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LENINISMO (Continua dalle pagine precedenti)

LENINISMO
 

La prefazione del 1891 alla "Guerra civile" di Marx Nella sua prefazione alla terza edizione della Guerra civile in Francia - prefazione in data del 18 marzo 1891, pubblicata per la prima volta nella rivista Neue Zeit -, accanto ad alcune interessanti riflessioni incidentali sui problemi connessi all'atteggiamento nei confronti dello Stato, Engels dà un riassunto meravigliosamente incisivo degli insegnamenti della Comune. Questo riassunto, - arricchito di tutta l'esperienza del periodo di vent'anni che separa il suo autore dalla Comune, e in particolar modo rivolto contro la "fede superstiziosa nello Stato" tanto diffusa in Germania, - può a buon diritto essere considerato come l'ultima parola del marxismo sulla questione in esame. In Francia, dopo ogni rivoluzione, - osserva Engels, - gli operai erano armati; "per i borghesi che si trovavano ancora al governo dello Stato il disarmo degli operai era quindi il primo comandamento. Ecco quindi sorgere dopo ogni rivoluzione vinta dagli operai una nuova lotta, la quale finisce con la disfatta degli operai". Questo bilancio dell'esperienza delle rivoluzioni borghesi è tanto succinto quanto eloquente. Il fondo del problema - come, fra l'altro, nella questione dello Stato (la classe oppressa dispone di armi?) - è individuato in modo ammirevole. Ed è proprio questo fondo che tanto i professori influenzati dall'ideologia borghese quanto i democratici della piccola borghesia eludono cosí spesso. Nella rivoluzione russa del 1917 fu al "menscevico" Tsereteli, "marxista anche lui", che toccò l'onore (l'onore d'un Cavaignac) di svelare inavvertitamente questo segreto delle rivoluzioni borghesi. Nel suo "storico" discorso dell'11 giugno, Tsereteli ebbe l'imprudenza di annunziare che la borghesia era decisa a disarmare gli operai di Pietrogrado, decisione ch'egli naturalmente presentò anche come propria e, in generale, come una necessità "di Stato"! Lo storico discorso di Tsereteli, pronunciato l'11 giugno, sarà certamente per tutti gli storici della rivoluzione del 1917 una delle migliori illustrazioni del passaggio del blocco dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, con a capo il signor Tsereteli, dalla parte della borghesia, contro il proletariato rivoluzionario. Un'altra riflessione incidentale di Engels, anch'essa legata al problema dello Stato, riguarda la religione. E' noto che la socialdemocrazia tedesca, a mano a mano che si incancreniva e diventava sempre più opportunista, scivolava con sempre maggiore frequenza verso una interpretazione erronea e filistea della celebre formula: "La religione è un affare privato". Questa formula infatti era interpretata come se, anche per il partito del proletariato rivoluzionario, la questione della religione fosse un affare privato!! Contro questo completo tradimento del programma rivoluzionario del proletariato si levò Engels, che, non potendo ancora, nel 1891, osservare nel suo partito se non dei debolissimi germi di opportunismo, si esprimeva quindi con grande prudenza: "Come nella Comune vi erano quasi solo operai o rappresentanti riconosciuti degli operai, così anche le sue deliberazioni avevano una decisa impronta proletaria. O decretavano riforme che la borghesia repubblicana aveva trascurato soltanto per viltà, ma che rappresentavano una base necessaria per la libertà d'azione della classe operaia, come l'attuazione del principio che di fronte allo Stato la religione non è che un semplice affare privato; oppure emettevano deliberazioni nell'interesse diretto della classe operaia, che talvolta incidevano anche profondamente sull'antico ordinamento sociale...". E' con intenzione che Engels ha sottolineato le parole "di fronte allo Stato"; in tal modo egli attaccava in pieno l'opportunismo tedesco che dichiarava la religione un affare privato di fronte al partito e abbassava così il partito del proletariato rivoluzionario al livello del più volgare piccolo-borghese "libero pensatore", che è disposto ad ammettere che si possa rimanere fuori della religione, ma rinnega il compito del partito di lottare contro la religione, quest'oppio che inebetisce il popolo. Il futuro storico della socialdemocrazia tedesca, ricercando le prime fonti della sua vergognosa bancarotta nel 1914, troverà numerosi documenti interessanti su questa questione, a cominciare dalle dichiarazioni evasive fatte nei suoi articoli dal capo ideologico del partito, Kautsky, dichiarazioni che spalancavano le porte all'opportunismo, per finire con l'atteggiamento del partito verso il Los-von-Kirche-Bewegung (movimento per la separazione dalla Chiesa) nel 1913. Ma vediamo come, vent' anni dopo la Comune, Engels riassumeva gli insegnamenti ch'essa - aveva dato al proletariato in lotta. Ecco gli insegnamenti che Engels poneva in primo piano: "...Proprio l'opprimente potere del precedente governo centralizzato, il potere dell' esercito della polizia politica, della burocrazia, che Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo aveva accettato come uno strumento ben accetto e aveva sfruttato contro i suoi avversari, proprio quel potere doveva cadere dappertutto, come già era caduto a Parigi. "La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutto il vecchio macchinario repressivo già sfruttato contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento...". Engels sottolinea ancora una volta che non solo in una monarchia, ma anche nella repubblica democratica, lo Stato rimane lo Stato; conserva cioè la sua caratteristica fondamentale: trasformare i funzionari, da "servitori della società" e suoi organi, in padroni della società. "...Contro questa trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati, dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò elettivamente tutti gli impieghi amministrativi, giudiziari, educativi, per suffragio generale degli interessati e con diritto costante di revoca da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagò solo lo stipendio che ricevevano gli altri lavoratori. Il più alto assegno che essa pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che furono aggiunti per soprappiù..." Engels affronta qui l'interessante limite, passato il quale la democrazia conseguente da un lato si trasforma in socialismo, e dall'altro richiede il socialismo. Infatti, per sopprimere lo Stato è necessario trasformare le funzioni del servizio statale in operazioni di controllo e di registrazione, talmente semplici da essere alla portata dell'immensa maggioranza della popolazione e, in seguito, di tutta la popolazione. Ma per sopprimere completamente il carrierismo, bisogna che un impiego statale "onorifico", anche se non retribuito, non possa servire di passerella per raggiungere impieghi molto lucrativi nelle banche e nelle società anonime, come sistematicamente avviene in tutti i paesi capitalistici, anche i più liberi. Engels non cade però nell'errore che commettono, ad esempio, certi marxisti a proposito del diritto delle nazioni all'autodecisione: in regime capitalistico, essi dicono, questo diritto è irrealizzabile, e in regime socialista diventa superfluo. Questo ragionamento, che vorrebbe essere spiritoso, ma è soltanto sbagliato, potrebbe essere applicato a qualsiasi istituzione democratica, compreso il modesto stipendio assegnato ai funzionari, poichè un sistema democratico rigorosamente conseguente non è possibile in regime capitalistico, e in regime socialista ogni democrazia finirà per estinguersi. E' un sofisma del genere della vecchia barzelletta: in quel momento l'uomo che perde ad uno ad uno i suoi capelli può essere considerato calvo?. Sviluppare la democrazia fino in fondo, ricercare le forme di questo sviluppo, metterle alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno dei problemi fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale. Preso a sé, nessun sistema democratico, qualunque esso sia, darà il socialismo; ma nella vita il sistema democratico non sarà mai "preso a sé", sarà "preso nell'insieme" ed eserciterà la sua influenza anche sull'economia di cui stimolerà la trasformazione, mentre esso stesso subirà l'influenza dello sviluppo economico, ecc. E' questa la dialettica della storia viva. Engels continua: "...Questa distruzione violenta [Sprengung] del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di un nuovo potere veramente democratico, è descritta esaurientemente nel terzo capitolo della Guerra civile. Era però necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti di essa, perchè proprio in Germania la fede superstiziosa nello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è "la realizzazione dell'Idea" ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterne si realizzano o si devono realizzare. Di qui una superstiziosa venerazione dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, che subentra tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari comuni a tutta la società non possono venir curati altrimenti che come sono stati curati fino a quel momento cioè per mezzo dello Stato e dei suoi ben pagati funzionari. E si crede è liberati dalla fede nella monarchia ereditata e si giura nella repubblica democratica. Però lo Stato non è in realtà che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un' altra, nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi è un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il dominio di classe i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile come fece la Comune, finchè una generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale". Engels metteva in guardia i tedeschi perchè non dimenticassero, nell'eventualità della sostituzione della monarchia con la repubblica, i princípi del socialismo sul problema dello Stato in generale. Questi suoi avvertimenti appaiono oggi come una lezione impartita direttamente ai signori Tsereteli e Cernov, che hanno manifestato, nella loro pratica di "coalizione", la loro fede superstiziosa nello Stato e la loro superstiziosa venerazione verso di esso! Ancora due osservazioni: 1) Quando Engels dice che nella repubblica democratica "non meno" che nella monarchia, lo Stato rimane "una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra", ciò non significa affatto che la forma d'oppressione sia indifferente per il proletariato, come "insegnano" certi anarchici. Una forma più larga, più libera, più aperta, di lotta di classe e di oppressione di classe facilita immensamente al proletariato la sua lotta per la soppressione delle classi in generale. 