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I MISTERI DELLA SANTA INQUISIZIONE - STORIA MEDIOEVALE

LA SANTA INQUISIZIONE - MISTERI MEDIOEVALI

Le udienze di quel tribunale, la cui organizzazione non somigliava a quella d'alcun altro, e che procedeva quasi senza regola e senz'ordine, secondo il libero arbitrio od il capriccio d'ogni inquisitore; quelle udienze, dico, erano quasi esclusivamente lo spettacolo abituale dei monaci e dei grandi signori famigliari. Questa volta ancora Pietro Arbues aveva ceduto all'influenza dei perfidi consigli del suo favorito, rendendo pubblica quella seduta in cui doveva comparire l'amico del popolo, il santo adorato dai Sivigliani, il consolatore delle anime afflitte, il padre dei poveri e degli oppressi. Una folla immensa assediava il palazzo molto tempo avanti l'ora della seduta; e non solo la plebe era accorsa a quella solennità, ma le famiglie intiere dei gentiluomini, sorprese d'un simile processo, e desiderose di vedere qual delitto rimproveratasi ad un uomo che era il modello di tutte le virtù. Nel momento in cui le porte si aprirono, quell'avida folla si precipitò nella sala del tribunale, che in un momento fu ripiena. Molti furono costretti a rimanere al di fuori; un maggior numero ancora rimase nella via e nei dintorni aspettando con ansietà la fine della seduta per conoscere più presto, dalla bocca dei primi che uscivano, il risultato della sentenza inquisitoriale. Tutta Siviglia era in moto come per grande e fatale avvenimento. Questa volta ancora,persuaso dalle ragioni di Josè, Pietro Arbues erasi ingannato sul vero spirito pubblico: così s'ingannano quasi sempre i potenti di questo mondo! Quando si assise sul seggio di presidente, Pietro Arbues aveva una fisionomia raggiante, che tradiva le sue interne sensazioni, ei si consolava in qualche modo d'aver perduto Manuel Argoso e Dolores colla speranza di condannare Giovanni d'Avila. Questa osservazione non sfuggì all'assemblea e l'odio pubblico verso l'inquisitore aumentò in quel giorno per la tenera venerazione che inspirava l'Apostolo. Bentosto comparve l'accusato. Il suo contegno, senz'essere altiero, aveva una infinita maestà, ed una calma evangelica splendeva sul suo volto appena alterato da otto giorni si sofferenze e di reclusione. Egli portava sulla sua fronte la gravità dolce, ma energica, del vero pastore del Vangelo, e vedendolo avanzarsi nel mezzo della sala colla libertà e la semplicità della innocenza e della forza portando le sue catene come un altro avrebbe portato uno scettro; a vederlo volgere il suo sguardo, dolce e paterno come quando visitava i suoi poveri, e fermarlo finalmente sul grande inquisitore, che, malgrado la sua audacia abituale, non poté sopportare quello sguardo accusatore, sarebbesi dubitato quale fosse il giudice, se Pietro Arbues o Giovanni d'Avila, ove quest'ultimo colla più commovente umiltà non fosse andato ad assidersi sulla sua panca. Là aspettò d'essere interrogato. Ma Pietro Arbues, sdegnando le forme ordinarie, senza domandargli il nome né l'età, senza procedere con ordine e metodo, gli disse in tono breve: "Alzatevi." Poscia, avvedendosi che questa violenta intimazione usciva dalla sua parte d'inquisitore, riprese con simulata dolcezza: "Alzatevi, fratello, e rispondetemi." Giovani d'Avila s'alzò, mostrando un bello e nobile personale. Tutti gli animi erano sospesi, e, malgrado la presenza degl'inquisitori, parole dette a bassa voce, un generale mormorio, manifestarono la simpatia del popolo. "Fratello," proseguì Pietro Arbues, "il nostro zelo per il servizio di dio non può permettere d'obbliare che voi siete uno dei suoi ministri, e che portate la sacra veste dei leviti; ma perciò appunto la nostra responsabilità è più grande, e non dobbiamo tollerare in voi la minima cosa che tenda ad allontanare gli altri dalla stretta osservanza dei santi canoni, che sono il codice della Chiesa." "Il codice della Chiesa cristiana è il Vangelo," rispose semplicemente Giovanni d'Avila. "I Concilii hanno fatto delle addizioni a questo codice," replicò l'inquisitore, "la Chiesa di Gesù Cristo ha il diritto di continuare l'opera del suo divino maestro." Giovanni d'Avila rimase taciturno: l'inquisitore aveva sperato una risposta, contando di prenderlo insidiosamente colle sue stesse parole: la sua aspettativa andò delusa. Ei proseguì: "Fratello, incaricato d'una santa missione, incaricato di condurre e dirigere le anime col predicare, perché tendete voi a forviarli, propagando le dottrine dei neoeretici? Sapete voi che questo è un delitto di leso cattolicismo?" "Questo è ciò di cui vengo accusato?" domandò Giovanni d'Avila. "Questo è il vostro delitto, fratello mio, o piuttosto il vostro errore," aggiunse Pietro Arbues, con finta moderazione. L'inquisitore fece una novella pausa, questa volta ancora Giovanni d'Avila non rispose. "Voi avete predicato," proseguì l'inquisitore; "che Iddio è egualmente buono per tutti, e che spande egualmente i suoi benefizi, sui giusti e sui peccatori." "Non sono io che ho detto questo," rispose l'Apostolo, "Gesù Cristo medesimo, il qual non solo l'ha provato con le sue parole, ma eziandio con le sue azioni." "Gesù Cristo ha gettato l'anatema sugli empi e su gli eretici," replicò Pietro Arbues. "Gesù cristo non ha gettato l'anatema su nessuno, monsignore; egli non ha accusato, non ha colpito che gl'ipocriti; coloro che coprivano i propri vizi col manto della devozione e della virtù, coloro che, sotto un rigorismo esteriore, nascondevano enormi turpitudini; ecco coloro che Gesù cristo ha stimmatizzati, monsignore. Gli altri, i fuorviati o penitenti, gli ha caricati sulle sue spalle, gli ha ricevuti e riscaldati nel suo seno, col calore vivificante del suo santo amore, della sua divina carità." L'uditorio ascoltava con profondo raccoglimento, l'Apostolo dominava l'assemblea coll'altezza della sua sublime morale. Pietro Arbues perdeva della sua audacia, e cominciava a pentirsi di aver dato a quell'udienza una simile pubblicità. Tuttavolta l'astuzia inquisitoriale venendogli in aiuto, continuò con accento sicuro, lento e solenne, imitando la dolcezza el'umiltà con tutti gli sforzi del suo volere altiero ed indomabile. "Fratel mio," disse a Giovanni d'Avila, "non è solamente nelle vostre prediche che vi siete mostrato caldo partigiano della riforma, o piuttosto che avete manifestata un'indifferenza colpevole per il culto cattolico romano, ed una tolleranza più colpevole ancora per gli sventurati eretici, i quali si allontanarono volontariamente dal cerchio della santa Chiesa." "Io non comprendo, monsignore," disse l'Apostolo. "Si dice che voi frequentiate volentieri mendicanti, ebrei e moreschi; e basta ad appartenere ad una di queste caste maledette e riprovate." "Monsignore," interruppe l'Apostolo con una semplicità sublime, "queste caste sono infelici e perseguitate, le altre non han bisogno di me." Un lungo mormorio di affettuosa acclamazione accolse quelle semplici parole che dipingevano tutta l'anima, tutta la vita di Giovanni d'Avila. Comprese l'inquisitore essergli malagevole il condannare l'Apostolo in presenza di tutta quella popolazione di Siviglia. Egli aveva creduto che bastasse una sua parola per abbatterlo, ed ecco che per la sola possanza della verità, il santo predicatore respingeva vittoriosamente quelle assurde accuse, ed il trionfo cadeva sopra colui che non aveva mai cercato altro che la quiete dell'oscurità; perocché la predicazione, questa missione divina lasciata dagli apostoli ai loro successori, questa figlia del Vangelo, che la Chiesa romana ha ridotto in una commedia svergognata che gesticola e giuoca con le chiese di Cristo, la predicazione non era per Giovanni d'Avila che un mezzo di consolazione e d'istruzione, e non una molla d'ambizione mondana. L'umile Carmelitano non aspettava dalla sua eloquenza veemente ed appassionata gli onori del vescovato; ei non predicava come un avvocato o un comico, ma come predicar dovevano san Paolo e san Giacomo, quelle due colonne della fede cristiana, quei padri che primi dopo il loro divino Maestro sparsero nel mondo i semi di carità e libertà, tesori divini, sorgente unica della virtù degli uomini. L'inquisitore era troppo perspicace per non indovinare quali sentimenti animavano l'assemblea: da un altro lato ei conosceva la fedeltà del popolo spagnuolo, il suo attaccamento inalterabile alla fede cattolica, malgrado la spaventevole oppressione che gli si faceva subire; Pietro Arbues sapeva bene che tutte queste insurrezioni che agitavano il paese non erano dirette contro la religione, ma solamente contro gli oppressori, contro coloro i quali, a nome di questa stessa religione, commettevano tutti i giorni abusi infami. Ei cercò dunque di attaccare il lato debole del popolo procurando di provare che Giovanni d'Avila era un malvagio cattolico. Indirizzandosi nuovamente all'accusato, gli disse: "Fratello, è ben doloroso per noi d'avere a riprendere oggi un ministro del Vangelo, il quale fin qui non aveva dato che esempi di virtù, ma noi siamo tutti deboli e mortali; lo spirito maligno veglia costantemente, e s'impadronisce bentosto di colui che fa cattiva guardia o che si trascura per alcuni istanti. Noi non vogliamo entrare nei misteri di un sì grande mangiamento avvenuto in voi, ma è certo, sei testimoni l'hanno affermato," disse Pietro Arbues accennando colla mano il libro delle deposizioni posto sul banco, "è certo, dico, che il vostro spirito sì luminoso e sì profondo, si è lasciato sedurre dalle dottrine pestilenziali venute dalla Germania. Voi avete detto molte volte in pulpito che le pratiche esteriori sono poco importanti, che la purezza del cuore è tutto; negate questo, fratel mio? Non è questa una delle dottrine dei riformati?" "Lo nego quanto alle espressioni," rispose Giovanni d'Avila, "egli è certo che, denunziandomi, si sono travisate le mie intenzioni e le mie parole. Io ho detto, monsignore, e lo ripeto qui dinanzi a voi, poiché lo credo conforme al vero spirito del Cristianesimo; ho detto che le pratiche esteriori non sono nulla, né le opere, nulla, se non sono accompagnate dalla rettitudine del cuore e dalla purezza delle intenzioni. Credete voi, monsignore, " soggiunse fissando il suo sguardo tranquillo e potente sul volto dell'inquisitore, "credete voi che sia gradito a Dio colui che si prostra innanzi agli altari e bacia la polvere delle chiese, avendo l'anima macchiata d'uccisioni, di vendette o di adulterii? Colui che esclama a Dio con sospiri o con fervore: - mio Dio perdonatemi! - e sogna intanto nella mente la perdita del suo nemico; che dice a Gesù: - Agnello immacolato, abbiate pietà di me! - e che dopo la preghiera, va forse ad immergersi in tutte le immondezze del vizio? Colui." "Fratello," interruppe l'inquisitore un po' turbato, perocché quei due uomini parevano aver cangiato parte, "fratello, sapete voi se colui il quale prega e piange battendosi il petto, non sia più gradito a Dio in causa del suo pentimento, dell'orgoglioso il quale dice: - Io non ho bisogno della preghiera, io sono puro? -" "Monsignore," replicò il Carmelitano con voce tranquilla, grave, imponente, a cui l'accento della verità energica e libera della convinzione intima dava una vibrazione elettrica, un'autorità irresistibile; "monsignore, ve ne scongiuro, non entriamo in queste discussioni teologiche, dalle quali la fede non può acquistare niente. Questo popolo che ci ascolta è giusto, religioso e credente; e non ricerca in qual forma più o meno astratta debba trovarsi la vera osservanza delle leggi del Vangelo, ed io mi son poco curato d'insegnarglielo. Ho detto solamente: - Siate docili, casti,caritatevoli, perché Gesù Cristo, nostro modello è stato caritatevole, casto e docile. - Ho detto: -Amatevi e soccorretevi gli uni con gli altri, poiché siete tutti fratelli e figli dello stesso padre, che è Dio, - ed ho detto questo non solamente ai cristiani della Chiesa cattolica romana, ma a coloro eziandio che inclinavano verso la chiesa riformata, l'ho detto pure ai moreschi, agli ebrei convertiti, ancor vacillanti nella loro fede, ed a coloro che avevano abbandonato soltanto per paura la credenza dei loro padri. A tutti ho predicato la stessa morale e la stessa legge, e molto spesso, oh!, sì, molto spesso, monsignore, ho veduto cadere in ginocchio ed esclamare piangendo che volevano appartenere ad una religione così soave coloro stessi che più tardi hanno bestemmiato e maledetta la nostra santa religione in mezzo alle fiamme del rogo." "Egli bestemmia, o mio Dio!" esclamò Pietro Arbues, "un prete di Cristo osa accusare la santa Inquisizione!" a tali parole Giovanni d'Avila non rispose, ma lo sguardo che fissò sull'inquisitore fu sì chiaro, sì freddo, sì penetrante, che il superbo Arbues non potè sostenerlo: quegli che faceva tremare Siviglia abbassò gli occhi davanti ad un semplice prete della Chiesa cristiana, tremò davanti da un accusato. Lo sguardo di Giovanni d'Avila era eloquente e muta requisitoria in cui l'inquisitore avrebbe potuto leggere tutte le sue iniquità più aautentiche e più nascoste, e le sie inque condanne, delitti commessi con audacia in pieno giorno, e le sue segrete lascivie, delitti più abominevoli ancora, che bene spesso erano cagione dei primi. Dal letto dell'inquisitore al rogo la transizione era naturalissima. Che volete che un prete faccia delle vittime delle sue turpitidini, testimoni viventi, sempre pronti ad accusarlo? Quando è inquisitore egli brucia, in tempo di libertà civile e religiosa egli pugnala. Mingrat e La Colange, nati nel secolo decimosesto, avrebbero fatto onore all'inquisizione. Niuno è più audacemente delittuoso di un prete malvagio, turbato un momento, Pietro Arbues riprese bentosto la sua fredda sicurezza. L'uditorio, ghiacciato dal terrore, perché comprendeva il pericolo del coraggio, e per tanto elettrizzato dalle parole dell'Apostolo; commosso dal rispetto, dall'entusiasmo e dalla riconoscenza, l'uditorio attendeva