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LENIN ED IL LENINISMO

LENINISMO - STORIA DEL COMUNISMO
 
Lenin ed il leninismo
 

Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli Stati imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della rivoluzione. Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino a quel momento insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico esterno, diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino a 50-100 unità, reclutando "operai e contadini medi" che non avessero un "lungo funzionariato sovietico" e che non appartenessero, né direttamente né indirettamente, alla casta degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del partito non riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una scissione nel momento più critico del Paese. Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali nella soluzione delle questioni più importanti, ma anche in grado di creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze. Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: "né il segretario generale, né alcun altro membro del CC" dovevano essere in grado d'impedire un controllo sulla loro attività, su soppressa dalla "Pravda" del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a quando è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel 45° volume della V edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970. Relativamente ai tratti soggettivi dei leaders del partito, Lenin, nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale di Stalin: la "grossolanità", "tollerabile" nei rapporti fra comunisti, era "inammissibile" per un segretario generale, per cui proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra Stalin e Trotski rischiasse di danneggiare l'intero partito. Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e Dzerzinskij) nella questione delle nazionalità, era facile intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato "fatalmente precipitoso", "nefastamente collerico" verso il preteso "social-nazionalismo"; Dzerzinskij aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per Ordzonikidze, che aveva addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin chiedeva una "punizione esemplare". Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del partito nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto, egli dirigeva, quale membro dell'ufficio politico a partire dal marzo 1919, il commissariato per gli affari delle nazionalità e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo di queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921, gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato esecutivo centrale e di fare altre cose ancora: sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le funzioni del segretario del CC. Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del CC del partito. In queste attività egli aveva come assistente il segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale (non esisteva prima di Stalin un segretario "generale" del partito), ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il lavoro della segreteria. Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si prese la decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di "segretario generale" al titolare del nuovo posto, per accrescerne il prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani "un potere illimitato", sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo. Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo Zinoviev o Kamenev, che nel Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento tenuto nel 1917, allorché si opposero alla sollevazione armata, divulgando presso un giornale non comunista la decisione segreta del partito. Tuttavia, nonostante questa defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del CC e dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo del Komintern. Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al CC, nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente su certi strati sociali popolari che unanimemente si riconosceva a Kamenev. Lenin non ha mai accettato di considerare il tradimento dei due come un "crimine personale". Peraltro nel Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva rimproverare loro tale comportamento "più di quanto si possa rimproverare a Trotski il suo non-bolscevismo" (Zinoviev e Kamenev furono fatti fucilare da Stalin nel 1936). Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai tratti negativi della personalità egocentrica di Trotski, quanto dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani) sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza dubbio una personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se -come dice Lenin nel Testamento- "la sua eccessiva sicurezza e infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli affari" rischiava di condurre "troppo lontano". Lenin sapeva bene che a Trotski mancavano alcune qualità politiche fondamentali, quali p.es. la duttilità con gli uomini, il gusto della tattica, la capacità di manovra ecc. (Trotski morirà assassinato in Messico nel 1940, da un sicario di Stalin, Ramon Mercader). Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i leaders a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno gravoso. Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del partito. Nel Testamento Lenin cita altri due leaders: Bucharin e Piatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti afferma che "non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto"; dall'altro però sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la "dialettica" e che le sue concezioni del marxismo sono un po' "scolastiche". In effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato "scolastica ed eclettica" l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in alcuni capitoli del suo libero L'economia del periodo di transizione (Bucharin morirà nelle purghe staliniane nel 1938). Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva "volontà e capacità notevoli", ma anche la stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di lui su una seria questione politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si può quindi pensare i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente, benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e Stalin (Piatakov sarà fucilato nel 1936). La sorte del testamento Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della "Lettera" non alla seduta dello stesso congresso, ma separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa ragione non vennero pubblicati. I rapporti sulla "Lettera" vennero fatti alle delegazioni da Kamenev, Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin, riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi, avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico). Kamenev comunque espose il contenuto della "Lettera" in modo da far credere che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli aveva concentrato su di sé un enorme potere. Dal canto suo, Stalin giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da Lenin. Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotski, il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in seno al partito e in più era di tendenza "menscevica". Ma questa versione dei fatti contrasta proprio con l'affermazione di Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato dal suo "non-bolscevismo": il che doveva escludere a priori la proposta di una sua candidatura a un posto così importante. Questo Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il dibattito venne indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin riguardanti la struttura organizzativa degli organi dirigenti del partito. Trotski s'era allora risolutamente opposto all'idea di ampliare il CC agli operai. Formalmente però, la proposta di Lenin venne accettata. Il XII congresso del partito (1923) fece passare il numero dei membri del CC da 27 a 40; il XIII congresso (1924) li portò a 53. Tuttavia, il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini alla direzione del partito non si realizzò. Nel 1927, il XV congresso adottò la risoluzione di pubblicare la "Lettera" di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il testo venne pubblicato solo in un "bollettino segreto". Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin parzialmente citò e commentò nel suo discorso la "Lettera" di Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla proposta della sua rimozione. Durante il periodo della dittatura staliniana il Testamento fu addirittura considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso all'estero per opera di alcuni simpatizzanti trotzchisti. Sarà solo nel 1956 che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento politico, che ora si trova anche nella Va edizione delle Opere complete di Lenin (in lingua russa).Nel 1957 e nel 1963 apparvero altre due importanti testimonianze a favore dell'autenticità del documento, di una delle segretarie di Lenin, L.A. Fotieva: Dai ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di Lenin. Bibliografia I due testi fondamentali sono: M. Lewin, L'ultima battaglia di Lenin, ed. Laterza 1969 E.H. Carr, La morte di Lenin. L'interregno 1923-24. ed. Einaudi 1965. L'ULTIMO LENIN Alla fine della sua vita, Lenin fece chiaramente intendere di avere serie preoccupazioni riguardo sia allo stalinismo emergente (inteso come atteggiamento autoritario che i vertici del partito andavano assumendo), sia alla progressiva burocratizzazione dello Stato. In particolare si rammaricava della scarsa attenzione che si prestava nei confronti della cooperazione agricola e, più in generale, nei confronti del rapporto con le masse contadine. Chiedeva inoltre di approfondire sul piano culturale la rivoluzione d'Ottobre, per farla uscire dagli angusti limiti della politica. Per quali ragioni queste sue preoccupazioni passarono inosservate e finirono ben presto coll'essere addirittura rimosse dalla coscienza politica del partito? Solo perché lo stalinismo finì coll'imporsi su ogni altra corrente ideologica? Probabilmente la ragione fondamentale dipese dal fatto che Lenin, nel corso della sua vita, aveva concesso al "centralismo" un primato ingiustificato rispetto alle esigenze della "democrazia". Spesso la democraticità delle sue azioni politiche dipendeva più da motivazioni di ordine soggettivo (il carattere benevolo e tollerante di Lenin), che non dall'obiettività dei fatti. Non a caso nell'ultimo periodo della sua vita i nodi rimasti a lungo tempo irrisolti vennero tutti al pettine: Lenin prese chiaramente coscienza che i fattori che maggiormente avrebbero dovuto garantire il valore democratico della rivoluzione, si erano rivelati non sufficientemente sviluppati. Privilegiando nettamente il rapporto coll'industrializzazione, col proletariato, con lo sviluppo urbano, coi rivoluzionari di professione, con gli apparati e le istituzioni statali e partitiche, il leninismo aveva finito inevitabilmente col trascurare altri aspetti non meno significativi, più sociali e meno politici, più culturali e meno ideologici. Probabilmente se il leninismo non avesse trascurato la cooperazione, la questione contadina, la rivoluzione culturale - il socialismo non si sarebbe trasformato in maniera "amministrata", né sarebbe sorto lo stalinismo... Sono drammatici gli ultimi scritti di Lenin, anche perché sembrano preannunciare la catastrofe in cui il socialismo autoritario sarebbe precipitato... Naturalmente si ha tale impressione leggendoli col senno del poi. In realtà Lenin, dominato com'era dal suo forte senso dell'ottimismo storico, non avrebbe certo potuto immaginare un crollo così rovinoso. Egli in sostanza era convinto che il fatto di non aver tenuto in debito conto la cooperazione, l'appoggio delle masse contadine, lo sviluppo culturale della rivoluzione e la democrazia in seno al partito, non avrebbe comportato (ai fini della riuscita della rivoluzione) un blocco definitivo del processo verso l'edificazione del socialismo democratico. Quando Lenin parla di conseguenze "nocive", "dannose" e anche "nefaste" per il socialismo, non pensa mai che siano "irrimediabili". Invece la storia l'ha smentito. L'indebolimento della democrazia è diventato così tanto progressivo da rendere del tutto impossibile la realizzazione del socialismo. Lenin in sostanza si era illuso che la pratica costante del "centralismo" non avrebbe potuto impedire, al momento cruciale, la realizzazione della "democrazia popolare". Egli non riusciva ad accettare l'idea che la democrazia potesse essere costruita solo con le armi della democrazia e che, in tale processo, il centralismo poteva al massimo essere considerato come un mezzo ausiliario, temporaneo, finalizzato a compiti specifici. Lenin temeva che, in assenza di democrazia popolare, l'unico modo di promuoverla fosse quello di assicurare il centralismo dei soggetti più consapevolmente orientati verso la rivoluzione. * * * Nella Paginette di Diario Lenin parla "dell'atteggiamento della città nei confronti della campagna" come di una "questione politica fondamentale". Egli cioè si rendeva conto che in un Paese sostanzialmente agricolo il socialismo, senza l'appoggio dei contadini, avrebbe avuto vita breve. Tuttavia, il suo atteggiamento restava paternalistico, se non addirittura viziato da un pregiudizio di fondo: quello di credere che i contadini non avessero nulla da "dare", culturalmente parlando, alla coscienza operaia. Solo la città poteva dare qualcosa alla campagna (in termini di istruzione, coscienza politica, ecc.). Nelle campagne -egli afferma- non si può parlare esplicitamente di comunismo, in quanto i contadini non sono in grado di capirlo. E' cioè prematuro introdurre il comunismo nelle campagne se prima non si è formata una "base materiale". Lenin, in altre parole, non riusciva a intravedere nella comune agricola la possibilità di una trasformazione collettiva dell'organizzazione della vita rurale (da feudale a socialista). Anzi egli pensava che la comune fosse un ostacolo insormontabile alla realizzazione del socialismo nelle campagne. Questo perché la sua idea di socialismo era strettamente legata allo sviluppo dell'industria, della città e dello Stato. "Socializzazione della terra" per Lenin significava anzitutto progressiva abolizione non solo della proprietà privata feudale, ma anche di qualunque forma di proprietà, inclusa quella che permetteva la sussistenza di singole famiglie contadine, inclusa persino quella collettiva della comune. Lenin in sostanza intendeva per "socializzazione della terra" nient'altro che la sua "statalizzazione": la gestione della terra doveva dipendere da istanze amministrative e statali centralizzate. Questo suo errore avrà conseguenze di portata incalcolabile. Bisogna tuttavia riconoscergli ch'egli chiedeva di realizzare tale progetto senza forzature amministrative, cioè in maniera "spontanea", secondo tempi e modi rispettosi dell'arretratezza culturale e politica delle masse rurali. Scrupoli, questi, che lo stalinismo non avrà, non tanto perché Stalin, come persona, era meno tollerante di Lenin, quanto perché, oggettivamente, una volta impostato in tali termini il rapporto con le campagne, la conseguenza inevitabile, ad un certo punto, non può essere che quella stalinista. Non a caso sulle modalità di sfruttamento delle campagne non esistevano grandi dissidi fra Stalin, Trotski, Bucharin e gli altri leaders del partito. * * * Lo stesso atteggiamento paternalistico Lenin lo rivela nei confronti della cooperazione, ch'egli considerava non come un obiettivo finale del socialismo, ma come un pilastro fondamentale dello Stato. Lenin era convinto che la cooperazione avrebbe potuto funzionare democraticamente proprio perché lo Stato deteneva la proprietà di tutti i mezzi produttivi. In altre parole, la possibilità che la cooperazione finisse col diventare un'occasione di pratica capitalistica, poteva essere scongiurata -secondo Lenin- solo dalla statalizzazione di tutta la proprietà dei principali mezzi produttivi. In realtà bisognava fare esattamente il contrario: una volta espropriati i grandi feudatari e i grandi capitalisti, la proprietà dei mezzi produttivi andava progressivamente distribuita ai cittadini, associati in cooperative (di produzione, di consumo, agricole ecc.), le quali si sarebbero assunte l'intera responsabilità della gestione di ogni risorsa. Lo Stato avrebbe dovuto essere progressivamente smantellato, al fine di sviluppare la società civile. I rischi di un ritorno al capitalismo sarebbero stati direttamente affrontati dagli stessi contadini e artigiani, dagli stessi cittadini e lavoratori, e non dallo Stato o dal partito. * * * Anche la questione dell'arretratezza culturale della Russia è mal posta da Lenin, che pur dimostrava di avere più ragioni di N. Sukhanov, fortemente scettico sulla possibilità di realizzare il socialismo in un Paese culturalmente arretrato. La risposta di Lenin era scontata: "se per creare il socialismo occorre la civiltà, non si vede la ragione per cui, con una rivoluzione politica, non si debbano creare le premesse di questa civiltà". Lenin insomma era consapevole di aver realizzato una rivoluzione politica senza una parallela rivoluzione culturale fra le masse; ed era altresì convinto che quest'ultima fosse uno dei compiti prioritari che il socialismo statale si doveva prefiggere - tuttavia, era proprio su questo aspetto che la sua proposta era limitata. Egli infatti pensava, col termine di "rivoluzione culturale", a una progressiva alfabetizzazione delle masse contadine, che costituivano il 90% della popolazione, sulla base dei princìpi del marxismo (e ovviamente del "leninismo"). Cioè per "rivoluzione culturale" egli non intendeva la valorizzazione degli elementi di democrazia e di socialismo già presenti nella cultura pre-marxista, mettendo così i contadini in una situazione paritetica nei confronti degli operai. La sua "rivoluzione culturale" era una sorta di progressivo indottrinamento degli strati sociali più arretrati del Paese. Lenin in sostanza non riuscì mai a scorgere nella vita e nelle tradizioni dei contadini, e neppure nella religione ortodossa, degli elementi culturali autentici. Il grande sforzo politico e intellettuale di Lenin fu quello di adattare il marxismo occidentale alle esigenze di liberazione del suo Paese. Nel fare questo egli cercò di rendere il marxismo il più creativo e innovativo possibile, facendolo uscire dalle secche deterministiche, evoluzionistiche ed economicistiche in cui s'era cacciato in Europa occidentale, dopo la fase spontaneistica degli inizi. Lenin seppe dare al marxismo una forte organizzazione partitica, valorizzando al massimo il momento politico della necessità rivoluzionaria, ma il socialismo veramente democratico resta ancora da costruire. LENINISMO E NEOLENINISMO Il difetto maggiore di Lenin è stato quello di aver concesso alla politica un primato ingiustificato rispetto a quello che deve