2) Perchè soltanto una nuova generazione sarà in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale? Questo problema è connesso a quello del superamento della democrazia, del quale parleremo ora. 6. Engels sul superamento della democrazia Engels ha avuto modo di pronunciarsi su questo punto trattando della inesattezza scientifica della denominazione "socialdemocratico". Nella prefazione alla raccolta dei suoi articoli degli anni 1870 su diversi temi, dedicati in prevalenza ad argomenti "internazionali" (Internatiolanes aus dem Volkstaat), - prefazione in data 3 gennaio 1894, cioè scritta un anno e mezzo prima della sua morte, - Engels scrive che in tutti i suoi articoli egli ha impiegato la parola "comunista" e non "socialdemocratico", perchè a quell'epoca si chiamavano socialdemocratici i proudhoniani in Francia e i lassalliani in Germania. "...Per Marx come per me, continua Engels, - era dunque assolutamente impossibile adoperare un'espressione così elastica per definire la nostra posizione. Oggi la cosa è diversa, e questa parola" ("socialdemocratico") "può forse andare [mag passieren] per quanto rimanga imprecisa [unpassend, impropria] per un partito il cui programma economico non è semplicemente socialista in generale, ma veramente comunista; per un partito il cui scopo politico finale è la soppressione di ogni Stato e, quindi, di ogni democrazia. Del resto, i veri (il corsivo è di Engels) partiti politici non hanno mai una denominazione che loro convenga perfettamente; il partito si sviluppa, la denominazione rimane." Il dialettico Engels nel declino dei suoi giorni rimane fedele alla dialettica. Marx ed io, egli dice, avevamo per il partito un nome eccellente, scientificamente esatto, ma allora non c'era un vero partito, cioè un partito proletario di massa. Ora (fine del secolo decimonono) esiste un vero partito, ma la sua denominazione è scientificamente inesatta. Non importa, essa "può andare" purchè il partito si sviluppi, purchè l'inesattezza scientifica del suo nome non gli sfugga e non gli impedisca di svilupparsi in una giusta direzione! Qualche burlone potrebbe forse venirci a consolare, noi bolscevichi, alla maniera di Engels: noi abbiamo un vero partito; esso si sviluppa nel migliore dei modi: dunque il nome assurdo e barbaro di "bolscevico", che non esprime assolutamente nulla se non il fatto puramente accidentale che al congresso di Bruxelles-Londra del 1903 avemmo la maggioranza, può anch'esso "andare"... Forse, ora che le persecuzioni del nostro partito da parte dei repubblicani e della democrazia piccolo-borghese "rivoluzionaria" nel luglio-agosto 1917, hanno reso così popolare, così onorevole il titolo di bolscevico e hanno inoltre confermato l'immenso progresso storico del nostro partito nel corso del suo sviluppo reale, io stesso esiterei forse a proporre, come in aprile, di cambiare il nome del nostro partito. Proporrei forse ai compagni un "compromesso": chiamarci Partito comunista, conservando, fra parentesi, la parola "bolscevico"... Ma la questione del nome del partito è infinitamente meno importante di quella dell'atteggiamento del proletariato rivoluzionario verso lo Stato. Discutendo sullo Stato si cade abitualmente nell'errore contro il quale Engels mette qui in guardia e che noi abbiamo già prima segnalato di sfuggita: si dimentica cioè che la soppressione dello Stato è anche la soppressione della democrazia, e che l'estinzione dello Stato è l'estinzione della democrazia. A prima vista questa affermazione pare del tutto strana e incomprensibile: alcuni potrebbero forse persino temere che noi auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui non verrebbe osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza; perché in definitiva che cos'è la democrazia se non il riconoscimento di questo principio? No! La democrazia non si identifica con la sottomissione della minoranza alla maggioranza. La democrazia è uno Stato che riconosce la sottomissione della minoranza alla maggioranza, cioè l'organizzazione della violenza sistematicamente esercitata da una classe contro un'altra, da una parte della popolazione contro l'altra. Noi ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di ogni violenza organizzata e sistematica, di ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte della popolazione a un'altra, perchè gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione. Per mettere in risalto questo elemento di consuetudine, Engels parla della nuova generazione, "cresciuta in condizioni sociali nuove, libere" e che sarà "in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale", ogni forma di Stato, compresa la repubblica democratica. Per chiarire questo punto dobbiamo analizzare le basi economiche dell'estinzione dello Stato. V. Le basi economiche dell'estinzione dello Stato Lo studio più approfondito di questo problema lo troviamo in Marx, nella sua Critica del programma di Gotha (lettera a Bracke del 5 maggio 1875, pubblicata soltanto nel 1891 nella Neue Zeit, IX, l, e di cui apparve una edizione separata in russo). La parte polemica di questa importante opera, che contiene la critica del lassallismo, ha lasciato per così dire nell'ombra la parte positiva, cioè l'analisi della connessione tra lo sviluppo del comunismo e l'estinzione dello Stato. l. L'impostazione della questione in Marx Se si sottopongono a un superficiale confronto la lettera di Marx a Bracke del 5 maggio 1875 e la lettera del 28 marzo 1875 di Engels a Bebel, esaminata più sopra, può sembrare che Marx sia molto più "statalista" di Engels e che la differenza fra le concezioni dei due scrittori sullo Stato sia molto notevole. Engels invita Bebel a smetterla con le chiacchiere sullo Stato, a bandire completamente dal programma la parola "Stato" e a sostituirla con la parola "Comune"; Engels dichiara persino che la Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Marx invece parla del "futuro Stato della società comunista", cioè sembra ammettere la necessità dello Stato anche in regime comunista. Ma una tale interpretazione sarebbe profondamente errata. Un più attento esame mostra che le idee di Marx e di Engels sullo Stato e sull'estinzione dello Stato coincidono perfettamente e che l'espressione di Marx citata si riferisce appunto all'organizzazione statale in via di estinzione. Non è possibile evidentemente determinare il momento in cui avverrà questa futura "estinzione", soprattutto perchè essa sarà inevitabilmente un processo di lunga durata. L'apparente differenza tra Marx ed Engels si spiega con la differenza degli argomenti trattati e degli scopi da essi perseguiti. Engels si propone di dimostrare a Bebel, in modo clamoroso, incisivo, a grandi linee, tutta l'assurdità dei pregiudizi correnti (condivisi in gran parte da Lassalle) sullo Stato. Marx sfiora soltanto questo problema; un altro argomento l'interessa: lo sviluppo della società comunista. Tutta la teoria di Marx è l'applicazione al capitalismo contemporaneo della teoria dell'evoluzione, nella sua forma più conseguente e completa, meditata e ricca di contenuto. Si comprende quindi che Marx abbia visto il problema dell'applicazione di questa teoria all'imminente fallimento del capitalismo e al futuro sviluppo del futuro comunismo. Su quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro sviluppo del futuro comunismo? Sul fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, si sviluppa storicamente dal capitalismo, è il risultato dell'azione di una forza sociale prodotta dal capitalismo. In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione. Marx respinge innanzitutto la confusione in cui cade il programma di Gotha nella questione dei rapporti tra lo Stato e la società. "...La "società odierna" - egli scrive, - è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di aggiunte medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo "Stato odierno", invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. Lo "Stato odierno " è dunque una finzione. " Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno "Stato odierno", in contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita. "Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora. che siano analoghe alle odierne funzioni statali? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna..." Avendo così ridicolizzato tutte le chiacchiere sullo "Stato popolare", Marx mostra come si deve impostare la questione, e avverte che non le si può dare in qualche modo una risposta scientifica se non basandosi su dati scientifici solidamente stabiliti. Il primo punto, stabilito con la massima precisione da tutta la teoria dell'evoluzione e, in generale, da tutta la scienza - punto che gli utopisti dimenticavano e che dimenticano gli opportunisti odierni, i quali temono la rivoluzione sociale - è il seguente: è storicamente certo che fra il capitalismo e il comunismo dovrà necessariamente esserci uno stadio particolare o una tappa particolare di transizione. 2. La transizione dal capitalismo al comunismo "...Tra la società capitalistica e la società comunista, - prosegue Marx, - vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato..." Questa conclusione si basa, in Marx, sull'analisi della funzione che il proletariato ha nella società capitalistica odierna, sui dati dello sviluppo di questa società e sulla inconciliabilità degli opposti interessi del proletariato e della borghesia. Prima la questione veniva posta in tal modo: per ottenere la sua emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia, conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura rivoluzionaria. Ora la questione si pone in modo un po' diverso: il passaggio dalla società capitalistica, che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un "periodo politico di transizione", e lo Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Ma qual è l'atteggiamento di questa dittatura verso la democrazia? Abbiamo visto che il Manifesto del Partito comunista pone semplicemente uno accanto all'altro i due concetti: "trasformazione del proletariato in classe dominante" e "conquista della democrazia". Tutto ciò che precede permette di determinare nel modo più preciso le modificazioni che subirà la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo. La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre limitata nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati. in conseguenza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che "hanno altro pel capo che la democrazia", "che la politica", sicchè, nel corso ordinario e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. L'esattezza di questa affermazione è confermata. forse con la maggiore evidenza, dall'esempio della Germania, perchè è proprio in questo paese che la legalità costituzionale si mantenne, per quasi mezzo secolo (1871-1914), con una costanza e una durata sorprendenti. e durante questo periodo la socialdemocrazia seppe, molto più che negli altri paesi, "usufruire della legalità" e organizzare in un partito politico una parte di operai molto più grande che in qualsiasi altro paese del mondo. Quale è dunque questa parte - la più elevata fra quelle che si osservano nella società capitalistica - degli schiavi salariati politicamente coscienti e attivi? Un milione di membri del partito socialdemocratico su 15 milioni di operai salariati! Tre milioni di operai organizzati nei sindacati su 15 milioni di operai! Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: questo è il sistema democratico della società capitalistica. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, si vedranno sempre dovunque - sia nei "piccoli" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale (durata della residenza, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli di fatto al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i "poveri"!), sia nell' organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. - si vedranno restrizioni su restrizioni al sistema democratico. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri sembrano piccoli soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questa caratteristica essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi dell'esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento! Ma l'evoluzione da questa democrazia capitalistica - inevitabilmente ristretta, che respinge in modo dissimulato i poveri, e quindi profondamente ipocrita e bugiarda - "a una democrazia sempre più perfetta", non avviene così semplicemente, direttamente e senza scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo, cioè l'evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti, poichè non v'è nessun'altra classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori. Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l'organizzazione dell'avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l'umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non c'è libertà, non c'è democrazia. Engels lo ha espresso in modo mirabile nella sua lettera a Bebel scrivendo, come il lettore ricorda, che "finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere". Democrazia per l'immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla democrazia, per gli sfruttatori, gli oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo. Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v'è cioè più distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora "lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà". Soltanto allora diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato. L'espressione: "lo Stato si estingue" è molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità. Soltanto l'abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo produrrà, poichè noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca l'indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria la repressione. La società capitalistica non ci offre dunque che una democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la sola minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una democrazia realmente completa; e quanto più sarà completa, tanto più rapidamente diventerà superflua e si estinguerà da sé. In altri termini: noi abbiamo, nel regime capitalistico, lo Stato nel vero senso della parola, una macchina speciale per la repressione di una classe da parte di un'altra e per di più della maggioranza da parte della minoranza. Si comprende come per realizzare un simile compito - la sistematica repressione della maggioranza degli sfruttati da parte di una minoranza di sfruttatori - siano necessarie una crudeltà e una ferocia di repressione estreme: fiumi di sangue attraverso cui l'umanità prosegue il suo cammino, sotto il regime della schiavitù, della servitù della gleba e del lavoro salariato. In seguito, nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la repressione è ancora necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di sfruttati contro una minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la macchina speciale di repressione, lo "Stato", è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio, non più lo Stato propriamente detto, perchè la repressione di una minoranza di sfruttatori da parte della maggioranza degli schiavi salariati di ieri è cosa relativamente così facile, semplice e naturale, che costerà molto meno sangue di quello che è costata la repressione delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati, costerà molto meno caro all'umanità. Ed essa è compatibile con una democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale di repressione. Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di reprimere il popolo senza una macchina molto complicata destinata a questo compito; il popolo, invece, può reprimere gli sfruttatori anche con una "macchina" molto semplice, quasi senza "macchina", senza apparato speciale, mediante la semplice organizzazione delle masse in armi (come - diremo anticipando - i Soviet dei deputati operai e soldati). Infine, solo il comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perchè non c'è da reprimere nessuno, "nessuno" nel senso di classe, nel senso di lotta sistematica contro una parte determinata della popolazione. Noi non siamo utopisti e non escludiamo affatto che siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per questo non c'è bisogno d'una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una donna. Sappiamo inoltre che la principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro miseria. Eliminata questa causa principale, gli eccessi cominceranno infallibilmente a "estinguersi". Non sappiamo con quale ritmo e quale gradualità, ma sappiamo che si estingueranno. E con essi si estinguerà anche lo Stato. Marx, senza abbandonarsi all'utopia, definì più in particolare ciò che è ora possibile definire di questo avvenire, e precisamente ciò che distingue la fase (gradino, tappa) inferiore dalla fase superiore della società comunista. 3. La prima fase della società comunista Nella Critica del programma di Gotha Marx confuta minuziosamente l'idea di Lassalle che l'operaio debba ricevere in regime socialista il reddito "non ridotto" o il "reddito integrale del suo lavoro". Marx dimostra che dal prodotto sociale complessivo di tutta la società bisogna detrarre: un fondo di riserva, un fondo per l'allargamento della produzione, un fondo destinato a reintegrare il macchinario "consumato", ecc.; inoltre bisogna detrarre dagli oggetti di consumo un fondo per le spese di amministrazione, per le scuole, per gli ospedali, gli ospizi per i vecchi, ecc. Invece della formula nebulosa, oscura e generica di Lassalle ("all'operaio il frutto integrale del suo lavoro"), Marx stabilisce lucidamente come deve essere la gestione di una società socialista. Egli affronta l'analisi concreta delle condizioni di vita di una società in cui non esisterà il capitalismo, e aggiunge: "Quella con cui abbiamo da far qui" (analizzando il programma del partito operaio) "è una società comunista. non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma, viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto. economico, morale, spirituale, le "macchie" della vecchia società dal cui seno essa è uscita". E' questa società comunista appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama "la prima fase" o fase inferiore della società comunista. I mezzi di produzione non sono già più proprietà privata individuale. Essi appartengono a tutta la società. Ogni membro della società, eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta ch'egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti. Detratta la quantità di lavoro versata ai fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla società tanto quanto le ha dato. Si direbbe il regno dell'"uguaglianza". Ma quando, a proposito di quest'ordinamento sociale (abitualmente chiamato socialismo, e che Marx chiama prima fase del comunismo), Lassalle dice che c'è in esso "giusta ripartizione", "uguale diritto di ciascuno all'uguale prodotto del lavoro", egli si sbaglia e Marx spiega perchè. Un "uguale diritto", - dice Marx, - qui effettivamente l'abbiamo, ma è ancora il "diritto borghese", che, come ogni diritto, presuppone la disuguaglianza. Ogni diritto consiste nell' applicazione di un'unica norma a persone diverse, a persone che non sono, in realtà, né identiche, né uguali. L'"uguale diritto" equivale quindi a una violazione dell'uguaglianza e della giustizia. Infatti, per una parte uguale di lavoro sociale fornito, ognuno riceve un'uguale parte della produzione sociale (con le detrazioni indicate più sopra). Gli individui però non sono uguali: uno è più forte, l'altro è più debole, uno è ammogliato, l'altro no, uno ha più figli, l'altro meno, ecc. "...Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, - conclude Marx, - l'uno riceve dunque più dell'altro, l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale.." La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e l'uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, poichè non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc. Demolendo la formula confusa e piccolo-borghese di Lassalle sulla "uguaglianza" e la "giustizia" in generale, Marx indica il corso dello sviluppo della società comunista, costretta da principio a distruggere solo l'"ingiustizia" costituita dall'accaparramento dei mezzi di produzione da parte di singoli individui, ma incapace di distruggere di punto in bianco l'altra ingiustizia: la ripartizione dei beni di consumo "secondo il lavoro" (e non secondo i bisogni). Gli economisti volgari, e fra essi i professori borghesi, compreso il "nostro" Tugan, rimproverano continuamente ai socialisti di dimenticare la disuguaglianza degli individui e di "sognare" la soppressione di questa disuguaglianza. Questi rimproveri, come si vede, dimostrano soltanto l'estrema ignoranza dei signori ideologi borghesi. Non solo Marx tiene conto con molta precisione di questa inevitabile disuguaglianza delle persone, ma non trascura nemmeno il fatto che, da sola, la socializzazione dei mezzi ai produzione ("socialismo" nel senso abituale della parola) non elimina gli inconvenienti della distribuzione e la disuguaglianza del "diritto borghese" che continua a dominare fino a quando i prodotti sono divisi "secondo il lavoro". "...Ma questi inconvenienti - continua Marx - sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società..." Così, nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata socialismo), il "diritto borghese" non è completamente abolito, ma solo in parte, soltanto nella misura in cui la rivoluzione economica è compiuta, cioè unicamente per quanto riguarda i mezzi di produzione. Il "diritto borghese" riconosce la proprietà privata su questi ultimi a individui singoli. Il socialismo ne fa una proprietà comune. In questa misura - e soltanto in questa misura - il "diritto borghese" è abolito. Ma esso sussiste nell'altra sua parte, sussiste quale regolatore (fattore determinante) della distribuzione dei prodotti e del lavoro fra i membri della società. "Chi non lavora non mangia": questo principio socialista è già realizzato; "a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti": quest'altro principio socialista è anche esso già realizzato. Tuttavia ciò non è ancora il comunismo, non abolisce ancora il "diritto borghese" che attribuisce a persone disuguali e per una quantità di lavoro disuguale (di fatto disuguale) una quantità uguale di prodotti. E' un "inconveniente", dice Marx, ma esso è inevitabile nella prima fase del comunismo, in quanto non si può pensare, senza cadere nell'utopia, che appena rovesciato il capitalismo gli uomini imparino, dall'oggi al domani, a lavorare per la società senza alcuna norma giuridica; d'altra parte, l'abolizione del capitalismo non dà subito le premesse economiche per un tale cambiamento. E non vi sono altre norme, all'infuori di quelle del "diritto borghese". Rimane perciò la necessità di uno Stato che, mantenendo comune la proprietà dei mezzi di produzione, mantenga l'uguaglianza del lavoro e l'uguaglianza della distribuzione dei prodotti. Lo Stato si estingue nella misura in cui non ci sono più capitalisti, non ci sono più e quindi non è più possibile reprimere alcuna classe. Ma lo Stato non si è ancora estinto completamente, poichè rimane la salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la disuguaglianza di fatto. Perchè lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale. 4. La fase superiore della società comunista Marx continua: "...In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!". Ora soltanto possiamo apprezzare tutta la giustezza delle osservazioni di Engels, che colpisce implacabilmente con i suoi sarcasmi l'assurdo accoppiamento delle parole "libertà" e "Stato". Finchè esiste lo Stato non vi è libertà; quando si avrà la libertà non vi sarà più Stato. La condizione economica della completa estinzione dello Stato è che il comunismo giunga a un grado così elevato di sviluppo che ogni contrasto di lavoro intellettuale e fisico scompaia, e che scompaia quindi una delle principali fonti della disuguaglianza sociale contemporanea, fonte che la sola socializzazione dei mezzi di produzione, la sola espropriazione dei capitalisti non può inaridire di colpo. Questa espropriazione renderà possibile uno sviluppo gigantesco delle forze produttive. E vedendo come, già ora, il capitalismo intralci in modo assurdo questo sviluppo, e quali progressi potrebbero essere realizzati grazie alla tecnica moderna già acquisita, abbiamo il diritto di affermare con assoluta certezza che l'espropriazione dei capitalisti darà necessariamente un gigantesco impulso alle forze produttive della società umana. Ma non sappiamo e non possiamo sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo, quando esso giungerà a una rottura con la divisione del lavoro, alla soppressione del contrasto fra il lavoro intellettuale e fisico, alla trasformazione del lavoro nel "primo bisogno della vita". Abbiamo perciò diritto di parlare unicamente dell'inevitabile estinzione dello Stato, sottolineando la durata di questo processo, la sua dipendenza dalla rapidità di sviluppo della fase più elevata del comunismo, lasciando assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione assumerà, poichè non abbiamo dati che ci permettano di risolvere simili questioni. Lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio. "Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni", cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch'essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità. "L'angusto orizzonte giuridico borghese", che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: - non avrò per caso lavorato mezz'ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro? -, questo ristretto orizzonte sarà allora sorpassato. La distribuzione dei prodotti non renderà più necessario che la società razioni i prodotti a ciascuno: ciascuno sarà libero di attingere "secondo i suoi bisogni". Dal punto di vista borghese è facile dichiarare che un tale regime sociale è "pura utopia" e coprire di sarcasmi i socialisti che promettono a ogni cittadino di ricevere dalla società, senza alcun controllo del suo lavoro, tutti i tartufi, tutte le automobili, tutti i pianoforti che desidera. Ancor oggi la maggior parte degli "scienziati" borghesi se la cavano con sarcasmi del genere rivelando in tal modo sia la loro ignoranza che la loro interessata difesa del capitalismo. Ignoranza, perchè non a un solo socialista è mai venuto in mente di "promettere" l'avvento della fase superiore del comunismo; in quanto alla previsione dei grandi socialisti sul suo avvento, essa presuppone una produttività del lavoro diversa da quella attuale e non l'attuale borghese, capace, come i seminaristi di Pomialovski, di sperperare "a destra e a sinistra" le ricchezze pubbliche e di pretendere l'impossibile. Fino all'avvento della fase "più elevata" del comunismo, i socialisti reclamano dalla società e dallo Stato che sia esercitato il più rigoroso controllo della misura del lavoro, e della misura del consumo; ma questo controllo deve cominciare con l'espropriazione dei capitalisti, con il controllo degli operai sui capitalisti, e deve essere esercitato non dallo Stato dei funzionari, ma dallo Stato degli operai armati. La difesa interessata del capitalismo da parte degli ideologi borghesi (e dei loro reggicoda del tipo di Tsereteli, Cernov e consorti) consiste precisamente nell'eludere con discussioni e frasi su un lontano avvenire, la questione urgente e di scottante attualità della politica d'oggi: l'espropriazione dei capitalisti, la trasformazione di tutti i cittadini in lavoratori e impiegati di un unico e grande "cartello", vale a dire lo Stato intero, e la completa subordinazione di tutto il lavoro di tutto questo cartello a uno Stato veramente democratico, allo Stato dei Soviet dei deputati operai e soldati. In fondo quando un dotto professore, e dopo di lui il filisteo, e dopo di lui i signori Tsereteli e i signori Cernov parlano delle utopie insensate, delle promesse demagogiche dei bolscevichi, della impossibilità di "introdurre" il socialismo essi alludono appunto a questo stadio o a questa fase superiore del comunismo, che non solo nessuno ha mai promesso, ma non ha neppure mai pensato di "introdurre", per la sola ragione che è impossibile "introdurla". Ci troviamo qui di fronte al problema della distinzione scientifica tra socialismo e comunismo, problema toccato da Engels nel brano precedentemente citato sulla denominazione non esatta di "socialdemocratico". Dal punto di vista politico, la differenza fra la prima fase o fase inferiore e la fase superiore del comunismo probabilmente diventerà col tempo molto notevole, ma oggi, in regime capitalistico, sarebbe ridicolo farne caso, e forse solo certi anarchici potrebbero metterla in primo piano (se ci sono ancora fra gli anarchici uomini a cui la metamorfosi "plekhanoviana" dei Kropotkin, dei Grave, dei Cornelissen e di altre "stelle" dell'anarchismo in socialsciovinisti o anarchici delle trincee - per usare l'espressione di Gay, uno dei pochi anarchici che abbiano conservato l'onore e la coscienza - non ha insegnato nulla). Ma la differenza scientifica fra socialismo e comunismo è chiara. Marx chiama "prima" fase o fase inferiore della società comunista ciò che comunemente viene chiamato socialismo. La parola "comunismo" può essere anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione divengono proprietà comune, purchè non si dimentichi che non è un comunismo completo. Ciò che conferisce un grande pregio all'esposizione di Marx è ch'egli applica conseguentemente anche qui la dialettica materialistica, la teoria dell'evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si sviluppa dal capitalismo. Anziché attenersi a definizioni "escogitate", scolastiche e artificiali, a sterili dispute su parole (che cos'è il socialismo? che cos'è il comunismo?), Marx analizza quelli che si potrebbero chiamare i gradi della maturità economica del comunismo. Nella sua prima fase, nel suo primo grado, il comunismo non può essere, dal punto di vista economico, completamente maturo, completamente libero dalle tradizioni e dalle vestigia del capitalismo. Di qui il fenomeno interessante qual è il mantenimento dell'"augusto orizzonte giuridico borghese" nella prima fase del regime comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la distribuzione dei beni di consumo, suppone pure necessariamente uno Stato borghese, poichè il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all'osservanza delle sue norme. Ne consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese ma anche lo Stato borghese, senza borghesia! Ciò può sembrare un paradosso o un giuoco dialettico del pensiero e questo rimprovero è stato spesso mosso al marxismo da gente che non si è mai data la minima pena di studiarne la sostanza estremamente profonda. Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società, che vestigia del passato sopravvivono nel presente. Marx non introdusse arbitrariamente nel comunismo una particella del diritto "borghese"; egli si rese conto soltanto di ciò che, economicamente e politicamente, è inevitabile nella società uscita dal seno del capitalismo. La democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe operaia contro i capitalisti per la sua emancipazione. Ma la democrazia non è affatto un limite, un limite insuperabile; è semplicemente una tappa sulla strada che va dal feudalesimo al capitalismo e dal capitalismo al comunismo. Democrazia vuol dire uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande importanza hanno la lotta del proletariato per l'uguaglianza e la parola d'ordine dell'uguaglianza se si comprende quest'ultima in modo giusto, nel senso della soppressione delle classi. Ma democrazia significa soltanto uguaglianza formale. E appena realizzata l'uguaglianza di tutti i membri della società per ciò che concerne il possesso dei mezzi di produzione, vale a dire l'uguaglianza del lavoro, l'uguaglianza del salario, sorgerà inevitabilmente davanti all'umanità la questione di compiere un successivo passo in avanti, di passare dall'uguaglianza formale all'uguaglianza reale, cioè alla realizzazione del principio: "Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni". Noi non sappiamo né possiamo sapere per quali tappe, attraverso quali provvedimenti pratici l'umanità andrà verso questo fine supremo. Ma quel che importa è vedere quanto sia falsa l'idea borghese corrente che il socialismo sia qualche cosa di morto, di fisso, di dato una volta per sempre, mentre in realtà soltanto col socialismo incomincerà, in tutti i campi della vita sociale e privata, un rapido, vero, movimento progressivo, effettivamente di massa, a cui parteciperà la maggioranza della popolazione prima, e tutta la popolazione poi. La democrazia è una forma dello Stato, una delle sue varietà. Essa è quindi. come ogni Stato, l'applicazione organizzata, sistematica, della costrizione agli uomini. Questo, da un lato. Ma dall'altro lato, la democrazia è il riconoscimento formale dell'uguaglianza fra i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forma dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che, a un certo grado del suo sviluppo, la democrazia in primo luogo unisce contro il capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di far sparire dalla faccia della terra la macchina dello Stato borghese, anche se borghese repubblicano, l'esercito permanente, la polizia, la burocrazia. e di sostituirli con una macchina più democratica, ma che rimane tuttavia una macchina statale, costituita dalle masse operaie armate, e poi da tutto il popolo che partecipa alla milizia. Qui la "quantità si trasforma in qualità"; arrivata a questo grado, il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che "tutti" effettivamente possano partecipare alla gestione dello Stato. Queste premesse sono, tra l'altro, l'istruzione generale, già realizzata in molti paesi capitalistici più avanzati, poi l'"educazione e l'abitudine alla disciplina" di milioni di operai per opera dell'enorme e complesso apparato socializzato delle poste, delle ferrovie, delle grandi officine, del grande commercio, delle banche, ecc. Con tali premesse economiche, è perfettamente possibile, dopo aver rovesciato i capitalisti e i funzionari, sostituirli immediatamente dall'oggi al domani, - per il controllo della produzione e della distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei prodotti, - con gli operai armati, con tutto il popolo in armi. (Non bisogna confondere la questione del controllo e della registrazione con quella del personale tecnico scientificamente preparato, ingegneri, agronomi, ecc.; questi signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti, lavoreranno ancor meglio domani agli ordini degli operai armati.) Registrazione e controllo: ecco l'essenziale, ciò che è necessario per l'"avviamento" e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d'un solo "cartello" di tutto il popolo, dello Stato. Tutto sta nell'ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura. La registrazione e il controllo in tutti questi campi sono stati semplificati all'estremo dal capitalismo che li ha ridotti a operazioni straordinariamente semplici di sorveglianza e di conteggio, e al rilascio di ricevute, cose tutte accessibili a chiunque sappia leggere e scrivere e fare le quattro operazioni. Quando la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati allora in impiegati) e dei signori intellettuali che avranno conservato ancora delle abitudini capitaliste, questo controllo diventerà veramente universale, generale, nazionale, e nessuno potrà in alcun modo sottrarvisi, "non saprà dove cacciarsi" per sfuggirvi. L'intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario. Ma questa disciplina "di fabbrica" che il proletariato, vinti i capitalisti e rovesciati gli sfruttatori, estenderà a tutta la società, non è affatto il nostro ideale né la nostra meta finale: essa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la società dalle brutture e dalle ignominie dello sfruttamento capitalistico e assicurare l'ulteriore marcia in avanti. Dal momento in cui tutti i membri della società, o almeno l'immensa maggioranza di essi, hanno appreso a gestire essi stessi lo Stato, si sono messi essi stessi all'opera, hanno "organizzato" il loro controllo sull'infima minoranza dei capitalisti, sui signori desiderosi di conservare le loro abitudini capitaliste e sugli operai profondamente corrotti del capitalismo, - da quel momento la necessità di qualsiasi amministrazione comincia a scomparire. Quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua. Quanto più democratico è lo "Stato" composto dagli operai armati, che "non è più uno Stato nel senso proprio della parola", tanto più rapidamente incomincia ad estinguersi ogni Stato. Infatti quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti procederanno essi stessi alla registrazione e al controllo dei parassiti, dei figli di papà, dei furfanti e simili "guardiani delle tradizioni del capitalismo", ogni tentativo di sfuggire a questa registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il popolo diventerà una cosa talmente difficile, un'eccezione così rara, provocherà verosimilmente un castigo così pronto e così esemplare (poichè gli operai armati sono gente che hanno il senso pratico della vita e non dei piccoli intellettuali sentimentali; non permetteranno che si scherzi con loro), che la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume. Si spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla prima fase alla fase superiore della società comunista e, quindi, alla completa estinzione dello Stato. VI. La degradazione del marxismo negli opportunisti Il problema dell'atteggiamento dello Stato nei confronti della rivoluzione sociale e della rivoluzione sociale nei confronti dello Stato, come del resto il problema della rivoluzione generale, ha preoccupato assai poco i teorici e i pubblicisti più in vista della Seconda Internazionale (1889-1914). Ma ciò che è più caratteristico nel processo dello sviluppo graduale dell'opportunismo, processo che è sboccato nel fallimento della Seconda Internazionale nel 1914, è che, persino nei momenti in cui il problema si imponeva con maggior acutezza, ci si sforzava di evitarlo o di non vederlo. Si può dire in generale che la tendenza a eludere il problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria verso lo Stato, tendenza vantaggiosa per l'opportunismo ch'essa alimentava, ha portato al travisamento del marxismo e alla sua completa degradazione. Per caratterizzare, sia pure brevemente, questo deplorevole processo, consideriamo i teorici più in vista del marxismo: Plekhanov e Kautsky. 1. La polemica di Plekhanov con gli anarchici Plekhanov dedicò al problema dell'atteggiamento dell'anarchismo verso il socialismo un opuscolo speciale: Anarchismo e socialismo, uscito in tedesco nel 1894. Plekhanov si ingegnò a trattar questo tema eludendo completamente la questione più attuale, più scottante e, politicamente, più essenziale nella lotta contro l'anarchismo, e precisamente l'atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato e la questione dello Stato in generale! lI suo opuscolo comprende due parti: una storico-letteraria, ricca di preziosi documenti sulla storia delle idee di Stirner, di Proudhon, ecc.; l'altra filistea, con grossolane considerazioni su temi come quello che un anarchico non si distingue da un bandito. Questa combinazione di temi è molto spassosa e caratterizza perfettamente tutta l'attività di Plekhanov alla vigilia della rivoluzione e nel corso di tutto il periodo rivoluzionario in Russia: semi-dottrinario, semi-filisteo, a rimorchio della borghesia in politica, tale si mostrò Plekhanov nel periodo 1905- l 917. Abbiamo visto come, nelle loro polemiche con gli anarchici, Marx ed Engels avessero chiarito con la massima cura i loro punti di vista sull'atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato. Pubblicando nel 1891 la Critica del programma di Gotha di Marx, Engels scriveva: "Noi [cioè Engels e Marx] eravamo impegnati allora, appena due anni dopo il Congresso dell'Aja della [Prima] Internazionale, in una violentissima lotta contro Bakunin e i suoi anarchici". Gli anarchici tentarono appunto di presentare la Comune di Parigi come una cosa per così dire "loro", che confermava la loro dottrina, ma non capirono niente degli insegnamenti della Comune e dell'analisi che Marx ne fece. Sulle questioni politiche concrete: bisogna spezzare la vecchia macchina dello Stato? e con che cosa sostituirla? l'anarchia non ha dato nulla che si avvicini, sia pur approssimativamente, alla verità. Ma parlare di "anarchismo e socialismo" eludendo totalmente la questione dello Stato, senza vedere tutto lo sviluppo del marxismo prima e dopo la Comune, voleva dire cadere inevitabilmente nell'opportunismo. Ciò che infatti occorre all'opportunismo è che le due questioni che noi abbiamo qui indicate non siano affatto poste. Ciò costituisce di per sé una vittoria dell'opportunismo. 