cioè -e in questo trovò ampi consensi da parte di Marx- sacrificò sul terreno del progresso ideologico quelli che potevano essere stati i meriti del feudalesimo rispetto al capitalismo. Quanto, in questo atteggiamento semplicistico, fu determinante il peso della tradizione luterana tedesca, che senza volerlo aveva avviato un processo verso il superamento della religione in sé (e non solo della religione cattolico-romana), è facile immaginarlo. I tedeschi dell'800, specie la sinistra hegeliana, si vantavano di essere approdati all'ateismo esplicito, razionale - cosa che in quel momento non si era verificata in maniera altrettanto radicale in nessun'altra parte d'Europa, neppure nella Francia rivoluzionaria, dove alla religione cristiana si cercò di sostituire una religione laica della ragione. Resta comunque straordinario il fatto che Engels avesse già piena consapevolezza dei limiti del capitalismo in età giovanissima, prima ancora dello stesso Marx, il quale iniziò l'analisi economica solo in un secondo momento. Non solo, ma egli addirittura pose subito un nesso - condiviso poi da Marx - tra economia borghese e religione cristiana: cosa che però né l'uno né l'altro ha mai approfondito con un'analisi di tipo culturale, anche se Marx molto meno di Engels. Con la sua incredibile perspicacia, Engels riuscì a porre le basi di quella che si può considerare la scienza prossima ventura, e cioè lo studio delle motivazioni culturali (e quindi religiose) che hanno non solo giustificato ma anche favorito il processo di transizione dall'economia schiavistica a quella feudale e da questa a quella borghese: ed è la scienza delle transizioni. Uno studio approfondito di questo nesso, che è in fondo l'esame di un intreccio non esplicito tra elementi strutturali e sovrastrutturali, deve ancora essere fatto. Non si tratta semplicemente di una sociologia della cultura (o della religione), poiché l'oggetto di studio principale resta sempre la società nel suo complesso e non la cultura (o la religione, che di tutte le manifestazioni culturali resta la più importante), e non è neppure una scienza o una storia dell'economia, in quanto la nuova scienza escluderà a priori l'ipotesi che possa esistere uno sviluppo autonomo dell'economia senza un contestuale sviluppo della cultura, che di quella economia è espressione e insieme ispirazione. Tra struttura e sovrastruttura esiste un nesso di reciproca dipendenza. Non è neppure una storia della civiltà, poiché la scienza delle transizioni non potrà limitarsi ad affrontare il nesso dal punto di vista politico-istituzionale o, al contrario, dal punto di vista del minimalismo quotidiano. All'ordine del giorno non devono essere posti i ruoli istituzionali della cultura (o della religione) nei confronti dei poteri politici, siano essi statali o no. O, al contrario, gli aspetti folcloristici, rituali della cultura, che è quasi sempre cultura religiosa. Ciò che va studiato è il legame causale tra riflessione culturale ed evoluzione dei rapporti sociali. Di questi rapporti l'economia è solo un aspetto, come la religione è un aspetto della cultura. Si tratta, beninteso, di un legame causale reciproco. I due campi privilegiati della nuova scienza storica dovranno essere il sociale, che include l'economico, il tecnologico, il materiale, il rapporto con l'ambiente, l'organizzazione della vita civile, del lavoro ecc. E il culturale, che sta ad indicare qualunque riflessione intellettuale fatta intorno a determinati problemi. P.es. lo studio del dibattito sugli universali, svoltosi negli ambiti universitari medievali, dovrà cercare di verificare quali possibili conseguenze pratiche poteva aver quel dibattito sui rapporti sociali. E' stato fatto uno studio del genere oppure si è preferito tenere separata l'analisi filosofico-teologica da quella economico-sociale? Senza considerare che il nesso di "sociale" e "culturale" va poi rapportato al "politico", in quanto la politica trae forza da ciò che la precede, anche se, successivamente, può determinare, col peso della sua autorità, lo svolgimento degli aspetti socio-culturali. Non dovrà più esistere separazione tra scienze umane e scienze esatte. Anzi, non dovranno esistere neppure le "scienze umane", in quanto esisterà un'unica scienza, quella dell'essere umano, che si autoconcepisce come soggetto integro, organico, unitario. La contrapposizione dovrà essere tra scienza unitaria e scienze separate, o, se vogliamo, tra scienza dell'uomo e scienze dei poteri, tra scienza della verità e scienza degli interessi (i quali trasformano la verità in opinioni): in una parola, tra co-scienza e in-coscienza. K. MARX, LA QUESTIONE EBRAICA (1843) Bruno Bauer, nello scritto sulla Questione ebraica critica gli ebrei che chiedono, in quanto ebrei, non in quanto cittadini, l'emancipazione civile e politica, cioè quella parte di diritti (pochi in verità, ma molti rispetto agli ebrei) che hanno i cittadini cristiani della Prussia, invece di chiederla in quanto cittadini tedeschi e uomini, senza caratteristiche religiose, in quanto tutti i tedeschi e non solo gli ebrei hanno bisogno d'essere emancipati e liberati dal dispotismo dello Stato prussiano, che è insieme cristiano e assolutista. A suo parere chiedere, da parte degli ebrei, una parificazione di diritti coi sudditi cristiani, che si riconoscono nella volontà assolutistica del regime, significa "riconoscere il regime dell'asservimento generale"(p. 47). In ogni caso tra ebrei e cristiani non ci potrà mai essere parità, in quanto entrambe le religioni pretendono il riconoscimento di particolari privilegi. Sulla base di una politicizzazione della religione è impossibile che ci possa essere effettiva parità tra le religioni, e lo Stato prussiano, essendo già ufficialmente cristiano, non può dare agli ebrei gli stessi diritti che hanno i cristiani, proprio perché una religione, specie se politicizzata, esclude l'altra. (Nel testo di Marx non vengono elencate le discriminazioni di cui erano oggetto gli ebrei, ma possono essere immaginate). Lo Stato cristiano può solo riconoscere dei privilegi agli ebrei, non può concedere diritti agli ebrei in quanto ebrei, altrimenti non sarebbe cristiano. L'ebreo non può chiedere allo Stato d'essere meno cristiano, quando egli stesso, nel rivendicare i propri diritti, lo fa accentuando il proprio ebraismo. La soluzione di Bauer è chiara ma univoca, unilaterale, ideologica: ebrei e cristiani devono diventare atei, cioè si devono entrambi emancipare culturalmente per potersi sentire uguali politicamente, in quanto cittadini tedeschi. In sintesi le critiche di Bauer sono le seguenti: l'ebraismo - chiede privilegi per sé e non diritti per tutti; - si sente straniero in rapporto allo Stato prussiano; - contrappone alla nazionalità tedesca una "nazionalità chimerica"; - contrappone alle leggi dello Stato la sua "legge illusoria"; - si isola dal contesto storico, dai movimenti di emancipazione culturale, di liberazione politica; - spera in un futuro "che non ha nulla in comune col futuro generale dell'uomo"; - contrappone il popolo ebraico a quello tedesco, e considera "eletto" solo il proprio popolo (p. 48). Dunque non si possono concedere gli universali diritti dell'uomo agli ebrei (p. 68), proprio perché gli ebrei non hanno fatto nulla per "guadagnarli e meritarli"(ib.). D'altra parte neppure i cristiani hanno mai fatto nulla: per ricevere tali diritti bisogna essere atei. * * * Prima di passare al commento di Marx, vogliamo fare una piccola digressione su questa posizione di Bauer, che anteponeva le questioni ideologiche a quelle politiche. Secondo noi nelle sue critiche si possono intravedere, in nuce, tutte le motivazioni che un secolo dopo scateneranno la cosiddetta "soluzione finale". Le sue concezioni sono limitate non solo nel modo in cui Marx indicherà, ma anche da un semplice punto di vista democratico-borghese. Quand'è che una religione vuole porsi in maniera politica? Quando rivendica dei diritti che confliggono coi diritti degli altri cittadini. Bauer tuttavia non poteva non