avere l'essere umano. Lenin superò il primato che Marx concesse all'economia, ma non riuscì a porre l'essere umano al di sopra della politica, anche se di questo problema egli era consapevole (e in maniera drammatica nell'ultimo periodo della sua vita). Se l'avesse fatto in maniera organica, coerente, non avrebbe avuto paura di evidenziare i pregiudizi di Marx nei confronti della classe contadina o le sue ingenuità nei confronti della prassi rivoluzionaria (che considerava come esito inevitabile dello scoppio delle contraddizioni economiche). L'essere umano non può essere sottomesso ad alcuna legge né ad alcuna scienza. E quando si parla di "essere umano" bisogna intendere l'uomo in generale e non soltanto l'appartenente a una classe particolare. I conflitti di classe che si sperimentano nella vita borghese non possono essere affrontati solo in maniera politica. * * * Il più grande torto che si possa fare al leninismo, che fu essenzialmente un'esperienza politico-rivoluzionaria, è quello di servirsi delle sue acquisizioni teorico-politiche per interpretare schematicamente il presente: il che porterebbe a una scelta non meno riduttiva della strategia d'azione. Come non rendersi conto che il leninismo fu un'applicazione assolutamente creativa e originale del tradizionale marxismo? Il leninismo non era implicito nel marxismo, o comunque, se lo era, occorreva una cultura non occidentale per farlo emergere in maniera così esaltante. E come non rendersi conto che se veramente si desidera una società democratica e socialista bisogna applicare le acquisizioni del leninismo in una maniera non meno creativa? Cioè in una maniera che difficilmente potrà nascere nell'ambito della cultura occidentale e che molto probabilmente nascerà da quella stessa cultura euro-orientale che ha generato il leninismo. Al marxismo occidentale, infatti, manca la fondamentale determinazione della prassi rivoluzionaria. Il marxismo occidentale oscilla continuamente fra la teoria astratta di Scilla e l'estremismo settario di Cariddi. Tutto l'opportunismo della socialdemocrazia riformista appartiene al primo gruppo. Il resto appartiene sostanzialmente ai terroristi oppure a formazioni numericamente esigue. Ciò che i gruppi, che si rifanno al marx-leninismo, non riescono assolutamente a capire, è che l'originalità di un "neoleninismo" non può scaturire che da un costante rapporto con la realtà concreta: un rapporto "pratico", di affronto sistematico del bisogno e di denuncia delle ingiustizie sociali. Cercare di applicare alla realtà propri schemi precostituiti è quanto di più assurdo si possa compiere in nome del leninismo. Fare la fatica di misurarsi con le contraddizioni del presente e proporre nuovi criteri risolutivi - questo è il compito del moderno leninismo. A tutt'oggi solo la perestrojka di Gorbaciov è riuscita nell'impresa, ma perché ciò venga considerato fattibile per tutta la società, occorre che diventi patrimonio comune della mentalità collettiva. Per realizzarsi, la perestrojka ha bisogno della maturità collettiva di una forte democrazia, che è la cosa più difficile di questo mondo. LENINISMO E PERESTROJKA Per la perestrojka eurorientale sono soprattutto le ultime opere di Lenin che bisogna rileggere, al fine di capire il senso del socialismo democratico. All'occidente progressista invece dovrebbero interessare di più le opere del giovane Lenin, quello dell'Iskra, l'organizzatore di un nuovo partito rivoluzionario, il Lenin di Che fare?. Ciò anche in considerazione del fatto che in occidente è impossibile realizzare la perestrojka senza rivoluzione politica. Da noi non ha alcun senso parlare di autogestione sociale o di autofinanziamento, poiché tutto il mondo produttivo trainante è nelle mani di pochi imprenditori. Sono loro (e i loro managers) che si autogestiscono e finanziano le loro imprese coi soldi dei lavoratori. La perestrojka non può portare l'occidente al socialismo, in modo pacifico, progressivo, senza che avvenga una rivoluzione politica. E' impossibile che gli imprenditori rinuncino spontaneamente ai loro monopoli. Anzi, la perestrojka, indirettamente, promuove la conservazione dello status quo in occidente, in quanto, dal punto di vista economico-commerciale, essa tende a favorire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa anche al capitalismo. Al massimo la perestrojka potrà servire a dimostrare che le crisi del capitalismo dipendono dal capitalismo stesso (e non p.es. dalla "guerra fredda"), oppure che il socialismo, volendo, può anche diventare una società democratica. Più di questo la perestrojka non può fare per l'occidente. Se essa ha rinunciato a riaffermare il valore della lotta di classe, l'ha fatto nella convinzione che tale prassi non può essere teorizzata secondo i crismi della ineluttabilità, della indispensabilità. Alla lotta di classe il socialismo si piega per necessità, dopo aver maturato la certezza che tutti gli altri mezzi per sanare le contraddizioni si sono rivelati inefficaci. Anzi la perestrojka sta facendo di tutto perché i conflitti ideologici non impediscano la collaborazione sul terreno socioeconomico (in politica interna, fra le diverse categorie sociali, ed estera, fra i diversi Stati). Questo modo "umanistico" di fare politica non è in contraddizione con quello leninista: gli è però necessario come complemento, poiché una politica leninista che non tenga conto della perestrojka si trasforma facilmente, almeno in occidente, in una politica estremista, settaria, neo-stalinista. La perestrojka potrà anche aiutare il capitalismo a superare temporaneamente certe sue difficoltà economiche, ma la contraddizione tra capitale e lavoro tenderà inevitabilmente a riprodursi, specie se il Terzo mondo si opporrà con efficacia al rapporto neocoloniale. Ecco, in questo senso la perestrojka vuol togliere al capitalismo l'occasione di affermare che il socialismo è causa ultima delle crisi del capitalismo stesso. * * * Lenin, per poter superare Marx, dovette assimilare il netto disincanto nei confronti del capitalismo. Ancor prima di Che fare? (che segna l'inizio di tale superamento), Lenin aveva capito che il capitalismo era la formazione sociale più forte, cioè ch'esso si sarebbe inevitabilmente imposto sulla società agricola in via di dissoluzione, contro le teorie dei populisti. E aveva capito che il capitalismo non era assolutamente riformabile in senso democratico, essendo una formazione sociale fortemente divisa in classi (contro l'opinione dei marxisti legali, degli economisti ecc.). Lenin non riconobbe mai alla borghesia alcuna funzione positiva, neppure quella d'aver accelerato la fine del servaggio, poiché in Russia l'introduzione del capitalismo comportò un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Quando Lenin pensò a cercare la strada per superare Marx, non la trovò tanto sul campo della teoria economica del capitalismo (sebbene il testo dell'Imperialismo sia un necessario complemento del Capitale), quanto piuttosto su quello del metodo politico per rovesciare il regime capitalistico. Lenin comprese una cosa d'importanza fondamentale (che Marx aveva trascurato): il primato della politica sull'economia, ovvero l'esigenza di darsi una forte organizzazione partitica, in grado di mobilitare un vasto movimento popolare, col quale abbattere il potere costituito. Fu così che Lenin riuscì a conseguire sul terreno pratico ciò che Marx aveva acquisito solo sul terreno teorico. Tuttavia, il leninismo venne ben presto tradito dallo stalinismo, come il marxismo era già stato tradito dai revisionisti della IIa Internazionale. In tal senso la perestrojka va interpretata come un tentativo di recuperare il leninismo all'interno di una nuova consapevolezza politica (che è anche sociale e culturale): quella del primato dell'uomo sulla politica. Perché la perestrojka tarda così tanto a realizzarsi? Perché, per poterla capire adeguatamente, occorre assimilare tutto Lenin, non solo a livello intellettuale (come un manuale da studiare), ma anche e soprattutto a livello operativo, mediante un impegno politico personale (cosa che sotto lo stalinismo e la stagnazione era impossibile); perché la scoperta del primato dell'uomo implica uno sforzo maggiore di comprensione, di adeguamento personale delle proprie convinzioni e della propria vita alla nuova scoperta: uno sforzo assai superiore a quello che fece Marx di scoprire la vera natura del capitalismo, o a quello che fece Lenin di scoprire il valore della politica rivoluzionaria. Finché gli uomini, dal basso, a partire dalla vita quotidiana, non vivono l'esperienza dell'umanesimo integrale, la perestrojka, dall'alto, non potrà mai realizzarsi. Lenin aveva perfettamente ragione quando diceva che la politica è la sintesi dell'economia. Senza la politica rivoluzionaria, le cose non si trasformano a vantaggio delle masse se il sistema in cui vivono è dominato dall'antagonismo. La vera politica -diceva Lenin- è quella fatta dalle masse guidate da un partito: se la politica si limita alla mera competenza di pochi professionisti, fatalmente essa si trasforma in uno strumento per la dittatura di qualche ceto o classe. Marx, in un primo tempo, rifiutò la politica perché non aveva saputo scorgere un'alternativa reale al modello para-feudale del sistema prussiano; poi capì che tale alternativa andava cercata nelle masse, soprattutto nel proletariato. Sarà però Lenin a intuire che tale politica spontanea delle masse va guidata da un partito di intellettuali consapevoli, disciplinati e organizzati. Le