2. La polemica di Kautsky con gli opportunisti La letteratura russa possiede certamente assai più traduzioni di Kautsky che non qualsiasi altra. Non è senza ragione che alcuni socialdemocratici tedeschi dicono scherzando che Kautsky è molto più letto in Russia che in Germania. (C'è in questa battuta, sia detto tra parentesi, un fondamento storico molto più profondo di quanto non sospettino quelli che l'hanno lanciata; cioè gli operai russi. avendo presentato nel 1905 una richiesta straordinariamente elevata, mai vista, delle migliori opere della migliore letteratura socialdemocratica del mondo e avendo ricevuto traduzioni e edizioni di queste opere in quantità non conosciuta negli altri paesi, hanno, per così dire, trapiantato a un ritmo accelerato, nella giovane terra del nostro movimento proletario, la notevole esperienza di un paese vicino più avanzato.) Oltre che per la sua esposizione popolare del marxismo, Kautsky è conosciuto da noi soprattutto per la sua polemica con gli opportunisti, capeggiati da Bernstein. Ma c'è un fatto quasi ignorato e che non si può passare sotto silenzio se si vuole studiare come Kautsky abbia potuto perdere così vergognosamente la testa e cadere, durante la grande crisi del 1914-1915, nella difesa del social-sciovinismo. Questo fatto è che prima della sua campagna contro i rappresentanti più in vista dell'opportunismo in Francia (Millerand e Jaurès) e in Germania (Bernstein), Kautsky aveva manifestato grandi esitazioni. La rivista marxista Zarià, che usciva a Stoccarda nel 1901-l902 e difendeva le idee proletarie rivoluzionarie, aveva dovuto polemizzare con Kautsky e qualificare come risoluzione "di caucciù" la risoluzione mitigata, evasiva, conciliante verso gli opportunisti, da lui proposta al Congresso socialista internazionale di Parigi del 1900. Nella stampa tedesca furono pubblicate lettere di Kautsky che rivelano esitazioni non meno rilevanti prima della sua campagna contro Bernstein. Una importanza molto maggiore ha tuttavia il fatto che nella stessa polemica di Kautsky con gli opportunisti, nel suo modo di porre e di trattare la questione, noi costatiamo ora, studiando la storia del suo recente tradimento verso il marxismo, una deviazione sistematica verso l'opportunismo proprio sul problema dello Stato. Prendiamo la prima opera importante di Kautsky contro l'opportunismo, il suo libro Bernstein e il programma socialdemocratico. Qui egli confuta minutamente Bernstein, ma ecco ciò che vi è di caratteristico. Nelle sue Premesse del socialismo, che gli hanno fruttato una fama alla maniera di Erostrato, Bernstein accusa il marxismo di "blanquismo" (accusa in seguito mille volte ripetuta dagli opportunisti e dai borghesi liberali in Russia contro i bolscevichi, rappresentanti del marxismo rivoluzionario). Bernstein si sofferma qui specialmente sulla Guerra civile in Francia di Marx e tenta molto infelicemente, come abbiamo visto, di identificare il modo di vedere di Marx sugli insegnamenti della Comune con quello di Proudhon. Ciò che attrae soprattutto l'attenzione di Bernstein è la conclusione che Marx sottolineò nella prefazione del 1872 al Manifesto del Partito comunista, dove è detto: "La classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini". Questa espressione è talmente "piaciuta" a Bernstein ch'egli la ripete non meno di tre volte nel suo libro, interpretandola nel senso, più deformato, più opportunistico. Come abbiamo visto, Marx vuol dire che la classe operaia deve spezzare, demolire, far saltare (Sprengung, esplosione. Il termine è di Engels) tutta la macchina dello Stato. Ora, secondo Bernstein, Marx avrebbe con ciò messo in guardia la classe operaia contro un ardore troppo rivoluzionario nel momento della presa del potere. Non si può immaginare una falsificazione più grossolana e più mostruosa del pensiero di Marx. Come ha proceduto dunque Kautsky nella sua minuziosissima confutazione del bernsteinismo? Egli si è ben guardato dall'analizzare in tutta la sua profondità la falsificazione del marxismo da parte degli opportunisti su questo punto. Egli ha riprodotto il brano già citato nella prefazione di Engels alla Guerra civile di Marx dicendo che, secondo Marx, la classe operaia non può impadronirsi puramente e semplicemente della macchina statale già pronta, ma che, in generale, essa può impadronirsene, e nient'altro. Che Bernstein attribuisse a Marx esattamente il contrario del suo vero pensiero e che, fin dal 1852, Marx avesse assegnato alla rivoluzione proletaria il compito di "spezzare" la macchina statale, di tutto ciò in Kautsky non vi è nemmeno una parola. Ne risulta che ciò che distingue in modo radicale il marxismo dall'opportunismo nella questione dei compiti della rivoluzione proletaria è da Kautsky fatto sparire! "Possiamo in tutta tranquillità, - scrive Kautsky "contro" Bernstein, - lasciare all'avvenire la cura di risolvere il problema della dittatura del proletariato" (p. 172, ed. tedesca). Questa non è una polemica contro Bernstein, ma, in sostanza, una concessione a Bernstein, una capitolazione di fronte all'opportunismo, perchè gli opportunisti non domandano di meglio che di "lasciare in tutta tranquillità all'avvenire" tutte le questioni capitali relative ai compiti della rivoluzione proletaria. Per quarant'anni, dal 1852 al 1891, Marx ed Engels insegnarono al proletariato che esso deve spezzare la macchina dello Stato. E Kautsky nel 1899, di fronte al completo tradimento del marxismo da parte degli opportunisti su questo punto, sostituisce con un giochetto il problema se si debba spezzare questa macchina, con il problema delle forme concrete di questa demolizione e si trincera dietro questa "incontestabile" (e sterile) verità filistea: non possiamo conoscere in anticipo queste forme concrete! Fra Marx e Kautsky c'è un abisso nell'atteggiamento verso il compito del partito del proletariato, che è di preparare la classe operaia alla rivoluzione. Prendiamo l'opera successiva, più matura, di Kautsky, dedicata essa pure in notevole misura alla confutazione degli errori dell'opportunismo. E' l'opuscolo sulla Rivoluzione sociale. Qui l'autore ha scelto come tema specifico il problema della "rivoluzione proletaria" e del "regime proletario". Egli enuncia molte idee estremamente preziose ma tralascia proprio il problema dello Stato. Nell'opuscolo si parla sempre della conquista del potere statale, e basta; viene scelta cioè una formula che è una concessione agli opportunisti, poiché essa ammette la conquista del potere senza la distruzione della macchina dello Stato. Nel 1902 Kautsky risuscita appunto ciò che Marx nel 1872 dichiarava "sorpassato" nel programma del Manifesto del Partito comunista. L'opuscolo dedica un particolare paragrafo "alle forme e alle armi della rivoluzione sociale". Vi si parla e dello sciopero politico di massa, e della guerra civile, e di quegli "strumenti di dominio di un grande Stato moderno quali sono la burocrazia e l'esercito"; ma degli insegnamenti che la Comune ha già fornito ai lavoratori non una parola. Evidentemente Engels aveva ragione di mettere in guardia soprattutto i socialisti tedeschi contro la "venerazione superstiziosa" dello Stato. Kautsky presenta la cosa in questi termini: il proletariato vittorioso "realizzerà il programma democratico", e ne espone i paragrafi. Di ciò che l'anno 1871 ha fornito di nuovo circa la sostituzione della democrazia proletaria alla democrazia borghese, non un cenno! Kautsky se la cava con alcune banalità dall'apparenza "seria", come questa: "E' ovvio che non arriveremo al potere nell'attuale regime. La rivoluzione stessa presuppone una lotta prolungata, che vada in profondità e avrà quindi il tempo di modificare la nostra attuale struttura politica e sociale". Certo, ciò è "ovvio", come è sicuro che i cavalli mangiano l'avena e che il Volga si getta nel Caspio. C'è solo da rimpiangere il fatto che con una frase vuota e reboante sulla lotta "che va in profondità" si eluda la questione capitale per il proletariato rivoluzionario, quella di sapere in che cosa consista la "profondità" della sua rivoluzione nei confronti dello Stato, nei confronti della democrazia, a differenza delle precedenti rivoluzioni non proletarie. Eludendo questa questione, Kautsky fa in realtà, su questo punto capitale, una concessione all'opportunismo, al quale dichiara a parole una guerra minacciosa sottolineando l'importanza dell'"idea di rivoluzione" (ma che cosa può valere quest'"idea" quando si ha paura di diffondere fra gli operai gli insegnamenti concreti della rivoluzione?) o dicendo: "l'idealismo rivoluzionario innanzi tutto", o dichiarando che gli operai inglesi non sono oggi "gran che meglio dei piccoli borghesi". "Nella società socialista, - scrive Kautsky, - possono esistere l'una accanto all'altra... le più svariate forme di imprese: burocratiche [??], sindacali, cooperative, individuali..." "Ci sono, per esempio, imprese che non possono fare a meno di un'organizzazione burocratica [??], come le ferrovie. L'organizzazione democratica può qui assumere la seguente forma: gli operai eleggono dei delegati che formano una specie di parlamento, e questo parlamento stabilisce il regime del lavoro e sorveglia la direzione dell'apparato burocratico. Altre imprese possono essere affidate ai sindacati; altre infine possono essere organizzate secondo i princípi della cooperazione" (pp. 148 e 115 della traduzione russa, pubblicata a Ginevra nel 1903). Questo ragionamento è sbagliato, è un passo indietro rispetto ai chiarimenti che Marx ed Engels davano negli anni '70 sulla base dell'esperienza della comune. Per quanto riguarda la presunta necessità di una organizzazione "burocratica", le ferrovie non si distinguono in nulla da qualsiasi altra azienda della grande industria meccanizzata, da qualsiasi officina, grande magazzino o grande azienda agricola capitalista. In tutte queste aziende, la tecnica impone la più rigorosa disciplina, la più grande puntualità nell'adempimento della parte di lavoro assegnata a ciascuno, pena l'arresto di tutta l'impresa o il deterioramento del meccanismo o delle merci. In tutte queste aziende naturalmente gli operai "eleggeranno delegati che formeranno una specie di parlamento". Ma il punto centrale è qui che questa "specie di parlamento" non sarà un parlamento nel senso delle istituzioni parlamentari borhesi. Il punto centrale è che questa "specie di parlamento" non si accontenterà di "stabilire il regime del lavoro e di sorvegliare la direzione dell'apparato burocratico" come immagina Kautsky, il cui pensiero non esce dal quadro del parlamentarismo borghese. Nella società socialista "una specie di parlamento" di deputati operai, naturalmente "stabilirà il regime del lavoro e sorveglierà il funzionamento" dell'"apparato", ma quest'apparato non sarà "burocratico". Gli operai, dopo aver conquistato il potere politico, spezzeranno il vecchio apparato burocratico, lo demoliranno dalle fondamenta, non ne lasceranno pietra su pietra e lo sostituiranno con un nuovo apparato, che sarà composto dagli stessi operai e dagli stessi impiegati; e contro il pericolo che anch'essi diventino dei burocrati, saranno immediatamente prese le misure minuziosamente studiate da Marx e da Engels: 1) non soltanto eleggibilità ma anche revocabilità ad ogni istante; 2) stipendio non superiore al salario di un operaio; 3) passaggio immediato a una situazione in cui tutti assumano le funzioni di controllo e di sorveglianza, in cui tutti diventino temporaneamente dei "burocrati", e quindi nessuno possa diventare un "burocrate". Kautsky non ha affatto riflettuto sul senso delle parole di Marx: "La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo". Kautsky non ha affatto capito la differenza fra il parlamentarismo borghese, che unisce la democrazia (non per il popolo) alla burocrazia (contro il popolo) e il sistema democratico proletario che prenderà immediatamente le