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LA DINASTIA FLAVIA, NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI - I SEVERI

LA STORIA DI ROMA FINO ALLE PRIME INVASIONI BARBARICHE

I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO Il nuovo assetto dell'Impero L'attentato del 68 d.C. contro Nerone, l'ultimo esponente della dinastia Giulio Claudia, segna l'inizio di un nuovo periodo di guerre civili, periodo la cui estensione è tuttavia soltanto di un anno: il 69 infatti, a causa delle lotte intestine tra diversi condottieri per la successione alla carica imperiale, vede l'avvicendarsi di ben quattro diverse personalità. Tale anno sarà ricordato perciò come l'anno dei quattro imperatori, oltre che come uno dei più tormentati e sanguinosi dell'intera storia romana. All'origine della caduta del principato di Nerone, vi è il fatto che la politica di quest'ultimo non riscuota l'approvazione né delle province occidentali, né dell'aristocrazia senatoria romano-italica. Essa infatti, spostando l'asse degli interessi dello Stato in direzione delle regioni orientali (nonché delle loro tradizioni politico-culturali), se da una parte reca offesa agli ideali dell'aristocrazia occidentale, tende dall'altra a disinteressarsi pericolosamente di quelle nuove realtà politico-economiche costituite dalle province europee occidentali (Spagna, Gallia, Germania). Il fatto poi che l'attentato contro Nerone parta da una di tali province (la Spagna Terraconense), ci fa capire quanto sia forte il loro dissenso nei confronti di tale politica, oltre che il grado di sviluppo economico e politico cui esse sono giunte (e, di conseguenza, anche la loro intraprendenza sul piano militare). Dopo un periodo relativamente breve di lotte intestine, tra il 68 e il 69, saranno i Flavi ad affermarsi come nuova dinastia regnante. Con essi inizierà per l'Impero una nuova stagione, nel corso della quale se da una parte verranno consolidate le strutture politiche e istituzionali della più moderna amministrazione imperiale, dall'altra verranno elisi e indeboliti gran parte dei privilegi politici del Senato e dell'antica aristocrazia romana e italica (ovvero di quell'antica forza con la quale lo stesso Augusto, ai suoi tempi e nella sua costruzione dell'Impero, aveva dovuto fare i conti). Ma il rafforzamento dell'apparato burocratico imperiale significa anche il rafforzamento delle province, in quanto entità politiche tendenzialmente autonome rispetto alle zone italiane, poiché dotate ormai di una loro individualità, di una loro ricchezza e di un loro peso politico, e come tali rivendicanti già da tempo maggiore considerazione e influenza all'interno della compagine imperiale. Mentre infatti le antiche forze senatorie tendevano a esercitare un dominio a senso unico sui territori sottoposti, quelle della nascente amministrazione imperiale tendono a riservare ad esse un maggiore spazio e una più alta considerazione: e ciò sia per ragioni strutturali (l'Impero essendo il risultato dell'unione di diversi stati e di diverse culture), sia per ragioni pratiche (l'attuale estensione dei territori romani non permette più infatti, almeno oltre un certo limite, un tale tipo di politica). D'altra parte è proprio da queste ultime (più che dall'Italia) che prende avvio la grande spinta di rinnovamento che determinerà prima la fine della dinastia dei Claudii, e successivamente la lotta per l'affermazione - vinta da Vespasiano - tra i quattro imperatori. Al termine del dominio della dinastia Flavia - con la morte di Domiziano, nel 96 - troveremo dunque un Impero più solido, con un apparato istituzionale decisamente più articolato ed efficiente, una classe senatoria in gran parte rinnovata (più mite quindi, nei confronti del potere dell'imperatore e meno ostile alla sua politica di dominio), e un'Italia i cui poteri e privilegi a livello politico sono oramai - rispetto al passato - decisamente ridimensionati (come dimostra chiaramente anche il fatto che, d'ora in avanti, gli imperatori saranno sempre meno romani e sempre più spesso di origini non nobili). La dinastia dei Flavi, insomma, apporterà un cambiamento notevole all'interno dell'organizzazione degli stati dell'Impero, in direzione di un maggior accentramento dei poteri dirigistici nelle mani del princeps - a scapito quindi delle forze più estranee tendenzialmente ai poteri di quest'ultimo -, secondo un modello di Stato simile per alcuni versi a quello cui tesero alcuni dei Claudi (Nerone e Caligola), senza tuttavia quella spinta orientalizzante e ellenizzante che aveva caratterizzato la loro politica. Storia di Roma nel periodo della dinastia dei Flavi 1) Il 69, 'l'anno dei 4 imperatori' Tra il giugno del 68 e il dicembre del 69, cioè tra il mese dell'insediamento di Galba e quello dell'insediamento di Vespasiano, si avvicenderanno - come si è già detto - ben quattro imperatori, tra cui, oltre appunto a Galba e Vespasiano, Otone e Vitellio. Questo lasso di tempo vedrà il ritorno di una situazione simile - per molti aspetti - a quella delle guerre civili che, nei decenni finali della Repubblica, avevano insanguinato il mondo romano (e il cui termine è coinciso con la battaglia di Azio nel 32, in cui Ottaviano ha sconfitto il rivale Marco Antonio). Anche ora infatti, saranno gli eserciti lo strumento fondamentale per la conquista del potere, anche ora vi sarà una fondamentale divisione tra Est e Ovest (seppure questa volta lo scontro verrà vinto dalle regioni orientali), ed anche ora infine saranno dei potenti condottieri a contendersi la suprema carica imperiale. Il primo successore di Nerone (morto suicida nel 68) è Galba, comandante delle truppe della Spagna Terraconense. Appartenente all'antico patriziato romano, Servio Sulpicio Galba segue da subito una politica estremamente tradizionalista, che gli aliena le simpatie tanto del popolino, quanto dell'esercito dei pretoriani (ovvero la guardia imperiale, insediata stabilmente sul suolo italico). Proprio a questi ultimi si deve infatti la sua morte, nel gennaio del 69. Succede poi a Galba Salvio Otone, un altro generale il quale gode però, a differenza del primo, dell'appoggio dei pretoriani, del popolo e delle regioni orientali dell'Impero. Otone spinge da subito per una modernizzazione degli apparati statali, favorendo l'impiego dei ceti equestri - contro quello, più tradizionale, dei liberti - all'interno dell'amministrazione pubblica. E' evidentemente una rivincita, seppure parziale, dei sostenitori del principato di Nerone contro la reazione tradizionalista di Galba e del Senato romano. Ostili in gran parte alla politica otoniana, nella quale non si riconoscono, sono le province occidentali, e in particolar modo i ceti possidenti che, assieme all'esercito, mantengono in una condizione di subalternità la gran parte della popolazione, impiegandola come manodopera semi-libera. Questi ultimi non vedono infatti di buon occhio la politica di Otone, probabilmente ritenendola - tra l'altro - non sufficientemente 'occidentalista', quindi non favorevole ai loro interessi. E' dalle regioni della Germania meridionale che proviene infatti Aulio Vitellio, generale delle truppe imperiali in quelle regioni, eletto imperatore - come del resto sarà poi per Vespasiano - dalle proprie truppe già prima di arrivare nella capitale. Egli, giunto in Italia nell'aprile del 69, sconfigge Otone accedendo così alla dignità imperiale. Da subito questi mostra uno stile di governo estremamente autoritario, fortemente anti-senatorio (quindi anti-tradizionalista), provocando altresì il malcontento di gran parte della popolazione. Tra i suoi nemici vi è anche l'esercito dei pretoriani, cui egli toglie molti dei suoi tradizionali privilegi, abbassandolo in pratica al livello degli altri eserciti imperiali. Sarà alla fine Vespasiano (comandante delle truppe imperiali stanziate in Giudea nel 66, sostenuto dalle regioni orientali dell'Impero), a conquistare definitivamente il potere. Come Vitellio, anche Vespasiano è stato acclamato princeps e augusto dalle proprie truppe già prima di arrivare a Roma, e solo successivamente, nel dicembre del 69, ha sancito tale carica sconfiggendo sul campo il suo avversario. VESPASIANO I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO 2) La politica di Vespasiano (69-79) Gli eventi che abbiamo narrato fin qui - segnati come s'è visto dalla lotta tre le diverse province per 'accaparrarsi', attraverso i propri eserciti, il potere supremo all'interno dell'amministrazione imperiale, attribuendo la carica di Augusto ai propri generali - sono in realtà in gran parte un prodotto (involontario) dell'ordinamento provinciale voluto da Ottaviano dopo Azio, ai tempi della risistemazione dell'Impero. Egli infatti, aveva predisposto un sistema di difesa interna ed esterna delle regioni imperiali fondato sulla stanzialità delle truppe (nonché dei loro veterani) sui loro territori. Ma in questo modo, se da una parte aveva favorito la difesa e la 'romanizzazione' stessa (cioè l'integrazione culturale) tra Roma e tali territori, dall'altra aveva anche rafforzato l'alleanza e l'identificazione tra le truppe e i loro generali (i prefetti imperiali), oltre che quella tra i soldati (sia legionari che veterani ormai stabilitisi sulle terre) e le popolazioni autoctone. Aveva cioè contribuito alla formazione di entità politiche autonome e indipendenti rispetto al potere centrale di Roma e dell'Italia. Tutto ciò, assieme al decollo economico delle province (in special modo di quelle occidentali), ha sviluppato in esse quella forza e quell'intraprendenza - sia politica che militare - che è all'origine di queste ultime lotte intestine (riproposizione, anche se su scala differente, delle antiche guerre civili e sociali della tarda Repubblica). Ma questi anni vedono anche un altro fondamentale cambiamento per Roma, l'inizio cioè di una nuova stagione, nella quale è ormai chiaro a tutti - e prima di tutto agli eserciti - come gli imperatori possano anche non nascere a Roma, né appartenere (come è stato finora) all'antica aristocrazia senatoria romano italica. Se si fa eccezione per Galba, infatti, uomo di antiche origini nobiliari (alle quali è infatti profondamente legato) nessuno degli altri imperatori (Otone, Vitellio e Vespasiano) appartiene alla 'vecchia guardia' senatoria, essendo tutti piuttosto uomini nuovi, uomini dell'impero. - Vespasiano Le origini familiari di Tito Flavio Vespasiano, divenuto il nuovo imperatore alla bella età di 69 anni, sono da ricercare all'interno del ceto medio italico. Non quindi figlio di un nobile senatore, ma piuttosto di un esattore imperiale, egli ha seguito la carriera militare ed è divenuto un esponente di punta delle nuove classi dirigenti dell'Impero. Appartiene insomma, a quei ceti emergenti di estrazione italica e non altolocati, che vanno a comporre i nuovi quadri amministrativi e militari dell'Impero: è dunque un uomo nuovo, espressione dell'organizzazione, che si sta sviluppando e consolidando, della nuova Roma imperiale, divenuta ormai realtà globale. Come tale egli dedicherà, nel suo principato, un'attenzione particolare alle province, spostando l'interesse dell'Impero dall'Italia verso le sue periferie. Si può dunque dire che la politica di Vespasiano e dei Flavi sia, in gran parte, il prodotto dello spostamento della ricchezza economica e dei pesi politici al di fuori dell'Italia (regione che per altro attraversa da anni una profonda crisi, dovuta essenzialmente all'investimento di gran parte dei capitali verso le province). L'azione di governo di Vespasiano consiste essenzialmente in una riorganizzazione dell'Impero, basata su: - il rafforzamento dei nuovi apparati statali, rafforzamento fondato anche su un loro più esplicito riconoscimento a livello istituzionale (si ricordi a tale riguardo che Augusto, per rispetto nei confronti delle antiche tradizioni, aveva 'mascherato' il più possibile le proprie cariche effettive dietro l'apparenza di quelle dell'antica Respublica); - il rinnovamento della composizione del Senato, ovvero lo smantellamento di molte antiche famiglie della nobilitas romano-italica, rimpiazzate con elementi nuovi di origini spesso provinciali ed equestri, in particolare spagnole (elementi meno legati alle tradizioni - e ai poteri - dell'antico Senato). Fondamentalmente la reggenza di Vespasiano è caratterizzata dunque dalla lotta, talvolta anche persecutoria, nei confronti delle resistenze degli antichi poteri repubblicani, e dal parallelo rafforzamento del potere monarchico imperiale: una lotta insomma per l'affermazione della modernità sul vecchio ordine. [E sarà proprio una tale politica di rinnovamento della nobiltà e del Senato a favorire, nei decenni successivi, la 'conciliazione' tra il princeps e il Senato, ossia tra il nuovo ordine monarchico e gli antichi valori della 'libertas' senatoria.] Veniamo ora ai principali eventi politici e militari caratterizzanti il principato di Vespasiano. Il fatto che Vespasiano provenga dalla regioni orientali dell'Impero (e che sia sostenuto da esse) ingenera il timore in molti di una ripresa della politica ellenistica e filo-orientale dei Caligola e Nerone, e prima di loro di Marco Antonio. Il nuovo imperatore mostra tuttavia da subito la propria volontà di seguire un indirizzo fondamentalmente filo-occidentale. Lascia difatti a suo figlio Tito, che rimane a oriente, il compito di governare tali regioni secondo dei metodi e una sensibilità ad esse consoni, trasferendosi invece lui nelle regioni occidentali. Qui giunto, una delle sue prime preoccupazioni è quella di ridefinire a livello istituzionale la carica stessa del princeps, ovvero di toglierle quei caratteri di eccezionalità che ancora essa conserva, dal momento che rimane il prodotto della somma di un insieme poteri differenti in un solo individuo. Con la 'Lex de Imperio' dunque, egli riassume un tale ruolo politico in una sola magistratura: la carica imperiale, definendone inoltre con precisione le prerogative politiche: ad esempio - e prima di tutto - il suo rapporto col Senato. Non più quindi figura eccezionale, il 'princeps' o imperatore diviene così il capo di Roma a tutti gli effetti. Un altro problema che Vespasiano deve affrontare è quello del risanamento delle casse imperiali, prosciugate dalla politica di grandi spese sostenuta dal suo predecessore Nerone. La sua politica in questo campo segue queste direttive: accentramento attorno alla figura del princeps delle finanze imperiali; drastica riduzione delle spese e dei donativi per la plebe; amministrazione molto oculata degli introiti statali, la quale porterà, rispetto al periodo di Ottaviano, a più che raddoppiare la ricchezza dello