masse devono quindi riappropriarsi della politica, e gli intellettuali devono mettere al servizio delle masse la loro competenza. Se manca questa responsabilità, si tenderà sempre a scaricare sul governo o sul sistema le cause di tutti i mali sociali, si arriverà a pretendere cose impossibili, si assumeranno atteggiamenti irrazionali... Ma così la politica inevitabilmente si trasforma in un gioco competitivo (spesso dagli esiti drammatici) tra opposte fazioni che ambiscono solo a spartirsi il potere. Il leninismo e l'odierna perestrojka hanno questo di utile da insegnarci: che senza una politica consapevole delle masse, non avviene alcuna significativa trasformazione della società; che nessun'altra "scienza" è in grado di compiere tale trasformazione; che la trasformazione è veramente significativa solo se la politica si unisce alle esigenze più democratiche delle masse, espresse a tutti i livelli; che nessuna democratizzazione della vita sociale è possibile, in profondità, se le masse non vi si sentono attivamente coinvolte; che l'importanza della politica non si esaurisce con la trasformazione rivoluzionaria del sistema, poiché questa non può avvenire una volta per tutte; che il vero scopo della politica è quello di umanizzare la società, poiché solo così l'esigenza di ricorrere a una politica rivoluzionaria perderà il suo senso. * * * Una qualunque rivoluzione politica, senza una parallela rivoluzione sociale e culturale, porta inevitabilmente a realizzare gli ideali opposti a quelli originari. Questo perché mentre all'inizio della lotta politica occorre essere democratici per ottenere un certo consenso, in seguito, conseguito l'obiettivo politico-rivoluzionario, l'ideale rischia sempre d'essere tradito se si vuole conservare il potere a tutti i costi. Tale processo avviene anche involontariamente, inconsapevolmente (almeno fino a un certo punto), in quanto il tradimento è proprio una conseguenza della mancata rivoluzione sociale. Lenin si accorse di questo pericolo alla fine della sua vita e cercò con tutti i mezzi di porvi rimedio, ma il partito, dopo la sua morte, preferì accentuare l'autoritarismo della politica. Ogni decisione di non voler riporre nel popolo piena fiducia, rischiando anche che lo stesso popolo si serva di questa fiducia in maniera irrazionale, porta inevitabilmente all'affermarsi di quelle correnti autoritarie che non credono nelle capacità democratiche delle masse e che sanno però sfruttare molto abilmente le debolezze di chi vuole la democrazia ma non è capace di volerla sino in fondo. Le migliori idee non sono quelle più democratiche di altre, ma quelle che intendono il concetto di democrazia in maniera pratica, In tal senso, a un filosofo progressista ma isolato, è sempre preferibile un filosofo che rinuncia, in parte, a esprimere tutte le sue concezioni progressiste, al fine di poter avvicinare meglio le masse ad alcune sue concezioni progressiste, pensando di elevarle, con pazienza, al suo livello di consapevolezza. Un filosofo che non conosce la pedagogia o la psicologia sociale (ovvero che in politica non conosce la tattica), è un cattivo filosofo, poiché il valore delle sue teorie non riscatterà il disvalore della sua pratica. La pratica -si è sempre detto- è in ultima istanza il criterio della verità: in realtà lo è anche in prima istanza, nel senso che lo scontro fra verità opposte si decide sempre sul terreno della prassi. Dire "in ultima istanza" significa presumere che dal momento in cui inizia lo scontro al momento in cui si conclude, sia passato un certo tempo. Dire invece "in prima istanza" significa che già in questo tempo ci si deve misurare sul terreno della prassi. Se proprio si vuole continuare ad usare la definizione engelsiana di "in ultima istanza", la s'intenda solo in questo senso, che, dovendo scegliere fra una verità teorica e una pratica, è preferibile scegliere, "in ultima istanza", quella pratica. Cioè è sempre meglio garantire una verità operativa, anche se non piena, piuttosto che una piena verità senza i mezzi per sostenerne gli effetti. La rivoluzione politica, senza rivoluzione sociale, non fa che rinviare nel tempo la liberazione dell'uomo. E siccome ad ogni rivoluzione politica le masse s'illudono ch'essa sia l'ultima, spesso accade che proprio a causa del fallimento degli ideali rivoluzionari, le condizioni sociali delle masse invece di migliorare peggiorino. In Europa, a partire dalla civiltà greca, ma anche prima, da quella etrusca o da quella fenicia, è sempre accaduto che ogni volta che le classi meno abbienti di un determinato territorio (città, regione, ecc.), hanno rivendicato e ottenuto taluni diritti, soltanto dei diritti, senza cioè mettere in discussione, alla radice, il problema dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, è sempre accaduto che le classi più agiate hanno cercato di recuperare i privilegi perduti, cominciando a sfruttare quelle stesse classi lavoratrici con mezzi e metodi più sofisticati, oppure sfruttando altre popolazioni di altri territori. Questa legge della storia delle società antagonistiche la si può vedere applicata non solo nell'Europa occidentale ma anche in quella orientale del socialismo amministrato, ove l'antagonismo aveva assunto la forma di una lotta tra Stato e società civile, tra partito e cittadini. Il fatto che il socialismo scientifico non abbia saputo fare in occidente neppure la rivoluzione politica ha comportato, come conseguenza, che il capitalismo acquisisse, desumendoli proprio dal marxismo, quegli accorgimenti tecnici e organizzativi che gli hanno permesso di riprodursi come tale. E così, il capitalismo monopolistico è stato il tentativo di risolvere, con mezzi para-socialisti, una crisi interna al capitalismo concorrenziale, e quello monopolistico di Stato ha svolto lo stesso ruolo nei confronti del precedente capitalismo. In entrambi i casi il capitalismo ha saputo adattare delle idee socialiste ai propri interessi, rafforzandosi ulteriormente. Con questo naturalmente non si vuole sostenere che le rivoluzioni politiche non devono essere fatte, né che non devono essere fatte senza rivoluzione sociale: semplicemente che, facendole, bisogna portarle alle loro conseguenze più logiche sul piano sociale, altrimenti esse si trasformeranno, inevitabilmente, in una situazione di privilegio per pochi e di condanna per molti. Ciò inoltre comporta che oggi, per abbattere il capitalismo o il socialismo di stato, gli sforzi della democrazia dovranno essere molto più grandi di quelli che si dovevano sostenere nel passato. Anche perché le reazioni del capitale o della burocrazia saranno sicuramente più forti. Le contraddizioni irrisolte tendono col tempo ad acutizzarsi, ad approfondirsi e anche a estendersi. La loro soluzione richiede praticamente l'impegno di tutti i singoli cittadini. La rivendicazione del "benessere" (socioeconomico) dovrebbe essere fatta sulla base della convinzione che un benessere "assoluto", "totale", garantito al 100%, è profondamente nocivo: non solo perché esso viene "pagato", di regola, dalle innumerevoli sofferenze della maggioranza di una determinata popolazione, ma anche perché esso porta con sé, inevitabilmente, la decadenza dei costumi, la corruzione morale, il degrado ambientale, il disfacimento della civiltà. Più che di "benessere", gli uomini dovrebbero occuparsi di "giustizia", di "uguaglianza" (nella diversità e nella libertà), di "equità sociale". Non dovrebbe però trattarsi di una "giustizia verso il privilegio" (cioè verso l'alto), bensì di una "giustizia verso l'uguaglianza" (cioè verso il basso). Bisogna rifiutare l'idea di dover rivendicare gli stessi privilegi di chi sta al potere (politico ed economico): questa forma di "giustizia" comporta sempre un'ingiustizia nei confronti di chi non è in grado di fare le stesse rivendicazioni. E non si dica che anche costui trarrebbe un vantaggio personale dalle richieste di "giustizia verso l'alto" fatte dai gruppi sociali di medio benessere. I fatti hanno sempre dimostrato che nella realtà del privilegio allargato, gli egoismi corporativi, se soddisfatti, difendono ancor più tenacemente i loro interessi, proprio perché sanno quanto fatica costi farli valere nell'ambito della competizione antagonistica. Viceversa, la democrazia verso il basso significa obbligare chi dispone di potere politico e/o economico, ad accontentarsi del minimo indispensabile. Il problema che a questo punto si pone è però il seguente: chi può obbligare a questa sobrietà senza rischiare di trasformarsi, egli stesso, in un dittatore? La risposta a tale domanda contiene anche la spiegazione del motivo per cui sono crollati i regimi est-europei. Una democrazia verso il basso non può essere imposta con la forza dello Stato o di un partito, altrimenti si trasforma in una dittatura. Qui è il popolo che deve agire in maniera sovrana. E nessun popolo, ovviamente, può essere disposto ad accettare un tenore di vita essenziale, sobrio, moderato, senza avere in cambio la piena libertà di pensare e di agire, nel rispetto dell'altrui pensiero e azione. Ci si può sacrificare sul piano materiale in nome di un ideale, non ci si può sacrificare quando i primi a tradire l'ideale sono proprio coloro che dovrebbero meglio rispettarlo. Il politico dovrebbe unicamente avere come scopo della sua vita quello di realizzare, con l'aiuto delle masse, determinate idee di giustizia e di equità sociale. Soldi e potere dovrebbero essere finalizzati a questo obiettivo, e per essere sicuri che il loro