con profonda ansietà il risultato di quella seduta. Niuno ardiva parlare né comunicare ad altri il proprio pensiero; ma più d'uno era sotto l'impressione dello stesso sentimento. Un desiderio di salvare il loro santo predicatore animava tutti i cuori. Pietro Arbues comprese che con un dialettico come Giovanni d'Avila il trionfo era impossibile; senza spingere più lungi la discussione fece cenno al cancelliere che aveva scritto di mano in mano tutte le parole dell'Apostolo. Il cancelliere gliela rimise; Sua eminenza la lesse di nuovo, come per eccitarsi maggiormente a punire una simile audacia; ed a ciascuna frase, i suoi sopraccigli si contraevano di più, una nera tempesta d'odio s'accoglieva su quella fronte vasta ed oscura, libro spaventevole in cui l'osservatore poteva leggere tante cose sinistre. Terminato di leggere, prese il registro in cui le deposizioni erano segnate, e dopo averne lette alcune linee: "Va bene," egli disse; "le deposizioni dei testimoni sono perfettamente conformi alle risposte dell'accusato. I testimoni che hanno firmato il registro sono perfettamente d'accordo fra loro, essi han tutti egualmente affermato che il prete Giovanni, detto Giovanni d'Avila, frate predicatore dell'Ordine dei Carmelitani scalzi, ha non solo avute frequenti comunicazioni con eretici luterani, ebrei e moreschi, ma eziandio che nelle sue prediche ha avanzato proposizioni contrarie alla fede cattolica. Questi testimoni avendo giurato sul Vangelo di dire la verità, noi ci dobbiamo riportare alle loro deposizioni. Conformemente alle leggi della Santissima Inquisizione siamo dunque forzati di condannare il prete Giovanni alle pene indicate dalle nostre santissime leggi inquisitoriali, amenoché però l'accusato non possa provare, colla dichiarazione di dodici testimoni, che è stato falsamente accusato." Pronunziando queste parole, l'inquisitore portò gli occhi verso il luogo dov'era Giovanni d'Avila, l'Apostolo non aveva fatto il più lieve movimento, egli aveva ascoltato come se si fosse trattato d'un altro, ma nell'assemblea un gran mormorio era surto in un subito, e la panca dei testimoni, non a guari vuota era stata invasa dai più considerevoli gentiluomini presenti a quella seduta, che tutti si disputavano la gloria di esporre la loro vita per il loro Apostolo diletto. Ma egli, vedendoli esporsi così alla morte, per sua cagione, o almeno a pene severissime, li guardò con occhio dolce e paterno, e fece loro cenno colla mano di ritirarsi. Al cospetto di quell'amore universale la sua emozione era sì grande, che non ebbe la forza di parlare. Due lacrime, due lacrime d'ineffabile e celeste beatitudine caddero da quegli occhi, che non erasi giammai commossi se non dalle sofferenze degli altri. "Egli è innocente! Egli è innocente!" gridarono insieme tutte quelle voci entusiaste. "Ei ci ha nutriti quando avevamo fame." "Ci ha consolati quando piangevamo." "Ha pacificato i nostri litigi, e riconciliata la pace nelle nostre famiglie." "Ha benedetto i giovani che si amavano e riconciliato gli sposi disuniti." "Oh! S', egli è la gloria e la felicità della nostra Andalusia." Fu un immenso concerto di benedizioni, un grido generale, più forte del timore che inspirava l'Inquisizione, qualche cosa di spontaneo e d'irresistibile. Quegli uomini sembravano ubbidire ad un voce del Cielo che gli spingeva invincibilmente, ad onta del proprio pericolo, alla difesa di una causa sì giusta. In presenza di quella generale manifestazione, il feroce Arbues si sentì preso da un vertiginoso pensiero d'odio; credé a forza di audacia e di fermezza potere imporre a quel popolo slanciato alla difesa di una causa sì santa; ma ignorava che il popolo, quel terribile nemico, è tanto affezionato agli obbietti del suo culto, quanto è fiero e spietato verso coloro che l'hanno ferito, e che la sua collera somiglia a quella delle onde, che inghiotte coloro che tentano di resisterle. Deciso di lottare a forza aperta, Pietro Arbues disprezzò quella manifestazione popolare e scara, ed era il momento di riconoscere la verità di quell'adagio: Voce di popolo, voce di Dio. Ma Pietro Arbues si curava poco di ciò. Le persone che avevano potuto porsi sulla panca dei testimoni erano là in piedi, domandando ad alta voce che si ascoltasse la loro deposizione. L'inquisitore non ne fece conto; tuttavia non osando dare la sua sentenza pubblicamente, dopo aver ricusato d'ascoltare i testimoni, fece uso del suo ordinario sotterfugio, e volgendosi agli sgherri posti alla destra: "La seduta è sospesa," disse; "si riconduca l'accusato nella prigione." Il popolo aveva compreso quello che voleva dire[32]. Un grido generale surse nell'assemblea, e numerose voci ardenti ed ostinate gridarono ad un tempo: "I testimoni! I testimoni! Si ascoltino i testimoni!" "Si faccia sgombrare la sala," esclamò Pietro Arbues, alzandosi per uscire. Giovanni d'Avila si alzò come per seguire gli sgherri, e volgendosi al popolo, disse con dolcezza: "Calmatevi, amici miei, calmatevi! Mi sarà resa giustizia, siatene certi." Così parlano, l'Apostolo aveva gettato uno sguardo verso il fondo della sala come se avesse aspettato qualcuno; nessuno arrivava. Giovanni d'Avila alzò gli occhi al cielo, e mormorò con grande rassegnazione: "Sia fatta la volontà di Dio!" Il popolo continuava a mormorare, ed alcuni (audacia inaudita in quell'epoca e in simil luogo) osarono varcare il cancello che li separava dall'accusato. Là gettandosi alle ginocchia di colui che chiamavano il loro padre, baciarono le sue mani e le sue vesti, non con l'umiltà del fanatismo, ma con una venerazione tutta figliale, con quel rispetto che la vera virtù ottiene senza domandarlo, e che viene accordato per timore al delitto onnipotente. La scena minacciava di divenire tempesta, ma l'inquisizione era prudente e cauta. In pochi momenti una triplice fila di sgherri armati e d'arcieri della Santa-Hermandad era schierata intorno al popolo agglomerato nella sala, di maniera che quelle brave genti si trovarono subitaneamente inviluppate, e nessuno di essi avrebbe potuto uscir vivo da quel recinto se tale fosse stata la volontà dell'inquisitore. Un gran mischia diveniva inevitabile, perocché quel popolo ardente e coraggiso non sarebbesi lasciato immolare senza resistenza. Giovanni d'Avila, che con uno sguardo tutto comprese, fremé di santo sdegno, ed in quell'istante spiacquegli l'amore che inspirava. Il pericolo di quella brava e leale popolazione lo commosse assai più del suo proprio pericolo. Pietro Arbues, in piedi dietro il suo seggiolone, volse attorno alla sala lo sguardo compiacente come il cacciatore quando vede il leone caduto nella rete che gli ah teso. Il popolo solamente non si era accorto di nulla. Fu bene per l'Inquisizione che l'idea in cui era immerso non l'avesse fatto pensare a sé medesimo, e forse fu meglio ancora per l'inquisitore, il quale poteva disporre, è vero, di una forza armata; ma che diviene la forza armata di fronte ad un popolo coraggioso spinto agli estremi ed esacerbato da molti anni di oppressione e di miseria? Pietro Arbues, solo, cieco, come tutti i despoti, non comprendeva il suo pericolo. In quel momento la gran porta fu spalancata, e le guardie ed il popolo si separarono con tutti i segni di profondo rispetto. L'inquisitore impallidì; quegli che era entrato nella sala del tribunale era il presidente del Consiglio della Sprema, seguito dai suoi consiglieri. Giunto in faccia all'inquisitore, il presidente si fermò; e si trovava al fianco di Giovanni d'Avila. Pietro Arbues abbassò gli occhi dinanzi al capo del Consiglio della Suprema; perciocché questi l'osservava con aria di rimprovero e di corruccio, il che non presagiva nulla di buono. Il presidente si volse allora verso l'Apostolo, che due birri avevano già afferrato per le sue catene onde ricondurlo in prigione. "Si sciolga quest'uomo," disse con voce severa. Le catene di Giovanni d'Avila caddero come per incanto. "monsignore!" disse a Pietro Arbues. "Con qual diritto avete voi messo quest'uomo sotto giudizio?" proseguì il presidente; "non vi siete degnato di comunicare il suo atto d'arresto al Consiglio; sapete coi ch'io potrei." "E' vero," balbettò Pietro Arbues, "questa formalità è stata omessa, in seguito." "Basta," disse il presidente con voce severa, "e un'altra volta pensate che un'omissione di questa sorta è un delitto. Il re ed il Consiglio desiderano che si perseguano gli eretici, ma che si faccia con forme legali, affinché possiamo giudicare da noi medesimi della colpabilità degli accusati. - Voi siete libero, reverendo," proseguì il capo del Consiglio, dirigendosi all'Apostolo con infinita amorevolezza. "Grazie, grazie, monsignore," disse Giovanni d'Avila, "io non mi aspettava meno da Vostra Eminenza." Pietro Arbues si ritirò pieno di rabbia, il suo regno era finito. "Viva! Viva!." esclamò il popolo; " che Dio e la santa Vergine benedicano il consiglio della Suprema!" E quel popolo semplice mandò grida d'ammirazione e d'entusiasmo, e versò lacrime di gioia per quell'atto di profonda ed infinitamente accorta politica come per un atto di erica affezione e di reale clemenza. Così si governa questo misero popolo, confidente e leale, così si governava allora, perché oggi guai a chi lo credesse cieco. Il popolo è intelligente, molto intelligente, e lo diviene ogni giorno più: soltanto si mostra talvolta troppo indulgente. Però non bisogna fidarsi, nulla è più temibile di una sofferenza soverchiamente protratta!. Certo è che la liberazione dell'Apostolo dell'Andalusia fu per Siviglia una gioia universale. Fu creduto che finalmente Carlo v mantenesse tutte le sue promesse, ed il Consiglio della Suprema acquistò una immensa popolarità. Ciò non per tanto quel gran corpo dello Stato, composto quasi per intiero d'arcivescovi e di prelati mostrava per ordinario uno zelo sì grande per la estirpazione dell'eresia da emulare la stessa Inquisizione; ma il Consiglio, come tutti i poteri assoluti, era gelosissimo della sua autorità. Invadere i suoi diritti, o far sembiante d'ignorarli era un'offesa cui perdonava difficilmente, ed era appunto questo che aveva fatto Pietro Arbues, trascurando di comunicargli l'arresto di Giovanni d'Avila. Questa mancanza di forma, che ferì l'amor proprio del Consiglio, fu certamente la salvezza dell'illustre predicatore[33]. Perché i più grandi risultati si debbono spesso a cause piccolissime?. Questo è forse nei divisamenti di Dio!. Quando Giovanni d'Avila uscì dlla sala, il popolo lo sollevò sulle sue braccia come sopra uno scudo, e tutta quella popolazione, folle, inebriata di gioia e di speranza, lo condusse in trionfo fino alla sua umile dimora, gridando con voce piena d'allegrezza: "Viva il nostro diletto Apostolo! Viva il re!viva il presidente della suprema!" XLV. Nozze e funerali. Nelle tombe della Garduna, immensi sotterranei scavati durante le guerre dei mori contro i cattolici, per servire di comunicazioni segrete alle truppe, Mandamiento aveva fatto nascondere Estevan, Dolores e Giovanna. Il baule nel quale erasi trasportato il corpo di Manuel Argoso era stato cambiato in un gran cataletto di legno di cedro procurato dai garduni. La maggior parte dell'oro che Estevan aveva potuto salvare delle sue ricchezze, ch'era obbligato d'abbandonare al fisco[34], era servita a pagare tutte le commissioni. I garduni erano affezionatissimi a chi li pagava. Il cataletto che racchiudeva le spoglie mortali di colui che era stato governatore di Siviglia, era deposto in una di quelle tombe su due sgabelli di legno. Secondo l'uso dei tempi, il volto del defunto era rimasto scoperto; ma erasi avuto cura di vestire il suo corpo d'una camicia di tela d'Olanda finissima e candida. Manuel Argoso aveva le mani incrociate sul petto e le sue palpebre erano intieramente chiuse. La morte aveva reso a quel viso, per lo innanzi sofferente e pallido, un'indicibile serenità. La pietà di Josè non aveva abbandonato i suoi amici in quella penosa circostanza. Giovanna, vecchia nutrice di Josè, Giovanna, sì forte ed affezionata, pregava al lato di Dolores durante quella triste veglia mortuaria: essa riceveva nel suo seno le lacrime della desolata fanciulla. Dal suo lato Giovanni d'Avila era stato appena liberato dalle carceri dell'Inquisizione, che, avvertito dalla Graziosa, era accorso alla Garduna. La sua non sperata presenza era stata per Estevan e per la sua fidanzata una dolce consolazione. Era circa mezzanotte. Giovanni d'Avila e Josè, inginocchiati presso il feretro, recitavano lentamente le preci dei defunti. Dolores singhiozzava a pochi passi di distanza, ma né Estevan né Giovanna si azzardavano a consolarla: si contentavano di piangere con essa. Era un momento molto solenne, l'ultimo addio della morte alla vita, l'istante supremo in cui l'essere materiale di quegli che Dolores aveva tanto amato tornava nel nulla. Ad una delle estremità della tomba era stata messa, a guisa d'altare, una semplice tavola coperta da una tovaglia bianca e sormontata da una gran crocifisso. Due candelabri d'argento, proprietà di Mandamiento, portavano tre ceri gialli per ciascuno, ed in una coppa d'argento dorato un ramo di bosso immerso nell'acqua benedetta. Tale era il lusso di quella lugubre cerimonia; le cesellature del metallo, le faccette lucide dei candelabri brillavano di strana luce in quel luogo oscuro, triste e nudo, e l'immagine di Cristo, bianca, soave ed inchinata, sembrava piangere cogli afflitti inginocchiati innanzi ad essa. La voce grave e penetrante di Giovanni d'Avila aveva una unzione indescrivibile, alla quale si congiungeva, con un incanto di mestizia, il suono più dolce e più velato della voce di Josè. Di quando in quando dei singhiozzi che, malgrado i suoi sforzi per trattenerli, sfuggivano la petto di Dolores, venivano a mescolarsi alla voce dei due monaci. Quella funebre cerimonia, così spoglia della pompa e del rumore che le comparte l'orgoglio mondano, aveva qualche cosa di penetrante e di profondo dovuto alla imperiosa necessità di celebrarla così di notte, in un luogo sconosciuto, e lungi da tutti gli sguardi. Quella povera fanciulla, obbligata a rifugiarsi presso dei malfattori al fine di poter rendere gli ultimi uffici al proprio genitore, quei due frati l'uno dei quali era scampato alle mani dell'inquisitore, l'altro apparteneva al Sant'Uffizio; quella vecchia Giovanna, personaggio singolare, la quale sembrava non esser stata creata che per assistere alle sofferenze degli altri, tanto ella sembrava indifferente sulla propria sorte, tutto ciò aveva qualche cosa di straordinario, di misterioso, che somigliava ad un leggenda o ad un romanzo. I secoli decimoquinto e decimosesto furono fecondi in drammi straordinari e terribili, tanto che oggi, senza l'autorità degli autori spagnuoli , i quali hanno vissuto in quei tempi infelici, e che certamente erano troppo leali per mentire; senza l'autorità degli annali, di cui non si può contestare l'autorità, si negherebbe forse di prestar fede a quelle storie quasi inverosimili, tanto esse sono orribili. Era un crudele incidente quello che noi raccontiamo, e pertanto questa funesta tragedia non era ancor sciolta. Di tutti i personaggi presenti a quella scena, Estevan era forse il più mesto. Al dolore che gli cagionava la morte di Manuel Argoso congiungevasi l'amara convinzione della sua impotenza a lottare efficacemente per la sua patria. Ei comprendeva con grande suo sconforto che la gloria di liberatore non gli era riserbata, e in quell'amaro sentimento entrava certamente meno l'offeso amor proprio, l'orgoglio umano, che la pietà pel suo paese, la compassione per le vittime dell'insaziabile ambizione di Roma, del clero e dei governanti. Nelle sue idee larghe ed avanzate Estevan aveva qualche volta sognata la liberazione della Spagna, in quel momento non la sperava più che in un lontano avvenire. Questo pensiero gettava sulla sua fronte, sì giovane, un velo nero d'insormontabile tristezza, che il suo amore per Dolores non poteva dissipare. La vita della donna potrebbe tradursi in una sola parola: -Amore.