Stato. Ma per fare questo, ovvero per porre in essere un tipo di amministrazione finanziaria tanto attenta e oculata, egli dovrà anche potenziare gli apparati burocratici dello Stato, per mezzo di un ampio piano di rafforzamento di essi (i cui quadri egli andrà a prendere prevalentemente all'interno del ceto medio italico - lo stesso dal quale anche lui proviene). Vespasiano cerca insomma di rafforzare le strutture del potere monarchico, senza tuttavia per questo seguire o alimentare uno stile di governo di tipo orientaleggiante - che ad una tale tendenza politica si era associato invece al tempo dei Claudii. Al contrario, egli porta avanti un piano di politica culturale fortemente ostile a ogni concezione estranea alle tradizioni occidentali, perseguitando e allontanando da Roma le minoranze greche e asiatiche, i filosofi, e tutti gli esponenti di religioni estranee alla tradizione romana: ebrei, cristiani, ecc. (già sotto Nerone, infatti il cristianesimo aveva iniziato a diffondersi nell'Impero). Tale politica culturale di impronta tradizionalista si inserisce in un piano più ampio di riavvicinamento al Senato, con il quale Vespasiano cerca di mantenere rapporti distesi e di reciproco rispetto. Parallelamente però, avvalendosi delle proprie prerogative istituzionali (attraverso le quali egli può influire sulla censura: la carica preposta a compilare le liste dei senatori) egli lavora per rinnovare la composizione del Senato. Anche se da tempo infatti è in atto un processo autonomo di degenerazione della classe nobiliare romana e italica, che si manifesta ad esempio nella riduzione del numero dei suoi componenti, tuttavia tale classe continua - attraverso l'istituzione senatoria - ad avere un ruolo politico di primo piano (secondo solo a quello dell'Imperatore), aiutata in ciò dal prestigio di cui essa gode all'interno della società romana in generale per ragioni storiche, nonché grazie alla radicatezza dei propri rapporti di clientela a livello territoriale. Il rafforzamento delle province, e l'affacciarsi di conseguenza sulla scena politica di queste nuove forze è l'occasione, per l'Impero, per assestare a una tale egemonia dei duri colpi. In questo contesto si colloca la politica di Vespasiano di ampliamento del Senato a elementi provinciali ed equestri, meno ostili - anche ideologicamente - alla nascente realtà politica e sociale dell'Impero. Parallelamente peraltro egli aumenta l'influenza a livello politico dei provinciali, estendendo a molti di essi - ad esempio agli Spagnoli - la cittadinanza latina e concedendo loro a volte la stessa cittadinanza romana. Sul piano espansionistico e militare, fondamentale nel periodo del principato di Vespasiano sarà l'ampliamento dei confini romani in Britannia, attraverso una difficile missione guidata da Agricola (il quale sarà oggetto di uno scritto di Tacito, che ne è anche il cognato). I dieci anni di governo di Vespasiano non sono certo privi di conflitti e di contrasti interni. La sua politica infatti crea scontenti e risentimento all'interno di molte fasce della popolazione imperiale: dall'antica nobilitas romana e italica, al popolo di Roma (cui, come si è detto, egli taglia molti dei precedenti donativi), dagli eserciti (da lui guardati con sospetto, in quanto potenziali strumenti di ribellione al potere imperiale) alle regioni orientali (alle quali non elargisce sufficienti favori). Tuttavia il suo principato costituisce complessivamente un momento di crescita sia per il potere monarchico che per l'apparato imperiale, quindi in generale per l'Impero. Egli inoltre, attraverso gigantesche opere pubbliche, favorisce lo sviluppo di quest'ultimo anche a livello economico e commerciale determinando così un'atmosfera positiva anche sul piano culturale. I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO 3) Il breve regno di Tito (79-81) Vespasiano ha due figli: Tito e Domiziano. Al primo ha affidato la cura delle regioni orientali quando, nel 69, si è trasferito in Occidente per esercitare il proprio ruolo di princeps. Sempre col primo inoltre, ha condiviso la tribunicia potestas, una delle prerogative essenziali della carica del princeps. E' chiaro quindi come sia Tito - per altro il primogenito - l'erede da lui designato alla successione. E' difficile tuttavia, data la sua brevità, dare un giudizio equo sul periodo di reggenza di Tito, il quale, salito al potere nel 79, muore dopo solo due anni di governo, appena quarantaduenne. Ciò che si sa è che egli, guardato con sospetto dalla nobilitas per le tendenze dimostrate precedentemente alla propria elezione in direzione di una politica di tipo orientale, tenta da subito una riconciliazione con quest'ultima, sulla base peraltro dei valori della clementia stoica. Egli verrà infatti polemicamente ricordato, ai tempi della reggenza del fratello Domiziano, come 'amor ac deliciae', in contrasto con l'appellativo 'dominus et deus' con cui amerà essere chiamato il suo successore. Altro merito da ascriversi a Tito è l'aver portato avanti (come del resto ha fatto il padre e come farà Domiziano) la guerra in Britannia, e l'essere autore della presa di Gerusalemme nel 70 (quando ancora non è asceso al principato) in veste di generale per ordine del padre. Nei suoi anni, si collocano inoltre l'eruzione del Vesuvio (79) e il completamento del Colosseo nella città di Roma (80). 4) Domiziano e la ripresa della politica anti-senatoria (81-96) Vespasiano non aveva mai concesso onori politici rilevanti al suo secondogenito, Domiziano, né aveva mai disposto la sua successione al principato. Tuttavia, dal momento che comunque quest'ultimo fa parte della dinastia flavia, spetta a lui dopo la morte del fratello la successione. Al momento dell'incoronazione egli ha 30 anni d'età. La politica che Domiziano sceglierà di seguire sarà simile fondamentalmente a quella di suo padre. Certo, più esplicita e molto meno mascherata è la volontà da parte sua di perseguire e di indebolire - attraverso i propri poteri - la vecchia nobilitas d'origine repubblicana. E sarà proprio una tale volontà a costargli la vita nel 96, quando verrà ucciso da una congiura di palazzo. Come in precedenza era stato per suo padre, saranno tre i punti attorno a cui ruoterà la sua azione: 1) l'indebolimento dei poteri e delle istituzioni dell'antico Senato e dell'antica nobilitas; 2) il rafforzamento del potere monarchico e del centralismo dello Stato, ovvero la soppressione dei poteri 'altri' rispetto al proprio, rafforzamento quindi degli apparati imperiali e dei nuovi ceti equestri (filo-imperiali); 3) le persecuzioni ai danni dei filosofi (colpevoli di contaminare la cultura occidentale con influenze orientali ed ellenistiche), degli ebrei e dei cristiani, e in generale di tutti gli 'innovatori' sul piano culturale (tra le vittime di tali persecuzioni poi, vi saranno anche elementi della sua famiglia). Mentre Tito, al momento dell'elezione, aveva al proprio attivo dei trascorsi politici non graditi al Senato, Domiziano - al contrario - aveva stretto rapporti di amicizia con alcune famiglie della nobiltà romana e italica: le stesse delle quali sarebbe poi divenuto acerrimo nemico, tradendo in tal modo molte delle aspettative nei suoi confronti. Nei primi anni del suo principato, Tito si occupa soprattutto della difesa dei confini dell'Impero, combattendo nell'83 contro i Catti nei territori germanici, e estendendo i confini romani in tali regioni. [Al termine della campagna, la Germania verrà divisa in due regioni: la provincia 'Superior' e quella 'Inferior', quest'ultima punto di raccordo con le regioni danubiane dell'Impero]. Egli porta avanti poi la colonizzazione delle regioni della Britannia, sempre per mano di Agricola (il quale tuttavia verrà richiamato in patria nell'84). Nell'85 infine, i Daci invadono la Mesia (una regione della zona danubiana), costringendo Domiziano a iniziare delle nuove campagne, la cui durata si estende fino all'87 e che si concludono con l'acquisizione di nuovi territori a est. Ma è a partire dall'89 che la politica di Domiziano si fa spiccatamente monarchica e accentratrice, suscitando così le ire del Senato e dando inizio a un periodo di conflitti culminanti nell'assassinio del princeps nel 96. L'occasione (o la causa?) di questa nuova politica è la ribellione di un certo Saturnino, prefetto nelle regioni della Germania Superior, il quale nell'89 viene proclamato Augusto dalle sue truppe iniziando una ribellione contro Roma che verrà da questa presto soffocata nel sangue. Forse per paura che dietro tale evento si nasconda un complotto della nobiltà, Domiziano a partire da questi anni, colpisce con ogni mezzo possibile le forze nobiliari romane e italici. Delazioni, accuse di malcostume (già usate da Augusto, anche se per scopi di riforma morale), confische, ed anche restrizioni di carattere economico (proibizioni commerciali): tutto è valido per indebolire la classe nobiliare, ritenuta da Domiziano una gravissima minaccia per il proprio potere! Oltre a tutto ciò Domiziano assume anche la censura, una carica che - come si è detto - dà a chi la detiene la possibilità di riformare il Senato, introducendo in esso (come del resto già suo padre aveva fatto) nuovi elementi di origine provinciale ed equestre, ovvero nobili di nuova nomina e di origini 'plebee'. In questo secondo periodo della sua azione di governo (che inizia, come si è detto, all'incirca nell'89), Domiziano instaurerà un regime del terrore dal quale non saranno escluse nemmeno le minoranze culturali, oggetto anch'esse di persecuzione. D'altra parte, egli basa gran parte del proprio potere sul consenso delle province (e sul rafforzamento degli apparati statali, che sono alla base di tale consenso), oltre che su quello della plebe e degli eserciti, con cui si mostra estremamente munifico. La politica anti-senatoria di Domiziano tuttavia, non può non portare alla lunga i suoi amari frutti. Nel settembre del 96 una congiura di palazzo, alla quale forse partecipa la sua stessa moglie, Domizia (da lui precedentemente ripudiata a causa delle sue simpatie per la nobiltà), porrà fine alla sua vita nella sua stessa camera. Al posto di Domiziano, i congiurati predispongono la successione di Cocceio Nerva, uomo innocuo per il Senato, date le sue origini nobili e la sua età oramai avanzata. CONCLUSIONI (69-96) Tentando un bilancio del periodo della dinastia dei Flavi - ovvero essenzialmente dei due principati di Vespasiano e Domiziano - possiamo dire che essa abbia portato avanti una politica fondamentalmente ostile alle resistenze dell'antico potere repubblicano, basata sul consolidamento a livello strutturale e burocratico degli apparati statali imperiali, nonché - di conseguenza - sull'affermazione a livello politico delle province (le quali si trovano ad essere, per mezzo di tali apparati, decisamente facilitate nell'accesso alla vita politica dell'Impero). Rispetto a Nerone e Caligola, i Flavi hanno avuto a monte maggiori possibilità d'azione: ciò perché la lotta anti-senatoria da essi sostenuta, ha trovato un notevole appoggio negli interessi di quei nuovi organismi politici che sono le province d'occidente. Inoltre - ed è questa un'altra differenza sostanziale rispetto ai Claudii - lo scontro con il tradizionalismo repubblicano non si è mai mescolato, nella loro visione, con una politica filo-ellenica e filo-orientale. Tutti e tre infatti hanno perseguito una strategia rigorosamente 'occidentalista', che ha conservato loro l'appoggio delle regioni emergenti. Complessivamente l'Impero uscirà rafforzato dal governo della dinastia Flavia, mentre l'aristocrazia senatoria vedrà ridimensionati i propri privilegi politici, essendo tra l'altro affiancata da una più giovane generazione di latifondisti, d'origine spesso provinciale e equestre. NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI: L'APOGEO DELL'IMPERO Introduzione Il periodo di storia romana trattato in questo articolo si estende dagli ultimi anni del primo secolo agli ultimi del secondo, comprendendo un lasso temporale che, partendo dal principato di Nerva (96.), giunge al termine di quello di Commodo (.192). Un tale periodo, di particolare splendore economico e di grande stabilità politica, è ricordato come l'età d'oro dell'Impero, felice combinazione di diversi fattori che ne fanno non solo l'apogeo del mondo romano ma, in un certo senso, quello della stessa civiltà antica. In esso, se da un lato assistiamo al definitivo affermarsi delle strutture politiche e burocratiche dell'Impero su quelle più antiche d'origine repubblicana, non vediamo tuttavia ancora l'inizio del loro deteriorarsi e del loro degenerare nell'anarchia e nel disordine. Sul piano socio-economico si afferma sempre di più un "modus vivendi" aperto, fatto di scambi commerciali e di capitali monetari (cosa che entra in stridente contrasto con l'antica economia rurale, risalente ancora alle remote origini di Roma, nelle quali vigeva una netta separazione tra patrizi e plebei, tra patroni e clienti - un'economia basata cioè sul latifondo, che non verrà mai definitivamente scalzata, tanto meno sul finire della civiltà romana imperiale, con l'inizio del Medioevo.) In questi anni quindi, vengono alla luce tutti i lati 'positivi' dell'idea di Impero: il definitivo tramonto del predominio politico-economico dell'antica aristocrazia terriera (non a caso si afferma sempre più la 'nuova aristocrazia' della terra, di nomina imperiale); lo svilupparsi di una consistente 'classe media', o di una 'media borghesia', in tutte le regioni imperiali; la capacità del nuovo stato di permeare e controllare un po' tutti gli aspetti della vita civile dell'Impero; la graduale parificazione di tutti i suoi sudditi, attraverso - quantomeno tendenzialmente - lo smantellamento dei privilegi dei cittadini romano-italici. Assistiamo dunque alla formazione di una grande 'ecumene' di popoli e di culture, il centro della quale si trova, dal punto di vista decisionale, nella figura dell'Imperatore e della sua corte. L'Impero diviene dunque sempre di più una realtà globalizzata, caratterizzata cioè da una forte mobilità interna e da una sempre maggiore parità di diritti (e doveri) tra i sudditi. 