La Carboneria a Solofra La partecipazione ai Moti carbonari del 1820 Una derivazione del Giacobinismo irpino Un primo risveglio della massa popolare, un progresso nella vita politica La Carboneria Una setta politica popolare al centro degli avvenimenti che agitarono il Napoletano nei primi decenni dell'Ottocento. Fu una propaggine della Massoneria. Massoneria, antica società politica, che accoglieva adepti di grado sociale elevato, asservita a Napoleone e ai Napoleonidi tanto da diventarne un efficace strumento di governo ed introdotta nel Napoletano da Giuseppe Bonaparte. Una "Loggia massonica" fu installata ad Avellino, quando la città divenne capoluogo, da Giacomo Mazas, primo Intendente della nuova provincia. Alcuni dicono che la setta fu introdotta dagli esuli del 1799 altri dai francesi nel 1806 comunque essa restò nell'ambito militare fino al 1809. In un rapporto del governatore militare a Gioacchino Murat si legge: "Des renseignements authentiques m'ont prouvè que la propagation de la Charbonerie dans le Royaume de Naples a commencè dans la Province d'Avellino, vers la fin de 1811; mais elle n'a pris de l'accroissement que vers la moitiè de 1812; aujourd'hui il n'y a pas un village dans le royaume qui n'ait sa Vente". Si diffuse in Irpinia quando partirono le truppe austriache nel 1818 e Guglielmo Pepe assunse il comando della Divisione territoriale di Avellino e di Foggia. Questi chiese di avere come capo del suo Stato Maggiore Lorenzo de Conciljis col quale organizzò, per la difesa dell'ordine pubblico e per la distruzione del brigantaggio, le milizie civili. Sia il Pepe che il de Conciljjs resero le milizie consone alle loro aspirazioni, quindi vi introdussero solo Carbonari e il de Conciljis, per la conoscenza che aveva della provincia irpina, scelse Ufficiali di fede liberale. Scopo: educazione del ceto umile al regime costituzionale. Un Reggimento era costituito da 3 Battaglioni, uno per ogni distretto della provincia, e da 32 Compagnie, una per ogni Circondario. Nei paesi durante le feste e tutte le domeniche in ogni Comune la gioventù in divisa militare e con fucili e baionette si esercitava. Ogni setta si chiamava Vendita o Famiglia, il luogo dove si riunivano era detto Baracca, lo spazio circostante Foresta, gli affiliati Buoni Cugini o Figli di S. Teobaldo, che era il protettore, chi li dirigeva Gran Maestro, i segni sul libro nero degli esclusi anneriti, le donne, che all'inizio cucivano le uniforme i distintivi (poi vi si aggregarono), giardiniere, il distintivo era un nastro tricolore chiamato chantillon. Non si trovano statuti, catechismi, elenchi o libri perché tutto fu distrutto nella reazione. A Napoli il 17 maggio del 1821 furono bruciati ben 22mila catechismi. In Irpinia e a Solofra In Irpinia c'erano 192 Vendite, molte sorte durante i mesi di vittoria della rivoluzione, su 136 Comuni. Esse professavano la devozione a Gesù Cristo e propagavano idee di libertà e di uguaglianza, di odio alla tirannide, cioè preparavano le coscienze al cambiamento. Solofra ebbe all'inizio tre Vendite: I figli di Bradamante, I novelli Greci, I difensori della libertà. Per considerare la diffusione delle nuove idea nella società solofrana, vale la pena considerare che Serino, S. Michele di Serino, S. Stefano del sole ne avevano una ciascuna, Montoro nessuna. Durante il breve governo carbonaro nel Regno delle Due Sicilie (luglio 1820-marzo1821) tutto il popolo carbonaro della Regione Irpina, diviso in 3 Tribù, fu rappresentato da un'Assemblea di deputati che si chiamava Gran Dieta (che era consulente del potere legislativo di Napoli) e fu governato da un Senato di 9 membri e da una Magistratura. Solofra apparteneva alla Tribù Partenia. I Deputati delle tre Tribù della Regione Irpina si riunirono nei primi tre giorni di settembre del 1820 in Gran Dieta e nominarono i loro membri. Tra essi "Gran Secondo Assistente" fu il "Buon Cugino" Carminantonio Giliberti di Solofra. Altre riunioni della Dieta furono tenute ad ottobre e a dicembre dello stesso anno dove si gettarono le basi per la creazione di una Lega Sannitico-Irpina per stringere un'alleanza con le terre dell'Aquila, di Isernia, di Chieti, contro i nemici dell'ordine, per il bene della patria e il sostegno del Trono Costituzionale. Il solofrano Nicola Giannattasio nominò come suo rappresentante Nicola Lucente di Catanzaro. La Rivoluzione Carbonara in Irpinia Il prete Luigi Minichini guida l'insurrezione ad Avellino Nella notte tra il 1° e il 2 luglio (il giorno precedente era stato S. Teobaldo) i sottotenenti Morelli e Silvati disertarono con le loro truppe dal "Reggimento Borbone Cavalleria", stanziato a Nola e insieme al prete Luigi Minichini e a 21 settari con la bandiera spiegata e al grido di Via Dio, viva il re e viva la Costituzione si diressero ad Avellino. La piazza di Avellino era comandata dal generale Colonna, uomo debole, che lasciava fare tutto a Lorenzo de Conciljis. Costui, era capo dello Stato Maggiore mentre Guglielmo Pepe era al comando delle Province di Avellino e di Foggia, entrambi con l'incarico di organizzare la difesa dell'ordine pubblico. Sia il De Conciljis che il Pepe, che si erano battuti per la Repubblica Napoletana (1799), si erano adoperati a diffondere la Carboneria tra le milizie del Principato Ultra, tanto che i parroci, le autorità municipali li ricevevano, nei loro giri di ispezione, con segni "carbonareschi". Il de Conciljis inoltre ad Aversa si incontrava col Morelli e il Silvati ed altri ufficiali carbonari e dirigeva le spedizioni di emissari carbonari in occasione di fiere, di feste e mercati, per stringere accordi e diffondere l'idea rivoluzionaria. Questa azione venne a conoscenza dell'Intendente del Principato Ultra, marchese di Sant'Agapito, e delle stesse autorità che trasferirono il Pepe in Calabria e il de Conciljis in Abruzzo. Il de Conciljis temporeggiò prima di raggiungere la nuova sede, moltiplicò le occasioni di riunioni popolari dove erano esposti cartelli inneggianti alla Costituzione e si sentivano grida di "evviva", mentre il suono delle bande serviva per non farle giungere alle orecchie delle autorità. Nei giorni precedenti l'insurrezione c'erano state assemblee di piazza, che dimostravano che tutto era pronto. All'arrivo delle truppe del Morelli e del Silvati ad Avellino, il de Conciljis fece finta di combattere gli insorti, in effetti li favorì, infatti fece deviare lo squadrone insorto verso Mercogliano per toglierlo dalla strada principale e richiamò da tutti i Comuni le compagnie di militi, annunziando che era scoppiata la rivolta e facendo fortificare gli sbocchi provinciali. Il Morelli, da Mercogliano la sera del 2 luglio, poté con le milizie giunte dai Comuni portarsi al passo di Monteforte per attendere l'attacco delle truppe regie. Tra i capi settari ci fu il solofrano Raffaele Giannattasio Il giorno dopo nel palazzo dell'Intendente le autorità insieme al de Conciljis si riunirono per decedere il da farsi ma dalla piazza giunse il rumore della folla. Non erano più poche persone ribelli ma tutto il popolo con i suoi deputati che chiedeva la Costituzione. A capo delle forze rivoluzionarie fu posto il de Conciljis, che insieme al popolo nel Largo dei Tribunali (oggi piazza della Libertà) giurarono fedeltà al re e alla Costituzione. Il de Conciljis esautorò l'Intendente, che non aveva voluto giurare la Costituzione, emanò un proclama di rigido rispetto alle leggi e alle autorità, fece organizzare in ogni Comune una guardia interna di sicurezza per la custodia dei detenuti e delle casse pubbliche. In tutti i Comuni ci fu fervore e zelo per assicurare l'ordine pubblico. Intanto si organizzarono le truppe per la difesa dalle soldatesche del Re, che avanzavano da Salerno guidate dai generali Campana e Nunziante, e dalla parte di Mugnano del Cardinale coi generali Roccaromana e Carrascosa. Si ebbero piccoli scontri tutti a favore delle truppe carbonare. Nella piana di Montoro (presso S. Pietro) le truppe regie furono attaccate per qualche ora costringendo il generale Campana a ritirarsi sopra Nocera (4 luglio). Tanto fu l'apporto della popolazione che il generale Nunziante da S. Severino scrisse al re nella notte del 4 luglio: Qui non si tratta di combattere pochi uomini malamente raccozzati senza piani, come in tanti altri scontri, diretti solo da private passioni e da malnati interessi. Le intere popolazioni domandano la Costituzione e la sperano dal senno, dal cuore e dallo accorgimento che distinguono V. M. In tale stato di cose il combattere sarebbe lo stesso che accrescerne le forze [...]. Ogni indugio, o Sire sarebbe funesto. I ribelli giunsero a Salerno dove era stata proclamata la Costituzione. Presto tutto il Regno insorse e all'alba del 6 luglio il re fece affiggere un proclama dove prometteva la Costituzione. Ecco come l'episodio del luglio del 1820 è raccontato dal canonico solofrano Antonio Giliberti, un testimone di quei fatti: "Moveva da Salerno per quel di Avellino un Corpo di soldatesca disciplinata, capitanata dal Generale Campana, transitando per questa via . Avutone sentore alquanti solofrani scapati (Carbonari) si postarono in agguato, mano armata nella boscaglia che fiancheggiava il transito poco lungo dall'abitato; e come furono a tiro verso le ore due pomeridiane, nel punto detto Selva piana scaricarono colpi sopra la Truppa e fuggirono. Imbestiatata per tanto oltraggio la Milizia progredì sopra Solofra facendo fuoco incessante a destra e a sinistra, preceduta dal fatale motto: ferro e fuoco. Avresti creduto che fra poco si saria detto: Qui fu Solofra. Ma invece dopo circa 3 ore di palpiti e di terrore, cessato il fragore della moschetteria, dei tamburi e delle trombe, successe un silenzio profondo ed una calma. Il Generale placidamente con la Truppa per la via medesima onde era venuto, restrocesse. Non si ebbero altri danni che le invetriate dalla palle soldatesche stritolate e la morte di una donna. Lo storico libellista Pietro Colletta segna erroneamente il giorno 3 luglio per la marcia del Campana, ed omette il fatto di Solofra, forse per non fare un appunto ai Carbonari Solofrani suoi consettari di tanta vigliaccheria". Elezioni politiche al Parlamento napoletano, primo parlamento italiano Ferdinando di Borbone, che era stato costretto a dare la Costituzione, si appartò per non essere coinvolto, mentre il figlio Francesco, Vicario del Regno, indisse le elezione dei Deputati al Parlamento Napoletano (22 luglio 1820). La Giunta che preparò le elezioni fu presieduta da un Delegato Speciale di Serino. I parroci ebbero l'ordine di spiegare e leggere al popolo sia la Costituzione che il Proclama per la convocazione dei comizi. Erano ammessi al voto tutti i capifamiglia di 21 anni, le liste furono formate dal parroco, dal sindaco e dal giudice che in un'assemblea in parrocchia elessero 11 elettori ogni 200 votanti. Costoro elessero un elettore parrocchiale (20-8-1820). Tutti gli elettori parrocchiali si congregarono nel capoluogo di ogni distretto e nominarono gli elettori distrettuali (27-8-1820). Gli elettori distrettuali trasferitisi nel capoluogo della Provincia elessero i deputati (3-9-1820). Dovendosi eleggere un Deputato (doveva avere 25 anni, essere nativo o residente da 7 anni ed essere possidente) ogni 70mila persone, il Principato Ultra ne ebbe 5. Il Deputato più vicino a Solofra fu di Serino, Raffaele Anzuoni fu Matteo. Il