- Ma all'uomo fa pur mestieri altra cosa; l'uomo forte e coraggioso non concentra la sua intiera esistenza in un'individualità: egli abbraccia uno scopo più largo e più complesso, ed avanti al nome stesso della donna amata, v'ha un altro nome che a vibrare tutte le corde dell'anima sua, questo mone è quello di patria!. Patria!.questa parola soave risuonava ora come lugubre squillo alle orecchie del giovane conte de Vargas, il lugubre recitativo dei due frati, quel terribile De profundis, la cui lacerante espressione riempie l'anima d'angoscia, e fa correre un fremito per tutte le vene; quel terribile De profundis era per lui l'ultimo grido angoscioso del suo paese oppresso, l'ultimo addio che la Spagna pareva mandare, innanzi di morire, dal fondo dell'abisso in cui erasi precipitata. Di quando in quando Giovanni d'Avila interrompeva le preci per versare sul corpo l'acqua santa che purifica; poi tornava ad inginocchiarsi a fianco di Josè, e continuava l'uffizio dei morti. Tutto il tempo che durò questa triste cerimonia, Estevan, colla testa fra le mani non si rivoltò neppure una volta, ma quando Giovanni d'Avila ebbe pronunziato l'ultimo versetto della preghiera dei morti, Estevan si alzò ed avvicinandosi a Dolores; egli comprese che l'amore per il proprio paese non poteva assorbire intieramente quello che provava per la sua fidanzata, e che vegliare su di lei, renderla felice, era pure per esso un sacro dovere. In quel momento due uomini della Garduna entrarono per togliere il cataletto. Dolores comprese che il momento supremo era venuto; e poiché, malgrado la dolcezza del suo carattere aveva una di quelle energiche volontà che nelle grandi circostanze della vita sanno dominare fino il dolore, si avanzò con passo fermo verso il letto funebre in cui posava il padre. Estevan volle trattenerla. "Lasciatemi," ella disse respingendolo dolcemente ma con fermezza, "lasciatemi dargli un ultimo addio." Essa si avanzò verso il feretro, s'inginocchiò sulla nuda terra, poi s'inchinò verso il defunto genitore, posò le sue labbra su quella pallida fronte, lo baciò per tre volte, e, rialzandosi con coraggio, andò ad assidersi all'estremità più lontana del sotterraneo. La forza che l'aveva un momento sostenuta, l'abbandonò; nascose la sua testa fra le mani per non vedere nulla di ciò che accadeva intorno di lei. Estevan e Giovanni d'Avila non la perdevano di vista. I garduni con tutte le precauzioni possibili presero il cataletto, e lo trasportarono in una tomba ancor più grande e più lontana. Ivi li attendevano sette od otto fratelli dell'ordine, uomini e donne. Quando ebbero deposto il cataletto sul suolo, due vecchie si impadronirono del cadavere. Quelle due schifose creature, appena coperte con un cattivo cencio di lana nere, avevano alzato fino al gomito la manica della loro sottana, lasciando vedere le loro braccia secche, aggrinzite, percorse da grosse vene turchiniccie. I loro capelli rari, grigi ed arruffati, si alzavano in disordine alla nuca sotto una striscia di nastro nero divenuto grigio a forza di unto e di polvere. Il loro collo, lungo e magro, si lasciava vedere senza pudore sotto un cattivo fazzoletto, e coi loro piedi nudi e sporchi calpestavano, vacillando, il suolo terroso del sotterraneo. Ciascuna di quelle due vecchie era armata di un coltello stretto, recentemente affilato. Una tavola zoppa, lunga circa sei piedi, era stata posta nel sotterraneo. Le vecchie vi distesero il corpo del governatore, e si misero all'opera. E, simili ad uccelli rapaci abituati alla vista dei cadaveri, quelle donne aprirono il corpo dall'alto al basso, come avrebbe potuto fare un anatomico; poscia ne tolsero i visceri con una incredibile destrezza. Due bravi li presero, li deposero nel cataletto, vi mescolarono alcuni armati, li ricoprirono quindi con un gran pezzo di stoffa; poi tutti i garduni che erano presenti s'inginocchiarono intorno a quel cataletto, e borbottarono alcune preghiere, poi, finalmente, fu fatto discendere il cataletto medesimo in una gran fossa che era stata preparata, ed i garduni lo ricoprirono di terra. In questo tempo una delle vecchie aveva posto il cuore in una scatola d'argento, dopo averlo accuratamente imbalsamato con preziosi armati, conosciuti dai gitani, razza venuta dall'Egitto; la sua compagna aveva diligentemente lavato il corpo con acque profumate. Dopo averlo asciugato con panni finissimi, quelle due donne lo distesero sopra una gran tela di un grigio argentino, tessuta con filo d'amianto: cosa rara e preziosa; ma che vi era di raro per i garduni? Quando ebbero così disposto il cadavere e rinchiuso il cuore, le vecchie s'inginocchiarono, e si misero nuovamente a pregare; nello stesso tempo aspergevano il corpo di acqua odorifera con un ramo di cedro, e mormoravano a bassa voce preghiere non intelligibili, formole bizzarre tolte da tutti i riti, ed accomodate alla loro usanza da un'ignorante superstizione, mista alcun poco ad un non curante scetticismo. Era orribile a vedere quelle due vecchie luride con le mani e con le braccia ancor sanguinose, inginocchiate davanti a quei resti umani, pregando con le labbra un Dio o un demone sconosciuto, del quale non avevano neppur la coscienza, o piuttosto recitando per abitudine parole incoerenti e bizzarre: cadaveri ancora in piedi che seppellivano un cadavere disteso!. I garduni attendevano con calma che avessero finito. A capo di alcuni minuti elleno si alzarono; una di loro rimise la scatola che racchiudeva il cuore ad un giovane bravo, dicendogli: "serba questo." Poi finalmente, le due sibille, armate di cesoie, e d'aghi, involsero diligentemente il corpo in una tela d'aminato, e la cucirono per tutto con del filo strappato dallo stesso tessuto della tela; poi, essendosi assicurate che era ermeticamente cucito, si rivolsero verso i garduni, dicendo: "Ecco fatto." Allora cominciarono i bravi. Nel mezzo del sotterraneo erasi scavata una gran fossa in forma di croce, coperta al suo orifizio da una enorme inferriata. La parte di questa fossa che rappresentava il fusto della croce, era stata riempita di carbone; quella che formava le braccia doveva servire di conduttore all'aria, di maniera che passando da un lato all'altro e spogliandosi del suo ossigeno, mantenesse costante la combustione. Ed invero il carbone che riempiva la fossa era già incandescente, ed a cagione della grande quantità che ne era stata messa, non che bruciare, alzava le fiamme. Dei condotti d'aria erano stati accuratamente conservati nel sotterraneo perché il gaz non rendesse asfissiato nessuno. I due garduni che avevano preso il corpo lo deposero allora sull'inferriata già rossa, che non distinguevasi più nel mezzo dei carboni ardenti. Appena il corpo fu deposto sul fuoco una fiamma turchinoccia si alzò all'intorno come se fosse fosse stata avida di divorarlo. A misura che il fuoco consumava il cadavere, la tela d'amianto diveniva d'una bianchezza abbagliante, e brillava come argento fuso nel mezzo di quel braciere. Bentosto un odore forte e spiacevole si mischiò a quello del gaz acido carbonico. Dei garduni soltanto potevano rimanere in luogo siffatto. Essi non parvero in alcun modo incomodati; e con una impassibilità tutta spagnuola aspettarono che quel corpo fosse stato consumato finché non ne rimanesse che un pugno di cenere. Allora tolsero la tela d'amianto, che era divenuta pieghevole come mussolina; una volta raffreddata, l'aprirono, ne tolsero diligentemente la cenere fino all'ultima particella, e la rinchiusero in un sacchetto di marocchino di circa un palmo quadrato, guarnito di molte corregge. Terminata questa operazione, il garduni che era stato destinato da Mandamiento a invigilare la detta cerimonia, disse prendendo il sacchetto nelle sue mani: "Questo riguarda me: la scatola d'argento sarà confidata a Graffio," aggiunse accennando il giovane novizio favorito di Mandamiento, che abbiamo già veduto figurare al principio di questo libro. La vecchia che aveva imbalsamato il cuore lo rimise colla sua scatola a quegli che ne era stato incaricato. Finalmente due altri garduni gettarono una gran quantità di terra sul carbone ch'era rimasto nella fossa, e tutto fu finito. La cerimonia era terminata. Mentre si celebravano quei singolari funerali, una scena ben differente accadeva nel primo sotterraneo. Dopo che i garduni ebbro trasportato il cataletto, Giovanni d'Avila si avvicinò alla figlia del governatore, la quale, come abbiamo già detto, erasi seduta all'estremità del sotterraneo, e nascondeva la testa fra le mani per piangere in libertà. Quando l'Apostolo le fu vicino la chiamò dolcemente per nome. Al suono di quell'amica voce, Dolores alzo il volto bagnato di lacrime. "Figlia mia," continuò Giovanni d'Avila; "il vostro dolore è santo, ed io lo divido, pure in nome di colui che voi piangete, vi prego di mostrarvi forte e coraggiosa, i vostri doveri non sono finiti." "E che mi rimane da fare?" domandò essa con quello stupore nel quale ci piombano i grandi dolori. L'Apostolo la prese dolcemente per mano, ed aiutandola a sollevarsi, la condusse presso Estevan, il quale per rispetto non avea ardito approssimarsele, e stava in piedi a qualche distanza colle braccia incrociate sul petto. Vedendo l'Apostolo farsi innanzi colla sua fidanzata andò loro incontro; Giovanni d'Avila pose allora la mano di Dolores in quella del giovane, dicendole con dolcezza: "E' la volontà di vostro padre." "E la mia pure," rispose Dolores con nobile franchezza. Quella casta fanciulla aveva troppo verace virtù per ricorrere a quel pudore di convinzione che pone sulle labbra delle donne tante parole smentite dalle loro azioni. Estevan prese con trasporto la mano di colei che amava. Josè li guardava taciturno, ed una specie di delirio, una febbre interna e mortale brillava ne' suoi sguardi, più ardenti del consueto. "Fratello," disse Giovanni d'Avila, dirigendosi al fraticello, "voi benedirete i nostri amici." Josè alzò la testa con impeto, come se quelle parole avessero interrotto un sogno. "Io?" disse con amarezza; "io benedire l'unione di questi due giovani? No, padre mio, no, ciò non può essere..E' un diritto che vi appartiene," soggiunse con accento tranquillo e sommesso abbassando gli occhi allo sguardo penetrante di Giovanni d'Avila. "Come bramate," disse egli; "venite, figli miei; ed io vi unirò." Egli condusse i due fidanzati. Josè e Giovanna si avvicinarono l'un l'altra e si dissero alcune parole sommesse, mentre Giovanna asciugava un lacrima che scorreva dai suoi occhi inariditi sulla sua gola pallida e macilenta. Quando furono vicini alla tavola dov'era il crocifisso, Estevan e Dolores s'inginocchiarono. Ciascuno di essi aveva al dito un anello, che si cangiarono, e Giovanni d'Avila li benedisse. Quindi, dopo le domande d'uso, domande semplici, formule del matrimonio evangelico, il Francescano pronunziò le parole sacramentali.. Frattanto, inginocchiati l'uno presso l'altra in un religioso e mesto raccoglimento, i due fidanzati pregavano, e, ad onta della loro tristezza, un raggio di felicità illuminava quelle due sorti che stavano per confondersi in una. Dolores era pallida e commossa: tante cose terribili avevano preceduto quel momento, che dubitava se fosse ancor questa una di quelle crudeli illusioni che da qualche mese presiedevano alla sua vita. Pure, quando posò la sua mano in quella di Estevan e che la sentì stringere dolcemente da quegli ch'esser doveva la sua guida ed il suo sostegno, un profondo sospiro uscì dal suo petto; fissò sopra Estevan un celeste sguardo, sublime preghiera d'amore, più eloquente della stessa parola. Quando si alzarono, Estevan e Dolores erano uniti per sempre. Josè allora si avanzò verso la giovane coppi, e disse loro con accento ineffabile e con voce piena d'emozione. "Ora, amici miei, partite, siate felici e non vi separate giammai!." In quel momento un garduno entrò nel sotterraneo. Mandato