1. Nerva, imperatore municipale (96-98) Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, a opera di varie forze dell'Impero e in primo luogo del Senato (da Domiziano osteggiato in tutti i modi, compresi provvedimenti di natura giudiziaria, secondo la modalità - istituita da Claudio e espressione del potere dell'imperatore - chiamata intra cubicolo), viene eletto imperatore M. Cocceio Nerva. E' costui un uomo già anziano e piuttosto debole, anche per ragioni caratteriali, appartenente all'antica nobilitas italica (per la precisione a quella umbra), 'messo su' dal Senato e dalle forze del tradizionalismo italico sfruttando il vuoto di potere creatosi con la fine della dinastia dei Flavi, per assecondare i propri progetti di restaurazione e di arginamento dei cambiamenti in atto, sempre più favorevoli a un indirizzo assolutistico e monarchico. I due anni del principato di Nerva sono caratterizzati da: una ripresa della politica filo-italica (mirante cioè a riaffermare la centralità della penisola tra le regioni dell'Impero); misure di riparazione delle azioni legali sostenute da Domiziano contro i senatori romani (ovvero il ripristino dei loro antichi privilegi, la restituzione di gran parte delle ricchezze loro estorte con misure giudiziarie, ecc.); ripresa di una politica di donazioni - monetarie e frumentarie - alle popolazioni municipali italiche (si ricordi che la penisola italiana attraversa un momento di grande crisi economica, quindi di impoverimento). Ma ciò che caratterizza maggiormente il principato di Nerva è l'attenzione alle esigenze della classe nobiliare italica e quindi l'alleanza con il Senato. Sarà questo atteggiamento a guadagnargli l'ostilità delle forze politiche filo-imperiali, in particolare dell'esercito dei pretoriani (la guardia imperiale) che si vede messa in secondo piano, e si sente quindi tradita dal proprio princeps. A ciò si deve un tentativo di congiura, fortunosamente sventato, in seguito al quale Nerva - preoccupato dalla possibilità di un'involuzione politica e di una nuova frattura tra 'partito repubblicano' e 'partito imperiale', dall'inizio cioè di un nuovo periodo di guerre civili - decide di eleggere come suo successore Ulpio Traiano, uomo politicamente da lui molto distante in quanto legato all'esercito e capo, all'epoca, delle truppe di stanza nella Germania Superior. Già anziano quando viene eletto, Nerva muore dopo soli due anni di governo, nel 98. 2. Traiano, 'optimus princeps' (98-117) A. Origini di Traiano A conferma della volontà di Nerva di assecondare le forze legate al partito imperiale, possiamo dire che il suo successore - da lui stesso appositamente scelto - è un uomo d'armi la cui carriera è legata essenzialmente all'esercito, e le cui origini inoltre - primo fra tutti gli imperatori romani - non sono né romane né italiche, ma spagnole. La sua elezione al principato è dunque una chiara riscossa delle forze provinciali, della nobilitas di nuova nomina, degli eserciti e in generale delle forze politico-sociali favorevoli a un orientamento imperialistico e in lotta con quelle tradizionaliste filo-repubblicane. Traiano passerà alla storia come l'Optimus princeps, ovvero come il migliore imperatore conosciuto da Roma nell'arco di tutta la sua lunga storia. Con lui infatti (anche se, ovviamente, non soltanto per merito suo) l'Impero conoscerà un'impennata nei traffici interni e un periodo di notevole rigoglio economico. Inoltre, anche grazie all'impegno da lui portato avanti nell'opera (iniziata in realtà molto tempo prima, da Augusto e da Vespasiano) di rinnovamento nella composizione del Senato, si inaugurerà in questi anni un periodo caratterizzato da un atteggiamento di concordia e di riappacificazione tra le istituzioni dell'Impero e la nobilitas senatoria, una sorta di riconciliazione (fittizia) tra i valori dell'universalismo monarchico e quelli della libertas senatoria e nobiliare. Un altro motivo di prestigio prima e di gloria poi, così presso i contemporanei come presso i posteri, sarà costituito per Traiano dalle molteplici imprese belliche. Il suo periodo coincide, infatti, con l'ultima fase espansiva dell'Impero romano, quella nella quale esso tocca i suoi confini estremi, giungendo perfino a comprendere al proprio interno i territori partici della Mesopotamia. E anche se in realtà, tali imprese avranno più un valore simbolico (legato cioè al prestigio delle loro tali vittorie militari) che reale (Roma difatti non riuscirà a mantenere a lungo molti dei nuovi territori), esse contribuiranno comunque a consolidare la fama di Traiano come di un eccellente condottiero, e a far ricordare il suo principato come il più "glorioso" dell'intera storia romana. B. La politica interna Attraverso la propria politica interna Traiano persegue essenzialmente due finalità: quella del rafforzamento dell'ordine imperiale (sia a livello sociale, sia a livello amministrativo) e quella del mantenimento della centralità politica delle regioni occidentali all'interno della compagine imperiale, in particolare (nonostante le sue origini spagnole) dell'Italia. Non che una tale politica filo-occidentale sia, in assoluto, una novità. Come noto, essa era divenuta una costante tra gli imperatori dopo il fallimento della linea orientalista di Caligola e Nerone. Lo stesso vale per la politica monarchica e anti-repubblicana (volta cioè all'indebolimento degli antichi poteri e delle strutture d'origine arcaica) in atto fin dai tempi di Augusto, seppure con le dovute riserve e i dovuti 'camuffamenti'. Tuttavia nel periodo traianeo, la centralità e il dirigismo dello Stato si spingono a un livello mai raggiunto prima: egli infatti, avendo il vantaggio di partire nella propria azione dalle riforme e dalle conquiste già raggiunte dai suoi predecessori, riuscirà ad infliggere dei duri colpi ai sostenitori della linea tradizionalista e repubblica. Ciò non deve tuttavia indurre a credere che Traiano, nelle sue manifestazioni pubbliche, manchi in alcun modo di rispetto al Senato. Nonostante le proprie origini, provinciali e militari, egli dimostra infatti grande deferenza nei confronti di tale istituzione, e più in generale delle tradizioni patrie, sulla base di un programma di riappacificazione (concordia) tra il vecchio e il nuovo ordine: programma reso possibile in realtà anche dal profondo rinnovamento - avvenuto sotto l'Impero - della classe nobiliare, ovvero dalla sostituzione di molte delle più antiche famiglie nobiliari con altre di nuova nomina, molto spesso di origini provinciali ed equestri. Accanto a tali trasformazioni di carattere politico (miranti a rafforzare la centralità dello Stato e dell'Imperatore), sono in atto già da tempo all'interno dell'Impero anche delle profonde trasformazioni di carattere sociale, trasformazioni il cui elemento caratterizzante è essenzialmente lo sviluppo di una vasta classe media. Tra i due fenomeni inoltre - quello sociale e quello politico-istituzionale - sussiste anche una profonda interrelazione. Se infatti a livello amministrativo assistiamo al fiorire di una vasto ceto medio, impegnato in mansioni di carattere burocratico e amministrativo, e di un esercito professionale (le cui funzioni sono prevalentemente di carattere difensivo), si assiste anche parallelamente all'emergere e all'affermarsi di una vasta fetta di popolazione - che si affianca a quella precedente - impiegata in attività affaristiche e commerciali. Tale concomitanza poi non è certo casuale: lo sviluppo di un efficiente apparato statale è difatti condizione imprescindibile per quello di una vasta rete di traffici interni, sia attraverso la sicurezza delle rotte marittime e terrestri, sia attraverso un'organizzazione complessiva dei territori a livello amministrativo. D'altronde, l'esistenza di una tale rete richiede e consolida a sua volta quella degli apparati statali. In questi anni diviene dunque sempre più evidente - toccando al tempo stesso i suoi apici - un processo, le cui origini risalgono ancora al periodo di Ottaviano e della tarda repubblica, di reciproco sostegno tra lo Stato e le classi medie, una sorta di "circolo virtuoso" che sarà una delle basi della solidità dell'Impero. Un altro elemento amministrativo e organizzativo che, sebbene già introdotto precedentemente, viene da Traiano ulteriormente consolidato, è l'utilizzo di esponenti equestri (anziché quello più tradizionale dei liberti) nelle sfere più alte dell'amministrazione pubblica. In un unico frangente Traiano si mostra refrattario ad assecondare i nuovi orientamenti politici, laddove decide - in contrasto con la tendenza al decentramento che da sempre caratterizza la politica imperiale - di conservare all'Italia una notevole centralità politico-amministrativa. Ma quest'ultima deve essere intesa, molto probabilmente, come una misura finalizzata essenzialmente al rilancio economico della penisola. Egli recluta difatti i quadri amministrativi imperiali prevalentemente tra gli esponenti della borghesia municipale italica, nonostante sia in atto - già da tempo - un processo di parificazione politica tra i cittadini dell'Impero (processo che va ovviamente a scapito delle popolazioni romano-italiche, attraverso lo smantellamento graduale dei loro privilegi). Un ultimo problema con il quale Traiano deve fare i conti è, appunto, la crisi economica e demografica italiana. Per arginare un tale fenomeno egli prenderà essenzialmente due provvedimenti: la promulgazione nel 108 di un provvedimento che costringe i nobili senatori (in gran parte ormai latifondisti provenienti dalle province) ad investire almeno un terzo dei propri patrimoni in terre italiane; e l'istituzione delle alimentationes, istituzioni statali di carattere assistenziale il cui scopo è di fornire agli orfani italici l'opportunità di studiare e, in età adulta, di entrare a fare parte dei quadri più bassi dell'amministrazione imperiale, nonché - attraverso un meccanismo di prestiti - di favorire e aiutare la ripresa dell'economia italiana. Bilancio della politica traianea Gli anni di Traiano conoscono il definitivo decollo dell'economia di scambio, di contro alle antiche resistenze dell'economia (nonché della mentalità e delle tipiche concezioni politiche) del capitalismo fondiario le cui origini risalgono ancora al periodo della monarchia (si ricordi ad esempio, la situazione della Roma monarchica, segnata da una netta contrapposizione tra i nobili latifondisti, o patrizi, e i loro clienti, o plebei). Ma un tale decollo è favorito e reso possibile - oltre che dalle molteplici opere pubbliche (quali strade, acquedotti, ecc.) portate avanti sia in questi che negli anni precedenti - dal definitivo affermarsi di un nuovo assetto sociale e istituzionale, un fenomeno le cui premesse sono state poste nel corso della lunga trasformazione di Roma in potenza internazionale e imperiale. L'Impero dunque, nonostante la centralità politica delle zone occidentali, si sviluppa sempre più secondo un modello politico di tipo ellenistico-orientale, essendo caratterizzato da: 1) un forte potere centralistico dello stato ("dirigismo statale"); 2) un notevole sviluppo dei settori amministrativi e dell'economia di scambio: quindi, sul piano sociale, dei ceti medi, 3) il prevalere dell'economia monetaria (cioè dei capitali mobili) su quella terriera (dei capitali immobili). E' da ricordare, inoltre, l'attenzione riservata da Traiano (ma anche dal suo predecessore, Nerva) ai problemi economici e sociali che funestano la penisola italiana, e il suo tentativo di conservare a essa un ruolo di centralità sul piano amministrativo e politico. C. La politica d'espansione Coerentemente con le proprie origini militari, Traiano porta avanti una politica espansionistica molto aggressiva. Essa segnerà per altro la fine della fase espansiva di Roma, giunta ormai (per ragioni come vedremo qui di seguito) ai limiti estremi di estensione e di governabilità. Le ragioni che, molto probabilmente, spingono Traiano a perseguire un tale tipo di politica sono da ricercarsi principalmente nel desiderio di prestigio militare (fonte sicura di consensi politici in tutti gli strati della popolazione), e nella prospettiva di un ulteriore arricchimento dell'Impero e dello Stato. Le campagne sostenute da Traiano nel corso del suo principato saranno essenzialmente cinque: due combattute contro la Dacia, una contro gli Arabi, una contro gli Ebrei della Cirenaica, un'ultima infine contro il regno dei Parti. Tra esse le più significative sono senza dubbio l'ultima e le prime due, mentre le guerre contro gli Arabi e gli Ebrei possono considerarsi in gran parte fasi intermedie di un più ampio piano di estensione e consolidamento dell'Impero verso Est, piano culminante appunto nell'ultima grandiosa campagna contro il nemico storico di Roma: il regno dei Parti. La guerra dacica viene portata avanti principalmente per due motivi: la ricchezza naturale delle zone danubiane, e l'esigenza di arginare le continue incursioni - guidate dal re Decebalo - dei popoli risiedenti in quella regione. Mentre la prima campagna (101-102) si concluderà con una sottomissione parziale della Dacia, che - seppure rapidamente 'romanizzata' - non sarà ancora ridotta a provincia romana; la seconda campagna (105-106), che si deve alla ribellione dello stesso re Decebalo, dai romani conservato sul trono al termine del conflitto, si concluderà nel 106 con l'annessione definitiva di tale regione all'Impero. Una tale annessione inoltre rimpinguerà parecchio le casse dello Stato, essendo la Dacia abbondantemente provvista, tra le altre ricchezze, d'oro (uno dei motivi peraltro alla base di queste guerre!) Le imprese militari di Traiano in Dacia verranno infine celebrate nella celebre 'Colonna traiana', un'opera del 113. Al termine delle campagne danubiane, Traiano inizia una nuova serie di conflitti, stavolta nelle zone orientali. Motivo di essi è la ripresa delle ostilità tra Roma e le regioni partiche, le quali - non più funestate dalle incursioni degli Unni e dell'esercito della dinastia Han (proveniente dall'estremo oriente) - hanno interrotto la tregua bellica sui propri confini occidentali, più precisamente su quelli armeni. In questi anni tuttavia, forse anche a causa del clima di insicurezza e di debolezza creato dalla ripresa delle ostilità in Armenia, anche altre zone orientali si mostrano irrequiete. Traiano è costretto difatti a intervenire militarmente anche in Siria, in Arabia (fondando nel 106 una nuova provincia: l'Arabia Petrea) e in Cirenaica (dove l'esercito romano dovrà sedare una rivolta delle popolazioni semitiche). Tali episodi d'intolleranza verso la dominazione romana dimostrano molto bene come il tempo non abbia in realtà definitivamente sedato i conflitti tra questi due diversi mondi, e come il fuoco della ribellione continui a covare sotto la cenere. [Un fatto che trova un'ulteriore conferma nella nostalgia dell'Oriente per la dominazione di Nerone, figura attorno alla quale si sono create addirittura delle leggende popolari, nonché il caso molto singolare di un 'falso' Nerone che si aggirerebbe tra esse.] Ma la vera e propria guerra partica verrà combattuta tra il 114 e il 115 e si concluderà prima con la conquista dell'Armenia, e successivamente con quella della Mesopotamia, vero e proprio cuore dell'Impero nemico - un'annessione quest'ultima, con la quale il dominio di Roma giungerà addirittura fino al golfo Persico! E tuttavia il mantenimento di tali regioni costituirà un'impresa troppo onerosa e irta di ostacoli, perché esse possano essere mantenute a lungo. Se difatti già le regioni medio-orientali si dimostrano estremamente difficili da governare attraverso prassi e criteri di dominio politici romano-occidentali, una tale opera sarebbe ancora più difficile da portare avanti per regioni ancora più distanti, sia geograficamente che culturalmente. Già nel 116 iniziano infatti le prime rivolte nei territori partici della Mesopotamia, le quali dimostrano appunto la precarietà della dominazione romana in quelle zone. Traiano, costretto dagli eventi a riparare in Cilicia, morirà poco dopo, nell'agosto del 117. D. Conclusioni sul principato di Traiano Ulpio Traiano verrà ricordato - complice anche Plinio il Giovane, che tra i letterati dell'epoca ne è il principale sostenitore politico - come l'Optimus princeps, e ciò sia per le proprie gloriose imprese militari e conquiste territoriali, sia per l'impegno dimostrato nella gestione degli affari interni dell'Impero, a partire dall'assistenza ai poveri per arrivare alle questioni riguardanti la giustizia. Lo sviluppo che egli è riuscito a imprimere alle strutture politiche e istituzionali di Roma ha poi delle ripercussioni molto favorevoli anche sui commerci e sulla mobilità interna, essendone poi a sua volta alimentato. Tutto sommato, dunque, quella traianea è una delle epoche più felici della storia imperiale, l'inizio di quella che viene definita "Età aurea", e che proseguirà con gli Antonini. 