uso sia equo, bisognerebbe ridurli al minimo. Ciò significa che un politico, dotato di pieni poteri, non dovrebbe governare che su un territorio molto ristretto. Quanto più il territorio s'allarga, tanto più "simbolico" (non reale) dovrebbe essere il potere del politico. Il politico "nazionale" o addirittura "sovranazionale" dovrebbe avere un potere esclusivamente morale, che è quello basato sul suo esempio personale. L'unico vantaggio che un politico merita di godere è, in pratica, il consenso delle masse. Un politico nazionale potrebbe dirsi "nazionale" solo nella misura in cui vaste masse popolari (attraverso i mass-media, che però dovrebbero gestire direttamente) si riconoscono nella sua personale posizione (etica e politica). Chi non ha un grande ideale non può diventare un grande politico. Nessun politico legato al potere o al denaro ha mai avuto idee veramente originali sul piano della democrazia e del socialismo. La cosa che desta maggiore interesse nella storia dell'Europa occidentale è che i protagonisti principali nella formazione della realtà dell'imperialismo (romano, feudale, borghese), sono stati non i partiti conservatori o aristocratici, bensì quelli democratici, che pretendevano d'essere progressisti. Il fatto è semplice da spiegare. Lottando contro i ceti privilegiati, le masse democratiche non hanno mai saputo condurre la loro battaglia sino alle conseguenze più radicali sul piano sociale, ma si sono fermate sulla soglia della rivendicazione gius-politica. Una volta giunto al potere, il partito che le rappresentava ha avvertito subito l'esigenza -restando inalterato il conflitto fondamentale delle classi- di risolvere tale conflitto allargando i confini geografici dello sfruttamento (colonialismo), mentre, in politica interna, il partito (democratico) avvertiva l'esigenza di affermare una durissima dittatura, in virtù della quale s'impedissero nuove sommosse. Ciò sta a significare che il fallimento dell'idea di democrazia (o di socialismo), va imputata anche alla scarsa determinazione delle masse, che spesso preferiscono accontentarsi di ottenere qualche diritto, senza preoccuparsi di risolvere alla radice il problema della disuguaglianza, dell'alienazione sociale, dello sfruttamento economico ecc. Ogniqualvolta le masse di un Paese avanzato rivendicano maggiori diritti, senza riuscire a realizzare un'effettiva uguaglianza sociale, si ha, presto o tardi, come minimo, un peggioramento (dovuto al colonialismo) delle condizioni di vita di qualche Paese più arretrato. Nell'Europa occidentale la politica è sempre stata concepita in modo separato dall'etica. Tale separazione probabilmente è dipesa dal fatto che, vivendo in una società divisa in classi, l'uomo occidentale non può servirsi della politica per realizzare determinati ideali. Non è che "non voglia", è che proprio "non può": è il sistema stesso che glielo impedisce. Un politico che persegue un fine ideale è, per il popolo, un uomo da mettere alla prova, mentre per il potere conservatore è un cattivo politico, un ingenuo destinato ad essere sconfitto dal politico opportunista, cioè dal politico che divide la politica dalla morale e che lotta esclusivamente per il potere, per la salvaguardia di quel sistema che si preoccuperà di definire la strategia di tale politico con termini come "realistica", "concreta", "fondata" ecc. Gli "ideali" che può perseguire il politico occidentale sono quanto di più astratto e generico si possa pensare, e il popolo che s'illude di vederlo agire con coerenza nella prassi, non s'accorge che con questo attendismo favorisce la progressiva corruzione del politico, che sa di poter agire senza essere veramente controllato. La politica, in questo senso, smetterà di essere divisa dalla morale quando il politico smetterà di essere diviso dalle masse. Questo discorso vale per tutti i politici di professione, siano essi di opposizione o di governo. Le astrattezze e le incoerenze si riscontrano infatti in tutti i partiti, parlamentari e non: spesso anzi quelli che agiscono fuori delle istituzioni, invece di essere più vicini alle masse, sono ancora più settari e vittime delle loro ideologie. Non che i discorsi dei parlamentari siano più comprensibili o più efficaci dei discorsi estremisti, ma essi per lo meno garantiscono ai ceti più benestanti una relativa partecipazione al potere, mentre certi partiti o movimenti extraparlamentari non riescono a garantire neppure un minimo di coinvolgimento alla lotta per il potere. Oggi è l'istituzione stessa del partito, a prescindere dal ruolo che ricopre, ad essere alienata e alienante, proprio perché privo di un movimento di base cui fare riferimento. Ma molti partiti (o movimenti) extraparlamentari, facendo un discorso meramente ideologico, non costituiscono alcuna alternativa (si vedano soprattutto quelli trotschisti, maoisti, bordighiani ecc.). In Occidente ciò che più conta non sono le idee ma il profitto economico: è questo che, in ultima istanza, determina ogni scelta politica. Se una forza politica rifiutasse questo principio, dovrebbe anche rifiutare di fare una politica meramente parlamentare, poiché il parlamento è un'istituzione borghese che permette un elevato tenore di vita; mentre se rifiutasse il profitto svolgendo una politica settaria, resterebbe un'esperienza isolata, per pochi "eletti". C'è dunque solo un modo per cercare di anteporre al profitto il valore della persona, cioè l'interesse dei cittadini a vivere nella giustizia: quello di fare la politica in stretto contatto con le masse, misurandosi di continuo con le loro necessità, con i bisogni locali, prima di tutto. Se manca questo rapporto, qualunque partito, anche il più idealistico, è inesorabilmente destinato a corrompersi, anche dal punto di vista finanziario. In tal senso, quanto più i partiti parlano di "questione morale", senza però voler mettere in discussione i meccanismi che portano la politica a separarsi dalla morale e il politico dai cittadini, tanto più si deve pensare ch'essi vivano nella corruzione e che facciano di tale "questione" un'arma meramente propagandistica. Il dilemma quindi non è quello se stare dalla parte di Guicciardini o di Machiavelli, ma quello di come superare il falso principio secondo cui per fare una buona politica non bisogna tener conto della morale. Si può affermare un valore in politica e un disvalore in morale e viceversa? Normalmente lo si fa, da parte sia delle forze regressive che di quelle progressive. Le prime nascondono la loro politica corrotta temendo d'essere giudicate negativamente, ed ostentando una coerenza morale che in realtà non hanno, oppure affermando che la corruzione è di carattere generale, del "sistema" che va riformato ecc. Le seconde invece subordinano la morale alla politica, nella convinzione che così sia possibile realizzare meglio anche la morale. Come mai le forze conservatrici vincono sempre in questo duello? Come mai le forse democratiche rischiano di trasformarsi nel loro contrario? Il fatto è che le forze progressiste difficilmente riescono ad accettare l'idea che un valore affermato in sede politica possa trasformarsi in un disvalore in sede morale. La convinzione d'essere nel giusto in sede politica le porta a credere, in modo quasi automatico, d'esserlo anche in sede morale. Questo modo di vedere è tipicamente "ideologico", ed è proprio anche di quei partiti che non professano esplicitamente alcuna ideologia. Quando l'establishment s'accorge che l'opposizione "progressista" assume posizioni "anti-morali" (ad es. è favorevole alla violenza di classe, oppure copre un militante, colpevole di qualche reato, solo per non ledere gli interessi del partito), diventa relativamente facile, al governo in carica, dimostrare che anche la posizione politica di quel partito all'opposizione è antidemocratica. Le forze progressiste devono dunque arrivare ad adottare il seguente ragionamento, per essere vincenti: politica e morale si condizionano a vicenda; ciò che è vero (o legittimo) per l'una lo è anche per l'altra; le ragioni dell'una sono in relazione a quelle dell'altra. Un qualunque dualismo porta a danneggiare gli interessi sia della morale che della politica, poiché trasforma l'uomo in uno strumento da utilizzare per l'acquisizione (o la conservazione) di un potere. Paradossalmente oggi siamo arrivati alla conclusione che non è il perseguimento di un fine politicamente giusto, che può di per sé garantire la legittimità di quel fine. Occorre la conformità del fine politico ai valori umani universali, ed una conformità non solo teorica ma anche pratica. E' sempre preferibile una "piccola" pratica a una "grande" teoria. Non c'è insomma alcuna tesi politica giusta che non possa essere condivisa moralmente, e nessuna posizione morale che non possa trovare una giustificazione politica. Senza questa unità di morale e politica, nessuna vera rivoluzione sarà veramente efficace, cioè destinata a durare nel tempo. Gli illusi giudicano politicamente pessimista colui che non crede che il carisma democratico di singoli uomini politici possa trasformare qualitativamente il sistema parlamentare borghese, mentre il vero pessimista, in realtà, è colui che non crede nelle capacità organizzative delle masse, nella volontà politica della gente comune. Il vero pessimista è colui che non vuole impegnarsi in una politica che non sia quella tradizionale, cioè quella dei partiti di sempre, o quella delle obsolete istituzioni politiche. Questo individuo maschera il proprio pessimismo nei confronti delle