dal maestro, voleva sapere se Mandamiento poteva presentarsi alle loro signorie. "Il maestro può venire," disse Giovanni d'Avila. Mandamiento allora si presentò colla sua solita franchezza. "Tutto è pronto per la partenza delle loro signorie," egli disse; "due muli li aspettano. I miei garduni le seguiranno per servir loro di guida. Ecco, oltracciò, la parola d'ordine, affinché in tutti i luoghi in cui le signorie loro potranno incontrare i fratelli della Garduna, invece d'esser loro nocevoli, prestino loro aiuto e protezione." Nello stesso tempo Mandamiento rimise ad Estevan un pezzo di pergamena sul quale era segnata una parola quasi non leggibile. Era il firmano che doveva proteggere la fuga dei proscritti attraverso le strade della Spagna, infestata dai garduni[35]. "Ecco," aggiunse il maestro, "i due fratelli che debbono accompagnarvi: sono dei più prodi e dei più leali." Ed accennava il bravo ed il novizio incaricati dei resti mortali del governatore, che entravano in quel momento nel sotterraneo. "Dove ci raggiungerete, padre mio?" domandò Estevan a Giovanni d'Avila. "A Cadice," rispose l'Apostolo; io vi sarò insieme con voi ma vi giungerò per altra via, non conviene che prendiamo la stessa strada." "E voi, don Josè?" domandò Dolores, che provava per il fraticello un'amicizia tutta fraterna. "Io! Dove piacerà a Dio," rispose Josè, con una espressione lacerante di assoluto scoraggiamento e di abbandono a sé medesimo. Nel momento di doversi separare da quelle due persone, onde per un poco eragli divenuta cara l'esistenza, Josè s'indeboliva come tutte le anime tenere davanti ad una nuova sventura. Tuttavia, abituato da lungo tempo a dominare le sue sensazioni, si volse verso Giovanna, e le disse con voce dolce e premurosa: "mia buona nutrice, tu pure partirai, non è vero?" "Io!" disse Giovanna, con sublime espressione di coraggio, "io partire quando voi rimanete?" "Vi raggiungerò fra qualche giorno," aggiunse vivamente Josè con una volubilità che male nascondeva la sua emozione; "vedi, mia buna Giovanna, bisogna che lasci la Spagna io pure: niuno è qui in sicurezza." "Io non la lascerò che con voi, mio Josè," disse risolutamente la nutrice. "Sì, ma tu partirai prima coi nostri amici, così sarai meno osservata, e fra qualche giorno, quando avrò realizzati i fondi che mi rimangono, io vi raggiungerò tutti.Andiamo, Giovanna, tu partirai questa sera." "Io non partirò," rispose con voce risoluta. "Lo voglio, Giovanna," aggiunse severamente Josè, ma egli era sì pallido, ed il suo occhio ordinariamente sì brillante, era tutto ad un tratto divenuto sì cupo, che si vedeva bene ch'era interiormente in preda ad un violento combattimento. A quelle parole: -Lo voglio ­- Giovanna abbassò la testa, e rispose con voce quasi estinta: "Partirò." "Oh! Tanto meglio!" Esclamò Dolores; "Josè pure ci seguirà." Le forze del fraticello erano quasi esaurite; le sue mani tremavano di una convulsione nervosa, che tutta l'energia della sua volontà non poteva dissimulare, ei vacillava sulle sue gambe, e le sue palpebre si chiudevano con una contrazione involontaria. Tuttavia il coraggio morale trionfò della natura fisica. Con uno sforzo sovrumano stese la mano ai novelli sposi, ritrovò tanta forza da stringere convulsivamente la loro; poscia si gettò al collo di Giovanna, la abbracciò con tenerezza piena di disperazione, e vi lasciò cadere due lagrime fino allora trattenute. "Fra breve, o mia Giovanna," le disse, "ci raggiungeremo." Tutto era pronto. "Signori," disse Mandamiento, "affrettatevi; avete appena il tempo di far due leghe innanzi che spunti il giorno per arrivare alla prima residenza di una confraternita, dove passerete la giornata, poiché, voi lo sapete, non potrete viaggiare che di notte." Ad un cenno del favorito dell'inquisitore una terza mula era stata preparata per Giovanna. La piccola carovana partì. Josè e Giovanni d'Avila rimasero soli. "Padre mio," disse Josè, "avanti di lasciarci beneditemi." "Figliuol mio," disse Giovanni d'Avila, ognor più sorpreso dalle maniere del fraticello, "Dolores non era questa sera la più mesta fra noi." "Oh no," rispose don Josè con accento energico, "ora che Dolores non ha più bisogno di voi, Padre mio, pregate per Josè." "Sii benedetto e consolato, tu che soffri!" disse l'Apostolo con dolce mestizia. Ma, come se Josè avesse temuto di lasciarsi trasportare da una troppo grave confidenza, si allontanò subitamente, e si diresse verso la casa di Giovanna. XLVI. La giustizia di Dio. Era il terzo giorno dopo la miracolosa liberazione di Giovanni d'Avila. Nella cosuccia di Giovanna, nel mezzo della sala bassa, ove d'ordinario la nutrice di Josè passava le sue lunghe e solitarie giornate, il Domenicano era solo. Assiso sopra un largo divano, ricamato dalle mani di Giovanna, Josè, pallido ed abbattuto, s'era negligentemente appoggiato ad alcuni cuscini. La sua mano bianca e diafana, ne sosteneva la testa abbattuta: due cerchi turchini circondavano i languidi suoi occhi, una cupa esaltazione, un pensiero profondo ed unico rendevano spaventevolmente immote le sue larghe e nere pupille, mentre un estremo abbattimento fisico si faceva vedere in tutte le sue membra. Dopo la partenza di Dolores ed Estevan, Josè era rimasto solo in quella casa deserta, ei non aveva mangiato da due giorni. Pure non era l'effetto di un soverchio scetticismo, o di uno stupido fanatismo, nei due giorni e nelle due notti scorse, le labbra del Domenicano non avevano proferito parola. Da molto tempo Josè non pregava più. Si era prodotto nella sua testa un immenso caos di pensieri, dominati da un solo che costantemente si riproduceva sotto le sue forme, ma senza seguito e senza ordine; un mostro da mille teste, un'ira divoratrice, che dardeggiava le sue mille lingue infiammate per allucinarlo. In quei due giorni fatali il Domenicano vide passare davanti a sé cose terribili, scene fantasmagoriche ed impossibili; angioli e demoni, sorrisi e lacrime, una bianca colomba chiamata Verità che scuoteva con orrore le sue ali insanguinate, e risaliva verso il cielo, dopo aver gettato sulla terra uno sguardo di soma tristezza. Quindi Josè si trattenne con un essere invisibile ed incantevole che lo chiamava dolcemente pel suo nome, che talvolta sollevava, con mano soave e carezzevole, le sue braccia affaticate dicendogli: "Seguimi." Josè faceva uno sforzo per alzarsi e seguire quest'essere diletto che lo chiamava; ma allora una mano di ferro gravava sul suo debole braccio, e l'obbligava ad arrestarsi, gridando con voce alta e fatale: "Attendi ancora!" allora il fraticello nascondeva la sua testa nei cuscini di velluto per fuggire a quella visione crudele; quindi si alzava furioso e disperato. Una gioia sinistra lampeggiava nel suo sguardo feroce, i suoi denti bianchi e lucidi, stridevano convulsivamente, e colla sua mano, debole e nervosa, stringeva con rabbia un pugnale dal manico d'ebano, la cui lametta affilata aveva la durezza del diamante. "Aspettare! Aspettare!" mormorava ad intervalli; "Sono sette anni che aspetto!." Finalmente, per l'ultima volta, egli andò a rivoltare la clepsidra che gli serviva a contare le lunghe ore di quella fatale giornata. Incominciava la nona ora del mattino. In quel momento lo sguardo di Josè si fermò sopra una tela da tappezzeria incorniciata da Giovanna, opera meravigliosa, che era stata l'occupazione prediletta della povera vecchia. La tela distesa sopra un tavola e l'ago munito di lana sembravano aspettare colei la quale con le sue deboli mani aveva fatto spuntare tutti quei fiori brillanti, quelle rose dell'Alhambra dal calice puro e vermiglio, e quelle palme d'Africa, le cui foglie sembravano fremere ed ondulare il balìa del vento. A quella vista il petto del fraticello s'inondò di una grande amarezza; un profondo intenerimento bagnò di lacrime gli ardenti suoi occhi, e depose un bacio pieno di affezione su quella tela insensibile. "Povera Giovanna!" esclamò egli, "come ho consumato la tua vita!.oh! vederti, vederti un'ora ancora, appoggiare la mia testa sul tuo seno che mi ha nutrito! Non esser solo al modo!" soggiunse con voce lacerante, e girando lo sguardo spaventato intorno a quella camera deserta. "Pertanto ho fatto bene a sottrarla al pericolo; ora è libera, la mia funesta esistenza non peserà più sulla sua; io le ho dato degli amici che saran figli per essa; povera Giovanna!. oh come piangerà quando saprà che non deve più rivedermi!." Josè guardò la clepsidra, la quale ormai non conteneva che una piccola quantità di polvere. "Oh il tempo," esclamò, "il tempo, "il tempo porta tutto seco.il dolore e la gioia, la bellezza e la gioventù, le grandezze e la gloria. Una sola cosa resiste ai suoi sforzi, e non finisce mai, questa è l'odio.l'odio che si porta nella tomba, e non si spegne neppure dopo aver divorato la vita.Via!" proseguì con un gran sospiro, come se avesse fatto un sublime sforzo per rompere gli ultimi lacci che ancor lo univano a questa vita; "tutto è finito quaggiù! Un altro mondo mi reclama, l'ultima ora è suonata.andiamo." - Così parlando, il fraticello acconciò la sua tonaca, che era in disordine, cuoprì le sue spalle con un mantello, indi avvicinandosi ad una cassa che racchiudeva alcuni vasi pieni di diversi liquori, ne scelse uno, che inghiottì da un tratto. Era un prezioso elisir composto da Giovanna. Appena Josè l'ebbe bevuto, che la sua pallida fronte si tinse di un leggiero color roseo; i suoi occhi, abbattuti e smorti, ripresero un'apparenza di vita, un lampo da ingannare gli sguardi più esercitati; la sua mano cessò di tremare, ei camminava con passo fermo e sicuro; era pronto alla lotta. L'ultimo grano di polvere cadde, colla rapidità del pensiero, sul cristallo dell'orologio; nello stesso tempo la campana della cattedrale suonò per tre colte; essa annunziava la fine della messa. - Ecco l'ora! - esclamò Josè. Corse verso la porta ed uscì. Era il momento convenuto per il suo appuntamento con Pietro Arbues. Josè camminava molto presto, e la sua mano destra, nascosta sotto la tonaca, stringeva con forza il manico del suo pugnale. La giornata era magnifica; uno splendido sole brillava in un cielo sereno, il calore cominciava a divenire molto forte, e nelle strade inondate di luce, il popolo vestito dei suoi abiti da festa, si affollava in quel momento. Era finita la gran messa, ed ognuno portavasi in casa propria o alla taverna per pranzare. Quei bruni volti andalusiani, arsi dal sole, razza ancora araba per sangue e per colore; quelle vivaci ragazze del popolo, dai fianchi flessibili; quei giovani eleganti e snelli; tutto quel popolo naturalmente sì gaio, sì espansivo, sì ciarliero, portava impressa sulla fronte la tristezza della servitù, la cupa noia della paura. Quegli occhini fiammeggianti rimanevano, il puù sovente, velato sotto le larghe palpebre, e tutte quelle labbra frementi per l'istinto e per il desiderio della poesia sembravano sforzarsi a rimanere taciturne. Quei poeti popolari, il cui semplice ritmo conservava ancora tanto colore orientale, lasciavano morire nel loro seno l'ispirazione e la gioia; il popolo non osava cantare, ei non poteva fare un passo nella via senza essere urtato da qualche monaco, ed ogni monaco era una spia. Josè passò in mezzo alla folla senza vedere alcuno, raddoppiando il passo per arrivare più presto, e tenendo lo sguardo fisso dinanzi a sé, quasi avesse seguito un'ombra. Alcune donne del popolo, vedendolo trascorrere con passo sì rapido, si fermarono con istupore. "Dove va così presto il favorito dell'inquisitore?" disse piano una di esse. "è pallido come la morte." "Taci," disse una vecchia, "questo non ci riguarda: negli affari dell'Inquisizione: silenzio!" quando Josè giunse dinnanzi alla cattedrale non v'era quasi più alcuno nella spianata, ma si udiva ancora lontano, nelle strade adiacenti, il rumore monotono che producono da lungi i passi d'una gran quantità di persone. Il fraticello entrò nella basilica. Un forte profumo d'incenso sentitasi ancora nella chiesa. Un luce mite filtrava attraverso i vetri colorati delle finestre, ed in mezzo a quella dubbia luce, una gran lampada d'argento, sospesa alla volta, gettava una fiamma viva e tremolante, che a momenti si slanciava verso la cupola in un getto brillante e colorata del riflesso de' vetri. Qua e là sulla nuda pietra, alcune donne inginocchiate pregavano battendosi il petto. In vederle così involte nelle loro mantiglia nere ed inginocchiate sulle tombe, di cui la chiesa era lastricata, sarebbesi dette anime penitenti, che cercavano di riacquistarsi il cielo. Altre volte, alla loro completa immobilità, sarebbesi prese per statue di coloro che racchiudeva la pietra su cui erano inginocchiate. Più in alto, nell'absida appiè dell'altar maggiore, regnava una solitudine assoluta; soltanto sotto l'unico raggio di luce che, caduto dall'alto, rischiarava quel luogo oscuro e misterioso, potevasi distinguere la forma indecisa d'un fraticello inginocchiato sui gradini. I ceri dell'altare ardevano ancora, e l'odore della cera mescolatasi al dolce profumo dell'incenso, il cui fumo s'innalzava in nubi biancastre. Un gran Cristo d'argento stendeva le sue braccia sulla croce con una rassegnazione divina. In un'immensa cornice, al di sopra della tavola dell'altare, vedevasi la vergine con Gesù bambino, che getta fiori e rosasi a due frati dell'ordina di S. Domenico. Da lungi sarebbesi detto che il monaco inginocchiato appié dell'altare facesse parte di quel quadro, e che aspettasse i doni della celeste protettrice del suo Ordina. La sua testa rasa s'inchinava sulle sue due mani riunite, e la più profonda umiltà era impressa in ogni sua attitudine. Di quando in quando si batteva il petto con ardente ed inimitabile fervore, come se la preghiera fosse stata la prediletta occupazione di quell'uomo, e la penitenza avesse formato la sua delizia. A giudicare dalle apparenze, egli doveva essere un gran santo od un gran peccatore, ma, fosse l'uno o l'altro, Iddio doveva per certo esaudire preghiere sì fervide. Quel monaco era Pietro Arbues. Il grande inquisitore di Siviglia aveva l'abitudine, dopo la messa, di fare solo all'altare lunghe preghiere. Josè si fermò un istante sotto uno de' pilastri della chiesa, onde considerare per alcuni istanti quegli che era venuto a cercare. Suo malgrado il fraticello fremè involontariamente in mezzo a quel silenzio, interrotto solamente da alcune preghiere, l'impercettibile bisbiglio della quali somigliava al mormorio di un'insetto sopra un fiore. Era sì tranquilla e sì solenne quell'ampia chiesa gotica, in cui ogni voce taceva: quella delle campane e quella dei preti!.Non vi restava più che un indeterminato senso di preghiera e di raccoglimento, un rimbombo lontano, un'eco impercettibile de' lamenti, dei voti e dei sospiri che quella vòlta sonora aveva udito.. -"E' propriamente lui! - esclamò il fraticello con accento satanico e derisorio; - ipocrita e furbo anco con Dio!. - E' lui.egli prega, sognando nuovi delitti.Sì, prega, monaco insensato!.fa pure l'ultima tua preghiera..Forse si pente, - proseguì fra sé medesimo; - lasciamogli l'ora sacra del pentimento.."