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L'ARTE DEGLI ETRUSCHI

LA STORIA, L'ARTE, IL CULTO DEI MORTI, LA RELIGIONE, LA LINGUA

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La pittura

La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle tombe. La
tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che
vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. La pittura è
planimetrica: pochi colori, privi di chiaroscuro, distesi in superficie,
staccati dal fondo, con la conseguente prevalenza della linea che li
campisce, quasi come se fosse una decorazione vascolare. Quanto ai temi,
poiché lo scopo delle figurazioni è quello di circondare il morto con le
immagini della vita, prevalgono le scene di costume, con musicanti,
danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le
figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad
artisti greci immigrati. Tra queste i più antichi affreschi sono quelli
della Tomba dei Tori a Tarquinia, con l'agguato teso da Achille al giovane
troiano Troilo presso la fontana sacra ad Apollo; tra le figure, definite
linearisticamente e campite con chiari colori, compaiono fiori stilizzati,
ed altri elementi paesistici, quali alberelli e cespugli spinosi. Nella
tomba della caccia e della pesca a Tarquinia le figure dei pescatori,
rappresentate con grafia semplificata e leggera, assumono un carattere
squisitamente decorativo al pari degli uccelli e dei pesci che popolano
sparsamente gli ampi spazi celesti e marini. Il fascino di queste ed altre
consimili figurazioni consiste in buona parte nella disposizione
irrealistica dei colori: secondo una convenzione derivata dalla pittura
vascolare le figure sono tinteggiate in rosso se maschili, in bianco se
femminili: nè mancano talvolta audaci invenzioni e arbitrii cromatici, come
cavalli rossi ed azzurri.
Altre pitture interessanti sono quelle della Tomba del Barone.
Sulle pareti della piccola camera funeraria sono cavalli e figure umane,
intervallate da arboscelli. I colori (nero, rosso, grigio, verde,
bruno-violaceo) sono stesi su un sottile velo di preparazione. Il rapporto
fra i pieni e i vuoti è perfettamente bilanciato, così come sono calcolati
gli equilibri fra le immagini di un lato e quelle dell'altro, le proporzioni
delle figure fra loro e delle singole parti con tutto il complesso. Il
disegno è sottile, raffinato, adeguato all'eleganza delle figure. Nel IV
sec. si stringono nuovi contatti con la civiltà greca.
Lo confermano le pitture della Tomba dell'Orco a Tarquinia fra le quali
emerge la testa di una fanciulla della famiglia Velcha, partecipante a un
banchetto funebre. Il fondo verde scuro, dai contorni irregolari,
rappresenta forse una nuvola nera, richiamo all'oltretomba. Questo piano di
fondo dal colore compatto fa risaltare il profilo puro della giovane e
permette di evitare la tradizionale linea di contorno. Manca però il
chiaroscuro. Il valore dell'immagine si affida al rapporto fra i due colori
fondamentali: quello del fondo e il bianco-rosa del bel volto di profilo, le
labbra lievemente dischiuse, il grande occhio aperto a contemplare la scena
infernale, i capelli inghirlanditi, il collo ornato da una doppia collana.
La visione dell'oltretomba si va facendo drammatica. A contrasto con la
fanciulla Velcha sta l'immagine paurosa del demone Charu (Caronte), dal
colorito verdastro, il naso adunco, la barbetta irsuta, i capelli
anguiformi, le grandi ali, il bastone. L'aldilà non è più il luogo dove
prosegue tranquilla la vita, ma bensì il luogo di tormenti per tutti gli
uomini.

Tomba dei Tori:
L'agguato di Achille a Troilo
 Tomba della Caccia e della Pesca:
Scena di pesca

Tomba del Barone:
Fregio con persone e cavalli
Tomba dell'Orco:
Testa di fanciulla