masse con l'illusione nei confronti di qualche partito che si proclama anti-sistema (ad es. le Leghe). Nel senso cioè che questo individuo s'illude che un partito, solo perché sta all'opposizione, possa essere migliore di un partito di governo, o possa comunque, una volta giunto al potere, governare meglio. L'illusione sta appunto nel fatto che non si comprende la natura borghese di questo sistema, che tutto fagocita, strumentalizza e impoverisce. Questa democrazia è fatta su misura per gli ingenui. TESTI DI LENIN: 1 I DOGMATISMO E « LIBERTÀ DI CRITICA » a) Che cosa significa « libertà di critica » « Libertà di critica » : questa, incontestabilmente, è la parola d'ordine più di moda in questo periodo, quella che più frequentemente ricorre nelle discussioni fra socialisti e democratici di tutti i paesi. A prima vista, non ci si può rappresentare niente di più strano di questi solenni richiami di una delle parti in contesa alla libertà di critica. Possibile che dalle file dei partiti avanzati si siano levate delle voci contro quella legge costituzionale che, nella maggior parte dei paesi europei, garantisce la libertà della scienza e dell'investigazione scientifica? « Qui gatta ci cova! », si dirà chi, essendo estraneo alla discussione e sentendo ripetere ad ogni piè sospinto questa parola d'ordine di moda, non abbia ancora penetrato l'essenza del dissenso. « Questa parola d'ordine è evidentemente una di quelle parole convenzionali che, al pari dei nomignoli, sono legittimate dall'uso e diventano quasi dei nomi comuni ». In realtà non è un mistero per nessuno che nella moderna socialdemocrazia internazionale * si sono formate due tendenze e che la lotta fra di esse ora si riaccende e arde di fiamma vivissima, ora si calma e cova sotto la cenere di imponenti « risoluzioni di tregua». In che cosa consista la « nuova » tendenza che « critica » il marxismo « vecchio, dogmatico », Bernstein lo ha detto, e Millerand lo ha dimostrato con sufficiente precisione. *A proposito. Nella storia del socialismo moderno è forse un fenomeno unico e, nel suo genere, molto consolante, che l'urto delle diverse tendenze in seno al socialismo si sia per la prima volta trasformato da nazionale in internazionale. Nei tempi passati le dispute tra i lassalliani e gli eisenachiani59, tra i guesdisti e i possibilisti60, tra i fabiani61 e i socialdemocratici, tra i seguaci della a Libertà del popolo » e i socialdemocratici rimanevano dispute puramente nazionali, riflettevano particolarità puramente nazionali, si svolgevano, per così dire, su piani diversi. Ai nostri giorni (questo è già evidente) i fabiani inglesi, i ministeriali francesi, i bernsteiniani tedeschi, i critici russi sono tutti una sola famiglia, si lodano reciprocamente, imparano gli uni dagli altri e si armano insieme contro il marxismo « dogmatico ». In questa prima battaglia, veramente internazionale, contro l'opportunismo socialista riuscirà la socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale a rafforzarsi al punto da mettere fine alla reazione politica che scià da molto tempo impera in Europa? La socialdemocrazia deve trasformarsi da partito di rivoluzione sociale in partito democratico di riforme sociali. Bernstein ha appoggiato questa rivendicazione politica con tutta una batteria di « nuovi » argomenti e 2 considerazioni abbastanza ben concatenati. Si nega la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di provare che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso é necessario e inevitabile; si nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione, dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiara inconsistente il concetto stesso di « scopo finale » e si respinge categoricamente l'idea della dittatura del proletariato; si nega l'opposizione di principio tra liberalismo e socialismo; si nega la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc. L'invocata svolta decisiva dalla socialdemocrazia rivoluzionaria al socialriformismo borghese é quindi accompagnata da una svolta non meno decisiva verso la critica borghese di tutte le idee fondamentali del marxismo. Ma poiché già da tempo si muoveva contro il marxismo questa critica dall'alto della tribuna politica e della cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di dotti trattati, poiché, da decine di anni, tutta la nuova gioventù delle classi colte é stata educata a questa critica, non é sorprendente che la « nuova » tendenza « critica » nella socialdemocrazia sia sorta di colpo in una forma definitiva, come Minerva dal cervello di Giove. Quanto al contenuto, questa tendenza non ha dovuto né prender forma, né svilupparsi; essa é stata direttamente trasferita dalla letteratura borghese nella letteratura socialista. Inoltre, se la critica teorica di Bernstein e le sue aspirazioni politiche fossero ancora per taluni poco chiare, i francesi si sono incaricati di dare una dimostrazione palmare del « nuovo metodo ». La Francia ha confermato ancora una volta la vecchia reputazione di essere il « paese in cui le lotte di classe della storia vennero combattute, più che in qualsiasi altro luogo, sino alla soluzione decisiva » (Engels, dalla prefazione all'opera di Marx : Der 18 Brumaire 62). Invece di fare della teoria, i socialisti francesi hanno agito; la situazione politica della Francia, più evoluta in senso democratico, ha permesso loro di passare immediatamente al « bernsteinismo pratico » con tutte le sue conseguenze. Millerand ha dato un esempio brillante di questo bernsteinismo pratico. E non per nulla Bernstein e Vollmar si sono affrettati a difenderlo e a lodarlo con tanto zelo! Infatti, se la socialdemocrazia in sostanza non é che il partito delle riforme - e deve avere il coraggio di riconoscerlo francamente -, un socialista non soltanto ha il diritto di entrare in un ministero borghese, ma deve sempre sforzarsi di entrarvi. Se democrazia significa essenzialmente soppressione del dominio di classe, perché un ministro socialista non dovrebbe affascinare tutto il mondo borghese con discorsi sulla collaborazione di classe? Perché non dovrebbe restare nel ministero anche quando gli eccidi di operai compiuti dai gendarmi hanno dimostrato, per la centesima e per l'ennesima volta, il veto carattere della collaborazione democratica delle classi? Perché non dovrebbe prendere parte personalmente al ricevimento di uno zar che i socialisti 3 francesi oggi non chiamano altrimenti che eroe del knut, della forca e della deportazione (knouteur, pendeur et déportateur)? E in compenso di questo abisso di ignominia e di autodenigrazione del socialismo davanti al mondo, di questo pervertimento della coscienza socialista delle masse operaie - unica base che possa garantirci la vittoria ci si presentano a suon di tromba progetti di riforme miserabili, così miserabili che si é potuto ottenere di più dai governi borghesi! Chi non chiude intenzionalmente gli occhi non può non vedere che la nuova tendenza « critica » del socialismo non é altro che una nuova varietà di opportunismo. E se sl giudica la gente non dalla brillante uniforme che ha indossato o dal nome di parata che si é data, ma dal modo di agire e dalle idee che effettivamente propaga, si vedrà chiaramente che la « libertà di critica » é la libertà della corrente opportunistica nella socialdemocrazia, la libertà di trasformare la socialdemocrazia in un partito democratico di riforme, la libertà di introdurre nel socialismo le idee borghesi e gli uomini della borghesia. La libertà é una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell'industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati. L'impiego che oggi si fa dell'espressione « libertà di critica » implica lo stesso falso sostanziale. Chi fosse effettivamente convinto di aver fatto progredire la scienza non rivendicherebbe per le nuove concezioni la libertà di coesistere accanto alle vecchie, ma esigerebbe la sostituzione di queste con quelle. L'odierno strillare: « Viva la libertà di critica! » ricorda da vicino la favola della botte vuota. Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: « Andiamo nel pantano! ». E, se si incomincia a confonderli, ribattono: « Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d'invitarvi a seguire una via migliore? ». Oh, si, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto é proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la grande parola della libertà, perché anche noi siamo « liberi » di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso. b) I nuovi difensori della « libertà di critica » 4 Ed é questa parola d'ordine (« libertà di critica ») che il Raboceie Dielo (n. 10), organo estero dell'« Unione dei socialdemocratici russi », ha lanciato solennemente in questi ultimi tempi, non come postulato teorico, ma come rivendicazione politica, come risposta alla domanda « È possibile l'unione delle organizzazioni socialdemocratiche che lavorano all'estero? ». « Per una solida unione é necessaria la libertà di critica » (p. 36). Da questa dichiarazione sgorgano due conclusioni molto ben definite: 1) il Raboceie Dielo prende sotto la sua protezione la tendenza opportunistica della socialdemocrazia internazionale nel suo complesso; 2) il Raboceie Dielo esige la libertà dell'opportunismo nella socialdemocrazia russa. Esaminiamo queste conclusioni. La « propensione dell'Iskra e della Zarià a pronosticare la rottura fra la Montagna e la Gironda della socialdemocrazia internazionale » dispiace « particolarmente » al Raboceie Dielo *. *Un confronto fra le due correnti del proletariato rivoluzionario (rivoluzionaria e opportunistica) e le due correnti della borghesia rivoluzionaria del secolo XVIII (giacobina - « Montagna » - e girondina) venne fatto nell'articolo di fondo del n. 2 dell'Iskra (febbraio 1901). L'autore dell'articolo è Plekhanov. I cadetti, i « biezsaglavzi »63 e i menscevichi si compiacciono molto di parlare tuttora di « giacobinismo » all'interno della socialdemocrazia russa. Però oggi preferiscono tacere... o dimenticare che Plekhanov adoperò per la prima volta questo concetto contro l'ala destra della socialdemocrazia. [Nota dell'autore all'edizione del 1907 (N. d. R.)]