- E Josè fermassi alcuni istanti, quasi aspettasse che Pietro Arbues avesse finito la sua preghiera!. L'inquisitore si segnò a più riprese, ed un leggiero moto ch'ei fece quasi per alzarsi indicò che la sua preghiera stava per terminare. "Oh! Ma io son pazzo!" esclamò Josè: "pazzo se credo che Pietro Arbues possa pentirsi." E riprendendo tutta la sua presenza di spirito in quel momento supremo, si avanzò lentamente verso l'altare come se avesse voluto farvi la sua preghiera. Al rumore che fece, aprendo il cancello dell'absida, l'inquisitore si rivolse. Alla vista di Josè un lampo di letizia brillò nel suo sguardo, ma il sembiante del favorito aveva una espressione talmente fatale e sinistra che Pietro Arbues fremé suo malgrado; e, in onta della santità del luogo, non poté trattenersi dal dire: "Josè, che hai?"Josè non rispose; ma il suo pallido labbro si atteggiò ad un sorriso satanico, e guardò Pietro Arbues come se avesse voluto divorarlo. L'inquisitore indietreggiò, credendo che il suo favorito perdesse la ragione, ma innanzi che avesse avuto il tempo di prevedere il colpo, Josè erasi gettato sopra di lui come tigre, e gli aveva immerso tutto il suo pugnale nella gola, nel punto in cui la corazza non poteva difenderlo. L'inquisitore stese il braccio in avanti, e cadde all'indietro, ma fu ritenuto dai gradini dell'altare, e vi rimase mezzo disteso. Il sangue usciva a torrenti dalla sua ferita. "Tu!.Tu, Josè!" mormorò, dibattendosi contro le angoscie dell'agonia. Ma Josè si chinò sul suo volto, che impallidiva, e prendeva rapidamente il colore turchino della morte; e fissando il suo sguardo fiammeggiante sugli occhi quasi estinti di Pietro Arbues, gli gridò con voce sorda: "Rammentati di Paola!" A quel nome Pietro Arbues riaprì un istante i suoi occhi quasi spenti, e guardò vagamente il pallido viso del fraticello. Una rimembranza terribile sembrò colpirlo, e mormorò con voce spenta: "Dio è giusto!" E spirò. Il pugnale di Josè gli aveva tagliata la giugulare[36]. All'aspetto di quello strano delitto, di quel sacrilegio commesso in una chiesa, le donne che erano presenti avevano mandato grida spaventevoli, e in un momento la chiesa si era riempita di gente. Alcune donne eransi slanciate fuori della chiesa gridando per tutta la città: - All'assassinio!.all'assassinio!. è stato assassinato monsignore l'inquisitore! - A quel grido tutta la milizia di Cristo, tutti gli sgherri, tutta la Santa Hermandad erano accorsi, in alcuni minuti erasi circondata la chiesa; e quando il capo delle guardie vi entrò per constatare il fatto che era accaduto, fu trovato il cadavere del grande inquisitore disteso appié dell'altare, e Josè, che colle mani incrociate sul petto lo considerava in silenzio con occhio feroce. Lo sguardo del Domenicano somigliava un poco a quello degli alienati di mente, ed i suoi denti stridevano con singolar rumore. Il rispetto che l'Inquisizione ispirava impediva che si potesse sospettare del fraticello. Tuttavia il capo delle guardie, indirizzandosi a lui, gli disse con tutte le formule del profondo rispetto: "Mio reverendo padre, sapete voi chi sia l'autore di questo delitto?" "Son io," rispose tranquillamente Josè. Ad una sì formale confessione non potevasi rispondere che con un arresto. Il capo delle guardie che aveva interrogato il favorito, lo fece immediatamente arrestare. Josè si lasciò legare senza resistenza; sembrava che quel momento, terribile per ogni altro, fosse pieno per lui di gioia ineffabile. Al primo rumore dell'assassinio una gran quantità di popolo erasi affollata intorno alla chiesa. Quando Josè uscì, tutti gli occhi si portarono su di lui con ardente curiosità; egli era sì giovane, sì bello e sì mesto, che la sua vista ispirava una pietà mista a tenerezza e simpatia, oltracciò l'odio per l'inquisitore era sì forte, che tutta la pietà pubblica si volgeva verso l'uccisore e non verso la vittima. "Che cosa gli aveva fatto l'inquisitore?" si domandava a voce bassa. "Eppure era il suo favorito," si rispondeva. "Ecco come i lupi si divorano fra loro," disse un vegliardo dai capelli bianchi, che fu riconosciuto per Rodrigo de Valero. "Tacete, don Rodrigo," disse il suo amico Ximenes de Herrera, che l'accompagnava sempre; "la vostra imprudenza finirà per perdervi." "Che m'importa?" disse severamente il vecchio, "i miei capelli bianchi valgono dunque la pena che io sia vile per conservarli? Ma," soggiunse esaminando il volto di Josè ch'egli riconosceva a misura che questi veniva dal suo lato, "mi sembra che il monaco, il quale ha ucciso monsignore Pietro Arbues, sia lo stesso che abbiamo veduto una sera al ballo della Garduna." "E' egli stesso," rispose don Ximens; "io lo riconosco perfettamente. Quel fraticello era per certo una singolare creatura." "O sventurato!" interruppe Valero; "ei non somigliava punto agli altri monaci di Spagna, potevasi dire di lui tutto quello che i pagani stessi dicevano di Cristo: Non è stato mai veduto ridere, ma di sovente e stato veduto piangere." "Egli era caritatevole ed affabile," dissero alcune donne, che lo guardavano con grande compassione; che peccato! Lo condurranno alla morte!." "Ha fatto come Giuditta," replicò Valero; "è un martire e non un omicida." Mentre Valero parlava così, un uomo vestito di nero gli camminava a fianco con gli occhi bassi, ed asciugandoli di quando in quando come se avesse provato un gran dolore per il caso avvenuto. Sul petto di quell'uomo, sotto un giustacuore, alquanto aperto, si distingueva porzione di una placca d'argento cesellata. Quell'uomo non aveva perduto né pure un delle parole di Valero. Quanto a Josè, sembrava completamente insensibile a tutto quello che avveniva attorno a lui. Alla sua esaltazione ed all'animazione febbrile del suo volto era succeduto un livido pallore. Una vota soddisfatto il suo animo era rimasto abbattuto; era in preda a quella profonda letargia che succede alla sovreccitazione delle facoltà. Si procedeva lentamente verso la prigione della Corona[37]; era il luogo dove, in qualità di prete, Josè doveva essere rinchiuso. La moltitudine si affollava intorno agli sgherri ed ai famigliari per vedere lo strano spettacolo di un Domenicano che aveva ucciso un inquisitore. Dietro la truppa armata che scortava il prigioniero, veniva un numeroso seguito di famigliari e di monaci, i quali portavano, sopra una barella, il corpo di Pietro Arbues, diligentemente coperto di un gran manto nero ornato di frange d'argento. Tutti quei partigiani ipocriti dell'Inquisizione simulavano un vivo dolore, e spargevano false lagrime per la morte di quell'iniquo che avevano detestato vivente. Alcuni giungevano fino a raccogliere religiosamente col loro fazzoletto il sangue che colava tuttavia e cadeva in larghe goccie dalla ferita dell'inquisitore. I monaci Domenicani esaltavano la sua santità, e lo invocavano quasi come un santo agli occhi della moltitudine sbalordita, la quale rimaneva fredda e taciturna davanti a quelle manifestazioni, a quegli elogi sì poco in armonia colle azioni di colui che era morto. Era una parata empia e sacrilega quel corteo mortuario, che gettava cos' con impudicizia sopra una testa maledetta la corona dei santi e dei martiri, cercando di estinguere quella voce imperiosa e santa della coscienza pubblica, la quale getta spietatamente la lode o l'anatema sopra una tomba aperta, e sempre con una equità senza pari. Sventuratamente in simili casi non è l'opinione pubblica che domina, e la Chiesa romana è là colle sue eterne finzioni, i suoi astuti panegirici, e le sue prove impalpabili, i suoi misteri senza fine, e le sue ciarlatanerie ipocrite per soffocare la voce dei popoli o per sedurre e sorprendere l'opinione dei savi. A forza di fantasmagoria abilmente calcolata, essa allucina spesso le più rette coscienze, e coloro solamente non ne rimangono ingannati che alla rettitudine del cuore uniscono la forza del ragionamento e della volontà. Nel momento in cui Pietro Arbues era caduto sotto i colpi di Josè, il popolo aveva incominciato dal godere interiormente della caduta di un despota che si nutriva del sangue e delle lacrime dell'Andalusia: nel momento in cui giungevano alla prigione, una moltitudine di persone sedotte, trascinate, affascinate dai maneggi ipocriti dei monaci cominciava a domandare a sé medesima se non è colpevole d'aver goduto di quella morte, e se realmente agli occhi di Dio il grande inquisitore di Siviglia non era un santo prete, vittima del suo zelo per la religione cattolica. Erasi incominciato dal compiangere ed amare Josè, malgrado il suo delitto: ora i più indulgenti lo consideravano come un pazzo. Oh! Incostanza degli umani giudicii!.quando cesserete voi d'essere arbitri del destino degli uomini?, o piuttosto, quando si renderà agli uomini per una saggia educazione quella intiera rettitudine di sentire, che è la base della felicità delle nazioni, invece di falsare i più nobili istinti dell'animo coll'iniziarlo a misteri incomprensibili, a paradossi senza fine, ad incredibili invenzioni, a dottrine false od incomplete? Quando s'incamminerà senza restrizione nella via larga e facile della verità? Chiesa di Roma!, colui che ricusa di unirsi a te non è ai tuoi occhi che un figlio delle tenebre!, ma sei tu che produci tenebre, tu, che non ti compiaci che della notte e dell'oscurità dell'ignoranza, tu, che a ciascuno dei tuoi adepti vuoi mettere una benda sotto pena di riprovazione. E ti chiami la sposa di Cristo, che morì per la luce e la verità!. Tale è la Chiesa romana, e tale era al secolo decimosesto; solamente allora era spesso la più forte, ed i suoi nemici soccombevano. Alcuni pessimisti pretendono che noi retrocediamo a gran passi verso quei tempi d'ignoranza e di schiavitù. Affrettiamoci di protestare altamente contro simili previsioni, le quali disonorano il paese che può ammetterle. Lo spirito ha progredito; egli non retrocede mai, ma va sempre innanzi, e ad ogni secolo deve lasciar traccie del suo passaggio per nuovi progressi. Lasciamo agire e gridare i nemici dei lumi; a misura che allargano le loro ali sul mondo, la verità ne rompe ad una d una le maglie, ed il cammino dei saggi non sarà ritardato. Non è più tempo che d'un mostro tacevasi un santo. La stessa sera in cui Josè era stato trascinato alla prigione della Corona, don Rodrigo de Valero, denunziato da un famigliare, fu gettato nelle prigioni del Sant'Uffizio con don Ximenes de Herrera. L'Inquisizione, che aveva per tanto tempo tollerato le calde parole di Valero, si era finalmente avveduta che aveva troppo buon senso per essere pazzo. XLVII. Il giudizio degli uomini. Quantunque non fosse costumanza in Sapgna di giudicare un uomo quasi immediatamente dopo il suo arresto, a cagione del tempo che è soventi volte necessario alla giustizia per istituire il processo di un accusato, e raccogliere le prove pro e contro di lui, il delitto di José differiva talmente dai delitti ordinari che si commettevano in Spagna, i testimoni avevano tanto poco da dire in un affare in cui il colpevole si era denunziato da sé medesimo, ed inoltre lo sdegno era tanto grande, ed il Sant'Uffizio reclamava una sì pronta e strepitosa vendetta, che il tribunale del Bureo, tribunale secolare incaricato di giudicare l'assassino di Pietro Arbues, trovò convenevole di far comparire Josè a capo di otto giorni. Il momento era alfine arrivato. Il fraticello l'aveva veduto con una soddisfazione piena di amare delizie. Sapeva che dopo il giudizio lo attendeva la morte, ma questo termine, fatale per tutti, sembrava invece esser per lui uno scopo caro e desiderato, un beneficio per lunga pezza atteso. Nella mattinata del giorno in cui doveva essere giudicato, il giovane Domenicano erasi alzato di buonissima ora, ed aveva posto un'estrema premura, una minuziosa ricerca di eleganza nel vestire i semplici abiti dell'Ordine cui apparteneva. La sua testa, nobile e di una gentilezza rimarchevole, era rasa quasi per lo intiero, ma la coroncina di capelli che partendo dalla fronte, girava al di sopra degli orecchi fino alla nuca, era di una finezza ammirabile, e di un nero lucente come l'acciaio. Per la prima volta dopo molti anni, Josè bagnò di profumi il suo volto dalla pelle trasparente e delicata; le sue mani, già sì belle, presero in un'acqua profumata d'essenze un candore ed una delicatezza degne della donna più ricercata. La carnagione liscia di Josè prese un pallore, reso più spiccante dal contrasto del suo abito nero, i suoi occhi, circondati da un largo cerchio bruno, si rianimarono di un rapido lampo, e le sue labbra si contrassero lievemente alle loro commessure come fosse stato internamente agitato da un pensiero di gioia. Quando le guardie vennero a prendere il prigioniero per condurlo al tribunale, rimasero sorprese dello splendore della sua fisionomia, e la superstizione