Parlamento napoletano fu inaugurato il 1° ottobre del 1820. Il 19 marzo del 1821 il Parlamento si riunì con solo 26 Deputati, tra i quali Giuseppe Poerio che scrisse la protesta contro il tradimento del re. Il 24 marzo i Deputati erano 22 e poi non potettero farlo più per l'arrivo delle armi austriache. Le nuove milizie Fu creato dal nuovo governo un corpo militare straordinario richiamando al servizio, per la durata di 6 mesi, i congedati. Anche i Carbonari ne crearono uno a spese delle Vendite, perché potessero trovarsi pronti per i bisogni della nazione. Ma la risposta non fu solerte né fatta con slancio e volontà di sacrificio. Così il paese si trovò malamente armato materialmente e spiritualmente per sostenere lo sforzo di una guerra a difesa della Costituzione. Il tradimento di re Ferdinando La Costituzione data da re Ferdinando fu conforme a quella spagnola e portò alle elezioni del Parlamento del Regno costituzionale. Intanto la Carboneria aumentava le Vendite che giunsero a 192. Si giunse però anche all'inquinamento della idea rivoluzionaria da parte di opportunisti che cercavano vantaggi, si diffuse l'indisciplina nell'esercito, mentre c'erano gli Ultra Carbonari che chiedevano la Repubblica, e i Siciliani insorgevano per l'indipendenza da Napoli. Ferdinando I annunziò al Parlamento che i suoi alleati, Russia, Austria, Prussia, lo avevano invitato ad un loro Congresso a Lubiana per discutere le questioni politiche del Regno. I Carbonari furono diffidenti, ma il re partì ugualmente ed ebbero ragione perché Ferdinando ritornò con un esercito austriaco in prima linea e con uno russo di sostegno, che proclamarono di venire da amici se il Regno si fosse assoggettato. Dinanzi al tradimento del re il Parlamento napoletano accettò di difendere la Costituzione e quindi di fare la guerra contro gli austriaci della Santa Alleanza. A capo delle truppe si pose il de Conciljis il quale prima di partire organizzò le milizie cittadine nelle province per raccomandare ordine e concordia. L'esercito carbonaro era fatto di gente non adatta alla guerra, preti, frati, avvocati, proprietari, tutti male equipaggiati ed armati: fu facile avere la meglio su di loro. Il 24 marzo del 1821 i soldati austriaci entrarono in Napoli, il 27 in Avellino. Vi restarono fino al 1827. Ritorno di re Ferdinando Sconfitte le truppe di Guglielmo Pepe in Abruzzo, il re, ritornato da Lubiana, si fermò a Firenze e poi a Roma, dove tante città del napoletano gli inviarono i loro rappresentanti per invitarlo a tornare. Ciò fece anche il Decurionato di Avellino. L'Intedente Marino entrato ad Avellino rivolse ai Comuni una circolare nella quale annunziava in Provincia l'arrivo di truppe austriache e ingiungeva di tenersi pronti per dare loro gli alloggi, i viveri e i foraggi. Fu una forzata ospitalità che durò 6 anni. Le truppe più vicine a Solofra furono quelle di Atripalda: 600 uomini che furono dislocati anche nei centri vicini. Da V. Cannaviello, Gli Irpini nella rivoluzione del 1820 e nella reazione, Avellino, 1941. D. Luigi Minichini D. Domenico Gentile D. Antonio Montano D. Camillo Sepe D. Giovanni Rossi D. Giuseppe Papa Arcangelo De Simone Carlo Molinaro Giuseppe Sallusto Giovanni Siciliano Raffaele Raiola Mario Caruso Crisforo Balsamo Luigi Del Vecchio Aniello Giugliano Michele Giugliano Vincenzo Giordano Michele Cappetta Gaetano Giannone D. Francesco Pesce Andrea Rosato38 37 28 34 21 26 34 42 28 20 30 23 23 25 46 35 26 25 28 25 40Nola Nola Napoli Nola Nola S. Maria S. Giovanni a T. Nola Nola Nola Nola Pozzo C. Pozzo C. Piazzolla Piazzolla Piazzolla Piazzolla Nola SavianoNola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola Nola SavianoSacerdote Proprietario Caffettiere Farmacista Studente Scribente Cap.le Armigeri Armigero Negoziante Armiere Bettoliere Industrioso Sartore Proprietario Proprietario Proprietario Massaro Massaro Massaro Negoziante Proprietario Nominativi degli individui che partirono da Nola nella notte del 1° Luglio 1820 (i Moti Carbonari del 1820-21 I genovesi sospettavano di essere stati traditi da Lord Bentinck che avrebbe trattato la cessione della Liguria al Piemonte per denaro: un dipinto di Felice Guascone (157) si ricollega a questa tradizione: una donna, la Liguria, sorvegliata da due sentinelle inglesi punta l'indice accusatore verso il generale inglese e Vittorio Emanuele I che, seduti a un tavolo, ricoperto di monete d'oro, sembrano mercanteggiare. Vicino a loro, un giovane chiude dei sacchi ripieni di danaro che una barca provvede a trasportare verso un legno da guerra inglese, all'ancora al largo della lanterna. Lo stesso Guascone titola questa scena: " Liguria.sic erat in fatis.diviserunt sibi omnia bona mea. 1814". E' dello stesso autore il dipinto che rappresenta l'entrata di Vittorio Emanuele I a Genova l'8 febbraio 1815, che ha la legenda "1815-1816-1817 Universali miserie e mali". Sullo sfondo, la berlina reale è seguita da ufficiali, gesuiti, e frati cappuccini, con allusione al potere assoluto del sovrano fondato sul militarismo e sul clero. In primo piano, le conseguenze di questo potere: mendichi, storpi, vecchie donne e bambini in condizioni miserevoli. Il primo pannello della terza sala reca un ritratto del re di Sardegna (lit. 161) e un manoscritto a sua firma con il testo delle regie patenti con le quali conferiva a Genova l'uso del proprio stemma, ridisegnato con alcune variazioni araldiche. Nei grifi, che hanno la coda tra le zampe, anziché eretta, come ad esempio in una bandiera del 1747 nella I sala (35), si volle vedere il segno della volontà di soffocare l'orgoglio dei genovesi. Stampe, manifesti e manoscritti scandiscono gli avvenimenti seguiti alla abdicazione di Vittorio Emanuele I, dopo i moti carbonari del 1821, dall'amnistia e dalla costituzione concessa dall'ambiguo Carlo Alberto, reggente al trono in attesa dell'arrivo del nuovo re, Carlo Felice (166), che era in visita al duca di Modena, Francesco IV, al proclama cui cui lo stesso re dichiarava nulle le iniziative del reggente, e alle conseguenti proteste dei genovesi, che insorsero prendendo ad ostaggio il governatore della città Giorgio Andrea Des Geneys. di fronte al successivo annullamento degli stessi provvedimenti. La rivolta fu sedata e Giovanni Battista Laneri, Giuseppe Pacchiarotti e Cesare Ceppi, accusati di esserne stati i promotori, furono condannati a morte con sentenza del 23 agosto 1821. Un cifrario della Giovine Italia è il primo documento relativo a questa organizzazione fondata a Marsiglia da Giuseppe Mazzini nel 1831, che si proponeva di rendere l'Italia una, indipendente, libera e repubblicana; nonostante le precauzioni adottate, a Genova la polizia ne scoprì le trame e arrestò dodici patrioti; tra essi Efisio Tola e Andrea Vochieri furono giustiziati a Chambery il 10 giugno 1833. Pochi giorni dopo, nelle carceri di Palazzo Ducale si tolse la vita Jacopo Ruffini, raffigurato in un busto in gesso di A. Gastaldi (179) e in una bella miniatura e in un dipinto di G. Isola (185). Della famiglia Ruffini, l'Istituto Mazziniano conserva ed espone molti documenti e cimeli : la Tesi di laurea in Medicina di Jacopo, un busto in marmo e una miniatura raffiguranti la madre , Eleonora. Di Giovanni che, con il fratello Agostino, visse a lungo in esilio a Londra insieme a Mazzini, divenendo famoso come scrittore di romanzi popolari ambientati in Liguria, si vede il manoscritto del "Dottor Antonio". Ad Agostino appartenne una elegante edizione inglese del 1823 della "Divina Commedia", di piccolo formato, che gli lasciò in suo ricordo e gli dedicò Laura Dinegro Spinola (180). Era la "Lilla" del Lorenzo Benoni, una romantica figura di patriota, figlia del marchese Giancarlo Dinegro, morta di tisi a soli 35 anni.. Di notevole rilevanza sono i documenti relativi alla fallita spedizione nella Savoia del febbraio del 1834: un elenco dei partecipanti della spedizione (dei 978 iscritti alla Giovine Italia su cui si contava, ne erano presenti soli 133; 212 erano realmente "impediti", gli altri non si erano presentati); un'accurata relazione dei fatti stesa da Carlo Bianco, teorico della rivoluzione per bande; una circolare diffusa dopo il fallimento dei moti, firmata da Filippo Strozzi, Masaniello e Facino Cane, pseudonimi che nascondevano le identità di Mazzini, Giovanni Ruffini e Luigi Amedeo Melegari. In essa vi era il programma per la riorganizzazione della Giovine Italia e per ripresa della lotta. Una litografia, ispirata da Mazzini e pubblicata a Zurigo nel 1834, intitolata I nostri martiri, rappresenta un'allegoria dei moti carbonari e mazziniani: da una croce e da un'ara, simboli del sacrificio di molti patrioti, si leva un raggio di luce ad illuminare un sentiero tortuoso che deve essere percorso per raggiungere la libertà. Ai lati, su massi, quasi pietre miliari di questa via, sono incisi i nomi dei primi martiri. Di grande interesse storico è infine un raro cimelio (199): una bandiera della Giovine Italia, tricolore a bande orizzontali, appartenuta ad Antonio Dodero, mazziniano esiliato nel 1833 a Marsiglia e, in seguito, a Galatz e a Costantinopoli. La cultura genovese nel periodo della Restaurazione aveva come centro vitale il salotto del Marchese Giancarlo Dinegro. Era il punto di riferimento degli uomini di cultura non solo italiani, che si trovavano di passaggio a Genova. Dalla sua villetta passarono Manzoni, Monti, Stendhal, Balzac e tantissimi altri. Da vero mecenate, ospitava con continuità uomini di lettere e di scienze genovesi; tra essi il fisico Giuseppe Mojon, il letterato Faustino Gagliuffi, il medico Luigi Goggi, il drammaturgo Paolo Giacometti, ritratto da Giuseppe Frascheri, il medico Davide Chiossone (210), fondatore della scuola per ciechi, tuttora attiva. Organizzò concerti per Niccolò Paganini,(207) di cui è esposto un ritratto anonimo pressoché sconosciuto. Un altro salotto genovese, frequentato soprattutto da esponenti del movimento liberale e democratico, fu quello di Bianca Rebizzo, di cui si può ammirare un artistico monumento marmoreo. Il 12 aprile 1842 a Torino si celebrarono le nozze tra il duca di Savoia, Vittorio Emanuele, futuro re d'Italia e l'arciduchessa d'Austria, Maria Adelaide, figlia del governatore di Milano, fratello dell'Imperatore d'Austria. Gli sposi vennero a Genova e nell'occasione furono organizzati grandiosi festeggiamenti descritti in una analitica cronaca e visualizzati in quattro dipinti di Domenico Cambiaso. La maestosa coreografia aveva l'epicentro in una grande isola natante di forma quadrangolare con le basi simili a scogli emergenti dall'acqua; ai lati la costruzione era stata trasformata in un giardino con alberi, vialetti e prati artificiali; al centro aveva un padiglione a forma di ninfeo, destinato ad accogliere i sovrani. Tra le altre costruzioni effimere spiccava un "Duomo di Milano", elevato in onore della sposa. L'excursus storico riprende con i ritratti di alcuni componenti la sfortunata spedizione dei fratelli Bandiera del 1844, in litografie tratte da disegni eseguiti in carcere da uno di loro, Giuseppe Pacchioni. La scena della fucilazione dei due eroici fratelli è il tema di un dipinto di Camillo Costa. Conclude il settore una serie di documenti relativi a Giuseppe Garibaldi, esule in Sudamerica dal 1834. In una litografia vi è il campo di battaglia di Sant'Antonio al Salto, dove rifulse il valore del giovane eroe e della