Finalità, condizionamenti e tendenze

L'arte etrusca nacque dalla vita quotidiana e rimase sempre sostanzialmente
vincolata al soddisfacimento delle esigenze da quella proposte. Essa fu
pertanto strettamente legata, da un lato, alla struttura sociale, dall'
altro, alla sfera delle concezioni religiose e dell'ideologia funeraria. Non
a caso, cioè non soltanto per le fortuite circostanze della loro
conservazione e della loro riscoperta, le testimonianze che essa ha lasciato
provengono nella stragrande maggioranza dalle aree dei santuari e da quelle
cimiteriali. Questo significa che, tranne poche eccezioni, si trattò di un'
arte dalle caratteristiche di tipo artigianale (o di artigianato artistico),
con tutto quello che ciò comporta e pur tenendo presente che la distinzione
tra arte e artigianato non sempre trova valida rispondenza nel mondo antico.
In ogni caso, non si può parlare per l'arte etrusca di un fenomeno autonomo
né di finalità estetiche, e solo raramente ci si trova di fronte a
manifestazioni che si potrebbero dire di "grande arte", frutto meditato del
lavoro di particolari individualità e opera personale di artisti consapevoli
o di scuole ben definite e caratterizzate come tali.
Si aggiunga il condizionamento dell'arte greca che fu sempre presente nella
maggior parte dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi e dei canoni
stilistici. Al punto che, una volta superata la fase dei primordi ancora
legata alle tradizioni d'origine preistorica o alle suggestioni
ornamentalistiche del periodo orientalizzante, le successive fasi di
sviluppo, a partire dal primo arcaismo e fino alla tarda età ellenistica,
cioè dalla fine del VII secolo a quasi tutto il I secolo a.C., ripeterono
praticamente quelle dell'arte greca. Il condizionamento fu tuttavia di
natura prevalentemente formale ed esteriore. Essenzialmente decorativa,
attenta al particolare e generalmente di sapore incolto e popolaresco; tesa
alla spontaneità e all'immediatezza, disorganica ed espressiva, portata all'
enfatizzazione e alla tensione drammatica; conservatrice ma anche
incostante, discontinua e incoerente: proprio per queste sue naturali
tendenze (oltre che per la necessità di selezionare i modelli onde adattarli
ai propri scopi), l'arte etrusca seppe trovare una sua via di fronte all'
insegnamento dei Greci. Sicché il confronto, più che soffermarsi sulla
qualità, riguarda la diversità degli atteggiamenti e delle realizzazioni,
cioè il modo di reagire degli artisti etruschi alle sollecitazioni e ai
modelli che giungevano dal mondo greco. A seconda delle necessità e delle
epoche, e quindi in relazione alle caratteristiche delle varie fasi dell'
arte greca. Così, dei modelli via via disponibili, gli Etruschi alcuni li
ignorarono altri li assunsero facendoli propri e talvolta rielaborandoli,
magari insistendo su motivi che nella stessa Grecia ebbero scarso rilievo o
furono presto superati. Quanto ai canoni stilistici, ci furono momenti di
consonanza e di partecipazione, come nel periodo arcaico (e specialmente nei
confronti dell'arte ionica) del VI secolo a.C.: momenti di ripulsa e di
rigetto o, più semplicemente, d'incomprensione, come nel periodo classico,
tra il V e il IV secolo a.C.; momenti di sudditanza e di pedissequa
imitazione, come nel periodo ellenistico, dal III al I secolo a.C.
Non mancarono tuttavia atteggiamenti estranei, se non antitetici, alle
concezioni figurative greche, soprattutto quando queste non erano congeniali
alle tendenze espressive etrusche e quindi non sentite e incomprese. E
furono proprio quelle tendenze, insieme alle finalità pratiche del
quotidiano, che indussero gli Etruschi a trascurare, o a relegare in secondo
piano, certe forme d'espressione artistica, come l'architettura e la
statuaria, e a privilegiarne altre, come la coroplastica, ossia l'arte della
creta, la bronzistica, a quella connessa, e le cosiddette arti minori, come
la piccola plastica, la ceramica, l'oreficeria, la toreutica. Con risultati
spesso di notevole perfezione tecnica e non dirado d'elevato valore formale.





Arte profana

E' proprio nelle arti "minori", nella vastissima produzione di
suppellettili, piccoli bronzi fusi e piccole terracotte con funzioni
ornamentali, gemme incise e avori intagliati, che si espresse al meglio
l'originalità e la creatività degli artisti etruschi. Particolare attenzione
meritano gli specchi, trovati a centinaia nelle necropoli. Il modello più
comune era quello tondo con il manico. Il retro della suprficie di bronzo
era inciso, solitamente con soggetti mitologici provenienti dall'arte greca,
oppure coperto di iscrizioni. Ricchissima e meritatamente famosa anche la
produzione di monili ed oggetti in oro, nella quale gli etruschi
dimostrarono un elevato grado di elaborazione tecnica, capace di sfruttare
le possibilità espressive del metallo. Il periodo di massima fioritura fu
tra la metà del VII e la fine del VI secolo a.C., a Vetulonia e Vulci. Nella
tomba Regolini- Galassi, scoperta a Cere nel 1832, gli archeologi si
trovarono davanti ad un gran numero di gioielli; grandi bracciali lavorati,
fibule incise, un pettorale in oro sbalzato di 42 cm. conservato ai musei
Vaticani.



Specchio riproducente la cerimonia del chiodo Anche nell'orificeria trionfò
il gusto per il sovraccarico e gli effetti enfatici, sia con l'incontro di
motivi ornamentali vegetali, figurati e geometrici, sia con l'impiego delle
diverse tecniche di lavorazione, spesso combinate insieme.
Tali tecniche comprendevano l'incisione, lo sbalzo, la fusione la filigrana
e, soprattutto, la granulazione, consistente nell'applicare sulla superficie
del metallo piccoli granelli d'oro saldati tra loro, moltiplicando così
l'effetto dell'incidenza della luce.



Gioielli (V-VI sec)
Collare con teste di Sileno, VI-V sec.