3. Gli Antonini A. L'Età Aurea Il periodo degli Antonini (schiera di imperatori il cui nome deriva per convenzione storica da Antonino Pio, il secondo di essi) è un periodo storico "perfetto". Perfetto, perché in esso l'Impero - rinunciando a ulteriori mire espansionistiche - si ripiega su se stesso e sulle proprie strutture interne, vivendo per così dire una 'vita propria', il più possibile autonoma e indipendente rispetto all'esterno, e raggiungendo inoltre un'armonia e una pace sociale che rimarranno per sempre insuperate. In questi anni Roma raggiunge infatti un notevole equilibrio tra le sue differenti componenti sociali, ovvero essenzialmente: a) i ceti latifondistici, coloro cioè che producono le basi stesse della ricchezza e del benessere economico dell'Impero; b) i commercianti, coloro che le rivendono; c) le città, sedi dell'attività commerciale e amministrativa; d) gli eserciti, strumenti indispensabili per la pace e la sicurezza interne e esterne; d) le grandi masse dei poveri (sia quelli delle campagne sia quelli delle città), la cui sussistenza dipende - in gran parte - dalla generosità e dalle elargizioni dei ceti più ricchi. Si instaura insomma - soprattutto a causa della grande mobilità che si è sviluppata sia a livello sociale che a livello commerciale - un clima di positiva collaborazione, reso possibile inoltre dalla pace e dall'ordine interni, e da una (relativa) facilità a livello di comunicazioni e di scambi tra le diverse regioni. Una tale congiuntura inoltre, positiva innanzitutto da un punto di vista economico, garantirà - grazie alla generosità sia dei ceti nobiliari e in generale di quelli più ricchi (secondo la pratica detta dell'evergetismo), sia dello Stato (con Adriano infatti tolleranza e magnanimità, valori essenzialmente 'umanitari', diverranno un punto fermo nella condotta di quest'ultimo) - un più alto livello di esistenza alle classi più povere, sia proletarie che sotto-proletarie. Ovviamente una simile situazione sarà resa possibile essenzialmente dalla condizione di grande rigoglio economico, la quale permetterà ai ceti più ricchi l'accumulo di un surplus produttivo da destinare a un tale tipo di attività, le quali svolgeranno peraltro un ruolo essenziale nel mantenimento della pace sociale, allontanando lo spettro di conflitti e agitazioni tra le classi più povere! Ma appena una tale congiuntura - lunga sì, ma anche inevitabilmente destinata a finire - verrà a incrinarsi, anche il clima di collaborazione e armonia (che è poi l'essenza stessa dell'Impero) che ha caratterizzato questi anni, finirà per deteriorarsi irreparabilmente, e diverranno evidenti i primi segni di una crisi che culminerà con la caduta stessa dell'Impero. Con gli Antonini, in ogni caso, il livello della vita sociale rimarrà tutto sommato molto alto, anche se già con Marco Aurelio e ancor più con suo figlio Commodo si cominceranno a intravedere i principi della futura crisi. B. Elio Adriano, imperatore "ellenizzante" (117-138) Sarà il senatore Elio Adriano, imparentato alla lontana con Traiano, nonchè come questi di origini spagnole, a ereditare il titolo di princeps. Al momento della morte di Traiano, nel 117, egli si trova in Oriente impegnato in azioni militari, per incarico del suo predecessore. Solo nell'anno successivo, il 118, Adriano raggiungerà Roma per farsi incoronare ufficialmente dal Senato, cosa che - assieme ad altre manifestazioni, ad esempio la sua costante lontananza dalla capitale e il suo continuo girovagare per l'Impero - ci mostra subito la scarsa considerazione che egli nutre sia per Roma che per le sue antiche tradizioni. In effetti con Adriano l'Impero subisce una svolta in senso decisamente orientalista, non solo (come presso i suoi predecessori) dal punto di vista politico, in direzione cioè di una maggiore centralità dello Stato ovvero di un controllo più capillare delle sue regioni, ma anche da un punto di vista culturale. Se la maggior parte degli imperatori precedenti, da Vespasiano fino a Traiano, si erano guardati bene dall'assumere atteggiamenti che potessero suonare in qualche modo d'offesa al tradizionalismo occidentale, ciò si doveva soprattutto al timore di suscitare dissensi e lotte intestine (quali ad esempio quelli suscitati da Nerone o, in tempi più recenti, da Domiziano). Anche per questa ragione essi avevano mantenuto il più possibile un atteggiamento di rigoroso rispetto nei confronti del Senato e dei valori delle sue tradizioni. Ma oramai, al tempo di Adriano, il predominio politico dell'Imperatore è tale (anche vista la mutata situazione sociale: l'accentramento cioè dei maggiori poteri istituzionali attorno alla sua figura politica) che egli può tranquillamente permettersi di abbandonare un certo 'conformismo dei costumi', ovvero un adeguamento forzato agli stereotipi della tradizione occidentale, ed esprimere più liberamente il suo punto di vista. Il fatto poi che quest'ultimo imperatore sfidi il 'perbenismo occidentale' (come prima di lui avevano già fatto Caligola Nerone e Domiziano), assumendo atteggiamenti da poeta e da filosofo, e manifestando un gusto ellenizzante che mal si sposa con i costumi della nobilitas senatoria, non deve farci credere che egli sia (come invece i suoi predecessori) un tiranno sanguinario. Se infatti Nerone e Caligola avevano regnato in una Roma nella quale l'autorità del Senato, anche sul piano culturale, era ancora preponderante, e avevano quindi scelto di usare la violenza come strumento di coercizione e di imposizione, Adriano si trova a regnare invece in un contesto che si è già fortemente emancipato da una tale tirannia. Tra le varie manifestazioni dell'orientalismo di Adriano possiamo annoverare - come già si è detto - la sua costante lontananza da Roma; ma anche la linea politica decisamente liberale assunta nei confronti delle regioni orientali dell'Impero, cui egli concede - rispetto a Traiano - maggiori autonomie; come anche, infine, la tolleranza dimostrata nei confronti dei culti orientali che si infiltrano nelle regioni occidentali (tra i quali non dobbiamo però annoverare né il cristianesimo né l'ebraismo, da lui perseguiti duramente). Il periodo del suo regno è forse, tra tutti, quello di maggiore benessere. Né sono presenti in esso eventi particolarmente significativi o eclatanti, anche perché egli non propende verso nuove guerre di conquista, ma al contrario si impegna in un'opera generale di consolidamento del vastissimo territorio imperiale. Il suo principato è caratterizzato da un riassestamento delle strutture statali (ad esempio, attraverso la riforma dell'amministrazione finanziaria dell'Impero, ovvero con l'istituzione dei curatores fisci), e dalla rinuncia non soltanto a velleità di natura espansionistica, ma anche al mantenimento di province particolarmente onerose, quali l'Armenia e la Mesopotamia. Celebre è inoltre il vallo adrianeo in Britannia, che delimita i territori romani da quelli ancora in mano ai barbari; analoghe manovre di delimitazione egli le compie poi in Germania e in Dacia. Un altro elemento caratteristico del suo governo - in forte contrasto con la linea di governo traianea - è la propensione verso la parificazione di tutti i cittadini e verso lo sviluppo civile (anche attraverso opere di carattere pubblico) delle province imperiali. Nei suoi anni difatti, queste ultime conoscono una vera e propria esclation a livello urbano, tanto che Adriano verrà ricordato come il maggior 'urbanizzatore' della storia dell'Impero. Se quindi Traiano si è impegnato prevalentemente in un'opera di consolidamento di Roma verso l'esterno, il suo successore Adriano ha portato avanti invece una simile opera verso l'interno, migliorando ulteriormente l'organizzazione della grande macchina imperiale e rinunciando pragmaticamente a conservare quei territori che, pur dando lustro all'Impero, ne risucchiano energie sia umane sia finanziarie. C. Antonino Pio (138-161) Adottato da Adriano quasi in punto di morte, T. Aurelio Antonino (passato alla storia come il Pio, per l'immagine da lui fornita di se stesso come di un Imperatore interamente dedito al bene dei propri sudditi) ascende al principato nel 138, a quarantadue anni. Fondamentalmente Antonino non apporta modifiche all'orientamento di Adriano: persegue infatti una politica di pace sia all'interno che all'esterno, e di consolidamento dell'Impero a livello organizzativo. Se Adriano ha 'sistemato' l'organismo imperiale, portando così virtualmente a termine quel lungo processo di consolidamento strutturale che era iniziato con imperatori quali Ottaviano, Vespasiano, ecc., Antonino il Pio invece lo irrigidisce in una forma che aspira in qualche modo a essere eterna. Una differenza del suo governo rispetto a quello di Adriano starà però in un maggior interesse per i diritti e i privilegi degli Italici. Egli difatti restituirà a questi ultimi, nonché al Senato, parte delle prerogative che il suo predecessore aveva loro tolte. Un'attenzione particolare infine viene da lui dedicata all'assetto degli eserciti sulle frontiere, quasi a voler separare ancor più rigidamente Roma dal resto dei territori confinanti, secondo un progetto di tipo isolazionistico già perseguito da Adriano. Elemento di novità del suo principato - non ascrivibile però alla sua volontà - sono i tentativi di penetrazione nell'Impero da parte di alcune popolazioni barbariche, che premono sui confini settentrionali. Essi costituiranno le prime avvisaglie di più ampi movimenti migratori che si verificheranno - come vedremo tra poco - sotto il regno del suo successore, Marco Aurelio. D. Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, e la prima invasione barbarica (161-180) Il principato di Marco Aurelio ruota nella sua interezza attorno al problema della sicurezza interna, conoscendo lungo l'arco di tutta la sua durata delle continue invasioni territoriali: prima da parte dei Parti, e successivamente da parte di alcuni popoli germanici (tra cui Quadi, Marcomanni, Jazigi.). Il suo è dunque (quantomeno nei suoi aspetti più significativi e appariscenti) un periodo di governo essenzialmente militare, anche se ciò non va ascritto all'indole dell'Imperatore (essendo egli al contrario, come tutti sanno, il prototipo stesso dell'Imperatore-filosofo) bensì ad esigenze di carattere difensivo dettate dalle circostanze storiche. Le campagne militari del periodo di Marco Aurelio sono fondamentalmente due: una prima combattuta contro i popoli partici orientali, per l'esattezza sul fronte siriano e armeno; l'altra invece contro i Germani sul fronte occidentale e interno (l'Italia). (a) Guerre contro i Parti Nel 163, il re dei Parti Vologese III, approfittando di una momentanea debolezza dei confini orientali di Roma (dovuta peraltro ad alcune incursioni barbariche sulle frontiere britannica e renana), attacca l'Armenia - stato sotto l'influenza romana - imponendovi un proprio sovrano. Dopo ciò, invade la Siria, vicina provincia dell'Impero. Lucio Vero, fratello di Marco Aurelio, da questi designato coreggente, parte per una spedizione militare nelle zone orientali, ove (163) riconquisterà i territori perduti, comprese Armenia e Mesopotamia. Sembrerebbe una ripresa della politica imperiale e coloniale di Traiano, ma in realtà è espressione di un bisogno di sicurezza sui confini a est. Sul piano della propaganda culturale poi, tali guerre verranno giustificate con i concetti di "restitutio imperii" e con l'esigenza di tutelare gli interessi delle regioni ellenistiche, piuttosto che con l'idea della potenza romana. (b) Guerre contro i Quadi e i Marcomanni Nel 167, un anno dopo la stipula della pace con il regno partico, sarà la frontiera romano-danubiana a essere invasa, questa volta dall'ondata migratoria di alcuni popoli barbarici occidentali. Alla base di tali movimenti migratori vi sono dei 'rimescolamenti' tra le tribù residenti nelle zone dell'estremo oriente: rimescolamenti che, partendo dall'odierna Russia, giungono a farsi sentire - attraverso diversi contraccolpi - fino presso le regioni barbariche sui confini romani occidentali. Si verifica così in questi anni la prima invasione nei territori romani occidentali da parte di popoli germanici, tra cui principalmente vi sono i Quadi e i Marcomanni. Essi giungono a insediarsi fin nelle regioni della Venetia (l'attuale Veneto) e di Aquileia. Ben più grave della prima invasione, poiché giunge a toccare il cuore stesso dell'Impero, essa impegnerà per alcuni anni (167-175) Marco Aurelio il quale - anche a causa di una disastrosa pestilenza scoppiata tra le sue truppe - dovrà ricorrere alla pratica di nuovi arruolamenti, ammettendo tra le fila dell'esercito anche schiavi, gladiatori e soldati mercenari germanici. In questi anni si inaugura così la politica (che avrà un enorme seguito nei secoli della vera e propria decadenza) dell'alleanza con i barbari al fine di combattere i barbari stessi! E' facile immaginare come tali