sua legione italica in difesa dell'indipendenza dell'Uruguay, minacciata dall'Argentina. La cronaca della battaglia è in due giornali di Montevideo del marzo del 1846, il "Nacional" e il "Legionario italiano" scritto per gli esuli italiani in Sudamerica da Giambattista Cuneo. Alla notizia delle riforme del 1847 e dei primi moti rivoluzionari in Italia, Garibaldi torna in patria con 62 compagni sul brigantino "Bifronte", al quale volle mutare il nome con il beneaugurante "Speranza". Al periodo sudamericano di Garibaldi appartengono due suoi ritratti; il primo, datato 1847, non firmato, è attribuibile a Gaetano Gallino per le sue affinità stilistiche con altri ritratti dell'eroe dipinti dallo stesso autore. Il secondo (227) fu eseguito, come si legge in una didascalia autografa dell'autore, da Erminio Bettinotti, nel 1842. Si tratta delle prime immagini riprese dal vero all'eroe dei due mondi, presentato ancora senza la tradizionale camicia rossa, che adottò per la prima volta nel 1843. Vicino a lui compare una tela raffigurante la moglie Anita Al Congresso di Vienna (tenutosi nella capitale dell'Impero austro-ungarico dal settembre del 1814 al giugno dell'anno successivo) i rappresentanti delle Potenze che avevano vinto Napoleone (Inghilterra, Austria, Prussia e Russia) decretarono che tutto l'assetto geo-politico europeo fosse "restaurato" (la Restaurazione) così com'era prima della Rivoluzione francese e del tornado napoleonico. Praticamente furono rimessi sui loro troni quei monarchi che Napoleone aveva fatto sloggiare. L'Italia, ad esempio, tornò ad essere quell'arlecchinata di Stati e Staterelli che vediamo nella cartina qui sotto (il principe di Metternich, primo ministro austriaco, e che nella spartizione diede all'Austria la parte del leone, non l'aveva sprezzantemente definita una semplice "espressione geografica"?). Il Regno di Sardegna tornò ai Savoia, il Regno lombardo-veneto passò all'Austria dopo che Napoleone aveva debellato la secolare Repubblica di Venezia, il Ducato di Parma e Piacenza fu assegnato all'austriaca Maria Luisa d'Asburgo (già moglie di Napoleone e, come tale, imperatrice dei Francesi), il Granducato di Toscana a un arciduca d'Asburgo-Lorena (quindi sempre Casa d'Austria), gli Stati pontifici tornarono al Papato (inoltre la Chiesa riottenne l'esclusiva in campo educativo e scolastico, che prima di Napoleone era sempre stato appannaggio dei battaglieri Gesuiti; e a lei, sempre in pista quando si tratta di indottrinare il popolo, questo bastò). Sul Regno delle Due Sicilie tornarono a governare i Borboni di Napoli; più altri Staterelli minori. Bisognerà aspettare l'impresa dei Mille di Garibaldi (1860) e la Breccia di Porta Pia (1870) perché l'Italia divenga finalmente uno Stato unitario sotto la monarchia costituzionale dei Savoia, e sotto l'accorta guida del grande artefice Camillo Cavour (che tuttavia non riuscì a vedere Roma capitale dell'Italia unita). Una Unità territoriale ancora parziale: restano infatti irredente Trento e Trieste i cui territori sono in mano austriaca, e che l'Italia riavrà solo nel 1918, con la vittoria della Prima guerra mondiale. gli Stati italiani dopo la Restaurazione e prima dell'Unità . In questa pagina, comunque, voglio semplicemente parlarti, caro lettore, di quelli che furono gli stati d'animo e gli orientamenti politici delle varie popolazioni italiane dopo la Restaurazione e nella prospettiva dell'Unità d'Italia. Sul principio i nuovi Governi incontrarono abbastanza il favore delle popolazioni. A Venezia i cittadini accolsero gli Austriaci come liberatori dal regime poliziesco e rapace dei Francesi. I granduchi di Toscana (anch'essi austriaci) instaurarono un governo mite e tollerante, riconoscendo ai nobili il potere sulle amministrazioni locali. Entro certi limiti anche la stampa era libera. In Lombardia l'antica nobiltà, insieme alla classe mercantile, agli artigiani e al clero, furono favorevoli al ritorno degli Austriaci, nel cui governo vedevano una garanzia per la pace e la stabilità interna. Facevano loro, però, da contraltare i giovani, insieme a liberi professionisti, funzionari pubblici e intellettuali, che nei vent'anni precedenti avevano assimilato e fatte proprie le idee libertarie venute dalla Francia e chiedevano un governo costituzionale indipendente da quello, accentratore, di Vienna. Furono delusi. La Lombardia non ebbe né costituzione né autonomia. Da qui i primi segni di insofferenza verso il nuovo padrone e i germogli di quelli che, di lì a qualche decennio, sarebbero stati i primi moti rivoluzionari. La casta nobiliare più scontenta fu quella siciliana. Oltre a detestare il governo centrale di Napoli, si videro togliere quella costituzione e quella larga fetta di potere autonomo che avevano ricevuto nel 1812. Non meno scontenti i Genovesi e i Sardi, che nutrivano una profonda antipatia verso i Piemontesi, avendo vanamente sperato in una propria costituzione e autonomia. E così proprio a Genova si ebbero i primi centri di ribellione (lo stesso Giuseppe Mazzini era genovese); mentre la Sicilia rimase in un sempiterno stato insurrezionale per tutto il secolo XIX, anche ad unificazione avvenuta. (Detto per inciso, si parla sempre di casta nobiliare, contenta o scontenta dei nuovi regimi: il popolo minuto è praticamente ignorato. Ma non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di regimi "restaurati" secondo quello che era l'Ancien Régime così com'era prima della Rivoluzione francese e dei suoi fondamentali princìpi di Liberté, Egalité, Fraternité. Allora, come ora con la Restaurazione di quell'Ancien Régime, solo nobili e clero erano le classi privilegiate: del popolo quasi nessuna considerazione). Ma quanto fu "restaurato"? in Piemonte (il Regno di Sardegna) tutto. Vittorio Emanuele I di Savoia, deciso a governare come se l'invasione francese non fosse mai avvenuta, si affrettò a decretare soppresse e nulle tutte le leggi emanate dai Francesi; e tuttavia, di quello che avevano lasciato i Francesi, non tutto fu ritenuto da buttare: fu mantenuta, infatti, la loro legislazione sul controllo centrale dei poteri locali, l'organizzazione delle forze di polizia, e furono richiamati in servizio ufficiali dell'esercito ritenuti indispensabili pur se di nomina francese. Molti di costoro, però, vennero ben presto a costituire una minaccia per il regime per le loro idee "troppo moderne", alla francese: un loro tentativo di colpo di Stato nel 1821 costrinse alla fine l'illiberale Vittorio Emanuele I ad abdicare. Un po' meglio si comportarono i suoi successori, Carlo Felice e Carlo Alberto: sebbene altrettanto autocratici, illiberali e militaristi, capirono che il loro regno necessitava di una forte dose di modernizzazione, nell'amministrazione statale, nella giustizia, nelle comunicazioni e i trasporti (La stampa, purtroppo, restò rigidamente controllata: le stesse parole Italia e Nazione erano praticamente bandite: strano, proprio da quella Casa Savoia che decenni dopo, con la guida del suo primo ministro Camillo di Cavour, si sarebbe presa la briga di fare dell'Italia una Nazione...). Molto diversa la situazione in Lombardia: gli Austriaci vi nominarono un vicerè, la cui squallida corte era molto restia a riconoscere i titoli dei nobili italiani (alcuni dei quali con genealogie secolari e con provate capacità militari e amministrative); l'amministrazione era nelle esclusive mani di un governatore austriaco direttamente agli ordini di Vienna, mentre le massime cariche nell'amministrazione civile e giudiziaria erano riservate esclusivamente ad austriaci. Un modo ottuso come un'altro per alienarsi un'eventuale simpatia e appoggio politico da parte di una casta importante e determinante come la nobiltà, che, come ovvio, cominciò a osteggiare la dominazione di Vienna (Lo stesso gravissimo errore che nel 1938 fece Mussolini con quelle infauste e assurde Leggi razziali che gli alienarono le simpatie - o almeno l'indifferenza - della comunità ebraica italiana, procurandogli poi l'ostilità di quella mondiale. E questi errori si pagano). Anche il ceto medio lombardo si sentì fortemente discriminato e penalizzato: se volevano lavorare, gli avvocati dovevano uniformarsi alla legislazione austriaca e conoscere il tedesco; di conseguenza le cause più importanti e lucrose divennero appannaggio dei legali sudtirolesi. Anche le università e le scuole inferiori dovettero uniformarsi ai programmi dettati da Vienna. In sostanza, i lombardi finirono per vedere nel dominio austriaco una pesante sudditanza a uno straniero altezzoso e arrogante, antipatico e non ben disposto: si avvicinavano lo "sciopero del tabacco" (in un volantino redatto dal patriota professor Giovanni Cantoni, si dimostrava che fumando ogni milanese avrebbe contribuito a un cospicuo aumento delle finanze austriache; con lo sciopero del tabacco l'Austria avrebbe subìto di fatto delle ingenti perdite finanziarie), le Cinque Giornate del 1848 e il definitivo distacco della popolazione milanese (nobili, ceto medio, intellettuali e semplice popolo lavoratore) dall'oppressiva Austria e l'avvicinamento al costituzionale Piemonte. Nel Veneto il nuovo dominatore era un po' meno malvisto, sia perchè veniva considerato un po' meglio di quello francese (poliziesco e rapace in fatto di esazioni fiscali), sia per il suoi buoni rapporti con la Chiesa, considerati migliori di quanto non lo fossero stati quelli dei Francesi o non lo potessero essere quelli dei Piemontesi. Tuttavia vi fu ancora qualcuno che avrebbe preferito la restaurazione della Serenissima repubblica; e nel contempo cominciò a farsi sempre più considerevole un certo numero di appartenenti al ceto medio (avvocati, medici) che come in Lombardia non riuscivano a trovare uno sbocco di lavoro nella loro branca. I posti più importanti nella pubblica amministrazione furono sempre ricoperti da austriaci, da cecoslovacchi e persino da lombardi: raramente da sudditi veneti. Nel Meridione il regime borbonico, rimesso al potere, portò una dura repressione poliziesca e una vasta epurazione dei "murattiani" (seguaci e sostenitori della politica instaurata nel regno da Gioacchino Murat, cognato di Napoleone che lo aveva creato re di Napoli, e aveva regnato dal 1808 al 1815; e che poi, sconfitto dagli austriaci, era stato fucilato dal regime borbonico). Questi murattiani, ancora imbevuti delle idee libertarie "francesi" furono allontanati dalla polizia, dal settore giudiziario, dall'amministrazione statale, dalla scuola. In conclusione, ce n'era abbastanza, da qualsiasi angolatura si guardasse la situazione dei vari Stati, per comprendere lo scontento di vasti strati della società e giustificare i vari moti insurrezionali che, qua e là, cominciarono a farsi strada a partire dal 1848, quando ebbe inizio quel periodo storico che da allora fu il nostro Risorgimento, e che si concluse nel 1860 con la Spedizione dei Mille e nel 1870 con la presa di Roma e la fine del potere temporale dei Papi. Non posso e non voglio dare un giudizio su questo periodo: se fu un lungo momento di patriottismo o una lunga serie di eroiche sconsideratezze da parte di isolate teste calde sobillate dalla politica piemontese; nè se l'unificazione dell'Italia sotto la Casa di Savoia fu la sacrosanta risposta a quel "grido di dolore" che Vittorio Emanuele II sentiva provenire da ogni parte d'Italia; o, infine, se fu semplicemente una conquista