. « Per noi in generale - scrive B. Kricevski, redattore del Raboceie Dielo - il parlare di Montagna e di Gironda nelle file della socialdemocrazia rappresenta un'analogia storica superficiale, ben singolare quando è dovuta alla penna di un marxista: la Montagna e la Gironda non rappresentavano, come può sembrare agli storici ideologici, temperamenti o correnti intellettuali diversi, ma differenti classi o strati sociali: media borghesia da una parte e piccola borghesia col proletariato dall'altra. Orbene, nel movimento socialista contemporaneo non vi é collisione di interessi di classe; in tutte [il corsivo é di B. K.) le sue varietà - compresi i bernsteiniani più incalliti - esso è tutto intero sul terreno degli interessi di classe del proletariato, della sua lotta di classe per l'emancipazione politica ed economica » (PP. 32-33). Temeraria affermazione! Ignora forse B. Kricevski il fatto, già notato da molto tempo, che precisamente la larga partecipazione dei ceti « accademici » al movimento socialista di questi ultimi anni ha causato una così rapida diffusione del bernsteinismo? E soprattutto, su che cosa si basa il nostro autore per affermare che anche i « bernsteiniani più incalliti » sono sul terreno della lotta di classe per l'emancipazione politica ed economica del proletariato? Lo ignoriamo. Questa difesa decisa dei bernsteiniani più incalliti non è sostenuta assolutamente da nessun argomento, da nessuna ragione. L'autore pensa indubbiamente che, avendo egli ripetuto ciò che questi bernsteiniani più incalliti dicono di se stessi, le sue affermazioni non abbiano più bisogno di prove. Ma si può immaginare cosa più « superficiale 5 » di un giudizio su tutta una tendenza basato su ciò che dicono di se stessi coloro che la rappresentano? Si può immaginare cosa più superficiale della successiva « morale » sulle due vie o sui due tipi diversi e anche diametralmente opposti di sviluppo del partito (pp.. 34-35 del Raboceie Dielo)? Vedete, i socialdemocratici tedeschi riconoscono la completa libertà di critica, i francesi non la riconoscono affatto, e il loro esempio mostra precisamente tutto il « male dell'intolleranza ». È precisamente l'esempio di Kricevski - rispondiamo noi - che dimostra come talora voglia chiamarsi marxista della gente che considera la storia letteralmente « alla maniera di Ilovaiski » 64. Per spiegare l'unità del partito tedesco e lo spezzettamento del partito socialista francese é del tutto inutile rovistare nelle particolarità della storia dei due paesi, mettere a confronto il semiassolutismo militare dell'uno col parlamentarismo repubblicano dell'altro; è inutile esaminare le conseguenze della Comune in un paese e delle leggi eccezionali contro i socialisti nell'altro; è inutile confrontare la vita economica e lo sviluppo economico, ricordare il fatto che « lo sviluppo senza esempi della socialdemocrazia tedesca » è stato accompagnato da una lotta che per energia non ha esempi nella storia del socialismo, non solo contro gli errori teorici (Mülberger, Dühring *, socialisti della cattedra65), ma anche contro gli errori tattici (Lassalle), ecc. ecc. Tutto questo è superfluo! I francesi si accapigliano perché sono intolleranti; i tedeschi sono uniti perché sono dei bravi ragazzi. * Quando Engels attaccò Dühring, molti rappresentanti della socialdemocrazia tedesca accettavano le opinioni di quest'ultimo ed Engels fu ripetutamente accusato di violenza, di intolleranza, di polemica non da compagni, ecc., persino pubblicamente al congresso del partito. Most e consorti proposero (al congresso del 1877) di non pubblicare sul Vorwärts gli articoli di Engels perché «non offrivano interesse per l'enorme maggioranza dei lettori», e Vahlteich dichiarò che la pubblicazione di questi articoli aveva recato gran danno al partito, che anche Dühring aveva reso dei servizi alla socialdemocrazia: «Dobbiamo utilizzare tutti nell'interesse del partito, e se i professori discutono fra di loro, il Vorwärts non deve essere l'arena di queste dispute» (Vorwärts, n. 65, 6 giugno 1877). Come vedete, anche questo è un esempio della difesa della « libertà di critica», e i nostri critici legali, nonché gli opportunisti illegali che si richiamano così volentieri all'esempio dei tedeschi, non farebbero male a meditare su questo esempio. E osservate che, con l'aiuto di questa incomparabile, profonda filosofia, si « respinge » un fatto che smentisce completamente tutta la difesa dei bernsteiniani. Costoro sono, si o no, sul terreno della lotta di classe del proletariato? La questione può essere risolta definitivamente e inappellabilmente solo dall'esperienza storica. Per conseguenza, ciò che ha maggior importanza nel caso specifico é proprio (esempio della Francia, del solo paese dove i bernsteiniani hanno tentato di reggersi sulle gambe per conto loro, fra gli applausi calorosi dei loro colleghi tedeschi (e, in parte, degli opportunisti russi: vedi Raboceie Dielo, n. 2-3, pp. 83-84). Il richiamo all'intransigenza dei francesi,- indipendentemente dal suo valore « storico » (nel senso di Nozdrev) - é solo un tentativo di distogliere, con parole astiose, l'attenzione da fatti molto sgradevoli. 6 D'altra parte, noi non abbiamo affatto l'intenzione di abbandonare i tedeschi a Kricevski e agli altri innumerevoli difensori della « libertà di critica ». Se i « bernsteiniani più incalliti » possono essere ancora tollerati nel partito tedesco, ciò avviene soltanto nella misura in cui essi si sottomettono e alla risoluzione di Hannover66, che respinge categoricamente gli « emendamenti » di Bernstein, e a quella di Lubecca, che (nonostante tutta la sua diplomazia) contiene un avvertimento formale a Bernstein. Si può discutere, dal punto di vista degli interessi del partito tedesco, quanto fosse opportuna la diplomazia; se, in questo caso, un cattivo accomodamento fosse cosa migliore di una buona rissa; si può, in una parola, essere di diverso parere nel giudicare dell'opportunità di questo o quel mezzo per respingere il bernsteinismo, ma é innegabile il fatto che il partito tedesco ha per ben due volte respinto il bernsteinismo. Credere dunque che l'esempio dei tedeschi confermi la tesi che « i bernsteiniani più incalliti restano sul terreno della lotta di classe del proletariato per la sua emancipazione economica e politica », significa non comprendere niente di quanto avviene sotto gli occhi di tutti *. *Bisogna notare che sul problema dei bernsteiniani nel partito tedesco, il Raboceie Dielo si é sempre limitato alla nuda esposizione dei fatti « astenendosi » completamente dal dare su di essi un giudizio proprio. Cfr., ad esempio il n. 2-3, p. 66, sul Congresso di Stoccarda67; tutte le divergenze si riducono alla « tattica », e si costata solamente che l'enorme maggioranza é fedele alla tattica rivoluzionaria precedente. Oppure il n. 4-5, p. 25 e sgg.: una semplice esposizione dei discorsi pronunciati al Congresso di Hannover con la citazione della risoluzione di Bebel; l'esposizione e la critica delle idee di Bernstein sono nuovamente rinviate (come nel n. 2-3) a un «articolo apposito». Fatto curioso é che a p. 33 del n. 4-5 leggiamo: « ... le tendenze esposte da Bebel sono seguite dall'enorme maggioranza del congresso » e un po' più avanti: « ... David ha difeso le idee di Bernstein... Prima di tutto ha tentato di dimostrare che... Bernstein e i suoi amici restano tuttavia [sic!] sul terreno della lotta di classe »... Ciò é stato scritto nel dicembre 1899, e nel settembre 1901 il Raboceie Dielo probabilmente non crede più che Bebel abbia ragione e ripete l'opinione di David come fosse sua! Peggio ancora. Come abbiamo già segnalato, il Raboceie Dielo scende in campo davanti alla socialdemocrazia russa per reclamare la «libertà di critica» e difendere il bernsteinismo. A quanto pare, si è convinto che i nostri e critici » ed i nostri bernsteiniani sono stati ingiustamente offesi. Ma quali precisamente? Da chi, dove e quando? E in che cosa è consistita l'ingiustizia? Su questo il Raboceie Dielo tace e non cita neppure una volta un critico o un bernsteiniano russo. Non ci resta che scegliere fra le due ipotesi possibili. O la parte ingiustamente offesa non è altro che lo stesso Raboceie Dielo (il che è confermato dal fatto che nei due articoli del n. 10 si parla unicamente delle offese recate dalla Zarià e dall'Iskra al Raboceie Dielo), e allora come spiegare questa stranezza che il Raboceie Dielo, il quale ha sempre ostinatamente respinto ogni solidarietà con il bernsteinismo, non abbia potuto difendersi se non prendendo la parola in difesa dei « più incalliti bernsteiniani » è della libertà di critica? Oppure sono stati 7 ingiustamente offesi dei terzi, e allora quali possono essere i motivi per cui essi non vengono nominati? Noi vediamo, dunque, che il Raboceie Dielo continua il giuoco a rimpiattino che gli è abituale (come