I monumenti architettonici

Ben altra ricchezza di testimonianze dirette ci si offre per l'architettura
e per le arti figurative: si tratta infatti degli stessi monumenti
superstiti e dei resti materiali recuperati attraverso le scoperte
archeologiche. Nonostante la distruzione di tante opere e manufatti antichi,
questi documenti sono tali da offrirci una visione sufficientemente ampia
dell'attività artistica degli antichi Etruschi nelle sue tendenze e nei suoi
sviluppi.
L'edilizia monumentale non può naturalmente valutarsi sul metro di quella
dei Greci o dei Romani. L'impiego esclusivo di strutture murarie a blocchi
di pietra s'incontra soltanto nelle opere militari e nelle tombe: per il
resto, e cioè per gli edifici sacri e civili, esso appare limitato alle
fondazioni, mentre per le parti elevate si adoperavano materiali più
leggeri, quali il legno, il pietrame, i mattoni crudi, la terracotta. Ciò
significa che di questi edifici non possediamo più che le piante e qualche
elemento di decorazione; ma nonostante tutto è possibile raffigurarcene
l'aspetto originario, sulla base dei modelli offerti dai sepolcri rupestri e
dalle urne che ne imitano le forme o da piccole riproduzioni di destinazione
votiva. Le strutture murarie offrono, a seconda dei tempi, dei luoghi e
della qualità dei monumenti, una notevole diversità di materiale e di
tecnica. Le pietre di più largo impiego sono i calcari, il travertino, le
arenarie, il tufo, tutte di estrazione locale: l'assenza del marmo che ha
tanta importanza nell'architettura greca, si deve al fatto che lo
sfruttamento delle cave di Carrara non avrà inizio se non con l'età romana.
Il genere delle murature varia dalla tecnica dei grandi blocchi semilavorati
ed irregolari, quale si mostra, ad esempio, nella cinta di Vetulonia, a
quella dei fini paramenti con piccoli blocchi squadrati che si riscontra
nelle mura urbane delle Città dell'Etruria meridionale ed in altre
costruzioni, specialmente funerarie. Ma non c'è in generale un'evoluzione
delle strutture più rozze e primitive alle più raffinate: la muratura
quadrata regolare si conosce e si impiega sin dalle fasi iniziali della
civiltà etrusca; e le differenze paiono dovute piuttosto a particolari
condizioni di materiale, di capacità delle maestranze, di fretta nella
costruzione, ecc. Contrariamente a certe opinioni già diffuse tra gli
archeologi, la tecnica poligonale vera e propria deve considerarsi estranea
agli usi costruttivi degli Etruschi e tardivamente introdotta, dai primi
coloni militari romani, nelle piazzeforti di Pyrgi, di Cosa, di Saturnia.
L 'uso, almeno parziale, dei mattoni crudi non soltanto nell'edilizia
domestica ma anche nell'architettura militare sembra attestato a Roselle sin
dalla fine del VII secolo; ciò rientra nel quadro di una tradizione
struttiva che si va sempre più rivelando diffusa nel mondo mediterraneo
sotto l'influenza greca; ed è probabile che a questa tecnica si riferiscano
anche le notizie sulla cinta di mattoni della città di Arezzo.