territoriale da parte del Piemonte ai danni delle dinastie che, sempre in urto fra loro, non erano riuscite a far prima e meglio quello che poi fecero i Savoia. Il Risorgimento è una storia ancora controversa: c'è chi, seguendo l'onda dell'italica retorica, lo esalta come la più fulgida pagina della nostra storia; c'è chi, in una più ampia veduta dei problemi socio-economici dell'Italia anche attuale, lo vede come una sciagura e non esita a rimpiangere Borboni o Austriaci o potere temporale dei Papi. Personalmente non mi pronuncio: forse hanno ragione entrambe le fazioni, quella che esalta il Risorgimento e quella che lo denigra. Qui ho voluto soltanto esporre, succintamente, i motivi per cui esso divenne obiettivamente ineludibile e portato a compimento dalla Casa di Savoia, l'unica che, per liberalità e costituzione, potesse ricevere consenso e appoggio dalle Potenze straniere. Che poi, dopo l'unificazione dell'Italia, questa dinastia abbia compiuto non pochi errori nei confronti delle popolazioni specialmente meridionali e che la sua, più che una unificazione fu una vera e propria guerra di espansione territoriale, beh, questo è un altro discorso sul quale è meglio ascoltare la parola, non mia, ma quella di storici veri. LE RESTAURAZIONI - CONGRESSO DI VIENNA PRIMA PARTE RITORNO DI PIO VII A ROMA - REAZIONE DEL GOVERNO PONTIFICIO - LA NOTA DIPLOMATICA DEL CARDINAL CONSALVI ALLE POTENZE - LA RESTAURAZIONE NEI DUCATI DI MODENA E REGGIO E DI PARMA E PIACENZA - LA RESTAURAZIONE IN TOSCANA: GOVERNO DEL ROSPIGLIOSI - GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE - VITTORIO EMANUELE RITORNA A TORINO - LORD BENTINEK IN LIGURIA. --UNIONE DI GENOVA AL REGNO DI SARDEGNA. - IL TRATTATO DI PARIGI DEL 30 MAGGIO 1814 - IL CONGRESSO DI VIENNA - CONGIURA DI PATRIOTTI PER INNALZARE NAPOLEONE SUL TRONO DELL' ITALIA UNA ED INDIPENDENTE - L'INDIRIZZO DIMELCHIORRE DELFICO - II PROGRAMMA DI NAPOLEONE -- COSPIRAZIONE LOMBARDA DEL 1814 - ANSIE DEL MURAT - NAPOLEONE SBARCA A CANNES - NELLA SECONDA PARTE IL RE GIOACCHINO MUOVE VERSO IL PO - IL PROCLAMA DI RIMINI -- BATTAGLIA DEL PANARO - RITIRATA DEI NAPOLETANI - BATTAGLIA DI TOLENTINO - IL COMMODORO CAMPBELL. - TRATTATO DI CASA LANZA - PARTENZA DI GIOACCHINO MURAT -- L'ATTO FINALE DEL CONGRESSO DI VIENNA - ARTICOLI RIGUARDANTI L' ITALIA - FERDINANDO DI BORBONE E IL REGNO DELLE DUE SICILIE - LA SANTA ALLEANZA - FINE DI GIOACCHINO MURAT --------------------------------------------------------------------------------------- RITORNO DI PIO VII A ROMA - NOTA DEL CARD. CONSALVI ALLE POTENZI: EUROPEE LA RESTAURAZIONE NEI DUCATI DI MODENA, PARMA, PIACENZA, LUCCA LA RESTAURAZIONE IN TOSCANA E IN PIEMONTE RITORNO DI VITTORIO EMANUELE I A TORINO UNIONE DI GENOVA AL REGNO SARDO Con un Breve del 4° maggio 1814, inviato a Cesena, Pio VII diceva ai Romani che "nutriva ardente brama di migliorarne le sorti e stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto figli amorosi dopo lungo ed amaro pellegrinaggio" ed annunziava loro l'arrivo del cardinale RIVAROLA. Questi - secondo quel che il Breve diceva - doveva riprendere per il Pontefice e ".rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati, dal Papa prescelti, l'esercizio della sua sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la sua indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una commissione di stato dal Papa nominati. alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni le quali potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettono, alla felicità alci fedelissimi sudditi ." L' 11 maggio il Rivarola assumeva il governo dei dipartimenti (del Tevere e del Trasimeno e due giorni dopo pubblicava un editto con il quale dichiarava abolito il codice napoleonico, civile, commerciale, penale e di procedura, richiamava in vigore l'antica legislazione civile, criminale e giudiziaria, sopprimeva i diritti di registro, la carta bollata e il demanio e sospendeva fino ad ulteriore determinazione i diritti feudali. Per provvedere temporaneamente agli affari urgenti dello stato il Rivarola nominò una commissione di governo che fu composta di mons. RUSCONI, cui fu affidata l'amministrazione dell'Archiginnasio, della Sapienza, dell' Università gregoriana, delle altre scuole e biblioteche, delle poste, delle antichità e dell'edilizia; di mons. SANSEVERINO, che fu preposto alla guerra, alla marina, alle acque, alle strade, agli archivi e alla zecca; di mons. PEDICINI e di mons. BARBERI, cui fu data la cura degli affari ecclesiastici della sacra consulta e delle santità, e di mons. CRISTALDI, incaricato agli affari del buongoverno e della beneficenza. Il cav. GIUSTINIANI fu eletto governatore di Roma e presidente delle carceri, il marchese ERCOLANI tesoriere generale, il conte PARISANI direttore dell'annona e della grascia. Il 24 maggio fece il suo solenne ingresso a Roma Pio VII, che il giorno dopo concedeva un generale perdono con un bando in cui vi erano anche enunciate parole di ammonimento: ". La giustizia reclami la punizione di chi si era reso disubbidiente alle istruzioni ed ai decreti del Capo visibile della Chiesa e infedele ai doveri verso il legittimo sovrano; ma la pietà alzando più potente la voce fa tacere il meritato rigore della legge. Ora non potendo il Santo Padre resistere agli impulsi del suo animo pietosissimo, condona generosamente ai suoi sudditi ogni pena corporale fossero incorso per infedeltà al pontificio governo; ma protesta peraltro che se taluno si abbandonasse a nuova colpa consimile, cesserebbero per lui i benigni effetti di questo perdono e si riunirebbero a suo carico insieme con i nuovi anche i passati trascorsi, né potrebbe andare esente dalla severità del meritato castigo.". Col suo ritorno a Roma PIO V1I volle cancellare nel suo Stato ogni traccia del governo napoleonico, ed anziché dedicarsi, come mons. GIUSEPPE ANTONIO SALA lo esortava, alla " grande opera di quella universale riforma, che Iddio vuole da noi e che tutti i buoni ardentemente sospirano", rimise in vigore tutto quel che cinque anni di dominazione francese avevano fatto dimenticare. Così il 30 luglio erano rimessi in vita i diritti feudali e il 7 agosto, con la famosa bolla "Solecitudo ecclesiarum", era ristabilito in tutto il mondo cattolico l'Ordine dei gesuiti, che lo stesso Pontefice con breve del 7 marzo 1801 aveva ristabilito nell'impero Russo e con breve del 30 luglio 1804, nei regni di Napoli e Sicilia. Intanto il cardinal Consalvi, nell'attesa di recarsi al Congresso di Vienna, inviava da Londra, in data del 23 giugno 1814, alle potenze europee una nota diplomatica con la quale il Pontefice chiedeva che fosse rimesso nel possesso delle Legazioni, delle Marche, di Benevento e Pontecorvo, di Avignone e del Venosino e riaffermava i suoi diritti sul ducato di Parma e Piacenza. "Non è certamente - concludeva la nota - per spirito di dominazione (crede averne date sufficienti attestazioni) che il Santo Padre richieda che la Santa Sede sia reintegrata nella totalità dei suoi possessi. Il Santo Padre obbligato dai suoi più stretti doveri, come amministratore del Patrimonio di San Pietro e per i giuramenti solenni da lui fatti, a conservarlo, a difenderlo, a recuperarlo. Egli vi è obbligato altresì dalla necessità di provvedere convenientemente alla sua dignità e per sovvenire alle gravi spese, le quali, siccome è noto al mondo, vi sono attaccali non meno per il servizio dei fedeli, che per il bene della religione. Perduto quasi tutti gli altri mezzi per poterle sopportare, il Santo Padre, sempre in questo intendimento, non saprebbe esser privato dei mezzi che Egli potrebbe trovare, almeno conservando la totalità delle sue proprietà, alle quali ha i diritti più incontestabili e più antichi di tutti." . Contemporaneamente a Roma, erano restaurati i vecchi governi negli stati dell'Italia centrale e settentrionale. Il 9 febbraio del 1814 il generale austriaco NUGENT occupò Modena e in nome di FRANCESCO IV d'Austria-Este nominò un governo provvisorio fino all'arrivo del duca. Questi giunse il 16 luglio e subito emanò quattro decreti con i quali ristabiliva il codice estense promulgato nel 1771 e le altre leggi vigenti prima del 1797, ma aboliva i fidecommessi e le torture e conservava il sistema ipotecario. La madre di Francesco IV, MARIA BEATRICE D' ESTE, riebbe il principato di Massa e Carrara. Il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla doveva tornare sotto MARIA LUISA DI BORBONE, ma a questa fu dato, con il titolo di duchessa, il dominio di Lucca, e lo stato parmense fu dato a MARIA LUIGIA D'AUSTRIA, moglie di Napoleone. Il 6 giugno il Nugent, recatosi a Parma, annunciò le decisioni delle potenze alleate e poco dopo fu chiamato a reggere lo stato, con l'incarico di commissario, il conte FERDINANDO MARESCALCHI, il quale doveva tener le redini del governo fino all'arrivo di Maria Luigia, che intanto si era stabilita a Vienna ad aspettarvi che fosse risolta la contestazione sollevata dalla Spagna: circa il dominio del ducato. Sul trono della Toscana fu rimesso il granduca FERDINANDO III. Nell'aprile del 1814 il paese fu occupato militarmente dalle truppe del generale austriaco STAHRENBERG, che, il 27 dello stesso mese, lanciò al popolo toscano il seguente manifesto: ".Sua Maestà l' Imperatore d'Austria, mio augusto Sovrano, mi ordina di prender possesso di questo florido stato in nome di S. A. I. e R. il granduca Ferdinando III, conferendomene il comando militare generale, e di proclamare con tutta solennità Sua Eccellenza il benemerito sig. principe Don GIUSEPPE ROSPIGLIOSI cav. del Toson d'oro, gran croce dell'Ordine di S. Giuseppe, consigliere intimo attuale di stato e gran ciambellano di S. A. Imperiale e Reale, con l'incarico di plenipotenziario del medesimo sovrano. Per soddisfare ad una sì onorevole incombenza, io mi sono recato tra voi, o bravi e fedeli Toscani. Ma prima che vi annunziassi il nobile oggetto della mia missione, il vostro cuore seppe presentirlo, e la vostra sincera esultanza al mio ingresso nella capitale fu una prova luminosa che mai non tacque in voi la dolce rimembranza della vostra passata felicità, che sarà certamente uguale a quella che vi si prepara per il tempo avvenire. Sì, voi rivedrete quanto prima (e ben io ne affretto col più vivo desiderio il fortunatissimo istante) quell'augusto personaggio, che fu il custode e il difensore delle vostre leggi, e vi fu non meno principe che padre. La Provvidenza, che ha saputo vegliare alla sua conservazione, lo rimanda tra voi onde siano finalmente soddisfatti i fervidi voti della tenerezza vostra.." Anche il "maire" BARTOLOMMEI e il ROSPIGLIOSI si servirono del nome della Provvidenza per annunziare ai Toscani la restaurazione. Il primo scriveva infatti: "La Provvidenza, per uno di quegli accidenti non prevedibili dalla più oculata ragione politica, corona i voti dei buoni Toscani, rendendoli alla dinastia Austro-Lorenese "; e il secondo : ".La Divina Provvidenza ha secondato i magnanimi disegni delle grandi potenze alleate, disegni fondati sulle solide basi della giustizia, diretti dallo spirito di concordia e di sollievo alla umanità desolata ." Nel manifesto il Rospigliosi scriveva inoltre: ". S. A. I. <; P. il Granduca, considerando nella di lui saviezza che l'andamento del governo e dell'amministrazione non può restare interrotto e sospeso, mi ha accordata la facoltà di confermare, come