misure necessarie per tagliare alle radici il burocratismo e sarà in grado di applicarle sino in fondo, sino alla completa distruzione della burocrazia, sino all'instaurazione di una completa democrazia per il popolo. Kautsky ha qui dato prova della solita "venerazione superstiziosa" dello Stato, della solita "fede superstiziosa" nel burocratismo. Passiamo all'ultima e migliore opera di Kautsky contro gli opportunisti, il suo opuscolo La via del potere (non tradotto, mi sembra, in russo, perchè apparso nel 1909, quando da noi la reazione era al culmine). Questo opuscolo segna un grande passo avanti in quanto non tratta né del programma rivoluzionario in generale, come l'opera del 1899 contro Bernstein, né dei compiti della rivoluzione sociale indipendentemente dall'epoca del suo avvento, come l'opuscolo La rivoluzione sociale del 1902, ma delle condizioni concrete che ci costringono a riconoscere che "l'èra delle rivoluzioni" comincia. L'autore parla chiaramente dell'acuirsi degli antagonismi di classe in generale, e dell'imperialismo che ha, sotto questo rapporto, una funzione particolarmente importante. Dopo il "periodo rivoluzionario del 1789-1871" per l'Europa occidentale, l'anno 1905 ha inaugurato un periodo analogo per l'Oriente. La guerra mondiale si avvicina con una paurosa rapidità. "Il proletariato non può più parlare di rivoluzione prematura", "Siamo entrati nel periodo rivoluzionario", "L'èra rivoluzionaria comincia". Queste dichiarazioni sono chiarissime. Quest'opuscolo di Kautsky può servire come utile termine di confronto per vedere ciò che la socialdemocrazia tedesca prometteva di essere prima della guerra imperialistica e quanto in basso essa (e Kautsky con essa) sia caduta allo scoppio della guerra. "La situazione attuale - scriverà Kautsky nell'opuscolo citato - comporta il pericolo che ci si possa facilmente prendere [noi, socialdemocratici tedeschi] per più moderati di quel che in realtà siamo." E' risultato che il partito socialdemocratico tedesco in realtà era incomparabilmente più moderato e più opportunista di quanto non sembrasse! Tanto più caratteristico è il fatto che dopo aver proclamato in modo così categorico che l'èra delle rivoluzioni incominciava, Kautsky, in un opuscolo dedicato, secondo le sue stesse parole, proprio all'analisi del problema della "rivoluzione politica", abbia ancora una volta completamente trascurato la questione dello Stato. Dalla somma di queste omissioni, silenzi, reticenze, non poteva alla fin fine risultare che quel completo passaggio all'opportunismo, di cui parleremo subito. La socialdemocrazia tedesca aveva l'aria di proclamare, per bocca di Kautsky: Io conservo le mie idee rivoluzionarie (1899). Riconosco in particolar modo l'ineluttabilità della rivoluzione sociale del proletariato (1902). Riconosco che una nuova èra di rivoluzioni comincia (1909). Ma tuttavia, nel momento in cui si pone la questione dei compiti della rivoluzione proletaria verso lo Stato (1912), vado indietro in confronto a ciò che Marx disse già nel 1852. Così appunto fu posta la questione nella polemica di Kautsky con Pannekoek. 3. La polemica di Kautsky con Pannekoek Pannekoek, quando entrò in polemica con Kautsky, era uno dei rappresentanti della tendenza "radicale di sinistra", che contava nelle sue file Rosa Luxemburg, Karl Radek e altri, i quali, difendendo la tattica rivoluzionaria, concordavano nel riconoscere che Kautsky stava passando a una posizione di "centro", priva di princípi, oscillante tra il marxismo e l'opportunismo. L'esattezza di questa valutazione è stata pienamente dimostrata dalla guerra, nel corso della quale la tendenza detta di "centro" (falsamente chiamata marxista) o "kautskiana" si è rivelata in tutta la sua rivoltante meschinità. In un articolo, in cui si occupa del problema dello Stato, L'azione di massa e la rivoluzione (Neue Zeit, 1912, XXX, 2), Pannekoek definiva la posizione di Kautsky come un "radicalismo passivo", un "teoria dell'attesa inerte". "Kautsky non vuol vedere il processo della rivoluzione" (p. 616). Ponendo in tal modo la questione Pannekoek affronta l'argomento che ci interessa sui compiti della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato. "La lotta del proletariato - egli scriveva - non è soltanto una lotta contro la borghesia per il potere dello Stato; è anche una lotta contro il potere dello Stato... La rivoluzione proletaria consiste nell'annientare gli strumenti di forza dello Stato e nell'eliminarli [letteralmente: dissolverli, Auflösung] mediante gli strumenti di forza del proletariato... La lotta cessa soltanto quando, raggiunto il risultato finale, l'organizzazione dello Stato è completamente distrutta. L'organizzazione della maggioranza prova la sua superiorità annientando l'organizzazione della minoranza dominante" (p. 548). Le formule con cui Pannekoek riveste le sue idee sono piene di gravi difetti. Ma l'idea è tuttavia chiara ed è interessante vedere in che modo Kautsky ha cercato di confutarla. "Finora, egli dice, l'opposizione tra i socialdemocratici e gli anarchici consisteva nel fatto che i primi volevano conquistare il potere dello Stato, i secondi distruggerlo. Pannekoek vuole l'uno e l'altro" (p. 724). Se l'esposizione di Pannekoek difetta di chiarezza e di concretezza (per non parlare degli altri difetti del suo articolo che non si riferiscono al tema qui discusso), Kautsky da parte sua affronta proprio il principio essenziale del problema accennato da Pannekoek e in questa questione essenziale di principio egli abbandona completamente le posizioni del marxismo per passare del tutto all'opportunismo. La distinzione che egli stabilisce tra socialdemocratici e anarchici è totalmente sbagliata; il marxismo è qui assolutamente snaturato e degradato. I marxisti si distinguono dagli anarchici in questo: 1) i primi, pur ponendosi l'obiettivo della soppressione completa dello Stato, non lo ritengono realizzabile se non dopo la soppressione delle classi per opera della rivoluzione socialista, come risultato dell'instaurazione del socialismo che porta all'estinzione dello Stato; i secondi vogliono la completa soppressione dello Stato dall'oggi al domani, senza comprendere quali condizioni la rendano possibile; 2) i primi proclamano la necessità per il proletariato, dopo ch'esso avrà conquistato il potere politico, di distruggere completamente la vecchia macchina statale e di sostituirla con una nuova, che consiste nell'organizzazione degli operai armati, sul tipo della Comune; i secondi, pur reclamando la distruzione della macchina statale, si rappresentano in modo molto confuso con che cosa il proletariato la sostituirà e come utilizzerà il potere rivoluzionario; gli anarchici rinnegano persino qualsiasi utilizzazione del potere dello Stato da parte del proletariato rivoluzionario, la sua dittatura rivoluzionaria; 3) i primi vogliono che il proletariato si prepari alla rivoluzione utilizzando lo Stato moderno; gli anarchici sono di parere contrario. In questa discussione è Pannekoek che rappresenta il marxismo, contro Kautsky, proprio Marx infatti ha insegnato che il proletariato non può conquistare puramente e semplicemente il potere statale, - nel senso che il vecchio apparato dello Stato passi in nuove mani, - ma deve spezzare, demolire questo apparato e sostituirlo con uno nuovo. Kautsky abbandona il marxismo per l'opportunismo; nei suoi scritti infatti scompare appunto questa distruzione della macchina statale, cosa assolutamente inammissibile per gli opportunisti; egli lascia a questi ultimi una scappatoia che permette loro di interpretare la "conquista" del potere come un semplice conseguimento della maggioranza. Per nascondere questa sua deformazione del marxismo, Kautsky si comporta da scolastico e ricorre a una "citazione" dello stesso Marx. Nel 1850 Marx parlava della necessità di una "decisissima centralizzazione del potere nelle mani dello Stato". E Kautsky trionfante domanda: vuole forse Pannekoek distruggere il "centralismo"? E' un semplice giuoco di prestigio che ricorda quello di Bernstein, con la sua identificazione di marxismo e proudhonismo a proposito dell'idea della federazione da opporre al centralismo. La "citazione" di Kautsky cade a proposito come i cavoli a merenda. Il centralismo è possibile sia con la vecchia macchina dello Stato, che con la nuova. Se gli operai uniscono volontariamente le loro forze armate, si avrà del centralismo, ma questo centralismo sarà fondato sulla "completa distruzione" dell'apparato statale centralista, dell'esercito permanente, della polizia, della burocrazia. Kautsky si comporta in modo assolutamente disonesto eludendo le osservazioni ben note di Marx e di Engels sulla Comune per andare a cercare una citazione che non ha niente a che fare con la questione. "...Vuol forse Pannekoek sopprimere le funzioni statali dei funzionari? - continua Kautsky. - Ma noi non possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati, senza parlare delle amministrazioni dello Stato. Il nostro programma richiede non l'eliminazione dei funzionari dello Stato, ma la loro elezione da parte del popolo... Non si tratta ora per noi di sapere quale forma assumerà l'apparato amministrativo nello "Stato futuro", ma di sapere se la nostra lotta politica distruggerà [letteralmente: dissolverà, auflöst] il potere statale prima che noi l'abbiamo conquistato... [il corsivo è di Kautsky]. Quale ministro coi suoi funzionari potrebbe essere distrutto?" Ed enumera i ministri dell'Istruzione pubblica, della Giustizia, delle Finanze, della Guerra. "No, nessuno dei ministeri attuali sarà soppresso dalla nostra lotta politica contro il governo... Lo ripeto, per evitare malintesi: non si tratta di sapere quale forma la socialdemocrazia vittoriosa darà allo "Stato futuro", ma come la nostra opposizione trasforma lo Stato attuale" (p. 725). E' un vero giuoco dei bussolotti. Pannekoek poneva precisamente il problema della rivoluzione. Il titolo del suo articolo e i brani citati lo dicevano chiaramente. Saltando alla questione dell'"opposizione" Kautsky non fa che sostituire al punto di vista rivoluzionario il punto di vista opportunista. Ne risulta quindi: adesso, opposizione; in quanto a ciò che bisognerà fare dopo la conquista del potere, si vedrà poi. La rivoluzione scompare... E' proprio quello che occorre agli opportunisti. Non è dell'opposizione né della lotta politica in generale che si tratta: si tratta della rivoluzione. La rivoluzione consiste nel fatto che il proletariato distrugge l'"apparato amministrativo" e tutto l'apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati. Kautsky rivela