rendersi conto che fino a quando esiste uno Stato confessionale è nel diritto di tutte le religioni rivendicare dei diritti esclusivi che diventano politici. Anche questa forma di rivendicazione è un contributo alla democratizzazione dello Stato: uno Stato pluralista in campo religioso è sempre meglio di uno Stato meramente confessionale. Pretendere la privatizzazione di una fede religiosa quando sul piano politico lo Stato difende i diritti di una particolare confessione, significa fare indirettamente gli interessi della religione dominante. Appoggiando le rivendicazioni particolari degli ebrei, si poteva indurre lo Stato cristiano a diventare più laico, più equidistante nei confronti delle religioni. Viceversa, non riconoscendo l'ebraismo agli ebrei, Bauer rischiava di apparire da un lato antidemocratico (nonostante il suo ateismo), dall'altro antisemita, in quanto negava i diritti al rispetto di una religione minoritaria. Poiché gli ebrei sono ebrei -questa la conclusione di Bauer-, qualunque loro rivendicazione politica diventa inaccettabile. In tal modo Bauer si negava la possibilità di avere il loro appoggio quando i cittadini (atei o religiosi) avanzavano rivendicazioni politiche. A dir il vero Bauer chiedeva all'ebreo di manifestarsi come cittadino (laico o ateo) di fronte allo Stato, rivendicando diritti utili a tutti, e di relegare l'ebraismo alla sfera privata della coscienza (p. 51). Tuttavia, l'ebraismo, non meno dell'islam e del cristianesimo, è una religione politica per definizione: lo si può obbligare con la forza (dello Stato) alla privatezza della coscienza, ma non si può separare una religione dai suoi rapporti con la società. Bauer sembra essere l'antesignano di quella forma di "ateismo di stato" che si svilupperà in taluni paesi del "socialismo reale". Bauer tuttavia denunciava il limite di fondo di una posizione -quella ebraica- che in Germania non si sentiva tedesca più di quanto non si sentisse ebraica. Dovendo lottare come cittadino democratico (dopo aver acquisito l'emancipazione dalla religione) contro l'assolutismo dello Stato prussiano, egli era convinto che dagli ebrei non avrebbe potuto ottenere alcun aiuto. A suo giudizio, infatti, la democratizzazione e la laicizzazione dello Stato dovevano andare di pari passo. * * * I. Critica di Marx a La questione ebraica di Bruno Bauer (1843) Marx affronta la questione religiosa esclusivamente da un punto di vista politico: non gli interessano -come invece a Bauer- i rapporti culturali tra ateismo e religione o i contrasti teologici tra ebraismo e cristianesimo o l'essenza dello Stato cristiano (cfr. p. 49). Esattamente come Bauer, Marx ha scelto culturalmente l'ateismo, ma non vuol fare dell'ateismo l'occasione di una guerra di concezioni ideologiche. Non gli interessa neppure che lo Stato confessionale diventi "laico", come invece a Bauer. Piuttosto gli interessa che lo Stato venga subordinato alle esigenze della società civile e che in questa società vengano superate le forme di esistenza basate sull'egoismo dei singoli individui. L'emancipazione umana (dalle sofferenze delle contraddizioni sociali) gli appare molto più importante dell'emancipazione politica dalle religioni. Marx critica Bauer di porsi come un intellettuale filosofo che vede le contraddizioni sociali come contraddizioni culturali. Bauer ritiene siano sufficienti la critica scientifica delle religioni, e l'ateismo in particolare, a porre le basi per un'emancipazione generale della società, che però, secondo Marx, nei piani di Bauer si riduce a un'emancipazione meramente politica, non umana o sociale, in quanto per Bauer è sufficiente che lo Stato diventi laico, perché poi diventi, quasi in maniera automatica, anche democratico. Marx inoltre fa capire a Bauer che un'emancipazione meramente politica dalla religione non implica di per sé il suo superamento sociale o umano: "noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo "Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca il rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana"(p. 53). La domanda che si pone Marx è molto importante: "il punto di vista dell'emancipazione politica ha il diritto di esigere dagli ebrei l'abolizione del giudaismo, e dagli uomini in generale l'abolizione della religione?"(ib.). Cioè Marx fa capire che una liberazione meramente politica non può di per sé esigere alcunché se non vi è una contestuale liberazione umana, la quale, quando vi è, fa sì che le cose vengano da sé, senza bisogno d'imporle. Marx peraltro fa notare che anche là dove l'emancipazione politica è più matura, come nel Nord-America, essa di per sé non implica affatto una contestuale emancipazione umana. Qui lo Stato è laico, aconfessionale, indifferente a tutte le religioni, in quanto tutte sono state relegate alla sfera della coscienza o comunque del privato, eppure la società continua ad essere religiosa: questo a testimonianza che la religione non può più essere considerata come il principale ostacolo alla formazione di uno Stato laico e democratico. Il limite dello Stato non sta più nella religione ch'esso rappresenta (ufficialmente, come in Germania, dove lo Stato è "teologo ex-professo", o indirettamente come in Francia, ove si concede qualcosa in più al cattolicesimo essendo una religione maggioritaria), ma sta nello Stato in sé, poiché la religione non è che un semplice "fenomeno della limitatezza mondana"(p. 55). Se lo Stato si comporta da Stato, cioè politicamente, nei confronti della religione, e smette di comportarsi teologicamente, allora la critica diventa "critica dello Stato politico"(p. 54) e la questione ebraica non è più una "questione teologica"(p. 53). Qui Marx rileva già la sua diversità dalla Sinistra hegeliana, specie dalla corrente di Feuerbach, Strauss e Bauer, ferma alla questione del rapporto ateismo e religione. E' la "questione sociale" che più gli preme affrontare: "affermiamo che i liberi cittadini sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti terreni"(p. 55). "Sopprimere" forse è un termine un po' pesante: il "socialismo reale" p.es. s'è illuso che fosse sufficiente assicurare la proprietà statale dei mezzi produttivi perché i cittadini smettessero d'essere credenti. Come una sorta di neogiacobini, i bolscevichi sotto Stalin diedero per scontato l'automatismo del processo e fu un errore colossale. Marx aveva semplicemente detto che "la questione del rapporto tra l'emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana"(p. 55), dando così per scontato, indirettamente, che i problemi religiosi dovessero risolversi spontaneamente, senza forzature di alcun genere. Ovviamente Marx non è ancora arrivato a capire quanto importante sia l'economia in generale, quella capitalistica in particolare e l'economia politica che la legittima sul piano teorico, però il passo sarà molto breve, poiché quando parla di "emancipazione umana" egli intende riferirsi ai rapporti sociali della società civile e non a quelli politici dello Stato. Quando parla di "premesse" dello Stato o di "elementi terreni" o di "costruzione terrena" intende riferirsi alle contraddizioni della società civile e, nell'esame di questa, che pur egli non ha ancora iniziato se non negli articoli della "Gazzetta Renana" (1842) dedicati ai furti di legna, alla parcellizzazione fondiaria e alla libertà di commercio, egli vuole fare "astrazione", vuole "prescindere" dalle "debolezze religiose", cioè da questioni di "critica della religione", proprio perché ha già capito, e con lui Engels, Hess, Weitling, Bakunin..., che "il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero"(p. 56). Il giovane Marx non si poneva semplicemente come intellettuale critico del suo tempo (o come intellettuale democratico o di sinistra), ma voleva porsi anche come politico disposto a impegnarsi per cambiare la realtà sociale e quindi politica del suo paese. Marx può interessarsi di religione solo sul piano politico e fino alla sua morte resterà coerente con questa posizione. Vi resterà coerente anche quando come studioso