confermo attualmente, tanto le leggi ed ordini attualmente veglianti nei suddetti suoi Stati, quanto provvisoriamente pur gl'impiegati nei medesimi con titoli regolari; ben inteso però che questa provvisoria conferma non si estenda a quelle disposizioni che per leggi divine ed umane meritassero di essere immediatamente abrogate ." Inesperto delle cose di governo ed ostile ad ogni idea liberale, il Rospigliosi abolì tutto quanto poteva ricordare il dominio francese: rimise in vigore le vecchie prescrizioni di polizia (maggio), riformò l'amministrazione politico-economica (giugno), tolse di mezzo la legge forestale francese, abolì il codice napoleonico e i tribunali collegiali (luglio) e perché fossero fatte nuove leggi nominò una commissione di cui furono chiamati a far parte VITTORIO FOSSOMBRONI, BARTOLOMMEO RAFFAELLI, BERNARDO LESSI, PIETRO PARDINI, AURELIO PUCCINI, GIOVANNI FINI, GIOVANNI ALBERTI, TOMMASO MAGNANI,FILIPPO DEL SIGNORE, MICHELE NICCOLINI, VINCENZO SERMOLLI, OTTAVIO LANDI, GIUSEPPE POSCHI e FRANCESCO CEMPINI. Il governo del Rospigliosi, che non godeva le simpatie dei Toscani, cessò nel settembre dello stesso anno. Il 15 di quel mese giunse FERDINANDO III, che nella villa di Cafaggiolo accordò un'amnistia ai condannati per reati lievi e nominò suoi ministri il FOSSOMBRONI (affari esteri), il principe NERI CORSINI (interni) e l'avv. LEONARDO FRULLANI (finanze). Due giorni dopo faceva il suo ingresso in Firenze. Anche in Piemonte fu restaurato il vecchio principe, ma come nelle altre città d' Italia, ad eccezione di Roma, la restaurazione fu preceduta dall' occupazione militare austriaca, così gli stati di terraferma del re di Sardegna furono anch'essi occupati dalle truppe austriache. Il 25 aprile del 1814 il generale SCHWARTZENBERG lanciava ai Piemontesi un proclama in cui era detto: ". I vostri desideri sono appagati non meno di quelli di tutta Europa. Vittorie prodigiose hanno coronato gli sforzi nobili e costanti delle alte potenze alleate. La Divina Provvidenza ha benedetto le loro generose intenzioni, e l' Europa è ristabilita in quell'ordine politico che le è naturale. Buoni e fedeli sudditi del re di Sardegna, vi troverete di nuovo sotto il dominio di quei principi che hanno fatto la vostra felicità e la vostra gloria per tanti secoli. Rivedrete fra voi quell'augusta famiglia, che ha sostenuto con il coraggio e con la fermezza che le é propria, le sventure di questi ultimi anni." . Il proclama si chiudeva annunciando l'occupazione austriaca del paese. Governatore militare fu nominato il generale BUBUA, governatore civile e presidente del Consiglio di Reggenza il marchese di SAN MARZANO. L'esodo dei Francesi cominciò subito - Mano a mano che partivano i soldati di guarnigione nel paese cui si aggiungevano quei che venivano dal Regno d' Italia, scomparivano le coccarde tricolori e i più cercavano di ingraziarsi, riesumando le vecchie fogge, i padroni che ritornavano dopo sì lunghe assenza. ".Gli antichi impiegati - "scrive il Brofferio - gli antichi nobili, gli antichi cortigiani aprivano i polverosi armadi, spazzavano le vecchie gualdrappe da tanti anni sepolte fra i ragni e le tignole, e se le mettevano indosso come bandiera di vittorioso capitano." . Intanto Vittorio Emanuele I, lasciato il governo della Sardegna alla regina Maria Teresa, veleggiava lieto alla volta della terraferma. Ed ecco, durante il viaggio, un incontro inaspettato: quello della nave francese che portava Napoleone al breve esilio dell'isola d' Elba. Il re sabaudo avrebbe potuto amareggiare la sconfitta dell'esule ostentando la gioia del ritorno, ma sarebbe stata una vendetta meschina, indegna di un re, e Vittorio Emanuele, fra la delusione dei cortigiani, ordinò che la nave sarda si allontanasse da quella francese. A Genova ebbe accoglienze non certo spontanee, ma quelle del Piemonte furono straordinarie. A Novi, ad Alessandria e ad Asti moltitudini plaudenti e commosse festeggiarono l'arrivo del sovrano. Il giorno 20 maggio, sulla via, che da Moncalieri conduce a Torino erano due fittissime ali di popolo acclamante. Giunto presso il Valentino, Vittorio Emanuele I montò a cavallo e fra il tuonare delle artiglierie e il suono delle campane, s'incamminò verso la porta della sua capitale dove erano ad ossequiarlo i generali BUBNA e NEIPPERG e i magistrati. Fra il delirio dei Torinesi il re attraversò la città e si recò nella chiesa di S. Giovanni a ringraziare Iddio, che gli aveva concesso di ritornare nella terra degli avi. Il giorno dopo, Vittorio Emanuele I annuncíò ai suoi sudditi che aveva deciso di ". ristabilire come era prima della rivoluzione, il sistema antico di governo, riservandosi poi di farvi quelle variazioni, che, dopo un più maturo esame gli sarebbero sembrate adattate ai tempi ed alle circostanze.". Con un colpo di penna, il sovrano aboliva le leggi e le istituzioni francesi e ristabilì i vecchi codici, i vecchi tribunali, i fidecommessi, i maggioraschi, i privilegi nobiliari, i diritti feudali, le inquisizioni religiose e provvedeva alla nomina dei dignitari di Corte e dei grandi Ufficiali dello Stato, indicando i nomi pubblicati nell'almanacco del Palmaverde del 1798. In una parola, Vittorio Emanuele I faceva indietreggiare il Piemonte di diciotto anni. I soli paesi, in cui l'antico regime non fu ripristinato, furono, oltre Lucca, il Napoletano e la Liguria. Questa cadde in potere degli Inglesi nell'aprile del 1814. Il 21 quello stesso mese il generale FRESIA, assalito da Lord BENTINK ed ostacolato nella difesa dalla popolazione, cedette Genova e, con undicimila e cinquecento uomini, si sifugiò in Francia. Il Bentinck, non conoscendo forse le idee del suo governo nei riguardi della Liguria, appena venuto in possesso di Genova, ristabilì la costituzione del 1797 e istituì un governo provvisorio di tredici membri, presieduto da GEROLAMO SERRA. Ben presto però i Genovesi seppero che l'Inghilterra non intendeva mantenere quanto il Bentinck aveva fatto. Difatti, essendo stato mandato a Parigi, , il senatore AGOSTINO PARETO, per ottenere (come avevano fatto illusoriamente a Milano) dai sovrani alleati il riconoscimento della repubblica ligure, questi seppe dal ministro inglese CASTLEREAGH che era già stata decisa l'annessione della Liguria al Piemonte. Genova fece tutto il possibile per non passare sotto lo scettro sabaudo, ma non vi riuscì. Il 12 dicembre del 1814 il Congresso di Vienna stabili l'unione di Genova al Piemonte con un atto di cui riportiamo gli articoli: L'UNIONE DI GENOVA ". I) - Genovesi saranno in tutto assimilati agli altri sudditi del re; parteciperanno, come loro, degli impieghi civili, giudiziari, militari e diplomatici della monarchia, e salvo i privilegi che, come qui appresso, vengono a loro concessi ed assicurati, saranno sottoposti alle medesime leggi e regolamenti, nonostante le modificazioni che Sua Maestà crederà convenienti. La nobiltà genovese sarà ammessa, come quella delle altre parti della monarchia, alle grandi cariche e impieghi di corte. II) -. I militari genovesi, componenti attualmente le truppe genovesi, saranno incorporati nelle truppe reali; gli ufficiali e bassi ufficiali conserveranno i rispettivi gradi. III) - Le armi di Genova entreranno nello scudo reale, ed i suoi colori nella bandiera di Sua Maestà. IV) -. Il porto franco di Genova sarà ristabilito con le regole che esistevano sotto l'antico governo. Ogni facilità sarà accordata dal Re per il transito nei suoi stati delle mercanzie che escono dal porto franco, prendendo quelle precauzioni che Sua Maestà crederà opportune, perché quelle stesse mercanzie non siano consumate e vendute in contrabbando nell' interno. Esse saranno soggette ad un modico diritto d'uso. V) - Sarà ristabilito in ciascun circondario d'intendenza un consiglio provinciale, composto di trenta membri, scelti fra i notabili delle diverse classi, nella lista di trecento dei più imposti di ciascun circondario. Essi saranno nominati la prima volta dal Re e rinnovati ogni due anni. L'organizzazione di questi consigli sarà regolata da Sua Maestà. Il presidente, nominato dal Re, potrà essere scelto fuori del consiglio: in questo caso non avrà diritto alla votazione. I membri non potranno essere nuovamente scelti se non passati quattro anni dopo la loro uscita. Il consiglio non potrà occuparsi che dei bisogni e dei reclami dei comuni della intendenza per ciò che concerne la loro amministrazione particolare, e potrà fare delle rappresentanze su questo argomento. Sarà riunito ogni anno nel capoluogo dell'intendenza, nell'epoca e per il tempo che Sua Maestà determinerà. Sua Maestà oltre a ciò potrà riunirlo stragiudizialmente se lo crede opportuno. L' intendente della provincia, o colui che lo rappresenta, assisterà di diritto alle adunanze come commissario del Re. Qualora i bisogni dello stato esigessero di stabilire nuove imposte, il Re convocherà i diversi consigli provinciali in tali città dell'antico territorio di Genova che Sua Maestà indicherà e sotto la presidenza di quella persona che avrà a tale effetto delegata. Quando il presidente sarà preso di fuori non avrà voce deliberativa. Il Re non manderà alla registrazione del senato di Genova nessun editto d'imposta straordinaria, senza aver precedentemente ottenuto i voti di approvazione dei consigli provinciali come qui sotto. La maggiorità di una voce determinerà il voto dei consigli provinciali, adunati separatamente o insieme; VI) - . Il massimo delle imposizioni che Sua Maestà potrà stabilire negli Stati di Genova, senza consultare i consigli provinciali riuniti, non potrà eccedere la proporzione attualmente stabilita per le altre parti dei suoi stati. Le imposizioni attualmente precettate saranno condotte a queste tasse; e Sua Maestà si riserva di fare quelle rettificazioni che la sua saviezza e la sua bontà verso i suoi sudditi genovesi potranno dettargli relativamente a quel che può essere ripartito, sia, negli aggravi finanziari, sia nelle percezioni dirette o indirette. Il "maximum" delle imposizioni essendo così regolato, ogni qualvolta il bisogno dello stato potrà esigere che siano decretate nuove imposizioni o degli aggravi straordinari, Sua Maestà domanderà il voto d'approvazione dai consigli provinciali per la somma che crederà conveniente di proporre per la specie d'imposizione da stabilirsi. VII) - . Il debito pubblico tale quale esisteva legalmente sotto il cessato governo, è garantito. VIII) - Le pensioni civili e militari accordate dallo stato a tenore delle leggi e regolamenti, sono mantenute per tutti i sudditi genovesi abitanti negli stati di Sua Maestà. Sono mantenute, sotto la medesima condizione, le pensioni accordate ad ecclesiastici o antichi membri di case religiose dei due sessi; come pure quelle che, sotto titolo di soccorso, sono state accordate a nobili genovesi dal governo francese. Articolo 86. Gli stati che componevano la cessata repubblica di Genova sono riuniti in perpetuo a quelli del re di Sardegna, per esser posseduti in tutta sovranità, come proprietà ed eredità di maschio in maschio, per ordine di primogenitura, nei due rami della sua famiglia, il reale e quella di Savoia-Carignano Articolo 87 - - S. M. il re di Sardegna aggiungerà ai suoi titoli attuali quello di duca di Genova. Articolo 88 - - I Genovesi godranno di tutti i diritti e privilegi specificati nell'atto intitolato: Condizioni che debbono servire di base alla