Notevole diffusione ha in Etruria il sistema delle coperture a falsa volta
ed a falsa cupola con filari di blocchi sovrapposti in aggetto, di
universale diffusione mediterranea; al quale si sovrappone, nelle fasi più
recenti, la tecnica della volta reale a spinte, che appare in porte di città
(Volterra, Perugia) ed in monumenti sepolcrali, preludendo alle strutture
dominanti dell'architettura romana. In questa predilezione per la copertura
a volta l'architettura etrusca continua, perfeziona e trasferisce in sede
monumentale motivi di antica origine orientale che l'architettura greca
classica tende invece generalmente a respingere come elementi estranei alla
sua rigorosa concezione rettilinea, basata sulla struttura ad architravi.
Fra i monumenti più notevoli dell'architettura militare ricordiamo le cinte
di Tarquinia (e tratti superstiti di quelle, simili, di Veio, Caere, Vulci,
ecc.), Volsinii, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia,
Fiesole, Arezzo. Queste opere si datano generalmente tra il VI ed il III
secolo, con ampliamenti e rifacimenti posteriori, dato che in generale
rimasero efficienti durante i tempi romani e in qualche caso anche più
tardi. Nonostante la diversità delle strutture, hanno in comune il carattere
di muraglie continue, originariamente non intrammezzate da torri: avancorpi
e rientranze si osservano soltanto in corrispondenza delle porte.
Queste erano forse da principio architravate; ma nei grandiosi esempi
superstiti della Porta dell' Arco di Volterra e della Porta Marzia e della
Porta "di Augusto" di Perugia appaiono coperte a volta e presentano in
facciata elementi di decorazione architettonica o figurata a rilievo.
L'aspetto antico di cinte urbane merlate e con porte ad arco ci è
testimoniato anche da figurazioni di urne e sarcofagi. L'architettura
funeraria si presenta con manifestazioni piuttosto eterogenee, per il fatto
che essa rappresenta l'occasionale complemento o sviluppo costruttivo di
tipi di sepolcri di origine od ispirazione diversa. La maggior parte delle
tombe, anche a carattere monumentale, risulta infatti lavorata direttamente
nella roccia sia che si tratti di vani scavati (che vanno dalle più modeste
forme dei pozzetti e delle fosse primitive sino ai grandiosi e complessi
ipogei con molti ambienti dell'età più matura), sia che si tratti di
adattamenti esterni aventi l'aspetto di tumuli rotondi o corpi quadrangolari
con terra sovrapposta o di facciate scolpite nella fronte di declivi
rupestri. Tali opere, pur non avendo un carattere architettonico, si
ricollegano strettamente all'architettura in quanto imitano spesso
fedelmente le forme di edifici reali nel loro aspetto esteriore ed
interiore, negli elementi decorativi e talvolta persino nelle rifiniture
d'arredo e nelle suppellettili.
Frequente è però anche la presenza di opere murarie, talvolta aggiunte ad
integrazione delle pareti e delle coperture di roccia, altre volte
costituenti per intero il monumento. Le camere sepolcrali costruite della
fase più antica presentano coperture a falsa volta ed eccezionalmente a
falsa cupola (come nella tomba di Casal Marittimo nel territorio di
Volterra, o in quella recentemente scavata presso Quinto Fiorentino). In età
più recente si hanno tombe con volta a botte di bella struttura (per es. la
tomba del Granduca a Chiusi e l'Ipogeo di San Mannopresso Perugia). Il tipo
monumentale del tumulo rotondo (con tamburo generalmente ricavato nella
roccia come a Cerveteri e costruito come a Populonia) diviene a partire dal
V secolo assai meno frequente, ma evolve, forse anche in contatto con
l'architettura funeraria ellenistica, verso lo schema dei grandi mausolei
circolari romani di età imperiale quali l'Augusteo e il Mausoleo di Adriano
(per es. la così detta "Tanella di Pitagora" di Cortona). Non mancano
sepolcri quadrangolari informa di tempietti, per esempio a Populonia. E va
ricordato infine anche il tipo di tomba con basamento a zoccolo sormontato
da grandi cippi troncoconici o da obelischi, noto soprattutto attraverso le
figurazioni dei rilievi delle urne sepolcrali, ma attestato direttamente
fuori d'Etruria, nel così detto sepolcro degli Orazi e Curiazi presso Albano
Laziale. Un grandioso monumento di questo tipo con più obelischi adorni di
campane è ricordato dalle fonti antiche come esistente a Chiusi, e
identificato con la tomba del re Porsenna. I cippi funerari imitano in
piccolo queste forme.
L'architettura domestica e quella religiosa hanno origini e caratteristiche
comuni. Delle forme assunte dalla casa si tratterà più avanti parlando della
vita etrusca. Il tempio che da principio si identifica, come nel mondo
paleo-ellenico, con la casa rettangolare con tetto a spioventi e senza
portico (documentata da modellini votivi e dai resti di un edificio scoperto
sull'acropoli di Veio) assume poi forme più complesse parzialmente parallele
a quelle del tempio greco. Il tipo che Vitruvio (de archit. IV, 7)
attribuisce agli Etruschi è caratterizzato da una pianta di larghezza poco
inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico
colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle, per tre diverse
divinità, o da una sola cella fiancheggiata da due alae o ambulacri aperti.
Resti di monumenti scavati a Veio, a Pyrgi, ad Orvieto, a Fiesole, a
Marzabotto dimostrano che questo schema ebbe effettivamente una vasta e
durevole diffusione in Etruria dall'età arcaica sino a quella ellenistica:
esso appare anche a Roma nel tempio di Giove Capitolino, la cui prima
edificazione risale ai tempi della dinastia etrusca dei Tarquini.
Ma senza dubbio si costruivano anche edifici sacri più vicini, nel loro
schema, al tempio greco, e cioè con pianta rettangolare allungata e colonne
in facciata (prostilo) o addirittura con colonnato continuo su tutti i
quattro lati (periptero): esempi cospicui ne sono il tempio più antico di
Pyrgi e quello dell'Ara della Regina a Tarquinia. L' originalità dei templi
etruschi non consiste comunque tanto nella loro concezione planimetrica
quanto piuttosto nel materiale, nelle proporzioni e nelle forme dell'alzato,
nel genere della decorazione.
Si è già detto che, all'infuori delle fondazioni, essi dovevano essere
costruiti di materiali leggeri, con impiego del legno per le ossature
portanti e per la travatura. Ciò comporta uno sviluppo relativamente
limitato in altezza (quale appunto risulta dalle misure del tempio
"tuscanico" secondo Vitruvio), larghi intercolumni, tetto ampio con notevole
sporgenza laterale delle gronde. La travatura lignea esige una protezione
con elementi compatti ma leggeri: donde l'uso universale di rivestimenti di
terracotta policroma, che si sviluppano in vivaci sistemi decorativi
geometrici e figurati con placche di copertura longitudinale o terminale
delle travi, cornici, ornati della estremità dei coppi (antefisse) e delle
sovrastrutture del tetto (acroteri). Il frontone era in origine aperto,
lasciando visibili in facciata le strutture della gabbia del tetto; solo più
tardi si adottò il tipo del frontone chiuso, decorato con una composizione
figurata come nei templi greci. Queste varie caratteristiche del tempio
etrusco trovano indubbi riscontri nella primitiva architettura greca e, come
si è detto, parziali paralleli nel tempio greco arcaico e classico.
La differenza sta nel fatto che il tempio greco sin dal VII secolo a;C.
tende a trasformarsi in un edificio monumentale pressoche interamente
costruito di pietra, con una sua propria ed inconfondibile evoluzione delle
forme architettoniche; mentre il tempio etrusco resta sostanzialmente fedele
alle tradizioni dell'architettura lignea sino alla piena età ellenistica,
accentuando, se mai, l'esuberanza decorativa dei rivestimenti di terracotta.
I quali offrono, specialmente nel VI e V secolo, varietà di concezioni e
sviluppi: per esempio nel tipo delle lastre di copertura longitudiriale dei
travi che possono formare fregi figurati continui a rilievo di ispirazione
greco-orientale (così detta "prima fase" o "fase ionica") o possono invece
presentare una semplice ornamentazione dipinta con forte sviluppo della
sovrastante cornice in aggetto, come nei sistemi decorativi fittili della
Grecia propria e delle colonie dell'Italia Meridionale e della Sicilia
("seconda fase" o "fase arcaica"). Quest'ultimo tipo si afferma a partire
dalla fine del VI secolo, in coincidenza con il momento di maggiore
splendore dello sviluppo dei templi etruschi, caratterizzato anche dalle
antefisse a conchiglia, dalle decorazioni frontonali a rilievo distribuite
sulle placche di rivestimento delle testate dei travi lunghi, dai grandi
acroteri figurati: esempi caratteristici il tempio di Veio e i templi di
Pyrgi. Lo schema decorativo così formato sarà poi seguito con poche
modificazioni nei secoli successivi.