dell'economia avrebbe invece fatto meglio ad associare lo studio del fenomeno culturale (che nella fattispecie era quello della teologia) con l'analisi socioeconomica del capitalismo, al fine di scoprire meglio le origini di quest'ultimo. * * * Marx dà un giudizio molto negativo non solo dello Stato confessionale ma anche dello Stato in sé. A suo parere è ancora del tutto insufficiente che il cittadino si dichiari laico o ateo attraverso lo Stato, cioè che si dichiari libero attraverso una mera mediazione politica. Per Marx le contraddizioni dello Stato americano (che ai quei tempi era politicamente il più evoluto) riguardavano i seguenti aspetti: i cittadini erano ampiamente religiosi pur avendo scelto uno Stato aconfessionale; il cittadino laico o ateo si libera della religione solo in modo politico (la sfera statale è per Marx indiretta), non anche sociale, cioè direttamente, a livello di società civile, diventando ateo; un'emancipazione politica dalla religione realizzata attraverso la mediazione dello Stato non è molto diversa dall'esperienza religiosa tradizionale, in quanto come questa essa ha comunque bisogno di una mediazione per riconoscersi come tale: nel cristianesimo la mediazione è Cristo, "che l'uomo carica di tutta la sua divinità"(pp. 56-57). In questo Marx riprende la tesi della proiezione di Feuerbach. Negli Stati americani non solo -prosegue Marx- ci si illude di aver superato la religione rendendo laico lo Stato, ma anche di aver annullato la proprietà privata (o comunque il potere di questa proprietà) abolendo il censo per l'eleggibilità attiva e passiva (p. 57). Inutile rilevare l'attualità di questa osservazione. Marx è in grado di mettere a nudo i limiti di una liberazione esclusivamente politica, quale quella democratico-borghese avvenuta negli Stati Uniti. Il dualismo è evidente: politicamente "lo Stato sopprime le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione...", proclamando l'uguaglianza di tutti di fronte a se stesso e alle sue leggi; tuttavia socialmente "lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo... e facciano valere la loro particolare essenza"(p. 57). Quindi lo Stato democratico non solo non abolisce le differenze sociali tra i cittadini, ma le presuppone, in quanto concepisce se stesso solo come Stato politico, separato dalla società, anzi in opposizione (relativa, formale) a questa, come entità che si pone ideali astratti, in opposizione a quelli prosaici della società e che per questa ragione deve mistificare la realtà. Lo Stato infatti illude il cittadino che possa esistere una democrazia sociale semplicemente limitandosi a darle una veste politica. In tal modo i cittadini, nella vita materiale della società civile, possono tranquillamente continuare a vivere nel loro "interesse privato", egoistico (p. 58). Lo Stato fa esattamente per il cittadino ciò che fa la religione per il credente: separa il politico dal sociale come il cielo dalla terra. Membro della società civile è il bourgeois (sia egli cristiano o ebreo) di cui il citoyen è il "travestimento politico"(p. 59). Per Marx l'emancipazione politica non è che l'ultima emancipazione possibile prima di quella sociale o civile; nell'emancipazione politica la religione riveste un ruolo secondario: in America (dove lo Stato, a causa delle continue immigrazioni, non poteva nascere che pluriconfessionale), il fatto stesso ch'esistano tantissime religioni sta ad indicare che la religione è stata privatizzata e dichiarata in un certo senso inutile per la conduzione degli affari di Stato e relativa per la conduzione di quelli privati o per la soluzione dei problemi sociali, relativa cioè alle preferenze che il cittadino credente può manifestare. La religione non è in grado di dare risposte sociali universalmente valide, tant'è che lo Stato ha proprie soluzioni per le contraddizioni sociali. Negli States la religione è questione meramente individuale o di piccole comunità e in ogni caso resta separata dalla gestione borghese della società civile. * * * La scissione o scomposizione del cittadino dal credente è frutto dell'emancipazione politica dalla religione. Il cittadino borghese è pubblicamente laico o agnostico o può comportarsi addirittura da ateo, mentre privatamente può essere credente, per quanto la sua fede non sia in grado di contraddire il perseguimento di interessi del tutto privati, anzi nella forma protestante addirittura li legittima. Se lo Stato viene generato con la violenza da parte della società civile -dice Marx, riferendosi implicitamente al terrore giacobino- può anche accadere che detto Stato voglia eliminare la religione con l'uso della forza, ma il risultato finale sarà analogo a quello che si ottiene cercando di eliminare la proprietà privata con la "confisca" e l'"imposizione progressiva" (p. 61): cioè la restaurazione e della religione e della proprietà. E' interessante notare che per Marx il concetto di "Stato cristiano" è una contraddizione in termini, in quanto il cristianesimo non può realizzarsi come tale sul piano statale. Lo Stato è un ente astratto moderno, frutto di una società civile di tipo borghese. Uno Stato cristiano può realizzare principi cristiani solo nei limiti della cultura borghese. Dunque se "lo Stato cristiano è la negazione cristiana dello Stato"(p. 62), lo Stato moderno è il tentativo di realizzare il cristianesimo in forma umana, mondanizzata, cioè in sostanza "non cristiana", in cui si attenua la contraddizione fra l'ideale irraggiungibile del cristianesimo e l'egoismo della vita privata borghese. E tra gli Stati moderni, quello confessionale è il meno Stato di tutti, in quanto non ha il coraggio della laicizzazione e, siccome non è comunque possibile realizzare politicamente e socialmente il cristianesimo, esso diventa una caricatura di se stesso, un "non Stato"(p. 62). Marx dà per scontato che non possa esistere una realizzazione statale del cristianesimo, e lo prova il fatto che lo Stato confessionale riconosce il cristianesimo solo come una religione e non come una forma di organizzazione della vista sociale e civile. Lo Stato confessionale non solo non può realizzare il cristianesimo in quanto tale, ma non può neppure realizzare "lo sfondo umano della religione cristiana"(p. 62), come invece pretende lo Stato laico, il quale però lo realizza in forma mondanizzata, "non cristiana", privo di legami non solo con la religione cristiana, ma anche con l'umanesimo in genere. Il cristianesimo laicizzato dello Stato laico può essere compatibile solo con i principi borghesi della società civile. Lo Stato confessionale è ipocrita perché si serve della religione per giustificare la propria incompiutezza laico-democratica; lo Stato aconfessionale è meno ipocrita nei confronti della religione, ma lo resta nei confronti della società civile, perché predica la democrazia in maniera puramente formale. Marx fa sua la tesi di Bauer che nega la possibilità che uno Stato cristiano possa realizzare il cristianesimo, in quanto lo Stato moderno, se seguisse i principi del cristianesimo, dovrebbe negarsi come tale, cioè smetterla di fondarsi su dei principi che di cristiano hanno solo il nome. Lo stesso popolo cristiano è un "non popolo"(p. 64) in quanto non partecipa in alcun modo all'elaborazione delle leggi che lo governano; nei confronti del sovrano ha in sostanza un atteggiamento di fede (p. 65). I cristiani vivono nei loro circoli, in maniera indipendente dallo Stato, isolati gli uni dagli altri. "Nello Stato cristiano-germanico il dominio della religione è la religione del dominio"(p. 64). L'interpretazione che Marx e Bauer danno della religione è quella di un fenomeno impossibilitato a realizzare i propri ideali, o comunque di un fenomeno che non rivendica sulla terra la realizzazione dei propri ideali, in quanto ritiene di poterli definitivamente realizzare solo nell'aldilà: sotto questo aspetto una religione privata può esprimersi più compiutamente come religione, per quanto sempre in forme alienate. Dunque lo Stato cristiano o va considerato come