cambiamenti comportino per lo Stato romano un considerevole sforzo finanziario, dovuto ad un consistente aumento delle spese (soprattutto per gli eserciti), al quale fa inevitabilmente seguito un inasprimento della pressione fiscale e un aumento dell'attività di monetazione con l'abbassamento del potere d'acquisto della moneta (fenomeni entrambi che conosceranno nei prossimi decenni un aumento costante e inarrestabile). Nel 180, Marco Antonio muore a Vienna, e il principato passa nelle mani di suo figlio Commodo, allora diciannovenne, e che già da anni lo affiancava per altro nella conduzione dell'Impero. E. Commodo e la ripresa della tradizione autocratica (180-192) Ancora di più di quello di suo padre, il principato di Commodo segna una notevole svolta nella politica romana: il termine cioè di quella linea tendenzialmente pacifista e 'non-violenta' portata avanti dagli Imperatori-filosofi (Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio), attraverso la ripresa di uno stile di governo di tipo autocratico e a tratti delirante, quale era stato ad esempio quello di Nerone. Mettendo da parte i motivi psicologici e le inclinazioni personali dell'Imperatore (il quale - come coloro che lo hanno preceduto in un tale stile di governo - è forse troppo giovane per portare avanti responsabilmente la propria missione), vi sono evidentemente anche altri motivi - più concreti e tangibili - alla base di una tale svolta. Le recenti invasioni barbariche difatti hanno messo in luce la debolezza strutturale dell'Impero, prospettando chiaramente con essa la necessità di un mutamento radicale sul piano politico e militare, ovviamente in direzione di una linea maggiormente difensiva, quindi anche maggiormente militarista e autoritaria. Non che quello di Commodo sia un periodo denso di eventi bellici - egli anzi, non appena eletto, si affretta a stipulare una pace con i Germani e a tornare a Roma, dopo di che non vi saranno più fatti d'armi particolarmente significativi durante il suo regno. Tuttavia una tale condotta di governo è indissolubilmente legata alla fine per l'Impero della certezza della propria inviolabilità territoriale, e all'esigenza quindi di un potenziamento ulteriore dell'apparato statale e degli eserciti, a scapito per altro delle frange aristocratiche (ovvero del Senato e della nobiltà terriera) da sempre latentemente ostili ad una politica di eccessivo dirigismo statale. Punti chiave della politica di Commodo sono: un atteggiamento fortemente autoritario nei confronti del Senato e dei ceti nobiliari (con la ripresa delle persecuzioni in stile domizianeo e delle confische di molti dei beni immobili della nobiltà, attraverso i quali lo Stato viene arricchito e potenziato); un'ulteriore indebolimento della presenza senatoria negli apparati statali (con l'assegnazione del comando degli eserciti provinciali ai cavalieri, anziché ai senatori); un'eccessiva attenzione per gli spettacoli pubblici, e in generale verso ogni manifestazione di grandezza e magnificenza dello Stato (anche in concomitanza con avvenimenti gravi, quali l'ondata della peste o le invasioni della Britannia nel 185). Non si può certo dire - come si evince anche da quest'ultimo punto - che la condotta di governo di Commodo sia responsabile e realistica. Egli morirà difatti a causa di una congiura perpetrata dagli eserciti provinciali e dal Senato, stanchi di subire la sua condotta priva di regole e gravitante attorno alle sue manie di grandezza. (Commodo si farà ribattezzare 'Ercole romano' e trattare come un dio, secondo una linea teocratica di governo, e ribattezzerà Roma 'Colonia commodiana'). Tuttavia, infondo, si può scorgere nelle sue scelte anche l'espressione di una mutata temperie culturale, ora più inquieta e quindi anche più violenta, risultato appunto di una situazione di maggiore instabilità interna all'Impero. Commodo morirà nel 192, per una congiura di palazzo. Tale evento aprirà le porte a una nuova fase di Roma, inaugurata peraltro da una nuova guerra per il principato tra rivali militari (la prima era stata nel 68, in seguito alla morte di Nerone). CONCLUSIONI (96-192) Il periodo qui analizzato - essenzialmente il secondo secolo - vede avvicendarsi ben sei imperatori, ognuno dei quali scandisce una differente fase della trasformazione della compagine imperiale romana: - Nerva il periodo di riassestamento dopo la morte di Domiziano; - Traiano l'ultima fase espansiva, forse l'ultima manifestazione di esuberanza militare da parte dell'Impero; - Adriano (e Antonino il Pio) quel momento che, costituendo l'apice della parabola storica di Roma, costituisce inesorabilmente anche l'inizio del declino; - Marco Antonio e Commodo, infine, i primi segni della crisi e dell''implosione' della compagine imperiale, nonché due differenti modi di rapportarsi a una tale situazione: il primo quello di un distacco filosofico di fronte alla caducità delle cose (si pensi ai suoi "Ricordi"!), il secondo invece quello di una reazione violenta e irrazionale davanti alla catastrofe imminente. Dal punto di vista socio-culturale poi, tale periodo vede la definitiva affermazione delle classi filo-imperiali su quelle senatorie e nobiliari, e un ulteriore assorbimento di queste ultime nelle fila dei poteri del princeps. Economicamente, invece, si assiste a un'ulteriore crescita dei traffici e delle comunicazioni interne, nonché al definitivo affermarsi delle classi medie nell'economia sociale dell'Impero: sia di quelle impiegate nelle attività commerciali, sia di quelle impiegate nell'amministrazione statale. I SEVERI I SEVERI E LA MILITARIZZAZIONE DELL'IMPERO 1) La fine dell'Età aurea - L'età d'oro Quella degli Antonini (grosso modo il secondo secolo) viene ricordata dagli storici come "l'età aurea" della storia imperiale. Un tale periodo si distingue infatti per una notevole stabilità - che rimarrà peraltro insuperata - sia a livello sociale che a livello politico, dovuta soprattutto al mirabile equilibrio instauratosi tra le diverse classi che compongono la società imperiale (con particolare riferimento a quelle nobiliari, che danno un'adesione pressoché incondizionata ai valori universalistici dell'Impero, riconoscendo così l'autorità delle istituzioni statali e dell'Imperatore). Esso, inoltre, è caratterizzato da un livello di vita molto alto e da un lungo periodo di pace. Ma il merito di una tale situazione non sta tanto nell'abilità a livello amministrativo della classe dirigente, quanto piuttosto in una congiuntura storica particolarmente favorevole. I confini dell'Impero infatti non sono seriamente minacciati da nessuna popolazione barbarica, né il sistema di produzione schiavista mostra ancora evidenti segni di crisi e di stanchezza. Certo si possono intravedere i primi sintomi della futura crisi già sotto il principato di Antonino il Pio (138-161), quando alcune popolazioni barbariche tentano - per la prima volta - di forzare le frontiere dell'Impero. Stessa sorte toccherà poi al principato di Marco Aurelio (161-180), e inoltre con esiti molto più gravi (si ricordi l'invasione marcomanna di Aquileia e del Veneto). Sotto Commodo (180-192) infine, se anche si verificheranno dei tentativi di invasione delle zone britanniche da parte di popolazioni barbariche, possiamo dire che la prima ondata di migrazioni si sia oramai placata. - Le coordinate della crisi dell'Impero E' difficile riassumere attraverso concetti astratti il complesso meccanismo che si trova alla base della crisi imperiale, il cui inizio si colloca peraltro sul finire dell'età aurea. Non vi è dubbio però che siano le accresciute esigenze a livello difensivo il fattore principale (o quantomeno quello più evidente) determinante gli squilibri sociali e politici dell'Impero. Vediamo, molto schematicamente, quali siano i punti salienti di un tale processo: A - Uno dei fattori principali, forse quello preponderante, sono le accresciute esigenze a livello militare, quindi le aumentate spese dello Stato per gli eserciti e, inevitabilmente, la maggiore pressione fiscale esercitata sui cittadini. E' ovvio come tali esigenze provochino un impoverimento diffuso tra tutti gli strati della popolazione (a eccezione, possiamo dire, delle frange impiegate negli eserciti, sempre più numerose ma anche - per la propria utilità - sempre più capaci di condizionare le scelte politiche). D'altra parte la minor sicurezza interna, dovuta anche a episodi di pirateria e banditismo (prodotto in buona parte di una tale situazione di impoverimento e di diffuso disagio sociale), rende più difficoltosa la mobilità interna delle merci e con essa le stesse attività commerciali. Il che poi si traduce in un indebolimento di quei ceti medi (burocratici, commerciali, ecc.) che costituiscono la 'spina dorsale' dell'Impero romano. [Infatti, come si è già detto, il vero scopo di quell'enorme macchina burocratica e organizzativa che è l'Impero sta nel favorire i traffici e, con essi, il benessere di buona parte dei suoi sudditi; esso trova dunque nei ceti medi - impiegati tanto in mansioni istituzionali e gestionali, quanto in mansioni finanziarie e commerciali - il suo principale alleato. E' altresì chiaro, come il declino delle classi medie sia complementare a quello dello Stato imperiale.] B - Ma crisi delle classi medie significa anche crisi della piccola proprietà terriera. Quest'ultima infatti cede sempre di più il passo ai grandi proprietari, i quali finiranno col tempo per assorbire quasi totalmente al loro interno quelli più piccoli. Questi ultimi - in gran parte veterani dell'esercito cui lo Stato ha concesso piccoli appezzamenti di terra, coi quali essi hanno inaugurato una piccola attività in proprio - risentono particolarmente sia dell'accresciuta pressione fiscale, sia della maggiore insicurezza interna e sono perciò costretti molto spesso a confluire nei latifondi, dal momento che questi che offrono loro maggiori garanzie: sono i futuri coloni della terra che - quantomeno nei prossimi secoli - finiranno per sostituirsi all'antica classe degli schiavi. C - Alla crisi della borghesia mercantile e cittadina si accompagna dunque la crisi dei ceti medi rurali, e di conseguenza anche un notevole arricchimento (assieme a una crescita di peso sul piano politico) della classe nobiliare, ovvero dei grandi proprietari terrieri. Ora più che mai, lo Stato e la nobiltà si fronteggiano come nemici: l'uno alleato e difensore sul piano politico e ideologico di quei ceti medio-borghesi (dei quali è anche, tuttavia, una delle principali cause d'impoverimento, pur costituendo essi per l'Impero una indispensabile condizione di sopravvivenza!) che l'altra tende invece ad assorbire al proprio interno. Una lotta che si risolverà sui tempi lunghi (come tutti sanno) in favore dei grandi possidenti, e che non ha più - come aveva invece avuto nei primi decenni dell'Impero - motivazioni di carattere principalmente ideologico, bensì economiche. Anche il fatto che, con l'aumentare delle necessità e delle spese statali, la pratica delle confische ai danni dei nobili - già utilizzata negli anni precedenti da molti imperatori per 'fare cassa' - tenda a inasprirsi, finisce per alimentare la conflittualità tra il governo e i ceti più ricchi della società (rompendo così l'idillio, creatosi nel secolo precedente, tra lo Stato imperiale e il Senato: tra i valori universalistici e monarchici e quelli della libertas senatoria). E non sono solo le esigenze di carattere militare a gonfiare i conti dello Stato, ma in generale l'esasperato sviluppo di tutti i suoi apparati (ad esempio di quelli con funzioni di intervento economico o 'propagandistico', come i 'collegia', un tipo di istituzioni di cui si parlerà più avanti). - Conclusioni Questi, e i prossimi anni, saranno dunque caratterizzati da: - un fenomeno di "gigantismo statale" (segno soltanto apparente di solidità dell'Impero); - un diffuso impoverimento dei ceti medi e di quelli più bassi; - il costante ampliamento delle grandi proprietà, nonchè quindi l'accrescimento - anche su un piano politico - del potere nobiliare (a scapito ovviamente di quello imperiale). Il tutto poi sullo sfondo della crisi economica del terzo secolo, crisi dovuta non solo alle molteplici invasioni esterne e alla maggiore insicurezza sui confini (fattore cui già si è accennato), ma anche all'"affaticamento" del sistema di produzione schiavista (delle cui ragioni si parlerà più avanti). I SEVERI E LA MILITARIZZAZIONE DELL'IMPERO 2) Il principato di Settimio Severo (193-211) A. Le guerre civili Una prova evidente dell'accresciuto potere degli eserciti la si ha se si considera la situazione che fa seguito alla morte di Commodo (192), ovvero la lotta per la conquista della carica imperiale. E' ormai evidente infatti, come gli aspiranti imperatori debbano passare tutti attraverso le 'forche caudine' dell'approvazione e del sostegno dell'esercito (quantomeno di una parte di esso), per potere sostenere una competizione divenuta oramai essenzialmente militare e monetaria. I pretendenti alla carica suprema sono in questi anni di due tipi: il primo è quello degli italici (Pertinace e Didio Guiliano), ovvero coloro che provengono da regioni che da sempre - per tradizione consolidata - forniscono all'Impero i quadri della classe dirigente. Essi, per ottenere il titolo augusto, debbono essenzialmente 'comperare' con consistenti donativi la fedeltà dell'esercito dei pretoriani. Il secondo tipo invece è composto da militari provenienti da regioni più periferiche. Questi ultimi - sostenuti dagli eserciti provinciali, ovvero dalle proprie legioni (ad essi associate da legami di fedeltà, oltre che da interessi politici contingenti) - tentano un'affermazione a livello internazionale. Essi sono: Clodio Albino (comandante delle legioni della Britannia), Pescennio Nigro (comandante delle legioni siriache) e Settimio Severo (comandante delle legioni danubiane, e futuro imperatore). Questi gli eventi principali della lotta per il potere: nel 192, alla morte di Commodo, è Pertinace ad acquisire il titolo imperiale; solo tre mesi dopo, Didio Giuliano (altro italico) riesce a farlo eliminare dai pretoriani (con la promessa di larghi donativi) e a prenderne il posto; contemporaneamente però si sono creati nelle province anche altri aspiranti imperatori (Albino, Nigro e Settimio) i quali minacciano d'arrivare fino a Roma e prendere di prepotenza il posto di Giuliano. Sarà Settimio Severo (193) a compiere per primo tale mossa, e a farsi incoronare princeps dal Senato (dopo essersi assicurata la fedeltà dell'esercito del pretorio). I quattro anni seguenti egli li passerà a lottare contro i propri rivali e i loro sostenitori, condizione indispensabile per