La sola novità rilevante è l'introduzione del frontone chiuso decorato con
una composizione figurata unica alla maniera greca, di terracotta e in
altorilievo; esso appare già forse nel V secolo, ma ci è noto soprattutto a
partire dal IV secolo a Tarquinia, a Talamone, a Luni ("terza fase" o "fase
ellenistica"). Parlando delle forme e dei rivestimenti del tempio etrusco,
non si può trascurare il fatto fondamentale che i medesimi caratteri e
sviluppi si riscontrano nei templi del territorio falisco e laziale e, sia
pure con qualche differenza, in Campania: può parlarsi di una comune civiltà
architettonica dell'Italia tirrenica a settentrione dell'area direttamente
toccata dalla colonizzazione greca. L'affermarsi del tipo del tempio di
pietra, in sostituzione delle tradizionali strutture lignee (sotto
l'influsso greco, ma pur sempre con forme peculiari), avrà luogo
progressivamente, sotto l'influsso dei modelli greci, nel corso del IV
secolo e dell'età ellenistica.
Il predominio di elementi di ispirazione arcaica anche in opere di età molto
recente si osserva del resto in tutti i motivi della decorazione
architettonica etrusca, quali appaiono nelle costruzioni di pietra ed in
quelle di legno e terracotta, e nelle loro innumerevoli riproduzioni ed
imitazioni dell'arte funeraria e votiva. Vitruvio parla di un "ordine
tuscanico" distinto dagli ordini dorici, ionici e corinzio dell'architettura
greca. Esso era caratterizzato da un tipo di colonna che si vede
effettivamente impiegato nei monumenti romani e rappresenta una variante
della colonna dorica, con la stessa forma di capitello ma con il fusto
liscio e con un basamento. La sua origine etrusca è provata da testimonianze
che risalgono all'età arcaica: di questa forma era, verisimilmente, la
maggior parte delle colonne lignee dei templi e degli edifici civili. Si
tratta in realtà di una sopravvivenza ed elaborazione del tipo detto
"protodorico" (fornito di plinto sagomato, con fusto senza scanalature e
sensibilmente rigonfio, con capitello a cuscino bombato), che nel mondo
greco primitivo era stato prestissimo sostituito dalla colonna dorica vera e
propria. Ma accanto a questo tipo vediamo diffuso in Etruria anche un genere
di colonne e di pilastri con capitello a volute floreali, semplici e
composite, che trova la sua ispirazione nei capitelli orientali
siro-ciprioti e nei capitelli così detti "eolici" della Grecia orientale:
genere, anch'esso, precocemente scomparso nel mondo greco, con l'affermarsi
del capitello ionico.

Modanature di impronta arcaica, con dadi, cordoni, "campane", "gole",
appaiono dominanti nella sagoma di basamenti e coronamenti di edifici,
altari, cippi, ecc. ; mentre la incorniciatura di porte e di finestre
sottolinea gli stipiti sui lati del vano rastremato verso l'alto e il
sovrapposto architrave sporgente che, in epoca più evoluta, si piega alle
estremità nelle caratteristiche "orecchiette". L'ornamentazione non figurata
delle cornici, dei coronamenti e degli altri elementi delle sovrastrutture
degli edifici appare domi!lata da motivi a foglie stilizzate, trecce,
palmette e fiori di loto, spirali, meandri, ecc., di prevalente ispirazione
ionica. Il sistema del fregio dorico con metope alternate a triglifi sembra
diffondersi soltanto dopo il IV secolo; ma spesso, in luogo dei triglifi,
s'incontrano veri e propri pilastrini.