contraddizione in termini o come mera ipocrisia. Dopo 1800 anni di storia lo stesso cristianesimo dovrebbe essere consapevole d'aver fallito la sua missione storica (quella di negare la proprietà privata, fonte di ogni egoismo individuale). La frammentazione del cristianesimo in tante confessioni, chiese, conventicole, movimenti... è la riprova che una teologia politica della fede non ha più ragione di esistere. Ormai nel protestantesimo l'esigenza religiosa non è più quella di appartenere a un'esperienza cristiana, ma semplicemente quella di appartenere a un'esperienza religiosa, qualunque essa sia. Il protestantesimo è la definitiva negazione della possibilità di realizzare politicamente e socialmente i principi cristiani. Sul piano sociale il cristianesimo è arretrato di fronte alle esigenze della proprietà privata; sul piano politico uno Stato cristiano è solo uno Stato del privilegio, dell'arbitrio, il contrario della democrazia, e quindi il contrario del cristianesimo. * * * Bauer afferma che né i cristiani né gli ebrei possono ricevere i diritti umani universali, poiché rivendicano una religione che li fa essere diversi. Per poterli ricevere devono diventare atei (p. 68). Non si può concedere qualcosa di universale a un cittadino che attraverso la propria religione rivendica un privilegio, un riconoscimento particolare. Con le idee sull'emancipazione culturale e politica dalla religione, cioè con le idee sulla realizzazione politica dello Stato laico e sulla liberazione ateistica della persona, termina praticamente il contributo di Bauer allo sviluppo della democrazia nel suo paese. Marx invece non chiede all'ebreo di diventare ateo come condizione per rivendicare diritti politici, anzi sostiene che l'ebreo può anche emanciparsi politicamente restando ebreo, cioè riducendo l'ebraismo a questione privata. Piuttosto Marx chiede all'ebreo di rendersi conto che l'emancipazione umana (della società civile) è altra cosa rispetto a quella politica, che si può ottenere nell'ambito dello Stato. La critica di Marx non è rivolta solo a tutti quei credenti che vogliono fare della loro religione uno strumento politico, ma anche a tutti quei cittadini che, pur avendo rinunciato a questa forma d'integralismo, s'illudono d'aver ottenuto la giustizia sociale in virtù della mera laicità dello Stato. A riprova della sua tesi Marx mostra che esiste una differenza di principio tra diritti del cittadino (diritti politici o dello Stato) e diritti dell'uomo (diritti della società civile): tra questi ultimi vi è anche quello della libertà di coscienza che a sua volta prevede quello della libertà di religione. E' evidente che i diritti politici non possono essere concessi al cittadino in quanto cristiano, poiché vengono concessi al cittadino in quanto tale, a prescindere dal suo atteggiamento verso la religione: persino la sua non appartenenza ad alcuna religione è irrilevante ai fini dell'adesione ai diritti politici. "Il privilegio della fede è un diritto universale dell'uomo"(p. 70) -dice Marx- che viene riconosciuto in tutte le costituzioni democratico-borghesi. Quindi sotto questo aspetto la posizione di Bauer è antidemocratica, poiché egli fa dell'ateismo una nuova religione da imporre con la forza del potere politico borghese. Abbiamo già visto che per Marx la società civile rappresenta l'egoismo che va superato e lo Stato rappresenta l'idealità astratta, incapace di superare tale egoismo. Marx contesta a Bauer di non vedere la realtà delle cose, in quanto se anche si volessero concedere agli ebrei, previo il loro ateismo o a prescindere da questo, tutti i diritti che vogliono, questi diritti non sono altro che diritti a vivere un'esistenza alienata, egoista; la libertà che si concede è semplicemente quella di non far nulla che possa nuocere alla libertà altrui (p. 71), quindi sarebbe una libertà al negativo, concessa a "una monade isolata e ripiegata su se stessa"(ib.). La libertà riconosciuta e garantita è la libertà a restare "isolati"(p. 71), rinchiusi nel privilegio della proprietà privata. "Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré), senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà"(p. 72). Il diritto ad essere egoisti è garantito dal diritto alla proprietà privata. Nessuno dei diritti dell'uomo oltrepassa "l'uomo egoistico"(p. 73), proprio perché la società appare come un "limite" allo sviluppo dell'egoismo individuale. Com'era arrivato a questa consapevolezza Marx? Dalle letture dei socialisti francesi, che pur egli qui non cita (probabilmente per evitare di apparire ai tedeschi come debitore di qualcosa nei confronti dei francesi) e dalle influenze dei "radicali" e "comunisti" presenti nella redazione della "Gazzetta Renana" (Hess, Engels, Bakunin...). A p. 78 Marx si limita a citare Rousseau. Scrive Marx: "L'unico legame che tiene insieme gli individui è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica"(p. 73). Di qui il carattere profondamente limitato delle costituzioni democratico-borghesi, col loro dualismo tra i valori politici (democratici, interclassisti) affermati come Stato, e i valori sociali, civili o umani (che sono borghesi, privatistici, classisti) affermati a livello di società civile, al punto che la politica è subordinata all'economia borghese: "il citoyen è servo dell'homme egoista"(p. 73): "non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene preso per l'uomo vero e proprio"(p. 74). Le costituzioni borghesi sono una parodia della democrazia, in quanto "la prassi rivoluzionaria della borghesia si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria"(p. 74). Marx spiega molto bene il motivo di questo dualismo, che definisce ironicamente con la parola "enigma". L'emancipazione politica borghese ha compiuto due cose: ha distrutto la feudalità, in cui esisteva maggiore coerenza tra vita sociale e vita politica, in quanto "la società civile aveva immediatamente un carattere politico, cioè gli elementi della vita civile... erano innalzati a elementi della vita dello Stato"(p. 75). Marx però precisa che si trattava comunque di rapporti tra "corporazioni" (non solo artigianali, ma di una classe in sé o ceto sociale: corporazione era il modo di distinguere i ceti privilegiati, in quanto la società feudale era divisa in classi). Marx vuol dire che questi ceti di sentivano parte dello Stato in quanto ceti separati da altri ceti. Non c'era proprietà sociale, ma proprietà privata appartenente a determinati ceti. Era appunto la società del privilegio, che insieme era economico e politico. Chi godeva di un privilegio aveva facoltà di esercitarlo politicamente, senza dover rivendicare alcunché. L'individuo in sé non contava nulla, ma solo in quanto appartenente a un ceto sociale. Marx vede del Medioevo solo l'aspetto negativo del privilegio, non vede l'aspetto positivo della comunità di villaggio. La gestione dello Stato è dunque "affare particolare di un sovrano, diviso dal popolo..."(p. 76). Cioè chi garantiva l'unità statale non era l'insieme dei ceti, ma un singolo al disopra di tutti. La rivoluzione borghese ha invece innalzato "gli affari dello Stato ad affari del popolo... costituì lo Stato politico come affare universale, spezzando necessariamente tutti gli stati, corporazioni, arti, privilegi, che erano altrettante espressioni delle separazioni del popolo dalla sua comunità"(ib.). Ha tolto il privilegio di pochi sostituendolo col diritto di molti. Ha tolto "il carattere politico della società civile"(ib.) frammentato tra i diversi ceti privilegiati, e ha suddiviso la società civile nei suoi elementi semplici fondamentali: gli individui, da un lato, e i loro bisogni materiali e spirituali dall'altro. Dopo aver tolto alla società civile l'identità con la sfera politica, ha creato una nuova organizzazione politica: lo Stato, in cui ognuno, individualmente, potesse idealmente riconoscersi. La comunità non viene più rappresentata dalla società civile, ancorché divisa in ceti privilegiati, ma viene rappresentata da un organo politico universale, che appare al disopra di ogni cittadino e della stessa società civile. Nella vita sociale e civile le attività sociali decadono "a significato solo individuale"(ib.). C'è lo Stato da una parte, che deve rappresentare tutti, e il singolo dall'altra, che rappresenta solo se stesso. "La cosa pubblica in quanto tale divenne piuttosto l'affare universale di ciascun individuo..."