una "venerazione superstiziosa" per i "ministeri"; ma perché questi non potrebbero essere sostituiti, per esempio, da commissioni di specialisti presso i Soviet, sovrani e con pieni poteri, dei deputati operai e soldati? L'essenziale non è affatto di sapere se rimarranno i "ministeri" o se saranno sostituiti da "commissioni di specialisti" o da altre istituzioni: questo non ha assolutamente nessuna importanza. La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi e governi per mezzo di una macchina nuova: è questa l'idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito. La sua domanda a proposito dei funzionari mostra in modo evidente ch'egli non ha capito né gli insegnamenti della Comune né la dottrina di Marx. "Noi non possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati"... Non possiamo fare a meno dei funzionari in regime capitalistico, sotto il dominio della borghesia. Il proletariato è oppresso e le masse lavoratrici sono asservite dal capitalismo. In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l'ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse. Per questo, e solo per questo, nelle nostre organizzazioni politiche e sindacali i funzionari sono corrotti (o, più esattamente, hanno tendenza a esserlo) dall'ambiente capitalistico e manifestano l'inclinazione a trasformarsi in burocrati, cioè in persone privilegiate, staccate dalle masse e poste al di sopra di esse. Qui è l'essenza del burocratismo; e fino a quando i capitalisti non saranno stati espropriati, fino a quando la borghesia non sarà stata rovesciata, una certa "burocratizzazione" degli stessi funzionari del proletariato è inevitabile. Secondo Kautsky risulta dunque che, poichè vi saranno impiegati eletti, vuol dire che anche in regime socialista ci saranno dei funzionari, ci sarà la burocrazia! Ma è proprio questo che è falso. Attraverso appunto l'esempio della Comune, Marx dimostrò che i detentori di funzioni pubbliche cessano, in regime socialista, di essere dei "burocrati" dei "funzionari" nella misura in cui viene introdotta, oltre all'eleggibilità, anche la loro revocabilità in ogni momento, e ancora, si riduce il loro stipendio al salario medio di un operaio e ancora si sostituiscono gl'istituti parlamentari con istituti "di lavoro, cioè esecutivi e legislativi allo stesso tempo". In fondo tutta l'argomentazione di Kautsky contro Pannekoek, e particolarmente il suo magnifico argomento sulla necessità dei funzionari nelle organizzazioni sindacali e di partito, provano che Kautsky ripete i vecchi "argomenti" di Bernstein contro il marxismo in generale. Nel suo libro Le premesse del socialismo, il rinnegato Bernstein si scaglia contro l'idea della democrazia "primitiva", contro quello ch'egli chiama "democratismo dottrinario": mandati imperativi, funzionari non rimunerati, rappresentanza centrale senza poteri, ecc. Per provare l'inconsistenza di questo sistema democratico "primitivo", Bernstein invoca l'esperienza delle trade-unions inglesi, quale è interpretata dai coniugi Webb. Nei settant'anni del loro sviluppo, le trade-unions, che si sarebbero sviluppate "in piena libertà" (p. 137 ed. tedesca), si sarebbero convinte appunto della inefficacia del sistema democratico primitivo e l'avrebbero sostituito con quello abituale: il parlamentarismo unito al burocratismo. In realtà le trade-unions non si sono sviluppate "in piena libertà", ma in piena schiavitù capitalistica, nella quale, certo, "non si può fare a meno" di una serie di concessioni al male imperante, alla violenza, alla menzogna, all'esclusione dei poveri dagli affari di amministrazione "superiore". In regime socialista rivivranno necessariamente molti aspetti della democrazia "primitiva", perchè per la prima volta nella storia delle società civili la massa della popolazione si eleverà a una partecipazione indipendente, non solo nelle votazioni e nelle elezioni, ma nell'amministrazione quotidiana. In regime socialista tutti governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sí che nessuno governi. Col suo geniale spirito critico e analitico Marx vide nei provvedimenti pratici della Comune quella svolta che gli opportunisti temono tanto e, per viltà, si rifiutano di riconoscere perchè rifuggono dal rompere definitivamente con la borghesia, e che anche gli anarchici si rifiutano di vedere, o perchè sono troppo imprudenti, o in generale perchè non comprendono le condizioni delle trasformazioni sociali di massa. "Non bisogna nemmeno pensare a distruggere la vecchia macchina statale; che cosa diverremmo senza ministeri e senza funzionari": così ragiona l'opportunista imbevuto di spirito filisteo e che, in fondo, non solo non crede alla rivoluzione e alla sua potenza creatrice, ma ha di essa una paura mortale (come i nostri menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari). "Bisogna pensare unicamente alla distruzione della vecchia macchina statale; è inutile approfondire gli insegnamenti concreti delle rivoluzioni proletarie passate e analizzare con che cosa e come sostituire ciò che si distrugge": così ragiona l'anarchico (il migliore degli anarchici, naturalmente, e non quello che, al seguito dei signori Kropotkin e compagni, si trascina dietro la borghesia); e l'anarchico arriva in tal modo alla tattica della disperazione, e non al lavoro rivoluzionario risoluto, inesorabile, che però al tempo stesso si pone dei compiti concreti e tiene conto delle condizioni pratiche del movimento delle masse. Marx ci insegna ad evitare questi due errori; ci insegna a dar prova di illimitato coraggio nel distruggere tutta la vecchia macchina statale e ci insegna al tempo stesso a porre il problema in modo concreto: in poche settimane, la Comune potè incominciare a costruire una nuova macchina statale proletaria; ed ecco i provvedimenti da essa presi per realizzare una democrazia più perfetta e sradicare la burocrazia. Impariamo dunque dai comunardi l'audacia rivoluzionaria, cerchiamo di vedere nei loro provvedimenti pratici un abbozzo dei provvedimenti praticamente urgenti e immediatamente realizzabili e arriveremo allora, seguendo questa strada, alla completa distruzione della burocrazia. La possibilità di questa distruzione ci è garantita dal fatto che il socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una vita nuova e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni tali da permettere a tutti, senza eccezione, di adempiere le "funzioni statali", ciò che porta in ultima analisi alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale. "...Il compito dello sciopero di massa continua Kautsky non può essere di distruggere il potere statale, ma soltanto di indurre il governo a fare delle concessioni su una determinata questione o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro [entgegenkommende] ...Ma mai, in nessun caso, ciò" (cioè la vittoria del proletariato su un governo ostile) "può portare alla distruzione del potere statale, il risultato non può essere che un certo spostamento [Verschiebung] nel rapporto delle forze all'interno del potere statale... L'obiettivo della nostra lotta politica rimane dunque, come per il passato, la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo" (pp. 726, 727, 732). Questo è già purissimo e banalissimo opportunismo, la rinuncia di fatto alla rivoluzione, pur riconoscendola a parole. Il pensiero di Kautsky non va oltre un "governo che vada incontro al proletariato", ed è un passo indietro verso il filisteismo in rapporto al 1847, anno in cui il Manifesto del Partito comunista proclamava "l'organizzazione del proletariato in classe dominante". Kautsky sarà costretto a realizzare l'" unità", che gli sta tanto a cuore, con gli Scheidemann, i Plekhanov, i Vandervelde, tutti unanimi nel lottare per un governo "che vada incontro al proletariato". Quanto a noi, noi romperemo con questi rinnegati del socialismo e lotteremo per la distruzione di tutta la vecchia macchina dello Stato affinchè il proletariato armato diventi esso stesso il governo. Sono due cose del tutto diverse. Kautsky sarà costretto a rimanere nella piacevole compagnia dei Legien e dei David, dei Plekhanov, dei Potresov, degli Tsereteli e dei Cernov, che sono pienamente d'accordo nel lottare per uno "spostamento nel rapporto delle forze all'interno del potere dello Stato", per il "conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo", nobilissimo obiettivo che può essere completamente accettato dagli opportunisti e che non esce per nulla dal quadro della repubblica borghese parlamentare. Quanto a noi, noi romperemo con gli opportunisti; e il proletariato cosciente sarà tutto con noi nella lotta, non per uno "spostamento nel rapporto delle forze", ma per il rovesciamento della borghesia, per la distruzione del parlamentarismo borghese, per una repubblica democratica sul tipo della Comune o della repubblica dei Soviet dei deputati operai e soldati, per la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Nel socialismo internazionale vi sono tendenze ancora più a destra di quella di Kautsky: la Rivista mensile socialista in Germania (Legien, David, Kolb e molti altri, compresi gli scandinavi Stauning e Branting); i jauressisti e Vandervelde in Francia e nel Belgio; Turati, Treves e gli altri rappresentanti della destra nel Partito socialista italiano; i fabiani e gli "indipendenti" (il "partito operaio indipendente" è sempre stato, in realtà, dipendente dai liberali) in Inghilterra e tutti gli altri. Tutti questi signori, che hanno una parte assai notevole e molto spesso preponderante nell'attività parlamentare e nella stampa del partito, respingono apertamente la dittatura del proletariato e rivelano un evidente opportunismo. Per essi la "dittatura" del proletariato è "in contraddizione" con la democrazia! In fondo niente di serio li distingue dai democratici piccolo-borghesi. Abbiamo quindi diritto di concludere che la Seconda Internazionale, nell'immensa maggioranza dei suoi rappresentanti ufficiali, è completamente caduta nell'opportunismo. L'esperienza della Comune è stata non soltanto dimenticata ma travisata. Invece di infondere nelle masse operaie la convinzione che si avvicina il momento in cui esse dovranno agire e spezzare la vecchia macchina statale, sostituirla con una nuova e fare del loro dominio politico la base della trasformazione socialista della società, si è inculcato in esse la convinzione contraria, e la "conquista del potere" è stata presentata in modo tale che mille brecce rimanevano aperte all'opportunismo. La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo.

 
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