di quei tempi era sì grande, che alcuni furono tentati a prenderlo per uno stregone. Ma al loro aspetto Josè, per così dire, rientrò nel mistero dell'anima sua; velò la sua fronte che raggiava d'una espressione imperiosa e severa: e quando le guardie, ognor dominate dal rispetto inalterabile che inspirava un abito monastico, gl'ingiunsero di seguirle, Josè non rispose, ma si mise a camminare tranquillo in mezzo ad esse, quasi fosse condotto a festa. Gli astanti guardarono con curiosità passar quell'uffiziale dell'inquisizione, il quale per un sì gran delitto erasi posto fuor della legge, che voleva gli uffiziali, l'Inquisizione ed anco i famigliari non fossero giudicati che dagl'inquisitori; quel frate che stava per essere giudicato dalla giustizia ordinaria come un semplice mortale. Ma egli senza affettare lo sdegno superbo degli uomini invecchiati nel delitto, né il contegno ipocrita di coloro che vogliono disporre in loro favore l'opinione pubblica, passava indifferente e tranquillo cogli occhi fissi e quasi alzati al cielo: la sua anima sembrava già essersi separata dal corpo, tanto ei pareva poco commosso e poco preoccupato delle cose di quaggiù. Al vederlo così non curante di sé stesso, il popolo lo prese per un mago, e mescolando superstizioni moresche a superstizioni cristiane, credette vedere in lui uno di quei santoni mori, tanto tormentati dall'Inquisizione sotto il regno precedente, che avesse assunto la figura di un frate per colpire l'inquisitore. Ma Josè non prendevasi alcun pensiero di ciò che potevasi dire di lui. La vita e tutto quello di cui essa si compone non era per lui che un abito consunto che si porta con disgusto e che si lascia con gioia. Ei camminava con indifferenza, poco curandosi dei suoi giudici, quasi non si fosse trattato di lui, ma tuttavia preoccupato da un ultimo pensiero: perché mentre camminava sembrava richiamare le sue rimembranze, ed a misura che una nuova idea si affacciava alla sua mente, la sua larga fronte si illuminava di una splendida luce, ed il genio dell'odio soddisfatto o, meglio, della giustizia compiuta, stampava su quel pallido volto un sigillo misterioso e terribile. Arrivato in faccia ai suoi giudici, Josè sembrò svegliarsi da un sonno profondo, e, per la prima volta, dopo che era uscito dalla prigione, considerò quello che accadeva intorno a sé. Il tribunale era composto di tre giudici, uno di essi, il presidente, era assiso fra i due suoi assessori. Un cancelliere assiso davanti a un tavolo alla diritta del giudice, doveva scrivere le risposte dell'accusato, e le deposizioni dei testimoni. Poco più lungi stavano gli avvocati, e al fianco dei difensori dall'accusato, il procuratore, che doveva prendere delle note in suo favore. Josè era seduto nel mezzo, in faccia al presidente; ma attorno di lui non si vedeva alcun testimone, la sala era intieramente deserta. Erasi giudicato che in simile materia il processo dovesse farsi a porte chiuse per rispetto alla dignità ecclesiastica di cui l'accusato era rivestito, o piuttosto per timore di qualche rivelazone pubblica di Josè, quanto ai testimoni, erasi giudicato inutile di farli comparire, atteso che l'inquisito aveva tutto confessato. Egli era dunque solo nel mezzo de' suoi giudici. Il presidente fissò sopra di lui uno sguardo severo: "Alzatevi." Il Domenicano si alzò. "Come vi chiamate?" proseguì il presidente. "Mi chiamo Josè," rispose con semplicità il fraticello. "La mia professione voi la sapete: monaco dell'ordine di San Domenico." "Josè non è nome di famiglia," aggiunse il giudice, "il vostro nome di famiglia, don Josè?" "Io non ho più famiglia," rispose il Domenicano; "e quanto al suo nome io non lo dirò." "Dove siete nato?2 continuò il presidente. "A Granata," rispose Josè. A queste parole gli occhi fieri del fraticello si bagnarono di lacrime, come se nella sua anima fosse surta improvvisa una tenera rimembranza. Il presidente non vi fece attenzione. "Avvicinatevi," disse a Josè. Il fraticello si avanzò fino appié della tavola, ove, in faccia al presidente, era aperto il libro del Vangelo. Il giudice ordinò all'accusato di porvi la mano. Josè ubbidì. Il presidente lo guardò fisso negli occhi. "Giurate voi per Dio ed il santo Vangelo," gli domandò finalmente, con accento solenne, "di dire la verità intiera su tutto ciò che vi sarà domandato?" "Lo giuro," rispose Josè. "Giurate di dirla anco contro voi medesimo?[38]" "Lo giuro," disse il fraticello, con accento fermo e sicuro. "Va bene," disse il giudice; e proseguì: "siete voi che avete ucciso monsignor Pietro Arbues, grande inquisitore di Siviglia?" "Sono io," rispose Josè. "Qual motivo ha potuto spingervi a commettere un tanto delitto?" "ora vi dirò tutto," disse il fraticello, con accento amaro e sarcastico. "L'avvocato può fare la sua difesa," proseguì il presidente. Josè atteggiò le labbra ad un sorriso incredulo, e tornò ad assidersi sulla panca. Ei non si curava di quel vano simulacro di difesa, di quelle parole che andavano ad evaporarsi senza scopo, soltanto per ubbidire alla legge. Lasciò dunque l'avvocato stancarsi in vani argomenti, spiegare tutta la pompa della sua eloquenza per intenerire il cuore dei suoi giudici, non potendo distruggere la loro convinzione; ammassare parole sopra parole, e frasi sopra frasi; prodigare e i suoi gesti ed il suo fiato per cambiare una cosa irrevocabile, la certezza. Quand'ebbe finito, Josè si volse verso di lui con un mezzo sorriso pieno d'amarezza e di distacco da ogni cosa mondana, come per dirgli: "Voi volete resuscitare un cadavere?" In fatti gli sforzi della più abile eloquenza non avrebbero potuto salvare un uomo che non voleva salvar sé stesso. "Reo![39]" disse allora il presidente, "avete qualche cosa da aggiungere in vostra difesa?" "In mia difesa?.no," rispose il Domenicano; "perocché io dichiaro qui, davanti a Dio, che la morte m'è più cara della vita: ma siccome più della vita si deve conservare l'onore, io voglio salvare il mio, ed è per questo solamente che parlerò." "Parlatene dunque," rispose il giudice, "il tribunale vi ascolta." "Sette anni fa," rispose Josè, "Pietro Arbues fu elevato alla dignità di grande inquisitore di Siviglia; era giovine, bello, insinuante; malgrado l'orrore che l'Inquisizione ha sempre inspirato alla Spagna si sperò un momento che Pietro Arbues fosse meno crudele dei predecessori; questa speranza fu di breve durata. - Le persecuzioni continuarono più ardenti di prima, come negli ultimi anni del regno di Torrequemada; uomini che portavano i più bei nomi della Spagna non arrossirono di esercitare il mestiere di delatori per mettere in sicurezza i loro averi e la loro vita. - I cittadini più puri vidersi giornalmente in balia di un falso testimonio; gli odii, le inimicizie di famiglia si scioglievano in drammi sanguinosi nei tribunali dell'Inquisizione col favore delle tenebre e del fanatismo; la rapina, il furto e l'omicidio piombarono sopra di noi come uccelli rapaci; un lutto immenso si distese sopra l'Andalusia." "Accusato!" disse il preside, "voi oltrepassate i limiti." "Io mi difendo," replicò fieramente il fraticello; "ascoltate. - In quel tempo viveva in Siviglia una famiglia cattolica della migliore nobiltà di Spagna, la cui madre, uscita dalla tribù degli Abencerragi, e morta da molti anni, aveva lasciato beni immensi. Questa famiglia si componeva di due fratelli.. - Di tre fratelli," riprese Josè reprimendo un sospiro; "tre fratelli nobili e vezzosi, due dei quali abbracciato avevano gli ordini sacri; il terzo.era bravo come il Cid, ed anco più bello. - Si chiamava Fernando," continuò Josè che sembrava pronunziar quel nome con un piacere ineffabile; "poi v'era anco il padre, un patriarca, un vegliardo pieno di fede e di virtù; una giovine sorella, fanciulla docile e candida, la cui vita era pura come quella degli angeli; e v'era finalmente un'orfana, loro parente lontana, una giovane ardente e fiera che amava Frenando, ed erane amata. - In un castello che possedeva a qualche distanza da Andujar, questa famiglia aveva fatto erigere una cappella cattolica, servita dai frati Girolamiti. La madre, che adorava suo marito e i suoi figli, aveva fatto costruire questa cappella perché loro servisse di sepoltura comune; poiché non voleva neppure dopo la sua morte essere separata da coloro che aveva amati. Giovane ancora era andata per la prima ad attenderli a quel funebre appuntamento. - Ho già detto che essa aveva lasciato, morendo, beni considerevoli, l'Inquisizione giudicò convenevole di appropriarseli. Fu accusata di esser morta nell'eresia, e con sentimenti contrarii alla vera fede cattolica, quantunque morendo avesse dati segni non equivoci del suo attaccamento a quella religione, che era stata sempre la sua. - Ma bisognava accusarla di qualche cosa. - Si produssero falsi testimoni, i quali dichiararono essere essa morta e vissuta nell'eresia; e, malgrado le proteste dei suoi figli sacerdoti, rivestiti di un sacro carattere, si dissotterrò il cadavere di quella donna,si distrusse la sua casa con proibizione di mai ricostruirla, e si confiscarono tutti i beni da lei lasciati[40]." "Reo," interruppe il presidente, "siete ben sicuro di quello che dite?" "Era il diritto dell'Inquisizione," replicò Josè con tuono sarcastico, e continuò senzasconcertsarsi. "Il padre morì di dolore durante questo processo abbominevole. - I figli, che piangevano la loro madre, che osarono indignarsi per la profanazione delle sue ceneri, i figli furono gettati in prigione. - Una sola persona fu risparmiata. - Era l'orfana la fidanzata di Fernando. - Essa rimase sola con la donna che l'aveva allevata, sola piangere su i suoi, che non doveva più rivedere." "Che avvenne di essi?" domandò il giudice preso di terrore e di pietà. "Che avvenne, monsignore? Voi mi domandate quello che avvenne fra le mani di Pietro Arbues? Furono dati alle fiamme senza misericordia. I due maggiori, Agostino e Francesco, accusati di dommatizzare in una maniera contraria allo spirito della religione cattolica, e la loro sorella Beatrice, convinta di seguire la dottrina dei suoi fratelli, furono messi a morte nel medesimo atto-di-fede[41]. Agostino, spaventato dalle torture, non per sé, ma per la sua sorella, giunto in faccia al supplizio, gridò che domandava la grazia, e che voleva vivere da buon cattolico." "- Egli mente, - disse Pietro Arbues; - è la paura delle morte che inspira il suo pentimento. - Mi pento! Mi pento," gridava ancora la povera vittima. - "Si strangolato adunque innanzi di darlo alle fiamme," - disse l'inquisitore. - Questa fu la sola grazia che potesse ottenere. - "Tu sei un vile!" - gli gridò il suo fratello.e salì sul rogo, facendo un segno d'addio a Beatrice che morì con santa rassegnazione." Josè si tacque. I giudici, malgrado la loro abitudine a que'drammi terribili, si sentirono presi da un terrore involontario. "Continuate," disse il presidente, "continuate! Che avvenne del terzo fratello?" Josè fremé sul suo seggio; i suoi denti stridevano come se avesse avuto freddo; lo si ascoltava con una attenzione ed un interesse ognor più vivo. "Il terzo," riprese ad un tratto con voce lenta ed interrotta, "il terzo vive ancora. Egli era sì giovane! Non si era ardito di farlo morire con gli altri: Pietro Arbues lo serbava per un atto-di-fede reale. - Paola, l'orfana che l'amava, concepì il progetto di salvarlo. - Essa aveva venti anni. Qual donna a venti anni dispera della clemenza di un uomo, quand'anco questo uomo si chiami Pietro Arbues e sia grande inquisitore? - erano scorsi sei mesi dacché la sua sventurata famiglia era stata data alle fiamme; parlavasi di un nuovo atto-di-fede[42], che doveva aver luogo per la festa del re, che il tribunale annunziò al pubblico un mese più aventi." "Accusato! Venite al fatto," interruppe di nuovo il presidente. "Ci sono," rispose tranquillamente Josè, "udite, signori! - I processi s'istituivano: strani processi veramente; cospirazioni tenebrose di cui il giudice teneva in sua mano tutte le fila, che faceva muovere a suo talento. Sinistri problemi, che tutti terminavano ad una stessa soluzione.la morte. Paola, divorata di inquietudine per colui che amava, prese un giorno una grande risoluzione fatale. Si armò di una sublime esaltazione, ponderò tutti gli avvenimenti del passo che stava per fare, e benché sperasse d'intenerire l'inquisitore e di salvare il suo fidanzato, pensò che il peggior risultato che potrebbe ottenere da questo passo, era di morire con lui. Ora la morte non la spaventava. Era un giornata fosca come si veggon di rado in Andalusia; ma per una bizzarra simpatia, o per un di quei casi che somigliano alla fatalità, il sole erasi coperto di nuvole, ed una larga macchia nera aveva coperto la metà del suo disco, poiché era accaduta una eclisse quasi totale. Era verso mezzogiorno, e pareva quasi notte per le strade. Paola, silenziosa e risoluta, fuggì alla sorveglianza della sua nutrice, il solo amico che le rimanesse al mondo. Inviluppata nel suo velo s'incamminò verso il palazzo dell'inquisitore. Una truppa di famigliari ne custodiva gl'ingressi. Quando Paola si avanzò verso la porta, le fu impedito il passaggio, ed un famigliare, avvicinandosi a lei, le domandò quel che voleva." " - Voglio vedere monsignor Arbues, - rispose tremando, perciocché non s'entra senza tremare nel palazzo di un inquisitore. - Chi siete? - proseguì il famigliare. - Una fanciulla nobile, - rispose Paola con fierezza. - "Aspettate," egli disse. - "disparve per alcuni istanti; Paola aspettò. Bentosto il famigliare ricomparve, un falso sorriso stava sulle sue labbra colorite." " - Seguitemi, signora, - egli disse, - monsignore acconsente a ricevervi. - "Il famigliare andò innanzi, la giovane lo seguì. Attraversò molte sale magnifiche, lunghe gallerie lastricate di marmo, colla soffitta ornata di arabeschi; vi era un lusso orientale in quel palazzo della morte. - Poi finalmente, nell'estremità più lontana dell'edifizio, una porta si