(ib.). Fin qui Marx condivide la necessità del passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Il rovescio della medaglia è però questo, che la società borghese ha affermato un concetto di individuo fondamentalmente "materialista", cioè attaccato esclusivamente al suo interesse privato, egoistico... La società civile si è in realtà emancipata da ciò che politicamente vincolava, conteneva lo sviluppo del suo "spirito egoista". La rivoluzione politica borghese ha scoperto l'importanza dell'uomo sui ceti privilegiati, ma ha scoperto anche che quest'uomo era un egoista. Dunque paradossalmente c'era più democrazia sociale nella società del privilegio, poiché là l'egoismo era dei singoli ceti possidenti e per questo privilegiati (quindi una minoranza), qui invece è di tutti, almeno di chiunque abbia un minimo di proprietà. "L'uomo (borghese) non venne liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa", cioè il diritto di credere nella religione che voleva; "egli non venne liberata dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà"(p. 77), cioè non si passò dalla proprietà privata dei ceti alla proprietà sociale di tutti, ma dalla proprietà privata di pochi alla libertà di proprietà privata per molti. L'uomo civile, sociale, egoista, appare ora come l'uomo naturale, i cui diritti sono naturali, dalla nascita, da sempre, e che nessuno può toccare. I diritti naturali precedono quelli politici. La borghesia esprime il trionfo della società civile non solo sulla monarchia assoluta feudale, in cui pochi ceti potevano riconoscersi, ma anche il trionfo sul proprio Stato democratico in cui teoricamente tutti dovrebbero riconoscersi. L'uomo politico diventa così l'uomo astratto, artificiale, allegorico, falsamente morale. "L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista..."(p. 78). Per Marx bisogna andare oltre la democrazia politica borghese perché occorre che l'uomo della società civile riscopra il lato sociale di se stesso, della propria attività, nonché il lato umano di se stesso (di cui l'emancipazione dalla religione costituisce il primo passo). Quando sociale e politico saranno di nuovo uniti in nome del sociale e non dell'individuale egoista, allora sarà compiuta l'emancipazione umana (p. 79). (Da notare, en passant, che dopo 150 anni da queste riflessioni esistono ancora oggi in Europa degli Stati confessionali: p.es. l'Inghilterra anglicana e l'Italia cattolica [cfr l'art. 7 della Costituzione]. Svezia e Finlandia hanno posto fine solo verso il 1997-2000 alla figura giuridica della Chiesa di stato). II. Critica di Marx La capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi di diventare liberi (Ventun fogli dalla Svizzera), di Bruno Bauer (1843) L'emancipazione che Bauer chiedeva agli ebrei era stata in un certo senso l'emancipazione del padre di Marx, che era dovuto passare al protestantesimo nel 1816 per non rinunciare alla professione, in quanto la legge prussiana vietava agli ebrei di esercitare certi uffici. Il che in sostanza voleva dire ch'era diventato ateo, se già non lo era prima, viste le sue idee illuministe. Secondo Bauer l'ebreo deve emanciparsi non solo dall'ebraismo ma anche dal cristianesimo che l'ha superato, e cioè deve approdare all'ateismo tout-court. Quando sarà approdato all'ateismo potrà pretendere l'emancipazione politica, potrà lottarvi a giusto titolo, a pieno diritto, al pari di tutti gli altri tedeschi che in quanto cittadini rivendicano i loro diritti democratici al cospetto dello Stato assolutista. Bauer, abbiamo detto, poneva una condizione ideologica davanti a quella politica. Peraltro non si rendeva conto che gli altri cittadini tedeschi non avevano bisogno di rivendicare alcunché in quanto cristiani, poiché lo Stato stesso poneva l'eguaglianza di cittadino e cristiano. Marx invece fa un ragionamento più pratico. Posto che "il segreto dell'ebreo"(p. 81) non sta nella sua religione, ma nella sua attività pratica, cioè il traffico e che il suo dio è il denaro, l'emancipazione da questa forma di egoismo pratico diventa un obiettivo non solo per l'ebreo ma anche per tutti i cittadini tedeschi; dunque se si eliminassero i presupposti del traffico, la sua possibilità, l'ebreo mondano (non quello astratto di Bauer) non esisterebbe più. "L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l'emancipazione dell'umanità dal giudaismo"(p. 82), qui considerato come metafora dell'egoismo borghese. Marx infatti sostiene che l'ebreo si è già emancipato in modo giudaico in quanto ha fatto dei propri traffici, dell'uso del danaro un metro di misura dell'egoismo della società borghese. Un borghese è tanto più borghese quanto più nella sua attività pratica assomiglia all'ebreo. "Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei"(p. 82), cioè sono diventati "egoisti". Nel Nord America persino la religione è diventata oggetto di business (p. 83): "il commerciante fallito traffica in Vangelo come l'evangelista arricchito traffica negli affari"(ib.). Bauer si scandalizza che gli ebrei rivendichino dei diritti in quanto ebrei, quando già sul piano economico hanno poteri enormi (anche questo è un modo di porre le basi dell'antisemitismo). Marx invece dice che questa contraddizione sarebbe impossibile se fosse la politica democratica a dirigere un'economia di tipo sociale e non l'economia borghese a dirigere una pseudo-politica democratica. "L'ebreo, che sta nella società civile [borghese] come membro particolare [separato], è solo la manifestazione particolare del giudaismo [dell'egoismo borghese] della società civile"(p. 84). Gli stessi ebrei, secondo Marx, si comportano come se fossero già atei, in quanto il loro dio è il denaro, esattamente come per i cristiano-borghesi. L'ebraismo è solo una variante della prassi borghese. I paralleli sono innumerevoli. Persino nelle forme del rispetto della legge: "il gesuitismo giudaico "è il rapporto del mondo dell'interesse individuale con le leggi che lo dominano, la cui astuta elusione è l'arte suprema di questo mondo"(p. 85). "Il cristianesimo è scaturito [storicamente] dal giudaismo. Nel giudaismo [socialmente, come espressione egoistica della vita] esso si è nuovamente dissolto"(p. 86). Ridiventando "ebreo" il cristiano ha smesso di "teorizzare" e ha posto la prassi individuale egoistica al disopra di qualunque ideale, salvo trasferire quest'ultimo, in maniera formale, nell'entità astratta dello Stato. "Il cristianesimo -dice Marx- è il pensiero sublime del giudaismo", che non ha saputo realizzarsi concretamente, mentre "il giudaismo è la piatta applicazione del cristianesimo"(pp. 86-7). E questa applicazione poteva diventare universale solo sotto il capitalismo, perché qui lo Stato politico realizza compiutamente (anche a livello teorico) "l'autoestraneazione dell'uomo da sé e dalla natura"(p. 87). Non è più il dio metafisico che fa da ponte tra quel che si è e quel che si vorrebbe essere; ora il mediatore è il denaro, potere sempre estraneo all'uomo. Dunque "l'emancipazione sociale dell'ebreo [come individuo religioso] è l'emancipazione della società [civile] dal giudaismo [cioè dal dominio del denaro]". MARX E LA RELIGIONE Marx ha praticamente dimostrato che l'alienazione che l'operaio della società capitalistica vive e avverte di vivere sul piano economico, trova il suo equivalente sovrastrutturale in quello che accade al credente sul piano religioso. Ovverosia, "l'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo"(così nei Manoscritti economico-filosofici, ed. Einaudi 1970, p. 72). Estraneo appunto perché, pur essendo la merce un suo prodotto, di fatto non gli appartiene, essendo a lui separata giuridicamente la proprietà della fabbrica. Questa