riunione degli stati di Genova re. quelli di S. M. il re di Sardegna ...." Articolo 89 - - I paesi, detti feudi imperiali, che erano stati riuniti alla cessata repubblica ligure, sono riuniti definitivamente agli stati del re di Sardegna .... gli abitanti di questi paesi godranno dei medesimi diritti e privilegi, come quelli designata nel precedente articolo di Genova Articolo 90. La facoltà che le potenze firmatarie del trattato ili Parigi del 30 maggio 1814 si sono riservate all'articolo terzo di fortificare quel punto dei loro stati che crederanno conveniente alla sicurezza loro, ma è ugualmente riservata senza restrizione al re di Sardegna. Articolo 92 - - Le province del Cialbese e del Fossigny e tutto il territorio a nord di Ugine appartenente al re di Sardegna faranno parte della neutralità svizzera, quale è riconosciuta e garantita dalle potenze. Per ciò, ogni qualvolta le potenze vicine alla Svizzera si troveranno in stato di ostilità aperta o imminente, le truppe di S. M. il re di Sardegna che si trovassero in queste province si ritireranno, passando, se è necessario, pel Vallese. Nessun'altra potenza potrà stanziare truppe nelle province suddette, eccettuata la Confederazione Elvetica, purché questo stato di cose non intralci l'amministrazione del paese, in cui gli agenti civili del re sardo potranno, per il mantenimento dell'ordine, usare la guardia municipale. Articolo 93 - - In seguito alle rinunzie (della Francia) stipulate nei trattato di Parigi del 3 maggio 1814, le potenze firmatarie del presente trattato riconoscono S. M. l' imperatore d'Austria e i suoi eredi e successori come sovrano legittimo delle province e territori che erano stati ceduti, in tutto o in parte, coni trattati di Campoformio del 1700, di Luneville, del 1801, di Presburgo del 1805, con la convenzione addizionale di Fontainebleau e con il trattato di Vienna del 1809, e nel possesso delle quali province e territori S. M. I. e R. è rientrata in seguito all'ultima guerra; quali sono l' Istria, sia austriaca che veneta, la Dalmazia, le isole già venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, la città di Venezia, le lagune, come pure le altre province e distretti della terraferma degli stati già veneti sulla sponda sinistra dell'Adige, i ducati di Milano e di Mantova, i principati di Brigen e di Trento, il contado del Tirolo, il Voralberg, il Friuli austriaco, il Friuli già veneto, il territorio di Monfalcone, il governo e la città di Trieste, la Carniola, l'alta Carinzia, la Croazia alla destra della Sava, Fiume e il litorale ungherese e il distretto di Castua.
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STORIA D'ITALIA - I MOTI CARBONARI
 
 

I MOTI CARBONARI DEL '20-'21

Il movimento rivoluzionario in Italia era guidato dai Carbonari, che si era diffusi nel Sud del paese sin dall'epoca della dominazione francese. La società dei Carbonari era un'organizzazione segreta e rigorosamente cospirativa. Negli anni della restaurazione essa aveva costituito delle sezioni non soltanto nel Regno Napoletano, ma anche nello Stato pontificio, in Piemonte e in Toscana, a Parma, Modena e nel Lombardo-Veneto. Gli appartenenti a questa organizzazione provenivano per lo più dalla borghesia, dalla nobiltà liberale e dagli intellettuali progressisti. Il lato debole dei Carbonari era la chiusura delle loro organizzazioni, l'assenza di legami solidi con le grandi masse popolari, l'ignoranza del problema della terra. Il profondo malcontento popolare scoppiò nel 1820, quando giunsero in Italia le notizie sulla vittoria di alcuni moti rivoluzionari borghesi in Spagna, che saranno poi repressi dalla Francia nel '23. Nel luglio 1820 un reggimento al comando del generale Guglielmo Pepe diede il segnale della rivolta, che trionfò rapidamente in tutto il Napoletano. Re Ferdinando fu costretto a proclamare una Costituzione democratico-borghese simile a quella spagnola. Sennonché i dirigenti della rivoluzione napoletana, essendo borghesi, non capivano le necessità e le aspirazioni del popolo, soprattutto quelle dei contadini, che costituivano l'assoluta maggioranza della classe lavoratrice. Gli insorti non seppero risolvere la questione agraria, cioè non ebbero il coraggio di distruggere il latifondo, sottraendo così i contadini alle influenze del clero. Così Ferdinando I, accortosi della debolezza interna della rivoluzione, si appella alla Santa Alleanza, e nel febbraio 1821 l'esercito austriaco del Metternich ristabilisce l'ordine. Mentre il regno Napoletano era occupato dalle truppe d'invasione, scoppia nel marzo 1821 la rivoluzione in Piemonte, anch'essa guidata da esponenti della nobiltà liberale, dalla borghesia e da ufficiali membri della Carboneria. I liberali piemontesi speravano non nell'appoggio del popolo, ma in quello di uno dei rappresentanti di Casa Savoia, Carlo Alberto. Il quale infatti dichiarò di unirsi alla rivoluzione e annunciò la Costituzione. In realtà egli cercava di conciliare gli interessi della sua dinastia con le speranze dei progressisti. Di qui il suo atteggiamento ambiguo e la decisione di abbandonare la rivoluzione nel momento decisivo. Nell'aprile 1821 i soldati austriaci restaurano il regime assolutistico in Piemonte.

I MOTI DEL 1831. MAZZINI E GIOBERTI I moti rivoluzionari del 1831 furono stimolati dall'ascesa in Francia della Monarchia liberale di Luigi Filippo d'Orleàns, che giurò fedeltà alla Costituzione e che proclamò il principio del non-intervento. Ma, pur essendoci una partecipazione più attiva della borghesia, anche i moti del '31 non riuscirono a modificare le condizioni politiche italiane. Il motivo era lo stesso dei moti del '20-'21: l'incapacità di attirare nella lotta rivoluzionaria le masse contadine, affrontando la questione agraria. Tali moti si svilupparono soprattutto nei Ducati padani (Modena, Parma, Bologna, Reggio) e nelle Romagne (stato della chiesa). Furono tutte duramente represse. I carbonari vennero traditi dal duca di Modena, Francesco IV d'Este. Vittima più illustre: Ciro Menotti. Il pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-72). Col fallimento dei moti del '31 falliva anche la lotta rivoluzionaria di tipo settario, cospirativo, ch'era rimasta estranea ai movimenti di opinione pubblica non solo per l'inevitabile clandestinità dell'organizzazione, ma anche per la voluta segretezza dei programmi politici. Rifiutato questo metodo, Mazzini sottopose il proprio programma di rinnovamento nazionale, democratico e repubblicano, al pubblico dibattito e ne fece uno strumento di educazione popolare. Mazzini era stato espulso dall'Italia nel 1830, dopo aver fatto parte della Carboneria. Insieme ad altri emigrati politici fondò a Marsiglia l'associazione della "Giovine Italia", che si poneva come compito l'unificazione nazionale in una repubblica indipendente e democratico-borghese, da realizzarsi con un'insurrezione rivoluzionaria contro il dominio austriaco e il potere dispotico dei principi dei vari Stati della penisola, in forza del quale nessuna esperienza di libertà era possibile. Il programma, appoggiato dalle forze progressiste della piccola e media borghesia e dagli intellettuali democratici, rappresentava un passo avanti rispetto a quello dei carbonari, la maggior parte dei quali non andava oltre la richiesta della monarchia costituzionale. Tuttavia Mazzini non avanzò un programma di profonde riforme sociali, la cui attuazione avrebbe potuto migliorare le condizioni dei contadini, attirandoli nel movimento di liberazione nazionale. Mazzini, in particolare, era contrario alla confisca dei latifondi e alla loro assegnazione ai contadini. Non vedeva il popolo diviso in classi sociali contrapposte e subordinava l'emancipazione socioeconomica al riscatto politico e all'indipendenza nazionale. Il metodo dell'insurrezione (che constava peraltro in una serie di complotti, ovvero in una guerra ristretta per bande, diretta dall'estero e senza un vero coinvolgimento popolare) doveva servire a liberare il popolo dalla servitù politica, mentre per il riscatto dalla servitù sociale, Mazzini proponeva soluzioni conciliatorie (fra le classi), moralistiche (prima di lottare per la giustizia l'operaio dev'essere giusto), pedagogiche (con l'educazione, la persuasione ragionata ognuno si convince dei propri torti). Fra i sostenitori iniziali del Mazzini si distinse Giuseppe Garibaldi (1807-82), il quale però, dopo essere stato condannato a morte per aver partecipato a un complotto rivoluzionario (1834), fu costretto a emigrare in America, dove fino al '48 combatté per l'indipendenza delle repubbliche sudamericane. Invece gli intellettuali che si opposero al Mazzini, elaborando una prospettiva sociale della rivoluzione, furono Carlo Cattaneo (1801-69), Carlo Pisacane (1818-57), Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli. Pisacane indicava nel possesso contadino della terra lo sbocco sociale della rivoluzione nazionale. Cattaneo e Ferrari proponevano un ordinamento statale repubblicano di tipo federale, che conciliasse l'unità nazionale con l'autogoverno locale, unica alternativa veramente democratica allo Stato unitario e accentrato. Il fallimento delle prime insurrezioni, indusse Mazzini a rivedere in parte la propria ideologia. Tra il '37 e il '49, soggiornando in Inghilterra, maturò la condanna del sistema economico capitalistico, che escludeva i lavoratori salariati dalla proprietà e dalla gestione degli strumenti di produzione, ma si limitò ad elaborare un progetto di "riordinamento del lavoro" fondato su basi cooperativistiche, con esclusione di qualunque forma di lotta di classe (per le libere associazioni dei ceti umili). L'idea dominante del Mazzini restava quella dell'unità (mistica) di Popolo e Nazione. Sul versante cattolico l'esponente più significativo di questo periodo è Vincenzo Gioberti, il quale scopre nella forza progressiva che muove la storia una più esplicita volontà divina, di cui interprete è la chiesa. La storia d'Italia coincide, per lui, con la storia della chiesa. Solo la chiesa avrebbe potuto, nel Risorgimento, saldare gli italiani in un organismo nazionale unitario (federazione di stati, non ancora uno stato unico). Il primato morale-civile degli italiani dipende, in ultima istanza, dalla chiesa. Perché si realizzi tale progetto occorre -secondo Gioberti: che gli intellettuali (della borghesia medio-alta) rinuncino a separare la politica dalla religione; che la chiesa accetti il processo democratico-borghese in atto (anti-gesuitismo di Gioberti). Nel Primato morale e civile degli italiani, Gioberti esalta il Medioevo e l'Impero romano, il diritto e la religione, con le quali -a suo giudizio- abbiamo "civilizzato" tutti i popoli barbari. Agli italiani, Gioberti riconosce un grande genio inventore. Il destino politico dell'Italia sarebbe quello cosmopolitico di governare il mondo: quando questo non le è stato permesso, il genio inventore si è tutto dedicato alle arti, scienze e letteratura. Altri aspetti da sottolineare: Gioberti fu all'inizio di idee mazziniane; dopo la sconfitta dei moti mazziniani il suo Primato ebbe larga fortuna fra i ceti moderati che aspiravano non alla rivoluzione ma alle riforme graduali (il Primato da origine al Neoguelfismo); nel Primato Gioberti voleva che gli Stati italiani si unissero in una confederazione che avesse nel papa il suo capo civile e nel Piemonte la sua forza politica e