divenire realmente imperatore unico: nel 194 sconfigge così il suo rivale a oriente, Nigro, il quale ha cercato e trovato contro il proprio nemico l'alleanza dell'ultimo sovrano partico, Vologese IV (fatto questo che costringe Settimio a riprendere la politica aggressiva contro le zone orientali: ovvero a riconquistare - ancora una volta - la Mesopotamia trasformandola in provincia, eguagliando così le imprese belliche dello stesso Traiano!). Nel 197 infine Settimio sconfigge e elimina nelle regioni galliche anche il suo secondo avversario, Clodio Albino (generale delle truppe britanniche), divenendo finalmente sovrano a tutti gli effetti e inaugurando una nuova dinastia: quella dei Severi. B. Statizzazione e militarizzazione dell'Impero 1 - Onnipervasività dello Stato sotto Settimio Per comprendere le scelte politiche di Settimio Severo, è necessario tenere presente la trasformazione (già brevemente descritta sopra) che ha subito l'Impero sia negli anni del suo principato, sia nei decenni immediatamente precedenti. Tali trasformazioni riguardano essenzialmente: i poteri sempre più accentuati degli eserciti; l'influenza sempre maggiore (sia a livello economico che politico) dei latifondisti all'interno della società; l'ampliamento, più o meno in tutte le zone dell'Impero, delle fasce di povertà. Il tutto converge nel determinare la fine di quell'armonia tra i ceti ricchi e lo Stato, nonché tra questi e le masse degli indigenti ossia dei ceti parassitari (sempre meno tutelati, per forza di cose), e con essa l'inizio dello scollamento tra le istituzioni imperiali e le reali forze produttive, nonché più in generale tra tali istituzioni e il reale tessuto sociale di cui è composto l'Impero. E' in questa situazione di graduale - ma inesorabile - allontanamento tra lo Stato e l'effettiva vita sociale dell'Impero, che prende corpo e si afferma la tendenza verso l'onnipresenza e l'onnipervasività dello Stato nei confronti di quest'ultima. Ed è altresì chiaro come un tale atteggiamento costituisca un tentativo di reazione a uno stato di cose - quello descritto sopra appunto - che in realtà resta per se stesso difficilmente superabile. La politica di Settimio Severo avrà infatti come obiettivi principali: da una parte quello di fare affluire maggiori entrate nelle casse dello Stato (a spese soprattutto, data la loro ricchezza, dei ceti latifondistici) e mantenere quindi finanziariamente sia gli eserciti sia gli apparati dell'amministrazione imperiale (entrambe realtà in costante crescita); dall'altra di contenere l'avanzamento politico della grande proprietà, mantenendo viva inoltre la fedeltà ai valori e alle istituzioni dell'Impero nella popolazione, in particolare nelle classi medie. Per raggiungere tali obiettivi, Settimio perseguirà una politica di penetrazione e di controllo sempre più capillare all'interno della società romana, non escludendo in una tale opera nemmeno (anzi.) alcuni aspetti di natura economica e produttiva, rimasti fino ad allora appannaggio esclusivo dei privati cittadini. - La politica economica Gli anni del consolato di Settimio Severo conoscono un livello di statizzazione dell'economia quale mai era stato raggiunto in precedenza: soprattutto l'economia agraria conosce in questo periodo un vero e proprio imprigionamento nelle maglie della burocrazia statale attraverso l'azione di funzionari che - seppure spesso fondamentalmente inesperti e incapaci di una gestione efficace - possono per mandato imperiale deliberare su di essa. E' in atto dunque - da parte di uno Stato sempre più centralizzato - un processo di accentramento di quelle forze produttive che stanno alla base dell'economia imperiale: processo che, anziché rafforzarle, non farà che indebolirle, contribuendo così ad accelerare il collasso economico e politico dell'Impero nel terzo secolo. Senza contare il fatto che tali misure, assieme ad un'accresciuta pressione fiscale (è del principato di Settimio l'istituzione di una nuova e gravosa tassa finalizzata al mantenimento degli eserciti: l'annona militare, che colpisce soprattutto i grandi proprietari), contribuiscono notevolmente a guastare i rapporti tra lo Stato e i ceti latifondistici e nobiliari, essendo anzi il principale motivo alla base dell'interruzione delle loro buone relazioni. - I 'collegia' Sorti nel secondo secolo, come espressione degli interessi delle classi medie, i 'collegia' conoscono in questi anni un ulteriore sviluppo. Ma cosa sono i 'collegia'? Essenzialmente associazioni di categoria (ovvero associazioni professionali, da alcuni studiosi paragonate, a torto o a ragione, alle corporazioni medievali) oppure associazioni giovanili, agenti essenzialmente a livello municipale. Tali associazioni, se da una parte favoriscono l'affermazione politica delle classi medie e dei ceti meno abbienti - contrastando così il tradizionale predominio politico all'interno dei municipi delle classi più ricche, cioè dei latifondisti e degli equestri -, dall'altra rinsaldano l'alleanza ideologica e politica tra ceti medi e Impero (avendo tali istituti origine da quest'ultimo, ed essendone inoltre finanziati). Dal punto di vista dello Stato quindi, i 'collegia' sono essenzialmente uno strumento di penetrazione e di controllo del tessuto sociale, ragione per cui Settimio ne incrementerà la presenza. E' da notare poi come queste istituzioni siano - come già si è accennato - di due diversi tipi: il primo è costituito dalle associazioni professionali (ad esempio quelle dei mugnai, o dei tessitori); il secondo invece è costituito dai 'collegia iuvenis', associazioni finalizzate all'educazione della gioventù (attraverso incontri, tornei, ecc.) ai valori della società imperiale e volte a coltivarne l'affezione e la gratitudine verso lo Stato. [Si ricordino a questo proposito - come un precedente - le 'alimentationes' istituite da Traiano, anch'esse finalizzate a coltivare la futura classe media - burocratica - dell'Impero]. - La riorganizzazione dell'Impero Sono due essenzialmente le coordinate dell'azione imperiale nei riguardi dell'amministrazione interna: da una parte vi è la tendenza verso una parificazione tra tutte le regioni dell'Impero (in altri termini a trasformarle tutte - Italia compresa - in mere province imperiali), dall'altra la tendenza verso il livellamento politico e giuridico di tutti i ceti sociali (nobiliari, cittadini, popolari.) nei confronti dell'autorità e delle istituzioni imperiali. Entrambi questi orientamenti sono indirizzati ovviamente a rafforzare l'autorità e il potere dello Stato e dell'Imperatore: l'uno attraverso un'azione di decentramento amministrativo che comporta l'abolizione di molti dei privilegi tradizionali degli Italici (ad esempio quelli militari), l'altro invece elidendo le prerogative politiche dei ceti più ricchi (i quali, a causa dei propri poteri economici e politici, sono potenzialmente più pericolosi per l'autorità statale). Inoltre, crescendo il raggio d'azione delle istituzioni statali, cresce parallelamente anche l'esigenza di creare un'organizzazione più efficiente e articolata a livello amministrativo. Per tale ragione, un peso sempre maggiore finiscono per rivestire all'interno degli apparati imperiali gli uomini di legge (un esempio del rigoglio nel campo degli studi giuridici durante il periodo dei Severi ce lo fornisce Papiniano, famoso giurista e prefetto del pretorio sotto Settimio). Ma accanto alla tendenza verso l'estensione e l'ingigantimento degli apparati statali, possiamo scorgerne un'altra - a essa complementare - in direzione di un accentramento personalistico dei poteri (soprattutto di quelli finanziari) nella figura del principe. Un doppio movimento, insomma: dal centro verso la periferia, e da questa verso il centro. Principale espressione di questo secondo aspetto saranno - come vedremo tra poco - le riforme finanziarie. - La riorganizzazione delle finanze Tra tutte le riforme strutturali messe in atto da Settimio, la più importante è senza dubbio quella riguardante l'organizzazione delle finanze imperiali. Tale trasformazione comporta un accentramento quasi totale del patrimonio statale nelle mani del princeps, accentramento che riduce ciò che prima era 'fisco', cioè patrimonio dello Stato, a un bene personale (res privata) del sovrano. E' dunque evidente, qui come altrove, come sia in atto all'interno dell'Impero uno sviluppo in senso 'orientaleggiante': se da una parte infatti ogni bene dello Stato tende a divenire sempre di più un possesso privato dell'Imperatore [si ricordi, ad esempio, che in Egitto il Faraone resta legalmente l'unico proprietario di tutti i beni], dall'altra anche la crescita costante degli apparati burocratici tende a rafforzare l'autorità di quest'ultimo su tutte le regioni sottoposte al suo dominio. Ma vi è anche un altro punto che rende la politica finanziaria di Settimio Severo anomala - quantomeno rispetto ai decenni precedenti -, ovvero la tendenza a cercare di accrescere, sistematicamente e in tutti i modi possibili, il patrimonio finanziario dello stato (il quale peraltro, si identifica oramai con il capitale finanziario personale dell'Imperatore). Le fonti di arricchimento dello Stato sono essenzialmente tre: - la prima è una presunta adozione del nuovo imperatore da parte di Marco Aurelio, attraverso la quale Settimio se da una parte si pone fondamentalmente il come continuatore dell'opera di governo degli Antonini, dall'altra incamera in una volta sola tutte le sostanze da essi accumulate sin dai tempi di Nerva; - la seconda è la pratica (oramai di lunga tradizione) delle confische ai danni della nobilitas e dei proprietari terrieri; - la terza infine sono le confische dei beni fatte ai suoi due nemici e concorrenti per il titolo imperiale, Nigro e Albino, alla vigilia della loro morte. Con tali misure Settimio arriverà ad accumulare un capitale finanziario che non ha eguali nel mondo classico, ma che - questo ci fa riflettere - non basterà in ogni caso da solo a colmare la richiesta di danaro da parte dello Stato, costringendo quest'ultimo ad aumentare la moneta circolante con inevitabili risultati di carattere inflattivo. L'organizzazione imperiale sembra quindi regredire, in questi anni, verso forme personalistiche di potere che ricordano quelle che hanno caratterizzato il declino della Repubblica e i primi decenni dell'Impero. Tali cambiamenti però, sono espressione della volontà dell'Imperatore di contrastare la tendenza in atto all'interno della compagine imperiale verso la frantumazione, attraverso misure di tipo centralistico e personalistico di segno opposto. 2 - Il rafforzamento degli eserciti Anche Settimio - come molti imperatori prima di lui, tra i quali ad esempio lo stesso Traiano - ha origini militari. E anche lui, come gli altri, non smentirà tali origini con la propria azione di governo. Le principali imprese belliche di Settimio saranno tre: le prime due si collocano negli anni iniziali del suo principato, l'ultima invece in quelli finali. Delle due imprese iniziali, quella contro Nigro in Oriente (194) e quella contro Albino in Gallia (197), è senza dubbio la prima quella più degna di essere ricordata: con essa difatti l'Impero arriva a conquistare alcune zone della Mesopotamia rimaste estranee persino alla conquista traianea, e per di più con minor dispendio sia di mezzi che di tempo. Ma le campagne orientali sono importanti anche per altre ragioni. Con esse ha inizio infatti: a) la pratica di arruolamento di ausiliari locali (Arabi, Parti, ecc.) nelle milizie imperiali, in altri termini l'impiego dei Barbari contro i Barbari che caratterizzerà la strategia romana fino alla caduta; b) la creazione di tre nuove legioni (segno evidente delle accresciute esigenza difensive); c) un'ulteriore apertura degli eserciti, anche nei gradi superiori, a personaggi appartenenti all'ordine equestre anziché a quello nobiliare. Sotto Settimio dunque, assistiamo a una consistente crescita quantitativa degli eserciti e del loro peso (anche politico) all'interno della società romana. E le spese per il loro mantenimento saranno una delle principali cause del deficit dello Stato (e ciò, come si è detto, nonostante le modifiche subite dalle finanze imperiali in questi anni), portando tra l'altro il fenomeno inflazionistico ad un livello mai raggiunto prima (la presenza di argento nel denario, la moneta romana, arriverà in questi anni a toccare il picco negativo del 42%). Nel 208 Settimio si trasferisce, assieme ai suoi due figli Caracalla e Geta, in Britannia, dove combatte contro i Caledoni per l'annessione della Scozia. Le campagne non si riveleranno un gran successo, pur concludendosi con una vittoria romana. Nel 211, sempre in Britannia, Settimio muore. Sul letto di morte egli consiglierà ai propri figli, futuri imperatori, di compiacere soprattutto gli eserciti, largheggiando in stipendi e in donativi. Un consiglio che, infondo, è il suggello stesso della sua politica: una politica incentrata attorno all'idea di uno Stato forte, capace di 'tenere saldamente in pugno' la situazione sia dentro che fuori dai confini, e la cui principale risorsa sono - in ultima analisi - proprio gli eserciti! C. La crisi del sistema schiavista Si è già accennato a come, in realtà, non sia soltanto l'aumentata pressione fiscale (dovuta essenzialmente alle accresciute esigenze militari) la causa dell'impoverimento dei ceti medi e bassi nonché, in generale, di un po' tutta la popolazione dell'Impero. Vi sono difatti anche altri e più profondi motivi alla base della crisi del mondo romano, motivi di ordine produttivo. L'economia antica è un'economia schiavile. Essa ha nella schiavitù la sua vera (se non l'unica) forza-lavoro, essendo lo schiavo una sorta di "macchina-umana", priva di qualsiasi (anche del più elementare) diritto, utilizzabile quindi dal padrone nei modi più svariati e senza alcuna limitazione di sorta. A livello produttivo, l'utilizzo di maggior rilievo degli schiavi è quello agricolo. E infatti - come si è già detto più volte - la produzione agraria è la base stessa di tutto il sistema economico imperiale. Il ricambio continuo di schiavi, dovuto alle frequenti guerre di conquista romane in terre straniere, garantisce all'economia imperiale, almeno fino a un certo momento, l'afflusso di sempre nuova linfa aumentando o quantomeno impedendo una diminuzione della produttività. Ma quando, raggiunti i suoi limiti estremi, l'Impero sarà costretto per ragioni strutturali a rinunciare ad ulteriori espansioni territoriali (ciò da cui deriverà una drastica diminuzione di manodopera schiavile), le sue capacità produttive finiranno per esserne pesantemente compromesse. Sarà appunto una tale diminuzione, assieme alle aumentate spese per il mantenimento dello Stato e degli eserciti, una delle principali cause del tracollo economico del III secolo! Ma le nefaste conseguenze della diminuzione della forza-lavoro schiavile colpiscono inevitabilmente più la piccola e la media proprietà rispetto alla grande. Anche se infatti, come è ovvio, un tale fenomeno riguarda tutta la produzione agricola, sono tuttavia i piccoli e i medi produttori - in quanto più vulnerabili di fronte ai mutamenti del mercato - a patire maggiormente queste trasformazioni, ciò che li porta a riversarsi nelle grandi proprietà fondiarie alla ricerca di un più solido rifugio. Viceversa, le grandi proprietà riusciranno a rimediare alla carenza di manodopera schiavile accogliendo questi nuovi soggetti, provenienti peraltro non solo dalla piccola e dalla media proprietà agraria, ma anche dalle città. Inizia, in questi anni, il processo di formazione della classe dei 'coloni', ovvero di quella classe che nei secoli futuri finirà - attraverso un lento processo che culminerà con la formazione dell'economia feudale - per sostituire quella degli schiavi. E diviene inoltre col tempo sempre più visibile lo svuotamento delle città (dovuto, in massima parte, alla stagnazione dei traffici), così come l'ampliamento dei latifondi e il diffondersi in essi dell'economia 'colonica'. Non bisogna credere però, che - sotto i Severi - un tale processo conosca già il suo apice. Al contrario, in questo periodo l'economia di scambio è ancora molto florida, soprattutto in alcuni settori. E tuttavia è indiscutibilmente già in atto quella trasformazione (le cui basi per altro sono state poste proprio nel 'periodo aureo', quando l'Impero avendo toccato i suoi limiti espansivi ha bloccato il proprio processo di dilatazione) che gradualmente porterà a un rovesciamento della situazione, a vantaggio delle forze particolaristiche e locali, e a svantaggio dello 'Stato sovranazionale' romano. 