alienazione materiale trova il suo riflesso in quella spirituale della religione, la quale recepisce e giustifica, modificando continuamente i suoi contenuti, l'estraniazione materiale del capitalismo. E così, "quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso"(ib.). Un legame così esplicito di capitalismo e religione sarà ricorrente in tutta l'opera marxiana, anche se mai sviluppato in maniera analitica. Nel capitalismo, quindi, persino la legge naturale dello sviluppo industriale, che dovrebbe portare direttamente, sul piano spirituale, all'ateismo, diventa motivo di perpetuazione dell'alienazione religiosa. Nel senso che se è vero che "i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell'industria"(op.cit., p. 81), è altresì vero che, col capitalismo, i miracoli dell'industria tornano a vantaggio solo di poche persone proprietarie, mentre al lavoratori non resta che continuare a sperare -come vuole la religione- nei miracoli divini, almeno sino a quando essi non si accorgeranno che "non gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al disopra dell'uomo"(ib.). Questa è una delle ragioni per cui secondo Marx "la critica della religione" va considerata come "il presupposto di ogni critica". Cioè l'operaio può iniziare a criticare il capitalismo partendo dalla critica della religione (in questo Marx si mostrava erede di tutti gli studi compiuti in Germania dalla Sinistra hegeliana. Viceversa Lenin non avrà bisogno di questo passaggio intellettualistico, in quanto per lui il capitalismo andava criticato per le proprie contraddizioni interne, e questo allo scopo di organizzarne un superamento di tipo politico. La critica della religione è sempre stata considerata da Lenin un aspetto di secondaria importanza, anche se proprio lui pretendeva da parte del partito una propaganda ateo-scientifica: cosa che in Europa occidentale i partiti comunisti non hanno quasi mai fatto). Marx assegnò all'ateismo un valore di "presupposto di ogni critica" perché nei paesi capitalisti qualunque aspetto sovrastrutturale, in aperta contraddizione con quelli strutturali (rivoluzione industriale, macchinismo, dominio della natura, benessere materiale...), si è sempre caratterizzato per il suo stretto legame con l'ideologia religiosa, o comunque con l'illusione di matrice religiosa. Prima del socialismo scientifico ogni morale era di origine religiosa, persino quella del socialismo utopistico, è così ogni diritto, ogni politica, arte o scienza. Il contenuto di tutte le scienze era costretto a esprimersi in un involucro religioso. Riflettendo le contraddizioni antagonistiche della loro epoca, tutte le scienze manifestavano in modo illusorio, cioè sostanzialmente religioso, il loro tentativo di risolverle, e questo avveniva anche quando gli uomini cercavano di emanciparsi dalla religione. Ecco perché sino al socialismo scientifico la lotta contro la religione altro non è stata che la lotta di alcune idee religiose contro altre. Oggi, sotto il capitalismo, le forme ideologiche conservano il loro carattere illusorio pur avendo perso lo stretto legame con la religione (legame che comunque può sempre essere ripristinato, all'occorrenza). Nei confronti della religione la borghesia ha sempre avuto un duplice e apparentemente contraddittorio atteggiamento: di critica, nel momento dell'ascesa al potere economico e politico; di compromesso, nel momento della conservazione di tale potere. Di critica per potersi emancipare dal modo di produzione economico cui la religione era legata (quello feudale); di compromesso (o meglio di strumentalizzazione, per quanto reciproca) per poter impedire alla classe operaia di emanciparsi dal modo di produzione borghese. Nel Terzo mondo, ove la critica della religione non ha raggiunto le punte ateistiche dell'Occidente, quando l'operaio credente abbraccia ideologie di tipo socialista (p.es. la Teologia della liberazione) facilmente gli viene attribuito dalla chiesa l'appellativo di "eretico" ed ovviamente lo si minaccia di "scomunica". Un atteggiamento così autoritario, da parte della chiesa romana, è stato tenuto in Italia e per buona parte d'Europa almeno sino agli anni '70. Di qui la decisione, da parte degli operai credenti, di abbandonare la religione, proseguendo in maniera laica la propria opposizione al capitalismo. Se la chiesa cattolica non si fosse legata così strettamente agli interessi del capitale, probabilmente gli operai cattolici avrebbero smesso d'essere credenti con meno facilità, o forse avrebbero contestato il capitalismo con meno decisione. In ogni caso questo spiega il motivo per cui nel socialismo il regime di separazione di Stato e chiesa è un aspetto sovrastrutturale necessario alla socializzazione dei mezzi di produzione. Certo, se la religione non si fosse compromessa nel difendere il capitalismo (o il feudalesimo), il legame tra i due aspetti (separazione giuridica e collettivismo economico) potrebbe anche non essere indispensabile, ma è fuor di dubbio che là dove esistono più religioni (senza peraltro considerare l'ateismo), il socialismo non può che optare per il regime di separazione. A Marx comunque non bastava l'emancipazione meramente "politica" dalla religione (come per Bauer); voleva anche quella umana, e questo inevitabilmente implicava il rovesciamento dei rapporti produttivi, in quanto l'umano per lui coincideva col sociale e non solo -come per Feuerbach- con la coscienza personale. L'atteggiamento dei confronti della religione andava privatizzato, ma non quello nei confronti della società che produce l'illusione religiosa. La religione si pone sempre laddove esistono delle contraddizioni socioeconomiche basate sui conflitti di classe. Quando le classi antagonistiche si servono della religione politicamente (come fenomeno sociale) o ideologicamente (come convinzione personale), esse lo fanno o per illudersi (se sono oppresse), o per illudere (se invece opprimono). La religione infatti è allo stesso tempo -come dice Marx- "l'espressione della miseria reale e la protesta contro questa miseria" (ovviamente sempre nell'ambito dell'illusione). Rovesciare i rapporti di produzione antagonistici significa "rinunciare non solo alle illusioni sulla propria condizione, ma anche a una condizione che ha bisogno di illusioni"(Marx). Il proletariato -secondo Marx- sa che la sua emancipazione umana è legata al possesso dei mezzi produttivi e se questo obiettivo riesce a conseguirlo non può trasformarsi in un nuova classe dirigente che usa la religione in maniera strumentale, perché vuol rendere partecipe tutta la società di questo suo possesso. Etica e religione Il rapporto che Marx stabilisce tra economia borghese e protestantesimo non è mai stato molto chiaro nelle sue opere. Da un lato infatti egli ha sempre considerato la religione una sovrastruttura dell'economia; dall'altro però ha spesso scorto nell'economia borghese delle caratteristiche tipicamente religiose (che assumevano forme laicizzate). Marx ha costatato lo stretto rapporto tra i due aspetti, ma ha scarsamente analizzato l'evoluzione del fenomeno religioso in rapporto all'evoluzione del contesto storico ad esso correlato. Marx in effetti non è uno storico in senso lato, ma uno storico dell'economia o al massimo della politica. Engels, in tal senso, ha prodotto qualcosa di significativo con gli studi sul Cristianesimo primitivo (che però riprendono le tesi della Sinistra hegeliana) e sulla Riforma protestante. Marx non ha analizzato per niente il riflesso del fenomeno religioso sul contesto socioeconomico corrispondente, ovvero i condizionamenti culturali della religione sui rapporti sociali. Qui occorre servirsi dei lavori di Weber -il "Marx della borghesia". Marx e Weber Il nesso che Marx poneva, nei Manoscritti parigini del '44, tra economia capitalistica e religione cristiana, racchiude, in nuce, tutte le analisi sociologiche di Weber, anche se Marx ha avuto il torto di non proseguire quelle ricerche, essendosi dedicato esclusivamente all'analisi economica. Weber ha proseguito quelle ricerche, ma