dimostreremo più avanti) da quando esiste. Notate inoltre questa prima applicazione pratica della famosa « libertà di critica ». Praticamente, questa libertà si riduce non soltanto all'assenza di ogni critica, ma all'assenza di ogni giudizio indipendente. Lo stesso Raboceie Dielo che tace, come di una malattia segreta (secondo la giusta espressione di Starover), del bernsteinismo russo, propone di guarire questa malattia ricopiando puramente e semplicemente l'ultima ricetta tedesca contro la varietà tedesca di questa malattia! Invece della libertà di critica, l'imitazione servile... peggio ancora, l'imitazione scimmiesca! L'unitario contenuto politico-sociale dell'odierno opportunismo internazionale si manifesta in un modo o nell'altro, a seconda delle particolarità nazionali. In un paese, il gruppo degli opportunisti si è raccolto da molto tempo intorno ad una sua bandiera particolare; nell'altro, gli opportunisti, sdegnosi della teoria, fanno praticamente la politica dei radicalsocialisti; in un terzo, alcuni membri del partito rivoluzionario sono passati nel campo dell'opportunismo e si I sforzano di raggiungere i loro fini non già attraverso una lotta aperta per i principi e la nuova tattica, ma attraverso una corruzione graduale, impercettibile e, per tosi dire, impunibile, del loro partito; in un quarto, transfughi dello stesso genere adoperano gli stessi metodi nelle tenebre della schiavitù politica e quando esistono rapporti reciproci assolutamente originali fra l'azione « legale » e l'azione « illegale », ecc. Parlare della « libertà di critica » e della libertà del bernsteinismo come della condizione per l'unione dei socialdemocratici russi, senza esaminare come precisamente si é manifestato e quali frutti particolari ha dato il bernsteinismo russo, significa parlare per non dir niente. Cercheremo noi stessi di dire brevemente ciò che il Raboceie Dielo non ha voluto dire (o forse non ha saputo nemmeno comprendere). c) La critica. in Russia La particolarità fondamentale della Russia, quanto al problema che ci interessa, sta nel fatto che l'inizio stesso del movimento operaio spontaneo da un lato e della svolta del pensiero sociale d'avanguardia verso il marxismo dall'altro lato sono stati contrassegnati dall'anione di elementi manifestamente eterogenei sotto una bandiera comune e per la lotta contro un comune nemico (concezioni politiche e sociali superate). Vogliamo parlare della luna di miele del « marxismo legale ». Fu questo un fenomeno assolutamente originale, alla possibilità stessa del quale nessuno avrebbe potuto credere negli anni ottanta o all'inizio degli anni novanta. In un paese autocratico, dove la stampa é completamente asservita, in un'epoca di 8 reazione politica spietata, la quale reprime anche le minime manifestazioni di malcontento e di protesta politica, improvvisamente si fa strada, in una letteratura sottoposta a censura, la teoria del marxismo rivoluzionario, esposta in linguaggio esopico, ma comprensibile a tutti gli « interessati ». II governo si era abituato a considerare come pericolosa soltanto la teoria dei seguaci della « Volontà del popolo » (rivoluzionari), senza osservarne, come abitualmente avviene, l'evoluzione interna e rallegrandosi di ogni critica diretta contro di essa. Prima che il governo se ne fosse accorto, prima che il pesante esercito dei censori e dei gendarmi avesse scoperto il nuovo nemico e gli si fosse precipitato addosso, passò non poco tempo (non poco per noi russi). E durante questo tempo si pubblicarono, una dopo l'altra, opere marxiste, si fondarono riviste e i giornali marxisti, contagiosamente tutti diventavano marxisti, i marxisti venivano adulati, ai marxisti si faceva la corte, gli editori erano entusiasti dello smercio straordinariamente rapido dei libri marxisti. E' ben comprensibile che fra i neofiti marxisti, circonfusi da questa aureola, si trovasse più di uno « scrittore montato in superbia »68 ... Oggi si può parlare di questo periodo con serenità, come di una cosa passata. Nessuno ignora che l'effimera fioritura' del marxismo alla superficie della nostra letteratura provenne dall'alleanza di elementi estremisti con elementi molto moderati. Questi ultimi erano, in fondo, dei democratici borghesi, e a questa conclusione (che fu confermata all'evidenza dalla loro ulteriore evoluzione « critica ») qualcuno era giunto fin da quando l'« alleanza » era ancora intatta *. *Alludo qui all'articolo di Tulin contro Struve [cfr., nella presente edizione, voi- I, PP. 341-529. - N. d. R.], scritto sulla traccia di una conferenza intitolata Riflessi del marxismo nella letteratura borghese. [Nota dell'autore all'edizione del 1907 (N. d. R.)]. Ma se é così , su chi ricade la responsabilità principale dell'ulteriore « confusione », se non precisamente sui socialdemocratici rivoluzionari che hanno concluso quest'alleanza coi futuri « critici »? Questa domanda, seguita da una risposta affermativa, si sente talora formulare da gente che considera le cose in modo eccessivamente rigido. Questa gente ha assolutamente torto. Soltanto chi non ha fiducia in se stesso può aver paura di stringere alleanze temporanee anche con elementi incerti. Nessun partito politico potrebbe esistere senza tali alleanze. Orbene, l'alleanza coi marxisti legali fu in certo qual modo la prima alleanza veramente politica della socialdemocrazia russa. Grazie a quell'alleanza si ottenne una vittoria straordinariamente rapida sul populismo e una diffusione prodigiosa delle idee marxiste (per quanto in forma volgarizzata). Inoltre, quell'alleanza non fu affatto conclusa senza « condizioni ». Prova ne sia la raccolta marxista Documenti sullo sviluppo economico della Russia69, data alle fiamme nel 1895 dalla censura. Se l'accordo coi marxisti legali per la letteratura può essere paragonato a, un'alleanza politica, questa raccolta può essere paragonata a un contratto politico. 9 La rottura naturalmente non avvenne per il fatto che gli « alleati » dimostrarono di essere dei democratici borghesi. A1 contrario, i rappresentanti di questa corrente sono per la socialdemocrazia degli alleati naturali e desiderabili quando si tratta dei suoi obiettivi democratici, che vengono messi in primo piano dalla presente situazione della Russia. Ma condizione necessaria di tale alleanza é per i socialisti la piena possibilità di svelare alla classe operaia che i suoi interessi e quelli della borghesia sono opposti, ostili. Il bernsteinismo, invece, e la tendenza « critica » a cui si é contagiosamente convertita la maggioranza dei marxisti legali eliminavano questa possibilità e pervertivano la coscienza socialista, svilendo il marxismo, predicando la teoria dell'attenuazione degli antagonismi sociali, dichiarando che l'idea della rivoluzione sociale e della dittatura del proletariato é insensata, riducendo il movimento operaio e la lotta di classe a un gretto tradunionismo e alla lotta « realista » per piccole riforme graduali. Ciò equivaleva, da parte della democrazia borghese, a negare il diritto all'indipendenza del socialismo e, quindi, il suo diritto all'esistenza; ciò significava, in pratica, sforzarsi di trasformare il movimento operaio, ai suoi albori, in un'appendice del movimento liberale. Naturalmente, in queste condizioni la rottura era necessaria. Ma la particolarità « originale » della Russia si espresse nel fatto che questa rottura significò l'esclusione pura e semplice dei socialdemocratici dal campo della letteratura « legale », la più accessibile a tutti e la più largamente diffusa. Di essa fecero la loro fortezza gli « ex marxisti », raggruppati sotto la « bandiera della critica », che avevano quasi ottenuto il monopolio della « denigrazione » del marxismo. Le parole d'ordine « contro l'ortodossia » e « viva la libertà di critica » (ripetute ora dal Raboceie Dielo) diventarono subito di moda e s'imposero persino alla censura ed ai gendarmi, come dimostrano, fra l'altro, le tre edizioni russe del libro del famoso Bernstein (famoso alla maniera di Erostrato) e il fatto che le opere di Bernstein, del signor Prokopovic, ecc. sono raccomandate da Zubatov (Iskra, n. 10). I socialdemocratici avevano allora il compito di combattere la nuova corrente, compito già di per sé difficile e reso incredibilmente più difficile dagli ostacoli puramente esteriori. Ma questa corrente non si limitava alla letteratura. La svolta verso la « critica » coincideva con la propensione dei militanti socialdemocratici per I'« economismo ». Il modo come sorsero e si rafforzarono i rapporti e l'interdipendenza fra la critica legale e l'economismo illegale é una questione interessante, che potrebbe costituire argomento di un articolo apposito. Basterà notare qui la incontestabile esistenza del legame che li unisce. Il famoso « Credo » non acquistò tanta e tosi meritata celebrità se non perché esprimeva apertamente questo legame e metteva in rilievo la tendenza politica fondamentale dell'« economismo » : gli operai debbono condurre una lotta economica (o più esattamente tradunionista, che abbraccia anche la politica specificamente operaia), gli intellettuali marxisti debbono fondersi coi 10 liberali per la « lotta » politica. L'attività tradunionista « fra il popolo » serviva ad assolvere la prima metà del compito; la critica legale ne realizzava la seconda metà. Questa dichiarazione fu un'arma così preziosa contro l'economismo, che se il « Credo » non fosse esistito, sarebbe valsa la pena di inventarlo.

 
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