aprì e Paola ne varcò la soglia. La porta si chiuse dietro di essa; il famigliare era scomparso. - Paola si trovò al cospetto del grande inquisitore." Un interesse ognor crescente destava il racconto di Josè. "Pietro Arbues," continuò il fraticello, "era assiso sopra un divano largo e morbido che circondava la sala. - Il grande inquisitore di Siviglia era allora in tutto lo splendore della sua giovinezza, ed il suo volto era considerevolmente bello, malgrado l'espressione di superba crudeltà che vi si distingueva. - Il suo profilo aveva molta nobiltà, e la sua statura era alta e superba. - Paola fremé trovandosi sola con quell'uomo. " - Avvicinati, fanciulla," disse l'inquisitore colpito dal bel personale di Paola, di cui non distingueva bene i lineamenti. Paola gettò indietro il suo velo e si avanzo senza tema verso il grande inquisitore. - Pietro Arbues la considerò con molta ammirazione. - Arrivata davanti a lui, cadde alle sue ginocchia, e giungendo le sue mani supplichevoli: - Grazia, monsignore! - esclamò ; - grazia per il mio fidanzato, che è innocente; oh, rendetemelo, ve ne scongiuro. - "Il viso dell'inquisitore prese un'espressione manifestissima di scontento." " - Il nome del tuo fidanzato? - domandò egli in tuono risoluto," - "Fernando de Cazzalla, - rispose Paola con voce soffocata. - Lo sguardo feroce di Pietro Arbues l'atterriva. - Al nome di Cazzalla la fisionomia di Pietro Arbues ersi subitamente offuscata; considerava attentamente quella fanciulla, la quale con tanto ardire veniva fino ai piedi dell'inquisitore a domandar la vita di un uomo accusato di eresia. - Paola era bella; oh molto bella, signori! - L'inquisitore la contemplò per alcuni istanti. - Dopo che ebbe lentamente esaminato il volto incantevole delle fanciulla, il suo personale snello e forte, che avrebbe potuto servire di modello a Diana cacciatrice, Pietro Arbues si raddolcì per gradi. Stese la mano verso Paola, ognora inginocchiata davanti a lui. - "Alzati, - le disse, - e parla senza timore; le leggi dell'inquisizione sono terribili, ma io mi sento preso di compassione per te." - "Oh! Siate benedetto monsignore! - esclamò Paola che concepiva un poco di speranza, - voi salverete don Fernando, non è vero? - "Ho detto forse questo, fanciulla?" - disse Pietro Arbues con un sorriso di tigre. - "O monsignore non ritirate la vostra parola; voi avete avuto pietà di me, dunque salverete il mio sposo, non è vero?" - "E se io salvo il tuo sposo; che farai tu per me, fanciulla?" - "O monsignore, la mia vita vi appartiene; ma che posso fare per voi io, umile donna! Che posso io per voi che siete onnipotente?" - "Tu sei bella, Paola!" - gridò Pietro Arbues con uno sguardo che la fece tremare. - Però non lasciò scorgere che aveva paura. - L'inquisitore le fe' cenno d'approssimarsi e di sedere al suo fianco. - Ella si assise tremante sul margine d'un divano di seta. - Pietro Arbues aveva ripreso il suo severo contegno. - "Don Fernando de Cazzalla! - mormorò con fosco sembiante. - Sai tu, fanciulla, che questa famiglia convinta di luteranismo, è oramai tutta disonorata nei suoi membri viventi ed in quelli che non sono più?" - Questa famiglia è la mia, monsignore: io sono sposa a don Fernando pervolontà di suo padre e per la sua. Se egli è condannato io non domando che una grazia, quella di non sopravvivergli." - "Ecco un amore ardente, - esclamò l'inquisitore; - che non darei per ispirarne uno simile!. - Paola abbassò gli occhi davanti a quel prete che le parlava così." "Voi calunniate la memoria di un uomo vestito di un carattere sacro," disse il presidente. "Io non calunnio, monsignore, io narro," rispose Josè; "si degni Vostra Signoria d'ascoltarmi fino alla fine." "E' vostro diritto," disse il giudice, pieno di rispetto per gli usi del paese passati all'autorità di leggi, i quali volevano che si lasciasse a un accusato ogni libertà di difendersi. Josè riprese. "- Sai, - proseguì Pietro Arbues, - che don Fernando è destinato al prossimo atto-di-fede, e che al più presto sarà sottomesso alla tortura?" - Un grido profondo, doloroso, terribile uscì dal petto della sventurata Paola; la tortura! Era più spaventevole del patibolo. - "Che hai, fanciulla? - domandò l'inquisitore. - "La tortura, monsignore! Non avete detto che Fernando deve essere sottoposto alla tortura?" - "Io posso risparmiargliela," - replicò Pietro Arbues. - Paola respirò più liberamente. - "Monsignore, - esclamò, - perché non posso io morire per lui?" - "Non morire, ma vivere, rispose Pietro Arbues, prendendo fra le sue mani le mani delicate di Paola. - "Sai tu, - proseguì, - che in conseguenza della deposizione dei testimonii, don Fernando, convinto d'aver assistito alle prediche dei luterani e d'aver abbracciato la loro dottrina, è già condannato al rogo?" - "Ma voi potete assolverlo, monsignore, - esclamò Paola, che cadde nuovamente nelle angosce dell'incertezza; - voi potete salvarlo, e lo salverete! Fernando è innocente ed il suo animo è puro come quello d'un angiolo." - "Tu sola puoi salvarlo,"- rispose Pietro Arbues. - "Io, monsignore; ma che cosa e' bisogna fare? O mio Dio! Dite, io sono pronta a tutto; volete ch'io muoia in sua vece?" - "Folle! Che ho bisogno di tua vita! Tu sei troppo bella per morire, - ei proseguì con esaltazione; e la sua mano brutale strappò senza pudore il velo che cuopriva il seno di Paola!." I giudici trasalirono sul loro seggio. "- Oh! Grazia, monsignore! - esclamò la fanciulla, facendosi riparo colle sue braccia incrociate sul petto; - grazia per Fernando e grazia anco per me, monsignore! In nome di quel Dio di cui siete rappresentante sulla terra, siate clemente e perdonate; abbiate pietà d'una povera donna, che non ha più nulla al mondo fuor che quello ch'ella ama. Io non ho più madre, monsignore, io sono orfana, e non ho altro appoggio che Fernando.rendetemelo, ve ne scongiuro..oh! rendetemelo, monsignore, e vi benedirò, vi benediremo insieme tutta la vita." Paola versava abbondanti lacrime, la sua fisionomia, nobile e fiera, era così desolata e piangente, d'una bellezza sovrumana. Lungi dall'esserne intenerito, Pietro Arbues senti invece sollevarsi le sue brutali passioni, e rumoreggiare sordamente nel suo seno come mare tempestoso. - Ei si slanciò verso Paola come leone selvaggio, ed alzandola nelle sue braccia robuste, la depose sul divano mezzo svenuta. - La sventurata fanciulla lasciassi cadere alle sue ginocchia davanti a quell'uomo spietato. - "Monsignore, - ella disse con voce soffocata, stringendo contro il suo petto le ginocchia dell'inquisitore, che bagnava delle sue lacrime, - monsignore, fate grazia e rendetemi il mio fidanzato." - "Sii mia, - disse con voce cupa, - ed io salverò don Fernando." - Paola divenne pallida e fredda come un marmo, ed i suoi occhi si cuoprirono di un'ombra mortale. Si alzò lentamente, fece alcuni passi indietro per uscire, poscia distese verso l'inquisitore la sua fredda e pallida mano. - "Sii maledetto! - esclamò: - tu puoi uccidere don Fernando, io morrò con lui." - "Fernando sarà morto aventi l'atto-di-fede, - disse Pietro Arbues; - egli è giovane e debole; non resisterà alla tortura dell'acqua." - Paola mandò un grido acuto e terribile. Avrebbe voluto lacerare quell'uomo atroce, ma il pensiero di Fernando spegneva la sua collera e non lasciava posto che al timore; quella lotta terribile l'aveva annientata. - Allora Pietro Arbues si avvicinò ad essa, e circondandola colle sue braccia, la ricondusse sul suo seggio. Essa lasciassi guidare senza resistenza. - "Nulla può salvare Fernando fuorché la mia volontà, - le disse Pietro Arbues, - e, per Cristo!, io non lo salverò che ad una condizione." - Paola lo guardava con occhio incerto e smarrito, il volto di Pietro Arbues era spietato come la fatalità. - "Vuoi la sua vita o la sua morte?- proseguì con impeto; - parla o vattene; e l'Inquisizione farà il rimanente!" - Paola non intendeva più, la sua ragione l'aveva abbandonata.Distese le sue braccia come uno che manda il suo ultimo sospiro. I suoi occhi si chiusero, il suo cuore cessò di battere.- "Fernando sia salvo! - mormorò essa con morente voce." ............................ Josè si tacque. La sua voce erasi gradatamente indebolita, ed un sudore ghiacciato cuopriva la sua fronte di marmo. I giudici, malgrado la loro naturale impassibilità erano pieni di sorpresa e di terrore, non pensavano più ad interrompere il racconto dell'accusato, ed attendevano con ansietà il termine di quell'orribile dramma. Josè si rianimò a poco a poco, e continuò il suo racconto con voce alterata. "Un mese più tardi, una giovine pallida, magra, curva sotto il peso di un dolore incurabile stava mestamente seduta alla porta della prigione del Santo Uffizio; era Paola. - Celebratasi in quel giorno un atto-di-fede reale. - Il programma, pubblicato un mese innanzi, aveva annunziato tredici vittime. - Pietro Arbues aveva promesso alla fanciulla che non ve ne sarebbero che dodici, e che la tredicesima, che si sarebbe fatta creder morta, l'avrebbe restituita la sera stessa dopo l'atto-di-fede. - Paola attendeva. - Una folla immensa dirigevasi verso la piazza, un sordo mormorio di parole correva per le strade, gli sguardi del popolo esprimevano lo stupore e lo spavento. Quelle pallide figure parevano, sotto i loro abiti neri, assistere ai funerali della Spagna. - Alcuni fermatisi nei dintorni della prigione, mandavano nelle nere profondità di quel labirinto spaventevole un timido sguardo, cercando se fra le vittime che stavano per comparire, riconoscessero la persona amata. Alcune donne, col viso nascosto sotto il velo, piangevano comprimendo i singhiozzi per timore d'essere intese: erano più felici degli uomini, che almeno potevano piangere, mentre questi non potevano manifestare altrui quel cordoglio profondo dell'anima che fa impallidire il viso; e la loro fronte, sì trista, doveva mostrarsi tranquilla ed impassibile come una pagina bianca in cui nessuno può leggere, perciocché la città era piena di famigliari, l'Inquisizione incriminava egualmente gli atti, le intenzioni ed i pensieri. - Finalmente la porta della prigione si aprì come una delle bocche dell'inferno; la processione dell'atto-di-fede uscì dal palazzo dell'Inquisizione, ed i condannati iniziarono il loro triste viaggio verso la morte. - Paola allora si alzò dalla pietra sulla quale era assisa, e avvicinandosi al carceriere che aveva aperta la porta, lo supplicò di lasciar vedere più da vicino il funebre corteggio. - Ma il carceriere la respinse brutalmente. - Paola ritornò dunque al suo posto, e tese il collo in avanti per guardare. - La prima vittima che comparve era un arcivescovo, un santo prete, riverito in tutta la Spagna; ei camminava lentamente, colla lugubre coroza in capo, e col sanbenito indosso; il suo andamento era sicuro; i suoi occhi pieni di rassegnazione e di fede, esprimevano un dolore profondo. Gettò attorno a sé un lungo sguardo, quindi lo alzò verso il cielo; la sua testa ricadde sul suo petto, e le sue labbra eloquenti, che tante volte avevano fatto udire la parola di Dio, non espressero che un'ironia amara e dolorosa. - Dopo di esso venivano due monache, due fanciulle condannate alle fiamme per avere abbracciato le dottrine di Lutero. Quelle due donne avevano un coraggio eroico; andavano alla morte come ad una festa. - Paola gettò loro uno sguardo di trista simpatia; esse le risposero con un sorriso angelico, mostrandole il cielo quasi avessero voluto farle intendere che tutte le vittime della terra si appellavano al tribunale di Dio. - Il quarto condannato era un giovane marrano, convinto di professare in segreto la religione de' suoi antenati. Un esemplare del Corano, eredità dei suoi padri, trovato in sua casa, era bastato per condannarlo alle fiamme[43]. - Questi camminava fiero e superbo. Il suo occhio nero e profondo, percorrendo quella bella città di Siviglia in cui gli Arabi avevano regnato, pareva fare un rapido confronto fra l'epoca dei Mori e quella dell'Inquisizione. La Spagna non gli sarà allora comparsa che come una bella fanciulla educata a vivere nelle feste, avvezza alle notti armoniose e piene di gioia, alle carezze della arti, della poesia e dell'amore, la quale abbia ad un tratto cangiato il suo abito da festa in cilicio, le sue notti d'amore in notti di lamenti e lacrime, e nel suo nobile viso mesto e pallido, livido già come quello dei moribondi, abbia disteso il funebre velo che separa dalla vita! - Oh! Come doveva battere il cuore di quel figlio degli Abencerragi! Come il suo sangue africano doveva agitarsi nelle sue vene ardenti, egli, i cui padri avevano regnato! Egli aveva subito non solo la schiavitù del corlpo, ma eziandio quella dell'intelligenza. - La sua ora d'agonia fu certamente spaventevole. - Egli passò." "E' troppo!, è troppo!" esclamarono i giudici consiglieri. "Lasciate," disse piano il presidente, "lasciate, è l'ultimo favore che si accorda all'accusato." "Due altre vittime passarono in silenzio," continuò a dire allora il fraticello Domenicano. - "Paola, ansiosa, smarrita, le contava con angoscia inesprimibile. - Camminavano lentamente, come ombre che uscissero dal sepolcro; perché la tortura aveva rotto le loro membra, ed appena rimaneva loro tanta forza di camminare e morire. - Paola le numerò una ad una, guardandole avidamente in viso non sapendo se doveva sperare o temere, malgrado la promessa di Pietro Arbues. - Il corteggio continuò ad avanzarsi, Paola contò la dodicesima vittima. - Allora un lungo sospiro uscì dal suo petto; essa aspirò l'aria con avidità; un peso enorme pareva fosse stato tolto dal suo cuore, e l'impeto della sua gioia era per tradirla. - Ma tutto ad un tratto, udì alcuni passi in distanza del dodicesimo condannato; comparve uno spettro pallido e livido, le cui ossa slogate erano state contuse e rotte dalla tortura: due preti e due famigliari, sostenendolo sotto le braccia, l'aiutavano a condursi verso il luogo del supplizio. - Quell'uomo che non