da punto di vista borghese, cioè mascherando le contraddizioni antagonistiche del capitalismo. Ora bisognerebbe proseguire quelle ricerche dal punto di vista dell'umanesimo socialista. Pro e contro Marx Quando si critica Marx bisogna fare dei distinguo molto importanti. Non ha senso infatti sostenere -come fa Max Scheler- che Marx considerava l'uomo un mero prodotto di condizioni economiche. Un limite di questo genere può essere riscontrato nel Marx "economista", quello posteriore al Manifesto, ma non lo si può certo riscontrare nel Marx dei Manoscritti parigini o in quello delle Tesi su Feuerbach. Nello stesso Capitale Marx non ha mai accettato completamente la tesi della subordinazione della volontà umana alle condizioni economiche. In realtà Marx non ha mai smesso di fare il politico rivoluzionario (molto importante è stato il suo impegno nell'Internazionale). Certamente il Marx "inglese" è stato meno rivoluzionario del Marx "franco-tedesco". La sua sopravvalutazione del fattore economico è dipesa appunto dal calo della tensione rivoluzionaria, nonché dalla subordinazione del "fattore umano" a quello "politico". Il fatto è però che individui come Max Scheler rimproverano a Marx l'eccessivo economicismo non tanto perché lo avrebbero preferito più rivoluzionario, quanto perché, al contrario, lo avrebbero preferito più "idealista", più "hegeliano"... A Marx, in realtà, si sarebbe dovuto rimproverare un'altra cosa, e cioè il fatto che la storia non può essere creata solo dall'homo faber. La storia non è né storia economica , né storia politica, ma è storia dell'uomo, globalmente o integralmente inteso. E' in questa storia che per miopia o per opportunismo si tende a privilegiare l'economia o la politica. Dal punto di vista umano, ogni scienza, ogni attività, ogni forma di pensiero è relativa. Gli aspetti etici o culturali non sono meno importanti di quelli politici o economici. Gli uni senza gli altri non possono sussistere. Quando si privilegia un fattore rispetto a un altro, le conseguenze sono sempre devastanti, poiché sulle basi dell'unilateralismo non si può mai costruire una società democratica. Non si diventa più "realisti" opponendo all'ideologia filosofica o religiosa il primato del lavoro umano. Un lavoratore non è di per sé migliore di un prete. Finché non si affronteranno le cose in maniera globale, la diatriba fra idealismo e materialismo non finirà mai. Si pensi p.es. a questa assurdità: il marxismo ha sempre sostenuto che il lavoro è "umano" soltanto quando esso dirige coscientemente le forze naturali ad operare nell'interesse dell'uomo. I fatti cos'hanno dimostrato? Che se l'uomo si concepisce anzitutto come homo faber, l'impatto sulla natura è catastrofico. Perché ciò non avvenga, la società ha bisogno di uomini che si adeguino ai processi naturali, che rispettino sino in fondo tutte le leggi della natura e che non compiano assolutamente, attraverso il lavoro, delle modifiche irreversibili all'ambiente naturale. Solo così l'uomo può sperare di campare in eterno. Questo non per dire che la natura è più importante dell'uomo, ma per impedire che l'uomo si evolva contro i processi della natura. Delle due l'una: o la sua evoluzione è conforme a tali processi, e allora tra uomo e natura ci sarà sempre un'intesa perfetta, oppure si è in presenza di una involuzione verso la barbarie. Dobbiamo assolutamente toglierci dalla testa l'idea che l'uomo potrà diventare tanto più "umano" quanto più saprà coscientemente dominare la natura. Ogni forma di "dominio" (avvenga essa sotto il capitalismo o sotto il socialismo) porterà alla morte sia la natura che l'uomo. Molto più importante del lavoro, in realtà, è lo spirito collettivo con cui si vive in una determinata comunità; quello spirito che non sta a distinguere la produttività di un lavoro da un altro, che non si fa scrupolo di mansioni economicamente improduttive (se tutta la comunità è consenziente), che non fa dipendere la dignità di un uomo o di una donna dal lavoro che fa... Il marxismo ha valorizzato il lavoro per contrastare lo sfruttamento, ma anche la borghesia, agli inizi della sua "carriera storica", aveva privilegiato il lavoro per combattere il parassitismo delle classi feudali. Se si decide di privilegiare il lavoro, ad un certo punto si finirà col creare situazioni di sfruttamento, poiché l'assenza di valori ontologici prima o poi porta a desiderare di vivere sulle spalle degli altri. Sotto il capitalismo è l'imprenditore (singolo o associato) che si assume il ruolo di sfruttatore; sotto il "socialismo reale" questo ruolo è stato assunto dallo Stato, con tutti i suoi apparati burocratico-amministrativi. Il "socialismo reale" aveva per così dire "idealizzato" lo sfruttamento, in quanto un ente astratto: lo Stato (che doveva personificare l'interesse generale) aveva preso il posto di una figura soggettiva: l'imprenditore (che nel capitalismo ha sempre anteposto gli interessi privati a quelli pubblici). Non è certo stato il puro e semplice primato concesso al lavoro che ha impedito la possibilità di uno sfruttamento economico. Qui è la mentalità che deve cambiare. Non può essere solo questione di forme o di condizioni in cui avviene l'attività lavorativa. Per poter realizzare delle condizioni lavorative ottimali, veramente democratiche, occorre educare gli esseri umani a capire l'importanza del bene comune. E questo è un lavoro di tipo etico, pedagogico, culturale, sociale, oltre che politico e rivoluzionario. Si tratta di un'opera di persuasione molto difficile e complessa, poiché implica una metanoia, cioè una conversione interiore, che deve tradursi, concretamente, in azioni esteriori, alternative a quelle dominanti. K. MARX, PER LA CRITICA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO DI HEGEL. INTRODUZIONE: Seguace di Feuerbach e amico di Bauer e Strauss, Marx non può che dirsi "ateo", esplicitamente, mostrando che la religione non ha alcuna utilità ai fini dell'emancipazione umana. La religione è alienazione, in quanto pone la realizzazione di sé nei cieli, non sulla terra. La critica della religione (che in Germania era già iniziata con la Critica della ragion pura di Kant, svolta, seppure in forma ambigua da Hegel ed esplicitata dalla sua corrente di sinistra, e che in un certo senso, può essere fatta risalire allo stesso luteranesimo) ha appurato che non la religione fa l'uomo, ma l'uomo (alienato) fa la religione. E se è così, allora l'uomo può anche disfarsi di ogni religione e sostituirla con un mezzo più utile alla realizzazione di sé. Marx non ama, come Bauer e Strauss, proseguire la critica ateistica in direzione dello studio delle religioni. Egli si pone di fronte alla religione come un politico e, come tale, non può trovare nell'ateismo una soluzione ai problemi sociali (gli stessi che hanno generato le illusioni religiose). Per Marx la diatriba di ateismo-religione è superata perché ideologicamente conclusa. L'alternativa e alla religione e alla sua critica va cercata nella società e deve servire a trasformare questa stessa società, poiché non ci sarebbero state religioni se non ci fossero state le società che le hanno prodotte (coi loro ceti e classi sociali). La religione è un prodotto alienato di società alienate. E la critica di queste società non si fa con le armi della critica della religione. Marx ancora non ha scoperto l'economia politica, per quanto lo scritto di Engels, Abbozzo di una critica dell'economia politica, apparso negli "Annali", l'abbia sicuramente aiutato, però ha capito che la critica della religione deve trasformarsi in critica della politica e del diritto, benché le armi di questa critica siano ancora di tipo filosofico, sulla scia di Hegel. Naturalmente la critica della politica e del diritto è la critica della Germania assolutista, tardo-feudale, non solo di quella confessionale. Ma è anche la critica di quei tentativi anacronistici di ritrovare le libertà tedesche "nelle foreste vergini teutoniche"(p. 64), cioè fuori della storia. Marx è convinto che con la critica (l'indignazione, la denuncia) si possa scuotere la coscienza assopita dei tedeschi, rimasti indifferenti ai cambiamenti epocali avvenuti in altre nazioni (la rivoluzione inglese del 1688, la rivoluzione francese del 1789, la rivoluzione americana del 1776, la rivoluzione industriale...). Non c'è, nel suo scritto, un piano di agitazione tra le masse vero e proprio, coordinato da un partito politico. Da filosofo critico della società quale egli è, Marx è convinto sia sufficiente "rendere ancora più oppressiva l'oppressione reale con l'aggiungervi la consapevolezza dell'oppressione..."