Il problema dell' «arte etrusca»

Considerate le diverse categorie di monumenti artistici, resta da affrontare
il problema più grosso, il «problema» per eccellenza: quello del loro
significato estetico e storico. Gran parte delle opere che possediamo non
ha, ovviamente, il carattere di creazione originale: rientra nel solco di
tradizioni artigianali e riflette soltanto alla lontana le grandi linee di
sviluppo della storia dell'arte. Ma esistono alcuni monumenti e gruppi di
monumenti, nei quali si può ritenere presente l'impronta di una certa
personalità artistica, più o meno spiccata. Si tratta di stabilire fino a
che punto questa possibilità risponda a realtà, e cioè se veramente ci si
trovi, in questi casi, di fronte a piccole o grandi creazioni; o invece si
abbia pur sempre a fare con semplici imitazioni di modelli; ed in quale
ambiente debbano eventualmente ricercarsi questi modelli.
Il fatto più evidente è che la stragrande maggioranza dei temi, dei tipi,
degli schemi compositivi della produzione artistica etrusca trova i suoi
precedenti e la sua ispirazione nel mondo greco; e che tale dipendenza si
estende normalmente anche alle forme stilistiche; cosicche lo sviluppo
dell'arte in Etruria, dal primo arcaismo sino alla tarda età ellenistica,
ripete sostanzialmente le fasi di sviluppo dell'arte greca. Però si notano
anche differenze: nel senso che l'Etruria ignora certi motivi della
produzione ellenica ed elabora invece diffusamente altri che in Grecia hanno
scarso rilievo o appartengono a fasi stilistiche già superate; ne mancano
indizi di atteggiamenti estranei, se non addirittura antitetici, alle
concezioni figurative greche.
C'è da chiedersi se e fino a che punto gli artisti etruschi abbiano inteso
reagire e di fatto abbiano reagito, con soluzioni originali, alle dominanti
formule greche. C'è da chiedersi poi se, realizzando una loro propria
visione artistica, essi abbiano creato le premesse al formarsi di tradizioni
locali distinte dall'arte greca; e su quale ampiezza e per quale durata
queste tradizioni abbiano avuto la possibilità di imporsi. In altre parole,
posta l'esistenza di spunti autonomi nella produzione-etrusca, ci domandiamo
se tali spunti siano fatti effimeri e slegati o se esista tra loro una
connessione; e se un'ipotetica «costante» nelle tendenze del gusto in
Etruria attraverso i secoli debba attribuirsi a continuità storica o
piuttosto ubbidisca ad una profonda predisposizione del popolo etrusco verso
orientamenti espres- sivi differenti da quelli del popolo greco. Questi
diversi interrogativi si riassumono, tutto sommato, in uno solo: fino a che
punto ed in che senso possiamo parlare della esistenza di un' , 'arte
etrusca"?.
La posizione della critica nel secolo XIX fu, in proposito, negativa. La
produzione etrusca era da considerare come un fenomeno provinciale dell'arte
greca, con opere rozze e senza valore; mentre ogni trovamento di un qualche
pregio artistico fatto in Etruria si attribuiva senz'altro a mano greca. Ma
i nuovi orientamenti della critica e della storia dell'arte, affermatisi col
principio del nostro secolo specie a seguito degli studi di A. Riegl,
riconoscendo piena validità di espressione ad esperienze artistiche diverse
da quella classica, aprirono la strada ad una comprensione di fenomeni
stilistici del mondo antico per l'innanzi sottovalutati, quale appunto
l'etrusco. Dall'analisi di singole opere d'arte di recente scoperta (come
l'Apollo di Veio, come il "Bruto Capitolino") si arrivò, più o meno
cautamente, ad affermare l'originalità e l'autonomia dell'arte etrusca
rispetto alla greca, per una sua diversa ed inconfondibile visione della
forma. che trasoarirebbe evidente anche nell'imitazione degli schemi e dei
tipi ellenici. Si parlò, in vero, addirittura di una peculiare disposizione
dei popoli italici (non soltanto, quindi, degli Etruschi, ma più tardi anche
dei Romani) a concepire la realtà secondo una immagine «illusionistica»,
«inorganica», immediata e fortemente individualizzata, di contro alla
visione «naturalistica», «organica», «tipica» dell'arte greca. A questi
punti di vista non sono mancate obiezioni critiche di un certo peso. Più di
recente si è tornati anzi ad affermare che non esistono in Etruria vere
opere d'arte se non sotto la diretta influenza delle forme greche; e che la
«originalità» etrusco-italica si riduce a manifestazioni effimere di
colorita abilità artigiana e popolaresca, incapaci di dar vita ad una
tradizione (R. Bianchi Bandinelli).
Il problema, dunque, resta ancora sostanzialmente aperto. Ma forse esso fu
male impostato così dai negatori come dai sostenitori della originalità
dell'arte etrusca. Si considerò infatti generalmente questo fenomeno in
blocco, senza tener conto che esso abbraccia manifestazioni quanto mai
varie, per la durata di almeno sette secoli, e che le trasformazioni
avvenute nel corso di un così lungo periodo non riguardano soltanto
l'Etruria e la Grecia, ma hanno una portata decisiva per tutto lo sviluppo
dell'arte antica. È evidente che le prospettive mutano a seconda dei tempi;
e parrebbe quindi logico esaminare il problema dell'«arte etrusca»
riportandoci alla situazione di ciascun periodo, piuttosto che cercarne