aveva più di ventiquattro anni, era stato talmente torturato, che i muscoli del suo viso eransi distesi e rilasciati come quelli d'un vecchio; la sua fronte e le sue guance erano coperte di rughe, e il suo grande occhio nero, brillante nella vasta orbita incavata dai patimenti, fiammeggiava di strana luce, vacillante ed incerta come la fiamma d'un lume vicino a spegnersi che s'innalza, si abbassa, scintilla in getti di fiamma vagabondi, quasi facendo sforzi per non morire. - da principio Paola non lo riconobbe, tanto era cambiato. - Ma egli, all'aspetto della fanciulla che l'aveva amato, distese in avanti le sue braccia magre e contuse, e allora soltanto i suoi occhi espressero un pensiero ben formulato, un sentimento di dolore, di tenerezza viva e lacerante. - "Paola! Paola!" mormorò l'infelice con debole voce. - Poi ricadde senza moto fra le braccia del famigliare che lo sosteneva. - Un grido di disperazione uscì dal petto di Paola. Essa volle slanciarsi verso il condannato, ma gli sgherri si gettarono fra l'uno e l'altra, ed essa non poté giungere a superare quella barriera vivente ed impenetrabile. - Allora, quasi fosse trasportata da una potenza invisibile, si slanciò attraverso alla folla colla rapidità d'una leonessa ferita, passò le strade che la separavano dal palazzo inquisitoriale, giunse davanti alla gran porta; e là, come insensata, si pose a gridare che voleva essere condotta dal grande inquisitore. - Non si ardì farle male perché fu creduta pazza; ed alle sue reiterate insistenze si rispose solamente che l'inquisitore era già sulla gran piazza colla processione. - Ma dopo alcuni minuti d'inutili sforzi, Paola si avvicinò ad un famigliare e lo riconobbe: - Era quegli che l'aveva condotta la prima volta presso l'inquisitore. - Allontanati, - disse l'uomo a voce bassa, - o ti fo rinchiudere. - paola volse al cielo uno sguardo pieno di rabbia, poi corse senza fermarsi fino alla gran piazza di Siviglia. - Quando vi giunse grandi fiamme s'innalzavano verso il cielo, miste a torrenti di fumo. - Tutto era finito. - Il grande inquisitore era tranquillo sul suo seggio, e pregava per l'anima di coloro dei quali era carnefice. - Allora Paola, alzando verso il cielo le sue braccia irrigidite dalla disperazione, Paola senza guardare attorno a sé, senza pensare a quella folla che la guardava con istupore, alzò la sua voce terribile e lamentevole. "- Péietro Arbues, - gridò, - sii maledetto, Pietro Arbues, guardati dalla mia vendetta!" "Ma le grida del popolo avevano coperto la voce di Paola; quelli che eran d'intorno si allontanavano per farle posto, credendola una pazza." Josè si tacque; il suo petto grandemente oppresso sollevatasi per un battito di cuore rapido e continuo; la sua fronte erasi coperta di vivo rossore, e larghe goccie di sudore scorrevano sul suo viso. Rea in quell'istante d'una bellezza sovrumana. "Ebbne, che è stato di Paola?" domandò il presidente trasportato da curiosità e da interesse irresistibile. "Paola si è vendicata," rispose Josè con voce cupa, è dessa che ha ucciso Pietro Arbues." "Che dite voi?" domandò il presidente; "spiegatevi: che può aver di comune la fanciulla della quale ci avete narrato l'istoria col Domenicano Josè?" "Monsignore," proseguì Josè, "non vi ho detto che Paola aveva giurato di vendicarsi?" "Sei mesi più tardi," continuò Josè, "un giovine si presentò al convento dei Domenicani in Siviglia. Quel giovine voleva esser prete. Aveva vent'anni e non sapeva una parola di latino; ma aveva intelligenza, volontà immutabile, ed in meno di tre anni aveva imparato tanto latino da potergli insegnare teologia. Poscia gli furono conferiti i primi ordini, ed entrò nel noviziato; quindi è stato fatto prete e professo dell'ordine di San Domenico. - In quel tempo Pietro Arbues, grande inquisitore di Siviglia, aveva veduto il novizio, e per uno di quei capricci sì comuni presso gli uomini di carattere fantastico, impetuoso e crudele, s'era fatto una necessità d'aver costantemente il giovane al suo fianco. Non faceva nulla senza consultarlo; ed il novizio aveva messa tanta astuzia, tanta accortezza nei suoi rapporti col grande inquisitore, che questi, affascinato e sottomesso, non osava più avere una volontà che non fosse quella di Josè." "Josè!" esclamarono i giudici, al colmo dello stupore. "Sì, Josè," proseguì il Domenicano; "Josè che s'era fatto schiavo di Pietro Arbues per divenire il suo padrone; Josè, che, simile alla mano che attizza il fuoco, secondava le passioni malvagie di Pietro Arbues per condurlo a predizione, Josè, che d'un uomo crudele e lussurioso, ha fatto un mostro, affinché non vi fosse più perdono per lui, né in terra né in cielo, Josè, che dopo aver reso il nome di Pietro Arbues esoso a tutta l'Andalusia, l'ha finalmente ucciso. Josè, finalmente, che ha vendicato Paola!" Così parlando la voce del fraticello aveva una straordinaria vibrazione, il suo sguardo scintillante era alzato verso il cielo con feroce espressione di gioia. I giudici lo cedettero pazzo, non avevano ancora compreso. "E' dunque Josè, e non Paola, che ha ucciso l'inquisitore?" domandò il presidente per l'ultima volta. "Josè e Paola," rispose l'accusato; "perciocché Paola e Josè sono una sola e medesima persona. Non comprendete, monsignore, che io sono diventato uomo e monaco per vendicarmi?" "Sacrilegio!" esclamarono ad un tempo tutti i giudici, che avevano finalmente compreso quello spaventevole mistero; "doppiamente sacrilego per aver profanato il santo nome di sacerdote, e per aver assassinato un prete!" "Quello che ho fatto lo farei ancora di nuovo," rispose Paola con cupa esaltazione, "Pietro Arbues non ha forse profanato la missione di prete? Tutti i vostri inquisitori, iniqui carnefici, sordidi per lussuria e per omicidio, non sono altrettanti profanatori ed empi? Oh! Signori, sarebbe tempo che la giustizia reale portasse la luce in quelle tenebre profonde; perciocché io ve lo dico in verità, i tribunali dell'Inquisizione sono luoghi infami che dovrebbero essere bruciati, e gl'inquisitori, mostri di cui si potrebbero popolare le galere!." "Basta! Basta!" esclamò il presidente; "accusato, la nostra pazienza è al colmo. Se siete donna, più grande ancora è il vostro delitto; ma donna o uomo, avete meritato la morte." "E la morte io voglio!" replicò Paola, che, dopo confessato il suo sesso, pareva aver rivestite tutte le grazie toccanti della donna. I giudici si ritirarono alcuni momenti per deliberare. In questo tempo Paola, lieta e tranquilla, aspettava senza turbamento il risultato della loro deliberazione. Aveva compito il dramma funesto della sua vita: la vita le pesava come un fardello. Quando i giudici rientrarono, il loro volto aveva una severità spaventevole; tuttavia un'involontaria pietà leggevasi sulle loro gravi fisionomie. Il presidente si alzò, e, senza guardar l'accusato, pronunziò così la sua sentenza: "Considerato che il grande inquisitore è perito di morte violenta; Considerato che questa morte è stata data da un assassino; che l'assassino ha confessato il suo delitto; Considerato che la nominata Paola, falsamente designata col nome di Josè, monaco Domenicano, ufficiale dell'Inquisizione, ha profanato tutto per giungere all'esecuzione di questo delitto; Considerato che l'accusata ha dichiarato, confessato e specificato tutti i delitti da lei compiuti, il tribunale, che crede nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito Santo, tre sante persone distinte, che formano però un solo Iddio, s'è umiliato davanti al Nostro Signore, domandandogli per grazia di suggerirgli la sentenza che doveva pronunciare. D'onde risulta che la sua coscienza è tranquilla. Per questi motivi il tribunale condanna la nominata Paola, accusata e convinta del delitto di assassinio e di sacrilegio sulla sacra persona di monsignor Pietro Arbues grande inquisitore di Siviglia, alla pena di morte. Attesoché nella consumazione di questo delitto ha avuto luogo premeditazione, il tribunale, conformemente alle leggi del regno, condanna la detta Paola ad essere arrotata viva, quindi squartata. Ed a cagione del parricidio ad avere la mano destra tagliata e bruciata dal carnefice. Dopo l'esecuzione di questa sentenza, le membra della condannata saranno esposte sulle grandi strade, ed abbandonate in pascolo a tutte le bestie, con proibizione di dar loro sepoltura. Data in Siviglia. ecc." Paola aveva ascoltata la sua sentenza senza fremere, ma a quest'ultime parole un profondo sentimenti di disgusto, di pudore offeso, e d'orrore istintivo fece un istante venir meno il suo coraggio. Pose la mano sui suoi occhi, come per non vedere quello spettacolo orribile che le si rappresentava alla mente: quando si alzò per essere condotta alla cappella della prigione in cui doveva passare la notte, un tremito convulso agitava le sue membra: potava appena sostenersi. Ma quando usciva dal tribunale, distinse nella folla una vecchia donna, grande e pallida, che la guardò lungamente con occhi umidi come per dirle: - Voi m'avete ingannata, ma io sono qua. - "Oh!" disse Paola in vedendola, "ora posso morire tranquilla; viva o morta essa veglierà su di me." Quella donna era Giovanna. Partita con Estevan e Dolores per ubbidire a Paola, dopo due giorni di cammino aveva lasciato i suoi compagni di viaggio, ed era tornata a Siviglia, inquieta per la fanciulla che aveva nutrita, ed alla quale aveva dedicata l'intera sua vita, al punto di seguirla in tutte le fasi degl'incidenti della sua incomparabile vendetta, ma conoscendo poco le strade, Giovanna erasi smarrita; ecco perché non era giunta a Siviglia che dopo il giudizio di Paola. XLVIII. La cappella. Era costumanza religiosamente stabilita in Ispagna, quando un uomo è condannato a morte, di lasciargli passare quarantott'ore in un carcere trasformato in cappelle ardente. Ivi la religione offre, sotto tutte le forme, i suoi soccorsi e le sue consolazioni a quegli che sta per morire. Alcuni preti, dandosi la muta d'ora in ora, l'assistono e lo consolano cercando di fortificarlo, colla speranza, contro gli orrori del supplizio. La confraternita di pace e di carità, tenera madre di tutti quelli che sono destinati al carnefice, veglia a rendere soavi le loro ultime ore, prodigando loro le cure più assidue e appagando i loro minimi capricci; oltracciò si permette a quegl'infelici di trattenersi coi loro parenti e coi loro amici. Si concedono loro, in una parola, tutti i conforti permessi alla carità dalla legge spietata, ma che non oltrepassino giammai i limiti de' suoi diritti. In Ispagna forse la legge condanna talvolta ingiustamente, ma mesce al suo necessario rigore le dolcezze della pietà; condanna alla morte non all'agonia. La cappella in cui Paola fu rinchiusa era una vòlta ad arco sostenuta da sottili colonne, i cui capitelli, allungati in foglie delicate e leggiere, si arrotondavano in alto a guisa di teste di palma; era una scultura saracinesca, graziosa imitazione della natura d'Africa. Sull'altare, coperto di nero, ardevano ai due lati del Cristo dei ceri verdi. A destra dell'altare, due seggioloni erano preparati: uno per il paziente, l'altro per il monaco che lo confortava. Per terra, in un canto, potevasi vedere un largo scalpello, delle corde ed una gran croce di sant'Andrea, di querce, sulla quale posava un grosso martello di ferro. Erano gli strumenti del supplizio. Paola non vi fece attenzione. In quel momento fatale, in cui stava per terminare la sua vita ancora sì giovane, un dubbio crudele la tormentava. Era stata educata ad abitudini religiosissime. Un sentimento di odio legittimo ed inesorabile, un desiderio sfrenato di vendetta, l'avevano successivamente trascinata alla profanazione di molte cose sacre, e finalmente all'omicidio, delitto che è in abominazione innanzi a Dio. Questo delitto l'aveva compiuto con perseveranza, senza dubbio, senza rimorsi; aveva, è vero, colpito un mostro sordido per uccisioni, per furti e per rapine; pertanto domandava ora a sé medesima, con inesprimibile terrore de Iddio grande e misericordioso, Iddio, che per certo aveva ricevuto nel suo seno quel diletto Fernando a cui aveva sacrificata la sua vita, non la respingerebbe come indegna delle gioie celesti. S'inginocchiò sul nudo marmo della cappella, ed appoggiò la sua fronte, che ardeva, sul marmo dell'altare. Quell'anima, piena d'angosce, provava un dubbio terribile; temeva di non rivedere nell'altra vita quegli per cui aveva voluto morire: dopo tante lacrime, tanti sforzi e tanti patimenti, quel pensiero era per lei una tortura incomparabile. In quel momento un frate entrò nella cappella. Paola si gettò alle sue ginocchia, e gli narrò, piangendo, tutte le sue angosce. Quel frate la consolò parlandole del supplizio spaventevole che era per subire, esortandola a dimenticare il suo amore sacrilego per un eretico, e ad implorare la misericordia di Dio e quella di monsignor Arbues, martire, il quale dal cielo le perdonava indubitatamente; poi le parlò lungamente della grazia, dell'estasi, della beatitudine. Paola si alzò disperata: essa aveva battuto sopra una pietra, e nulla aveva risposto al cordoglio dell'anima sua. L'ora suonò: il frate si ritirò come un soldato che abbia finito la sua funzione. Così gli esercizii della divina religione del Salvatore perdono, passando per mani stupide, tutta la loro soave poesia, le loro angeliche consolazioni. "Oh!" disse Paola con amarezza e disgusto, "avrei dovuto ricordarmi che questi frati sono veri bruti, macchine viventi che agiscono per abitudine e non per convinzione: lo spirito divino nulla può sopra di essi; in loro solo la materia agisce. - Signore, mio Dio!" proseguì essa, "voi siete stato il martire dei preti malvagi ed ipocriti; perdonatemi, perocché io pure sono stata loro martire. - Voi, che avete apportato al mondo una legge d'amore, e non avete insegnato che amore, perdonatemi, mio Dio!, perocché io sono divenuta colpevole per aver amato."

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