3) Caracalla (211-217) e la cittadinanza universale A. Evoluzione dell'Impero sotto Caracalla 1 - Il ruolo degli eserciti Principale sostegno del principato di Carcalla (il cui vero nome è Marco Aurelio Antonino) saranno le milizie, alle quali egli elargirà - come del resto suo padre gli aveva consigliato di fare - diversi favori. Aumento degli stipendi, donativi, ed altri favori sono infatti oramai mezzi necessari per assicurarsi il sostegno e l'amicizia degli eserciti, divenuti strumenti importanti - se non addirittura indispensabili - sia per il mantenimento dell'integrità territoriale, che come mezzo da parte dei sovrani di consolidamento e conservazione del proprio potere. [E infatti, come vedremo, tutti i discendenti di Settimio Severo avranno negli eserciti il proprio 'giudice supremo', che ne decreterà non solo la missione politica eleggendoli (prima del Senato), ma anche la fine (attraverso il cesaricidio)].2 - L'uguaglianza politica Ma il sostentamento e il mantenimento degli apparati militari (e in generale di quelli statali) richiede per forza di cose anche delle grandi spese, e con esse un ulteriore aumento della pressione fiscale. E' a una tale esigenza di denaro che molto probabilmente si deve la promulgazione, nel 212, della celebre "constitutio antoniana de civitate", un editto con il quale l'Imperatore concede anche ai sudditi delle province (pur se con alcune eccezioni) la cittadinanza romana. Tale editto costituisce ovviamente, per queste ultime, un grande passo in avanti. Proseguendo nell'opera del padre, che si era impegnato a parificare la loro condizione politica a quella italica, Caracalla ne riconosce infatti anche sul piano giuridico la condizione di uguaglianza rispetto ai sudditi italici. Ma oltre che un atto di coraggio, che va contro le più antiche e consolidate tradizioni di Roma, un tale editto è il riconoscimento di uno stato di fatto: del fatto cioè che oramai in tutti gli ambiti della vita sociale dell'Impero (dall'esercito, alla burocrazia, per arrivare alla composizione stessa del Senato) i ruoli si sono 'internazionalizzati', non essendovi più quindi - se non in misura davvero trascurabile - un'effettiva egemonia italica. Questo provvedimento quindi, che pure risulta indiscutibilmente un affronto nei confronti dei sostenitori del tradizionalismo romano, non intacca seriamente gli interessi di nessuna categoria sociale, essendo piuttosto il riflesso e l'esito di un processo - in atto da tempo - di parificazione tra le varie regioni dell'Impero (processo inoltre a quest'ultimo consustanziale, dal momento che l'Impero non può per sua natura avere un centro, essendo un organismo la cui forza in realtà sta tutta nella capacità di istituire degli scambi commerciali e culturali tra le proprie zone, anche le più distanti, e favorirne così l'integrazione). Il provvedimento di Caracalla è perciò l'atto conclusivo di un percorso la cui origine si colloca al tempo delle prime e lontanissime manifestazioni dell'imperialismo e dell'internazionalismo di Roma. In ogni caso, questa concessione non è veramente universale. Vi sono infatti anche degli esclusi: sono i "peregrini dediticii", da identificare probabilmente con alcune popolazioni stanziate nei confini dell'Impero e non urbanizzate. 3 - Implicazioni finanziarie dell'editto di Caracalla Ma, come già si è accennato sopra, l'Editto del 212 non è soltanto il prodotto di aspirazioni di carattere ideale, bensì anche (e secondo molti prima di tutto) di esigenze finanziarie. Lo scopo dell'estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Impero, non è infatti solo quello d'ampliarne i diritti, ma anche i doveri - come del resto prova il fatto che esso estenda a tutti i suoi sudditi il dovere di pagare le imposte sulla successione e quelle sulla manomissione (l'atto con cui vengono affrancati gli schiavi). Un tale diritto di cittadinanza universale, dunque, non comporta vantaggi soltanto per i neo-cittadini, ma anche per lo Stato romano. 4 - L'indebolimento del Senato Un altro importante aspetto del governo di Caracalla - e in generale dei Severi - è la tendenza ad esautorare il Senato dai suoi più tradizionali compiti politici e amministrativi. Esso difatti, in quanto espressione della classe nobiliare e latifondista (nonché come istituzione non direttamente dipendente dall'autorità dell'Imperatore, e per quest'ultimo quindi anche più difficilmente controllabile) viene "rispettosamente" allontanato da ogni reale funzione di carattere politico. Anzichè ai senatori, il princeps preferisce infatti concedere i propri favori ai cavalieri, e in generale a quelle forze sociali - cittadine o militari - che sono più direttamente legate alla sua autorità e i cui interessi, ora più che mai, hanno molta più affinità con i suoi. In tutti i settori quindi (amministrativi, giuridici, militari, ecc.), i ceti "borghesi" tendono a sostituire quelli senatori - e ciò anche nei ranghi più alti, i quali per tradizione consolidata appartengono invece alla nobiltà. Lo Stato insomma si difende dalla crescita dei latifondi (ovvero delle forze produttive agrarie potenzialmente eversive rispetto al suo potere, in quanto se da una parte conoscono un costante incremento territoriale, sono dall'altra sempre più portatrici di interessi e di valori particolaristici e locali, molto divergenti rispetto a quelli imperiali) cercando di delegittimare l'autorità politica del Senato e della nobiltà terriera. In questi anni hanno luogo, quindi, due fenomeni opposti ma complementari: da una parte vi è la crescita degli apparati statali (soprattutto di quelli militari), mentre dall'altra vi è quella delle grandi proprietà (che si costituiscono spesso come veri e propri luoghi di assembramento e di rifugio rispetto al resto della società). Si verifica, in altri termini, un allontanamento tra le reali forze produttive e sociali che stanno alla base dell'Impero, e quelle invece di carattere più propriamente politico e amministrativo. B. Eventi del principato di Caracalla Anche se il periodo del principato di Caracalla è relativamente breve, esso resta comunque in un'ottica storica molto significativo, e ciò non solo per la promulgazione dell'editto sulla cittadinanza universale. Sebbene la memoria di quest'ultimo sia infatti incrinata dall'episodio dell'assassinio (pare davanti alla madre, Giulia Domina) di suo fratello Geta, aspirante alla coreggenza imperiale, è indiscutibile tuttavia che egli si sia attivamente impegnato per salvaguardare i confini imperiali sia a Occidente, con le campagne sul confine retico contro i Germani (213), che ad Oriente, con quelle contro i Parti (214-217). Riguardo alle seconde, alla loro base vi è senza dubbio anche il desiderio di guadagnarsi gloria e fama personali con l'estensione dell'Impero verso est, approfittando di una momentanea incertezza politica, dovuta a questioni dinastiche, del regno partico. E sarà proprio l'esito disastroso di queste campagne a perderlo, facendogli mancare l'appoggio fondamentale degli eserciti. Egli infatti verrà ucciso a Carre, nel 217, dai suoi stessi soldati. Al suo posto diverrà imperatore (seppure per pochissimo tempo) un certo Macrino, primo esempio nella storia di Roma di uomo asceso fino alla dignità imperiale partendo dalla carica di prefetto del pretorio. Egli realizzerà in tal modo il sogno di molti tra coloro che lo avevano preceduto in tale carica - tra i quali, su tutti, spicca Seiano. 4) Il breve regno di Elagabalo (217-222) Macrino, facendosi incoronare imperatore dagli eserciti senza neanche attendere la conferma del Senato, dimostra subito di confidare totalmente nella solidarietà e nell'appoggio di questi ultimi. Tuttavia egli non riuscirà a conservarsi nemmeno il loro favore, probabilmente a causa di una pace ingloriosa e onerosa stipulata con il regno dei Parti, un atto non approvato dalle truppe; verrà ucciso perciò da queste ultime dopo solo pochi mesi di governo. Al suo posto viene allora eletto imperatore Eliogabalo (Marco Aurelio Antonino), allora quattordicenne, per iniziativa della nonna Giulia Mesa, la quale sostiene tra le milizie orientali un'ampia campagna in suo favore. Gli eserciti inoltre lo acclamano imperatore anche per i vincoli di parentela che egli riveste con Settimio e Caracalla, della cui dinastia si pone come continuatore. L'interesse del suo regno è essenzialmente di carattere culturale e religioso. Ciò che lo caratterizza infatti è un ambizioso tentativo di rinnovamento dell'Impero sia a livello religioso, sia a livello di classe dirigente. Ma sarà proprio un tale ambizioso progetto a perderlo, risultando inaccettabile agli occhi della classe politica romana. Verrà ucciso infatti - come Caracalla - dai pretoriani nel 222. - La crisi 'd'identità' dell'Impero Oltre che dalla crisi istituzionale e politica dell'Impero, il terzo secolo è caratterizzato da una crisi di natura culturale e religiosa. Si diffondono difatti in questo periodo molti nuovi culti, sui quali si affermerà gradualmente il cristianesimo. Sebbene non sia ancora divenuta la religione ufficiale dell'Impero (cosa che accadrà nel secolo seguente), tale culto si è infatti già largamente diffuso in tutto il mondo romano, spesso anche tra i ceti più elevati. Molti imperatori inoltre, ad esempio Commodo, tendono rispetto al passato a mostrarsi decisamente più tolleranti verso la nuova religione, rinunciando ad atteggiamenti eccessivamente ostili e persecutori nei suoi confronti. D'altronde, anche tra i cristiani inizia a svilupparsi un diverso clima ideologico e un diverso atteggiamento verso lo Stato (ne è un esempio un discorso di Celso della fine del II secolo, nel quale questi auspica un maggiore impegno e una maggiore sollecitudine dei cristiani verso l'attività pubblica). Ma il cristianesimo è soltanto una delle molte religioni che in questi anni stanno prendendo piede all'interno del mondo occidentale, segno questo della profonda crisi d'identità che attraversa tali zone. Tra essi, vi sono per esempio il culto di Mitra o quello di Iside. Quasi tutti d'origine orientale, essi testimoniano l'influenza esercitata sull'Occidente dalla cultura asiatica, non solo sul piano politico ma anche su quello culturale e religioso. Ed è appunto in un tale clima di forte fermento religioso, che si colloca il tentativo del giovane imperatore Elagabalo di instaurare in Roma una nuova religione, che si affianchi integrandolo all'antico pantheon degli dei della tradizione occidentale. - La riforma religiosa di Elagabalo Appartenente all'aristocrazia asiatica, estraneo perciò agli ambienti di governo occidentali, Elagabalo giungerà a Roma soltanto nel 219 (a due anni circa dalla propria proclamazione). Qui giunto, egli si preoccuperà soprattutto di diffondere il culto solare di Baal, la religione monoteistica della quale è sacerdote. Assieme a questa, egli esporterà a Roma - e da qui in tutto il mondo romano - concezioni e costumi di origine orientale, gli stessi peraltro che sono alla base del fascino esercitato sui romani anche dalle altre religioni orientali. Poco si sa del governo del giovanissimo Elagabalo (che fu, oltre a tutto, molto breve). Su di lui rimangono inoltre soprattutto degli scritti di parte senatoria, che descrivono il suo regno come un insano crogiolo di vizi e di eccessi in stile - appunto - orientale. Pare però che, alla base del suo omicidio, vi sia un'incompatibilità fondamentale tra le sue idee (e quelle del suo seguito) e quelle della vecchia classe dirigente romana occidentale. Nel 222, l'ormai solita congiura delle guardie imperiali pone infatti fine alla sua vita e quella del suo regno. ELAGABALO, EPISTOLA AL SENATO (Difesa di Elagabalo) Di "Marcus Aurelius Antoninus" (Elagabalus) (Marzo, 222 A. D.) Questo documento -- chiaramente un falso -- è l'unico "lavoro in prosa" attribuito all'Imperatore Elagabalo. Come tale, esso ci offre uno spiraglio di comprensione della mente di un giovane estremamente particolare, che incarna i diversi tipi del tiranno, dell'orfano, del sacerdote. Alcune parti dell'epistola inoltre, potrebbero anche essere vere. Il testo originale è in greco. Testo: Antonino, Primo Sacerdote di Elagabal, Augusto, Imperatore, Princeps, ecc., al Senato di Roma, porge i suoi saluti. Ancora una volta, interrompo per qualche momento i balli, le bevute e i bagordi, per riportarvi la situazione corrente nell'Impero. Le province sono tutte in pace e prosperità; nella capitale l'ordine e la prosperità regnano come in un'arnia, quasi dovunque. Potete essere orgogliosi della presente situazione! Di sicuro già sospettate che io abbia disposto le cose in tal modo per poter continuare indisturbato nella mia ricerca di sempre nuovi piaceri. Il portico che ho iniziato a far costruire per