astrattamente una soluzione complessiva.
Risulterà così che alle origini, più o meno tra il IX e il VII secolo,
l'attività artistica dei centri etruschi si svolge parallela a quella di
altri paesi mediterranei, compresa la Grecia, in un fluido e complicato
accavallarsi di motivi di tradizione preistorica (specialmente evidenti nel
vivace realismo della piccola plastica) e di influenze orientali che
caratterizzano quella fase del gusto decorativo che chiamiamo appunto
orientalizzante. È chiaro che per questi periodi non è ancora il caso di
parlare di subordinazione all'arte greca. Diremo piuttosto che l'Etruria
partecipa, nella sua posizione periferica verso occidente, alla estrema
elaborazione di un'antica esperienza artistica mediterranea, pa!allelamente
alla Grecia. Ma fatta eccezione per qualche spunto di originalità nella
plastica funeraria (per esempio nelle espressive teste dei canopi di
Chiusi), non vi è nessun accenno al formarsi di una valida tradizione
artistica locale, o nazionale. Qui appunto sta la differenza decisiva,
gravida di sviluppi futuri, rispetto alla Grecia che, precisamente in questa
età cruciale, andava superando con vigoroso impeto creativo le formule del
vecchio mondo ed aprendo una nuova pagina nella storia dell'arte universale.
Non sorretta da una propria tradizione, fatalmente l'Etruria era destinata a
cadere nell' orbita della esperienza artistica greca, la cui capacità di
attrazione, oltreche nel fascino innovatore e nella intrinseca superiorità
di valori estetici, consisteva anche nella sua amplissima diffusione
territoriale dalla madrepatria alle colonie d'Italia e di Sicilia. Ciò
avvenne effettivamente almeno dagli inizi del VI secolo; e dobbiamo ritenere
che le influenze dell'arcaismo greco sull'Etruria nel campo artistico non
consistessero soltanto nella importazione di oggetti e di modelli, ma anche
nella diretta attività di artefici greci nelle città etrusche. Eppure
proprio in questo periodo, nel VI e nei primi decenni del V secolo, la
produzione d'arte in Etruria si manifesta con un rigoglio meraviglioso e,
per certi aspetti, insuperato, nell'architettura templare, nella plastica,
nella bronzistica, nella pittura, negli oggetti «minori» decorati: con opere
numerosissime, di tecnica raffinata e di alto livello stilistico, non prive
di un certo «carattere» peculiare che le rende sovente riconoscibili come
prodotti etruschi o di ambiente etrusco. Il dilemma originario (dipendenza o
autonomia ?) si propone qui ora con aspetti tanto più delicati, quanto più i
fatti sembrano condurre verso un giudizio apparentemente contraddittorio,
che giustifica le incertezze dei critici moderni: nel senso che queste opere
pur essendo «etrusche» non cessano per ciò stesso di esser «greche».
Affermazione che potrebbe sembrare paradossale; ma non lo è, purche ci si
sforzi di sbarazzarci dello schema mentale di «arte nazionale», che nel caso
particolare non è applicabile.
Dobbiamo in verità tener presente che l'arte greca arcaica non rappresenta
un fenomeno rigidamente unitario e stilisticamente conseguente; bensì
piuttosto il risultato della elaborazione locale di centri quanto mai vari,
numerosi e dispersi nello spazio, con correnti vivaci, multiformi, mutevoli
che si diffondono, si trasmettono, s'intersecano. In questo quadro,
essenzialmente regionalistico, trovano posto anche territori parzialmente
ellenizzati o non greci ma sotto l'influenza della civiltà greca: quali, ad
esempio, in oriente Cipro, la Licia, la Caria, la Lidia, la Frigia, a
settentrione la Macedonia e la Tracia, in occidente l'Etruria. Questi paesi
non sono soltanto «province» recettive che subiscono passivamente l'impronta
delle creazioni del genio greco; ma partecipano essi stessi, come «regioni»
di una vasta comunità civile, alla elaborazione dell'arte arcaica, secondo
le circostanze, le particolari esigenze, le capacità: e pertanto con proprie
caratteristiche nell'ambito della più vasta unità periellenica. Nel caso
dell'Etruria le peculiarità «regionali» della produzione d'arte arcaica
potrebbero indicarsi nei seguenti motivi principali:
1)            esigenze religiose e funerarie che predispongono l'attività
figurativa ad una rappresentazione concreta, immediata, veristica della
realtà;
2)            sensibili persistenze di schemi, tecniche e tradizioni formali
della precedente fase «mediterranea» ed orientalizzante;
3)            relazioni dirette e fortissime con le esperienze artistiche
del mondo greco-orientale, e cioè dei centri eolici e ionici delle coste e
delle isole dell' Asia Minore occidentale: tali da determinare per molti
decenni (fra la metà del VI e il principio del V secolo) quella impronta,
sostanzialmente unitaria, della cultura figurativa in Etruria che suoI
definirsi appunto come arte ionico-etrusca;
4)            manifestarsi, nell'ambito dell'attività artistica locale, di
rilevanti personalità, di artisti greci e locali e di scuole di alto livello
(bronzisti di Vulci e di Perugia, pittori come il maestro della Tomba del
Barone a Tarquinia, modellatori in terracotta di Veio come l'artefice
dell'«Apollo» e i suoi seguaci, ecc.), cui difficilmente potremmo negare una
autentica, origi- nale ed a volte vigorosissima genialità creativa.