militare, escludendo totalmente l'Austria da ogni dominio sull'Italia. Il Neoguelfismo trovò degli appoggi nella scuola moderata (o riformismo liberale) di Cesare Balbo e Massimo D'Azeglio, che erano favorevoli a una graduale trasformazione, da attuarsi con l'accordo dei sovrani, dei regimi assoluti in regimi costituzionali. Inoltre si sarebbe dovuta costituire una federazione italiana, che rispettasse i maggiori Stati della penisola senza pretendere di unificarli in uno Stato unitario. Gli oppositori del Neoguelfismo furono i neo-ghibellini (Cattaneo, Guerrazzi, Niccolini), i quali sostenevano che proprio il papato costituiva l'ostacolo principale alla realizzazione dell'unità. NAPOLEONE III La Francia di Napoleone III, se politicamente era tornata ad un regime dittatoriale e antidemocratico, peraltro godeva di un periodo di sviluppo industriale ed economico frutto della stessa politica imperiale che favoriva l'alta borghesia industriale. Lo Stato infatti aveva iniziato una serie di interventi nei settori chiave della vita economica (interventi che vedremo saranno sempre più essenziali allo sviluppo capitalistico), sì che il volto della Francia mutò profondamente dal 1850 al 1870. La rete ferroviaria percorreva le vie di transito più importanti del territorio francese, mentre Parigi diventava una città sempre più moderna, arricchita di nuovissime ampie strade e di imponenti piazze. Napoleone voleva fare della Francia la concorrente numero uno dell'avanzata Inghilterra Nacquero così grandi organismi bancari che, grazie ad una apposita legislazione statale sui prestiti, favorirono l'investimento industriale. Il regime si guadagnò l'appoggio, oltre che del clero e dell'esercito, anche della borghesia capitalistica. Al fine di guadagnare sempre più il consenso nazionale, Napoleone, dopo aver adottato misure di carattere sociale verso il proletariato, si lanciò nell'avventura coloniale, riuscendo a creare una vasta zona di dominio in Africa, nel Sud - Est asiatico e in Oriente. Questo vasto e ambizioso programma di trasformare la Francia nella prima potenza europea, portava Napoleone ad una politica di appoggio delle nazionalità oppresse, le quali, ovviamente, costituivano un importante elemento di disgregazione interna della potenza austriaca, egemone sul piano politico nell'Europa centrale. Tale egemonia, è bene ricordarlo, si era affermata, dal congresso di Vienna in poi, sulle rovine dell'impero di Bonaparte. Il sogno napoleonico risorgeva con il nuovo imperatore. La grande Francia, dominatrice d'Europa, doveva distruggere l'impero austriaco: il nuovo impero contro quello del passato. CAVOUR E IL PIEMONTE LIBERALE E PARLAMENTARE In questo quadro si inserì l'attività diplomatica di Cavour che riuscì a saldare gli interessi napoleonici con quelli piemontesi in una guerra contro l'Austria. Il conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861), leader liberale dello Stato piemontese, divenne ministro dell'agricoltura nel 1850. L'iniziativa che lo portò alla ribalta della vita politica del Paese fu l'accordo che strinse con la sinistra moderata guidata da Urbano Rattazzi. Diede così vita ad uno schieramento politico di centro - sinistra entro il quale riuscì a convogliare un largo consenso politico che andava dai liberali conservatori ai democratici moderati. I punti del programma politico del "connubio" (così si chiamò questa operazione di alleanza governativa) furono "monarchia, statuto, indipendenza, progresso civile e politico". Divenuto capo del governo nel 1852, Cavour poté dare concretezza al suo programma. Convinto liberale, assertore del progresso economico e politico, riteneva impossibile che il Piemonte potesse condurre una politica estera nazionalista se le strutture interne dello Stato fossero rimaste arretrate. Perciò incanalò l'attività statale verso la creazione di quelle infrastrutture (strade, linee telegrafiche, ferrovie, reti di irrigazione ecc.) necessarie allo sviluppo economico del Paese che incoraggiò, tra l'altro, con l'istituzione di nuove banche. La sua concezione liberale lo indusse, in campo ecclesiastico, ad una politica volta a separare la società religiosa dalla società civile. La formula che sintetizzò la sua linea politica in questo campo fu "libera Chiesa in libero Stato". Seguendo la linea già inaugurata dal precedente ministero (presieduto da Massimo D'Azeglio) con le leggi Siccardi che avevano abolito il foro ecclesiastico e il diritto di asilo (1850), Cavour continuò ad eliminare i privilegi del clero arrivando, non senza opposizione interna da parte dei cattolici, alla soppressione ed all'incameramento dei beni di tutti gli ordini religiosi contemplativi, considerati dai liberali privi di utilità per la società; ciò comportò la chiusura di ben 334 conventi. Il Regno di Sardegna, grazie all'opera di riforma intrapresa da Cavour, riuscì ad assumere quell'assetto di Paese avanzato che lo differenziava e gli dava una posizione di privilegio rispetto agli altri Paesi italiani, dove invece dopo il 1848 i governi si erano dati ad una politica di violenta repressione interna e chiusura verso qualsiasi possibilità di rinnovamento. Il Piemonte costituzionale, il Piemonte liberale offrì alla borghesia italiana un modello politico e insieme una garanzia di sicurezza rispetto ai pericoli di una rivoluzione popolare. Il fallimento che intanto consumava la democrazia nell'insuccesso dei suoi moti insurrezionali sembrò la migliore verifica del fatto che solo lo Stato piemontese poteva continuare con successo l'azione per l'unità d'Italia. La formazione della Società Nazionale (1857) con un programma unitario e monarchico - sabaudo, segretamente appoggiata da Cavour, fu un momento importante di coinvolgimento nella linea cavouriana anche di frange democratiche: il mazziniano Garibaldi aderì alla Società Nazionale insieme a Daniele Manin e Giuseppe La Farina. Da non trascurare infine è la presenza in Piemonte di molti esuli politici che da ogni parte d'Italia trovavano asilo nel territorio dei Savoia, rafforzando così il ruolo egemone del Piemonte per la causa italiana. CAVOUR E LA POLITICA ESTERA: L'INTERVENTO IN CRIMEA Cavour realizzò il suo programma di portare il Piemonte al rango di Stato - guida nel processo di unificazione nazionale con una politica estera abile e diplomatica. L'occasione per fare assumere al Piemonte un ruolo nei giochi d'equilibrio che le grandi potenze compivano in Europa fu data dalla guerra di Crimea (1853-1856). Si trattò di un episodio che rimise in moto la competizione e la conflittualità tra gli Stati che ambivano al predominio nell'Europa. La guerra rappresentò un momento della cosiddetta "questione d'oriente": la disgregazione, ormai in atto, dell'Impero ottomano poneva agli Stati europei il problema di una spartizione dei territori ad esso soggetti, primo fra tutti il territorio balcanico. Ad iniziare le ostilità fu lo zar di Russia Nicola 1 che occupò i principati danubiani di Moldavia e Valacchia (l'odierna Romania) appartenenti all'Impero ottomano. Scoppiata così la guerra, Francia e Inghilterra scesero subito in campo contro la Russia assolutista e semifeudale, pronte ad impedire un suo allargamento territoriale nell'area balcanica. Direttamente interessata alle sorti dei Balcani, ma timorosa di mettersi a fianco delle tradizionali nemiche (Francia e Inghilterra), l'Austria ostentò una neutralità che tuttavia le consentì di occupare, col consenso del sultano turco, i due principati danubiani abbandonati dalle truppe d'occupazione russe. Fu a questo punto che si inserì la diplomazia piemontese: Cavour, che non aveva previsto la neutralità austriaca, si era adoperato per stringere accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro Austria e Russia; e si trovò costretto a prendere parte al conflitto sollecitato dagli alleati che avevano anche l'interesse di garantire all'Austria che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che l'intervento piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti successivi gli diedero ragione. Cosi un corpo di spedizione di 15.000 uomini al comando del generale Alfonso La Marmora partì per la Crimea (1855 dove appunto si svolgeva il conflitto e prese parte alla battaglia della Cernaia ed all'assedio di Sebastopoli, la potente piazzaforte russa che resistette circa un anno all'assedio delle truppe anglo - franco - piemontesi. L'obiettivo che Cavour si prefiggeva di raggiungere era la partecipazione del Piemonte alle trattative di pace e la conseguente possibilità di porre le condizioni dell'Italia sul tappeto degli interessi generali delle potenze europee. Ciò avvenne al Congresso di Parigi dove, caduta Sebastopoli, i rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace (1856). Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del piccolo Stato piemontese sedeva, a parità di rango, accanto a quelli di, Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e poteva illustrare, in una seduta suppletiva chiesta ed ottenuta nonostante le proteste austriache, le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del Lombardo Veneto e dell'Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. La questione italiana era posta come qualcosa di cui l'Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del movimento liberale italiano, il ruolo di protagonista della lotta contro l'Austria. La guerra di Crimea aveva peraltro reso Napoleone III arbitro della politica europea. L'isolamento dell'Austria, la sconfitta dell'iniziativa russa, l'alleanza con l'Inghilterra, davano all'imperatore dei Francesi la possibilità di portare a compimento l'influenza francese sull'Europa appoggiandosi ai movimenti nazionali. In questo quadro Francia e Piemonte firmarono a Plombières, nel luglio 1858, un trattato segreto di alleanza antiaustriaca. L'alleanza fu resa possibile dal fatto che la politica di Cavour aveva dato ampie garanzie alla Francia di muoversi su un piano antidemocratico (dure polemiche contro Mazzini e i suoi metodi accompagnarono infatti questi momenti della politica di Cavour). Gli accordi segreti di Plombières riguardavano l'assetto da dare al territorio italiano dopo una eventuale vittoria sull'Austria, contro la quale l'imperatore si impegnava a scendere in campo accanto al Piemonte soltanto se quella avesse dichiarato per prima la guerra. Si prevedeva una confederazione di Stati italiani comprendente il regno dell'Italia settentrionale (Piemonte, Lombardo - Veneto, Romagna, Emilia) su cui avrebbe regnato la dinastia sabauda, un regno dell'Italia centrale, da assegnare ad un principe francese ma che al proprio interno avrebbe consentito il mantenimento dell'autorità pontificia sulla città di Roma, ed il regno dell'Italia meridionale dove, ai Borboni spodestati, sarebbe succeduto un discendente di Gioacchino Murat. Nizza e la Savoia, due province del Regno di Sardegna confinanti con la Francia, costituirono il compenso chiesto al Piemonte dall'imperatore in cambio del suo intervento. Queste condizioni, dettate da Napoleone III, vennero accettate da Cavour, convinto che il processo di unificazione nazionale avrebbe avuto tempi più lunghi di quanto pensassero i democratici e tutto il movimento unitario, e che al Piemonte fosse possibile assumere un ruolo dominante nella confederazione italiana. Da parte francese vi era tutta l'intenzione di porre sotto la propria