i bagni di mio padre è quasi terminato; invito tutti quanti voi a accertarvi di ciò e a prendere piacere dai progressi nei lavori, a vostro agio. Inoltre mi è giunta voce che Scylla, la celebre moglie del senatore Aulo Lubricio, ha dato alla luce un figlio, Quinto; con mio grande diletto, parti disinteressate mi hanno confermato che A. Lubricio è nei fatti, come nel nome, il fortunato genitore del piccolo Quinto. I più sentiti auguri, in questa lieta occasione, da parte del vostro Imperatore Antonino e, tramite questi, dal Vero Dio Elagabalo, Onnipotente Padre dei Padri. Signori, a dispetto di ciò che potete immaginare su di me e sulla mia visione delle cose, non vivo nell'illusione della mia popolarità presso di voi, presso i pretoriani, o presso le legioni. Una certa diceria, da voi e da me udita e sprezzata, sostiene che i miei giorni come imperatore siano ormai contati, e che molto presto voi servirete un nuovo Imperatore e capo. Non posso nascondervi il mio sincero rincrescimento, né desidero farlo. Sembra che io - Antonino - sia stato scelto per una parte di spicco in una tragedia di bassa lega, e quando vedo con eccessiva chiarezza la parte che in essa mi spetta, non posso fare a meno di meravigliarmi per il motivo scelto dall'autore, e per l'efficacia del suo potere. Fui eletto al principato dalle legioni romane di stanza a Emesa. A quel tempo, signori, avevo quattordici anni ed ero già Sacerdote Sommo di Elagabal. I soldati si appassionarono a me in parte a causa della mia bellezza puerile, ma anche per la carica di Pontefice che ricoprivo - fui scelto infatti a causa dello zelo religioso verso un vero Dio, e dall'aspirazione delle legioni verso la gioia e la prosperità: beni che - non per coincidenza - Elagabal dispensa con grande munificenza a tutti coloro i quali Lo onorano e si sottomettono al Suo volere. Con l'aiuto dell'esercito sconfissi in una battaglia sanguinosa il folle Macrino, l'usurpatore del principato e l'assassino di mio padre; più tardi, il Senato diede il benvenuto a Elagabal e a me in Roma. (Guardate, Padri coscritti, come mi sono ridotto, a fare il panegirico di me medesimo!) Alla luce di questi fatti, sono un poco urtato dall'universale condanna, oggi espressa più apertamente [di un tempo], riguardo alla mia decisione di portare a Roma il Grande Elagabal, e di stabilirne qui il culto come Primo di tutti gli dei. Non vedo personalmente alcuna forzatura nella mia azione. In Emesa era stato annunciato pubblicamente che Roma richiedeva l'aiuto del Pontefice di Elagabal per purificare e mantenere saldo l'Impero, che soffriva sotto il giogo di un crudelissimo padrone, il mio acerrimo nemico, Macrino. Le mie origini paterne difatti [egli è figlio di Caracalla, o tale si dice; n.d.t.] divennero un fatto di pubblico dominio solo dopo che alcuni empi contingenti militari rifiutarono di rientrare sotto l'insegna di un misero Pontefice siriano, e richiesero per farlo ragioni più tradizionali. Ma il sentimento prevalente nell'esercito - come ebbi modo di vedere - fu la felicità di avere acquisito non solo un nuovo imperatore, ma anche un nuovo Dio. Come prova di questo fatto, vi dico che la Siria è piena di giovanetti imberbi che sono pronti a dirsi figli di Bassiano, ma non sono che io a essere e rimanere Primo Sacerdote di Elagabal. Così, io vi superavo in due distinti domini: come Princeps, e come autorità religiosa. Da cui arguii che fosse ovvio che ero stato mandato qui dalle milizie per portare Roma nell'ovile di Elagabal, e che fosse compito dell'Imperatore erigerGli un tempio nella capitale e approntare un culto proporzionato alla Sua grandezza. La mia indefessa attività per la causa del Dio vi ha colpito come "empia", mi dicono alcune voci -- ma allora mi stupisce che abbiate dichiarato la vostra disponibilità a servire un Pontefice e Imperatore proveniente da legioni di province tanto distanti, e che ancora oggi vi umiliate ghignando di fronte a quella Divinità e al suo ministro terreno, il vostro principe Antonino. E tuttavia, in quasi quattro anni di governo ho oramai imparato a non aspettarmi nè lealtà, nè logica, nè coerenza da parte dell'augusto corpo del Senato. Mi rattrista maggiormente la sicura ribellione dei Pretoriani, i quali hanno sviluppato un'insana - e direi sospetta - affezione verso mio cugino, Alessandro. Da una parte egli non è certo un giovane privo di attrattive, con la parentela ricca e potente che si ritrova -- una versione in tono minore di me stesso, quando sacerdote di Elagabal, sedussi le legioni Siriane. D'altra parte, mio cugino ha ben poco da offrire all'Impero se lo si compara al suo Principe. Come io sono un Pontefice, Alessandro è invece un Guardiano. I suoi meriti personali e i suoi atti sono tanto scoloriti, così privi di distinzione e di prestigio, che non posso certo giudicarli un valido motivo della sua popolarità, ma non starò a rivelarvi queste cose. non sono mai stato il tipo da tenere informato il Senato di cose che sa già benissimo da solo! Mi basta dirvi poche cose riguardo a ciò che potete aspettarvi dall'acquisto di questo Guardiano: è evidente difatti che certe potenti forze desiderano fare in modo che il Sole tramonti sull'Impero, e lasciare che le tenebre penetrino attraverso l'autorità di Alessandro. State certi, Signori, che quando Elagabal sorgerà di nuovo - come certo farà, solo che vi sia un'unica persona pia che cammina sulla terra - Egli non sorgerà su quest'Impero, che noi e i nostri padri abbiamo costruito attraverso tanto sangue e tante ingiustizie. Gli affari degli uomini sono incerti, hanno sempre bisogno che gli venga imposto un ordine. Ma Elagabal è eterno, stabile, generoso e giusto: e sarà la sua Giustizia a scagliare dardi infuocati nei vostri letti, la sua Generosità a seccare la terra che voi tanto inutilmente accudite. Non starò qua a rivelarvi le vostre future disgrazie, poiché domani visiterò il campo dei Pretoriani, laddove è scritto che io, assieme a mia madre (che ormai soffre da molto tempo), venga assassinato da ingrati -- i quali in verità preferiscono la propria sicurezza a quella del loro Capo. Io raggiungerò così l'anima impavida di Cesare, poiché sono un romano e il vostro Principe. Come il grande Elagabal riporta in cielo le acque che hanno inondato i campi per irrigarli, così ora mi richiama al suo fianco, dopo che ho compiuto tutto ciò che era in mio potere per salvarvi da voi stessi. Domani io sarò felice; ma lo stesso non posso dire per voi, né per l'Impero. Vi sono ancora alcune cose che debbo dirvi, prima di prendere congedo da questa terra. Spiacevoli dicerie affermano che alcuni di voi stanno già preparando il racconto della mia fine come principe, e ciò che ho udito non è lusinghiero nei miei confronti. Infatti, sembra che io abbia non solo chiesto la mia fine - e non mi spiace di sacrificarmi per voi - ma anche di essere disonorato, infangato e cancellato agli occhi dei posteri. Questo non mi sta bene, Signori -- ed infatti altri pensieri estremamente tristi mi sovvengono all'idea di abbandonare il mondo, qualora consideri la scarsa considerazione che posso aspettarmi dai tempi a venire. Voltandosi indietro verso questa era per delucidazioni, le menti curiose del futuro verranno a conoscenza, attraverso lo sguardo bilioso degli "storici", di cose assai improbabili, anzi impossibili: ad esempio di persone mai esistite, o che comunque furono molto diverse da come vengono descritte. Vengo accusato di aver complottato contro persone che neanche conosco, o cui in ogni caso non ho mai dato grande importanza. Si dice che io sia devoto della Grande Madre, attraverso la pratica della castrazione, e allo stesso tempo che sono un bigotto intollerante che ha elevato Elagabal e cancellato ogni altra forma di culto nel mondo. Ma non si può servire contemporaneamente Dio e la Grande Madre!!! [..] Per vostra informazione, Padri coscritti, la circoncisione non è castrazione; ammetto tranquillamente di essere circonciso. Questa innocua, anzi salutare pratica rituale, è richiesta a tutti coloro che amministrano il culto di Elagabal, e io non avrei potuto portare avanti i miei sacri uffici con un tale prepuzio, che mi avrebbe allontanato dal Dio che servo. Un'altra accusa che non ha alcuna relazione con la realtà, è quella secondo cui avrei scelto di assegnare i posti di governo in base alla. fortuna fallica delle persone. Il modo in cui scelgo i miei amici e confidenti è un conto; quello in cui amministro la burocrazia un altro. Nondimeno mi vedo costretto a chiedervi in che modo un tale ridicolo metro di giudizio si differenzierebbe da quello adottato dai miei accusatori! Ovvero: quanti di voi sono senatori per ragioni meramente di nascita? Di certo non potete avere raggiunto e conquistato un tale livello di mediocre squallore (nel quale peraltro vi crogiolate) lodando in modi differenti. Questa sottile analogia mostra come le accuse contro di me rivelino lo stampo di coloro che mi accusano. Ma peggio delle spregevoli idiozie sul vostro principe, sono quei libelli che vengono prodotti a mucchi contro il nostro Comune Benefattore, il Grande Elagabal. Il Dio che ho servito con tanta profonda abnegazione e ingenuità sarà oggetto di derisione e totalmente frainteso, dal momento che nessuno degli "storici" si è mai preoccupato (o ha mai permesso a altri) di intendere Elagabal e i reali principi del suo culto. Le ultime menzogne che ho letto sostengono che Egli richieda sacrifici umani, che sia una pietra, che non ascolti le preghiere dei mortali che pregano altri dei. Non pretendo certo di difendere il mio Dio, che è Onnipotente; ma vi ho già avvertito: l'empietà lavora alla propria distruzione! Padri coscritti: noi sappiamo che la folla raccoglierà, diffonderà e assorbirà quegli eccessi che io ho condisceso a mostrarle -- e sarà una vera disgrazia per voi senatori dovervi macchiare con un tale veleno! Ho fatto bene a non invitarvi ai miei festini privati; ma se la vostra stessa causa è stata per tanto tempo lontana da voi, non potevo di certo aspettarmi che le mie parole riuscissero a purificarvi e a redimervi. La commedia è finita, a voi presto scrivere i vostri piccoli, meschini resoconti, Vi porgo i miei saluti, Antonino, Primo Sacerdote di Elagabal, Pio, Felice, Principe, Imperatore, ecc. ALESSANDRO SEVERO 5) Alessandro Severo (222-235) e la ripresa della politica senatoria - La nuova politica filo-senatoria Salito al potere ancora molto giovane, all'incirca alla stessa età di suo cugino Elagabalo (che lo ha adottato nel 211), Alessandro governerà comunque molto più a lungo di questi, anche probabilmente grazie alla propria istintiva disposizione a piegarsi ai desideri della classe dirigente romana e occidentale. Sotto la sapiente guida di Ulpiano, il maggiore giurista del suo tempo, egli porta avanti una politica moderata, vicina agli ideali della classe senatoria, nonché in genere dei tradizionalisti. Sotto il suo principato, molti degli antichi privilegi nobiliari verranno ripristinati, e l'istituzione senatoria (e assieme a essa, i soggetti che ne fanno parte: i senatori) riacquisterà almeno una parte del suo antico prestigio (compatibilmente ovviamente con la mutata situazione di fatto, ormai decisamente differente rispetto agli anni passati, in quanto caratterizzata: dallo strapotere degli eserciti; da un'amministrazione imperiale estremamente centralizzata ed 'esclusiva'; dalla tendenza alla penalizzazione della città di Roma - sede appunto del Senato -, ormai quasi parificata dal punto di vista giuridico agli altri municipi imperiali; ecc.) Uno dei provvedimenti presi a favore del Senato sarà, per esempio, quello di sopprimere l'antico principio di incompatibilità tra il rango senatorio e la carica del prefetto del pretorio (carica che - come si è visto - dà grandi prospettive di carriera politica a chi la ricopre). Non si arresta, comunque, il processo alla base della crisi dell'Impero, e con esso la necessità di continui interventi statali in tutti i settori (economici, militari, ecc.), con la conseguenza inevitabile della crescita della pressione fiscale. In questi anni, poi, parallelamente al diffondersi del fenomeno inflattivo a livello monetario, prende piede sia la pratica dei pagamenti in natura sia quella delle prestazioni di lavoro e di servizi in luogo dei pagamenti in danaro. - Imprese militari Negli ultimi anni del suo principato, Alessandro dovrà fronteggiare i tentativi di invasione dei Parti in Armenia (230-232), e quelli di alcuni popoli barbari sui confini germanici (234-235). Le campagne orientali sono dovute a una nuova offensiva del Regno partico, guidato in questi anni da una nuova e più aggressiva dinastia, quella Sasanide. Il nuovo sovrano Artaserse conquista infatti l'Iran, l'Afghanistan, la Mesopotamia e parte dell'Armenia, avvicinandosi così pericolosamente ai domini romani. Dopo alcuni inutili tentativi di mediazione, Alessandro si vede quindi costretto a intervenire militarmente: le sue saranno campagne vinte 'per il rotto della cuffia', ma in ogni caso vinte. Nel 232 infatti i romani riprendono possesso della Mesopotamia. Le campagne combattute in Germania, contro l'offensiva dei popoli barbari, costeranno invece la vita all'imperatore e al suo seguito. Forse ciò avviene per aver Alessandro tentato di 'comprare' la pace col nemico (pratica molto in uso nel periodo tardo-imperiale), o forse per il sospetto di un indirizzo eccessivamente filo-orientale del suo orientamento politico-militare. In ogni caso anche lui verrà eliminato, come molti suoi predecessori e successori, da una rivolta delle proprie legioni - in questo caso quelle occidentali - nel 235. CONCLUSIONI (193-235) Il periodo dei Severi conosce, rispetto a quello precedente degli Antonini, una brusca inversione di tendenza, dovuta a difficoltà sia interne (fondamentalmente di carattere produttivo) che esterne (legate essenzialmente a una maggiore insicurezza sui confini). Tali difficoltà causano infatti: - un incremento degli apparati statali (in particolar modo di quelli militari); - una generale diminuzione del benessere economico, soprattutto tra le classi medie e i ceti popolari (i quali tendono di conseguenza a riversarsi all'interno delle grandi proprietà terriere); - la crescita delle proprietà latifondistiche; - l'emarginazione politica del Senato e in generale delle classi nobiliari (i cui interessi divergono sempre più rispetto a quelli dei ceti filo-imperiali) dall'amministrazione dello Stato. Inizia in questi anni quel lungo processo di disfacimento, sia territoriale che politico, che culminerà nei secoli successivi con la caduta stessa dell'Impero.

 
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