(p. 95). Egli vuol far sentire la Germania all'altezza dei tempi, non solo per le conquiste teoretiche della filosofia idealistica e della critica della religione, ma anche, paradossalmente, come paese conservatore! Infatti dice: "lo status quo tedesco costituisce l'aperto compimento dell'ancien régime, e l'ancien règime è la tara occulta dello Stato moderno"(p. 96). Cioè Marx vuole infondere fiducia nei tedeschi, mostrando loro che lo Stato moderno, borghese, non è la soluzione dei problemi dello Stato prussiano, come non lo è stato nelle altre nazioni, dove la borghesia è stata costretta al compromesso con le forze del passato. Indubbiamente per Marx la Prussia è un anacronismo storico rispetto agli Stati borghesi d'Europa, ed egli cerca di giustificare questo ritardo dicendo che nella storia ci si libera degli errori, degli anacronismi, prima in forma tragica, poi in forma più leggera, come la commedia. Cioè Marx spera che la Germania non debba andare incontro alle stesse tragedie degli altri paesi, visto appunto che sono state già compiute e non vi è bisogno di ripeterle. "Questa serena destinazione storica noi rivendichiamo alle forze politiche della Germania"(p. 96). (In realtà la Germania dovrà affrontare tutte le tragedie del superamento dell'assolutismo e della costruzione dello Stato capitalistico). Tuttavia Marx vuole qui essere più un filosofo critico che un politico, perché vede che la politica tedesca è di molto inferiore alla filosofia idealistica. E fa l'esempio del modo con cui il governo prussiano vuole regolamentare l'economia borghese: là dove, come in Francia e in Inghilterra, si chiede di finirla coi dazi protettivi e i monopoli, favorendo il libero scambio per ogni attività economica, in Germania invece si fa esattamente il contrario, a testimonianza del suo ritardo storico sul piano dell'organizzazione capitalistica dell'economia.. Per Marx, grazie alla loro filosofia idealistica, i tedeschi "sono i contemporanei filosofici del presente, senza esserne i contemporanei storici"(p. 98). In particolare, di tutta la filosofia tedesca, secondo Marx quella "del diritto e dello Stato è l'unica storia tedesca che stia al pari col moderno presente ufficiale"(ib.). Ma siccome questa filosofia non può essere presa così com'è, perché idealistica, occorre partire dalla sua critica per emancipare il tedesco e aprirgli la strada alla realizzazione storica contemporanea, che dovrà essere diversa da quella "ufficiale". I tedeschi hanno prodotto sul piano culturale una cosa che gli altri popoli europei non possono vantare: la filosofia idealistica (erede della Riforma). Tale filosofia però non ha permesso ai tedeschi di realizzare la democrazia, la giustizia sociale ecc., se non a livello di possibilità ideale, nelle astratte speculazioni dialettiche. Marx dice che "il partito politico pratico [il partito di governo] in Germania esige la negazione della filosofia"(p. 99), poiché ritiene che gli ideali della filosofia siano irrealizzabili; viceversa, Marx ritiene che per poter negare la filosofia bisogna prima realizzarne i principi (ib.), proprio perché il meglio di sé il popolo tedesco l'ha dato nel pensiero, non nella realtà. Lo stesso errore, secondo Marx, ma in maniera capovolta, lo fa il "partito politico teorico", quello nato a "sinistra" della filosofia hegeliana, il quale ritiene che per cambiare la società tedesca sia sufficiente usare l'arma della critica filosofica, quando, in realtà -dice Marx- la stessa filosofia è "il completamento, sia pure ideale" del mondo tedesco che va superato (ib.). Insomma, secondo Marx "non si può realizzare la filosofia senza eliminarla"(p. 100), ed eliminarla significa fare una prassi rivoluzionaria (p. 101). Il vertice del pensiero filosofico tedesco è, secondo Marx, la filosofia del diritto e dello Stato di Hegel, di cui questa critica vuole semplicemente essere una "Introduzione": Hegel riuscì a fare una critica dello Stato moderno pur non vedendolo realizzato in Prussia. Questo perché "i tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto"(p. 100). Ma tra pensiero ed azione Marx non vede contraddizioni di sostanza, in quanto i limiti pratici delle democrazie borghesi sono equivalenti ai limiti teorici della filosofia idealistica. Entrambe le realtà non hanno mai preso in considerazione l'uomo reale, totale (ib.). Secondo Marx il problema cruciale per la Germania non è soltanto quello di sapere se per mezzo di una prassi rivoluzionaria essa sarà in grado di innalzarsi "al livello ufficiale dei popoli moderni" [che è quello politico-istituzionale dello Stato borghese], ma anche se sarà in grado di superare tale livello dal punto di vista umano o sociale (p. 101). "La critica della religione finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole..."(ib.). Marx qui si ricollega a quella rivoluzione fallita che fu la riforma protestante: un passato sì "rivoluzionario" ma "teorico" (p. 101), in quanto la guerra dei contadini: "il fatto più radicale della storia tedesca"(p. 102), s'infranse contro le esigenze conservatrici della teologia. Il parallelo tra Riforma e Rivoluzione sta nel fatto che le idee rivoluzionarie nascono nella testa degli intellettuali, ma la differenza deve stare nella loro applicazione, che deve riguardare le masse. E' solo questo il vero problema, per Marx, poiché la Germania è molto arretrata politicamente. La domanda tuttavia è lecita: è possibile che i tedeschi si emancipino prima di rischiare una decadenza come nazione, provocata dal capitalismo delle altre nazioni? Certamente, Marx ne è consapevole, non verrà alcun aiuto da parte del governo prussiano, e per quanto riguarda la società civile il rischio è quello tipico delle rivoluzioni borghesi: cioè che venga tradita a cose fatte. (Va detto tuttavia che per Marx non esisteva nella Prussia di allora una classe che da sola, come p. es. in Francia, avrebbe potuto fare la rivoluzione). Marx a questo punto fa la sua proposta politica: soggetto principale della rivoluzione dovrà essere una classe che concentri su di sé tutte le contraddizioni sociali, per le quali essa non possa nutrire un interesse particolare di liberazione e che quindi la sua istanza di liberazione coincida con quella di tutte le altre classi oppresse: questa classe è il proletariato industriale. Marx chiede che in Germania non si faccia una liberazione progressiva, partendo da quella democratico-borghese per arrivare a quella socialista, ma che si salti il passaggio e si faccia subito la rivoluzione proletaria: "in Germania l'impossibilità della liberazione progressiva deve generare la libertà totale"(p. 107). La sua è una posizione molto esigente. La descrizione del proletariato industriale tedesco è così intensa che merita d'essere riportata integralmente. La possibilità positiva dell'emancipazione tedesca sta "nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia senz'altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell'uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato"(p. 108). Compito fondamentale di questo proletariato è "la negazione della proprietà privata"(p. 109). La filosofia tedesca può trasformarsi in prassi rivoluzionaria (sulle modalità della quale, operativamente, Marx non dice nulla) se si associa alle esigenze emancipative del proletariato industriale. "La filosofia non può realizzarsi senza l'eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia".

 
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