egemonia gli Stati italiani confederati. LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA Subito dopo la firma degli accordi di Plombières, Cavour si adoperò per costringere l'Austria, con qualche pretesto, a dichiarare guerra al Piemonte. Il governo attuò una serie di misure volte al rafforzamento dell'esercito, concedendo, d'altra parte, con sempre maggiore generosità, aiuto ed asilo ai patrioti che fuggivano in Piemonte dagli altri Stati italiani, e specie a quelli provenienti dai territori controllati dall'Austria. Queste iniziative, ampiamente e sapientemente pubblicizzare, spinsero l'Austria a richiedere, con un ultimatum, l'immediato disarmo del Piemonte. Al rifiuto del governo piemontese, l'Austria rispose, come voleva Cavour, con la dichiarazione di guerra. Il 26 aprile 1859 scoppiava così la guerra. Gli eserciti regolari piemontese e francese, dei quali prese il comando lo stesso Napoleone III, furono subito affiancati dai volontari di Garibaldi, i "Cacciatori delle Alpi". A Magenta, a Solferino e San Martino l'Austria fu battuta dagli eserciti franco - piemontesi. Mentre l'Italia settentrionale era impegnata nelle vittoriose operazioni di guerra, nell'Italia centrale si riaccendeva la miccia delle rivoluzioni democratiche. In Toscana, a Parma, a Modena, nelle Legazioni pontificie si formarono governi provvisori che offrivano a Vittorio Emanuele la reggenza degli Stati liberati. Ma i legami con la Francia (gli accordi di Plombières) impedivano al re sabaudo di procedere nella politica delle annessioni. Malgrado la prudenza piemontese, la situazione italiana preoccupò a tal punto Napoleone III da spingerlo ad una precoce, e, sul piano militare immotivata, chiusura della guerra contro l'Austria, con la quale si affrettò a firmare l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). L'armistizio e i preliminari di pace, discussi all'insaputa dei Piemontesi, prevedevano che l'Austria cedesse la Lombardia (con l'esclusione di Mantova e Peschiera) a Napoleone che a sua volta la consegnava al Piemonte; il Veneto restava all'Austria e la Francia garantiva il ritorno dell'ordine e delle antiche dinastie regnanti in Italia centrale; la Francia, infine, rinunciava a pretendere Nizza e la Savoia, non essendo stati rispettati gli accordi di Plombières. Con questo gesto l'imperatore dei Francesi rispondeva alle proteste che l'opinione pubblica cattolica aveva levato in Francia contro di lui, temendo per l'incolumità dello Stato Pontificio; d'altro lato egli tentava di bloccare il processo unitario italiano che, come sappiamo e come era stato sancito a Plombières, era ben lontano dagli interessi francesi. Ma la rivoluzione nazionale italiana non si fermò per questo. I governi provvisori dell'Italia centrale resistettero, forti dell'iniziativa popolare che li sorreggeva. Ancora una volta la presenza e lo stimolo di Mazzini, l'abilità militare di Garibaldi, si rivelarono essenziali. Moderati e democratici costituirono un fronte comune di difesa dei territori liberati, questa volta risoluti a portare fino in fondo l'unità d'Italia. Le decisioni di Villafranca furono inattuabili nella situazione italiana. Anche in questo caso l'abilità politica di Cavour gestì e portò a compimento un processo di iniziativa popolare e democratica. Egli infatti riuscì ad ottenere da Napoleone il consenso alle annessioni al Piemonte dei Ducati di Modena e di Parma, del Granducato di Toscana, e delle Legazioni pontificie (i plebisciti si svolsero l'11 e il 12 marzo 1860) in cambio di Nizza e della Savoia cedute ai Francesi (con plebiscito del 15'aprile 1860). L'Italia centrale e l'Italia settentrionale erano così unificate.Il Veneto ancora sotto il dominio austriaco, lo Stato Pontificio con la città di Roma, sede del papato, e l'Italia meridionale sotto i Borboni costituivano i problemi che il movimento risorgimentale doveva ancora risolvere. La linea politica di Cavour si mostrò inadeguata a risolvere, negli anni successivi alla seconda guerra per l'indipendenza, la questione del Mezzogiorno d'Italia. Qui soltanto l'appoggio a quella iniziativa popolare che già teneva la Sicilia in uno stato pressoché continuo di guerriglia avrebbe potuto, come sostenevano i democratici mazziniani, dare i colpi finali al potere dei Borboni. Ma sappiamo come i metodi della politica liberale moderata del Piemonte fossero estremamente cauti rispetto ai momenti di insurrezione popolare, essendo per il Piemonte interesse prioritario una estensione del proprio dominio sui territori italiani, dominio che la rivoluzione democratica non garantiva. Per questi motivi l'iniziativa nel Regno delle Due Sicilie passò ai democratici. Cominciarono così i preparativi per una spedizione in Sicilia concepita dai democratici isolani, tra cui Francesco Crispi e Rosolino Pilo, e dallo stesso Mazzini. Si riuscì a persuadere Garibaldi ad organizzarla pur con i gravissimi rischi che essa presentava. La spedizione si preparò in Piemonte, malgrado l'atteggiamento di decisa ostilità da parte di Cavour ma con una certa apertura da parte del re Vittorio Emanuele II. Il governo piemontese in sostanza né ostacolava né favoriva i preparativi: non poteva decisamente opporvici con misure di polizia per motivi di politica interna, essendo l'equilibrio con le forze democratiche troppo instabile per tentare le maniere forti; peraltro una partecipazione all'iniziativa era del tutto impossibile, considerati i legami che il Piemonte aveva sul piano internazionale, in special modo con l'imperatore dei Francesi. Tutto sommato l'atteggiamento del lasciar fare del Piemonte era dettato dall'ipotesi di potere intervenire dopo, a cose fatte, come del resto avvenne, a riportare entro i confini dell'egemonia piemontese l'iniziativa democratica. In queste condizioni Garibaldi partì da Quarto (nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860) con un migliaio di volontari provenienti da diverse regioni ma in maggioranza dalla Lombardia e dalla Liguria, su due piroscafi sequestrati a Genova. Dopo una sosta a Talamone per rifornirsi di armi, sbarcò a Marsala (l'11 maggio), accolto come liberatore dalla popolazione, ed a Salemi assunse la dittatura dell'isola in nome di Vittorio Emanuele I garibaldini sostennero la prima battaglia vittoriosa contro i borbonici a Calatafimi a Palermo fu anche il moto popolare a mettere in fuga gli eserciti regi (30 maggio). Il governo provvisorio di Garibaldi varò subito provvedimenti popolari, alleggerendo gli oneri fiscali del passato governo borbonico, ma non poté far fronte alle richieste contadine della terra che, soddisfatte, avrebbero cambiato radicalmente la struttura socio - economica dell'isola dove la borghesia agraria, classe egemone, andava ancora conquistata all'ipotesi dell'Italia unita. Larghi strati di borghesia meridionale infatti stavano abbandonando la propria tradizione separatista e indipendentista e si andavano convincendo dell'utilità di un governo centrale dei Savoia che garantisse la stabilità del proprio ruolo egemonico sull'isola che il malgoverno borbonico non garantiva più. L'alleanza tra la borghesia industriale del nord e la borghesia agraria meridionale fu infatti l'asse portante della costruzione del nuovo Stato unitario. La dura repressione dei moti contadini in Sicilia (drammatico fu l'episodio di Bronte, passato più clamorosamente di altri alla storia), operata dallo stesso esercito liberatore garibaldino, rientra perciò amaramente nella logica delle forze politiche risorgimentali, anche di quelle democratiche. Dopo un vittorioso scontro con i borbonico a Milazzo, Garibaldi passò lo Stretto (20 agosto) e si diresse, con un'avanzata fulminea, a Napoli, dove entrò trionfalmente il 7 settembre. Il re delle Due Sicilie si rifugiò a Gaeta e fece attestare il suo esercito sulla linea del Volturno, dove più tardi (1-2 ottobre) fu definitivamente sconfitto dall'esercito garibaldino. A Napoli, dove era accorso anche Mazzini, Garibaldi tentò di dare uno sbocco democratico alla rivoluzione, ed a questo punto si fece acuto il conflitto con Cavour. I termini di questo conflitto restano quelli di fondo della diversa concezione che i due uomini avevano sul volto da dare all'Italia unita. Non che Garibaldi desse preoccupazioni per la sua fedeltà ai Savoia, ma restavano parecchi punti di disaccordo. I mazziniani proponevano la costituzione di un nuovo Stato democratico che nascesse dalla convocazione di una Assemblea Costituente nazionale, eletta a suffragio universale. Alla loro proposta si contrapponeva la linea moderata piemontese, che voleva invece realizzare subito l'annessione al Piemonte dei territori liberati. Le leggi e gli ordinamenti del Regno di Sardegna avrebbero dovuto essere estesi a tutte le nuove province. I liberali piemontesi intendevano costituire un governo rappresentativo degli interessi dei ceti privilegiati dell'Italia settentrionale che trovavano punti d'incontro con gli interessi della classe dirigente agraria del Meridione: tale governo sarebbe stato caratterizzato da un notevole accentramento di tutti i poteri, lasciando quindi pochissimo spazio per le autonomie locali. Garibaldi d'altra parte pensava che fosse necessario indirizzare la spinta rivoluzionaria, rinvigorita dal successo della spedizione nel Regno delle Due Sicilie, verso lo Stato Pontificio, che con un'energica azione poteva, a suo parere, essere subito consegnato all'Italia unita. Facendo presente questa minaccia, Cavour riuscì a convincere Napoleone III che solo un immediato ed energico intervento dell'esercito piemontese avrebbe permesso al Pontefice di conservare almeno il controllo del Lazio. Invaso così lo Stato Pontificio, i Piemontesi sconfissero le truppe del papa a Castelfidardo, procedendo quindi ad una rapida occupazione delle Marche e dell'Umbria: queste province furono quindi immediatamente annesse al Regno di Sardegna, con il solito sistema dei plebisciti. A Napoli, frattanto, il governo dittatoriale garibaldino si trovò ben presto a dover affrontare non solo le ostilità delle classi dirigenti legate ai Borboni, ma anche a quelle delle masse contadine. Questa crisi facilitò l'intervento del governo piemontese nel Napoletano: a Teano, il 26 ottobre, in un incontro fatidico del re con Garibaldi, quest'ultimo consegnò il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele Il, senza chiedere alcuna contropartita. Seguì lo scioglimento del corpo dei volontari garibaldini che dovevano passare sotto il comando regio al seguito dell'esercito regolare. La linea democratico - garibaldina era così sconfitta. Garibaldi si ritirava nella sua isoletta di Caprera, Mazzini tornava in Inghilterra, non avendo ottenuto dal re l'amnistia delle sue condanne a morte. Di lì a pochi mesi, il 18 febbraio 1861, rappresentanti eletti con ristretti criteri censitari o professionali da tutte le province d'Italia, convennero a Torino dove si tenne la prima seduta del nuovo Parlamento italiano. Il 17 marzo 1861 il Parlamento ratificava l'unificazione e proclamava Vittorio Emanuele Il re d'Italia. La morte di Cavour, il più grande artefice dell'unità d'Italia, sopravveniva pochi mesi dopo, il 6 giugno. Egli lasciava un nuovo Stato, ma il lavoro di costruzione di questa nuova realtà storica era ancora tutto da affrontare insieme alle irrisolte questioni del Veneto e di Roma.

 
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