La prospettiva storica muta completamente nella prima metà del V secolo. La
Grecia passa dall'arte arcaica all'arte classica con un processo di
fondamentale importanza per la storia della civiltà umana. Ma l'attività dei
grandi maestri greci tende a farsi stilisticamente più serrata, acquista un
carattere più «nazionale», si concentra specialmente attorno ad Atene e alle
città del Peloponneso. Anche per motivi d'ordine politico-economico le
regioni periferiche declinano. L'Etruria resta isolata. Lo spirito della
classicità, in quanto realtà di un momento creativo irripetibile ed
inimitabile, non trova rispondenza del mondo etrusco, dove, tra l'altro, le
felici condizioni storiche che avevano favorito la fioritura artistica
dell'arcaismo sono venute a cessare, con l'inizio di un lungo periodo di
depressione e di decadenza. Vediamo così per tutta la durata del Ve fino
all'inoltrato IV secolo perdurare motivi e formule di tradizione arcaica o
ispirate all'arte greca di "stile severo", cioè della fase di passaggio
dall'arcaismo alle forme classiche. Il fenomeno dell'attardamento proprio
dei paesi marginali (come, ad esempio, nella contemporanea arte «subarcaica»
di Cipro) si manifesta con una certa evidenza. La penetrazione delle
influenze classiche è parziale e stentata. In questo ambiente privo di una
tradizione unitaria ed accreditata, come già nella fase delle origini, la
vitalità artistica si palesa soltanto in qualche effimero spunto di
originalità espressiva; mentre nel campo della tecnica artigiana continua,
particolarmente attiva, la produzione dei bronzisti.
Una intensa ripresa di contatti artistici fra Grecia ed Etruria ha luogo a
partire dal IV secolo e si continua per tutta l'età ellenistica,
confondendosi alla fine con il fenomeno, altrimenti ben noto, del trionfo
dell'ellenismo nell'Italia romana della fine della repubblica e del
principio dell'impero. Ma l'atteggiamento dei figuratori etruschi rispetto
all'arte greca non sembra più quello dei tempi arcaici. Non si può più
parlare della elaborazione, in qualche modo originale di un patrimonio
comune: si tratta piuttosto della imitazione, più o meno fedele e riuscita,
di modelli «stranieri». Non si accolgono soltanto forme e singoli motivi
tipologici, ma si riproducono intere composizioni, specialmente da prototipi
della grande pittura, ad ornamento di edifici e di oggetti. Per quest'ultima
fase di produzione potrebbe giustificarsi il concetto dell'Etruria come
«provincia» del mondo greco (ciò che equivale alla negazione di una sua
originalità artistica).
Occorre però tener conto di un altro aspetto, completamente diverso e di
gran lunga più importante, dell'attività figurativa etrusca di età
ellenistica. In singoli monumenti o in gruppi di opere, specialmente
dell'arte funeraria, vediamo aparire motivi e soluzioni stilistiche
decisamente contrastanti con il gusto classico: strutture compatte e
geometrizzanti, forme «.incompiute», sproporzioni, esasperazioni di
particolari espressivi, ecc. Ci si può chiedere se e fino a che punto queste
manifestazioni siano da spiegare come sopravvivenze artigianali di remote
formule arcaiche, favorite dall'immobilismo rituale del mondo religioso
etrusco, o come improvvisazioni popolaresche senza conseguenze, o
addirittura come casuali effetti di una tecnica manuale scadente. Ma si può
anche pensare a riflessi seppure indiretti dell'attività di artisti che,
accogliendo antichissime assuefazioni locali e reagendo ai modelli greci
secondo il proprio temperamento, abbiano tentato nuove forme di espressione.
Questa ipotesi diventa certezza nel campo della ritrattistica, che ci si
rivela con au- tentiche ed originali opere d'arte (grandi bronzi, pitture,
ecc.) e con innumerevoli prodotti secondari (coperchi di sarcofagi,
terrecotte), i quali mostrano a loro volta il formarsi di una salda
tradizione locale attorno all'attività dei maestri maggiori.
In contrasto con il ritratto greco, al quale pure originariamente si ispira
(nel IV secolo) e talvolta si richiama (nel corso dell'età ellenistica), il
ritratto etrusco tende a realizzare il massimo della concretezza espressiva
per ciò che concerne le fattezze e, in un certo senso, anche il «carattere»
individuale, prescindendo dalla coerenza organica delle forme naturali, ma
accentuando gli elementi essenziali attraverso l'impiego semplice, rude,
discontinuo e a volte violento delle linee o delle masse.
Con questo possiamo dire che è nato un nuovo stile, una nuova tradizione
artistica, effettivamente definita ed autonoma rispetto al mondo greco: una
tradizione che è «etrusca», ma anche, più genericamente «italica», perchè il
suo sviluppo si continua, di là dal tramonto dell'Etruria come nazione,
nell'arte dell'ltalia romana e del mondo occidentale sotto l'impero. Tale
visione «espressionistica» della realtà, specialmente nel ritratto, ma anche
in altri temi d'arte, perdurerà vitale nelle correnti di produzione popolare
dei primi secoli dell'impero, si diffonderà nell'arte provinciale europea,
riaffiorerà impetuosamente nella grande arte romana aulica della fine del II
e del III secolo d.C., costituirà una delle componenti più significative
della civiltà artistica della tarda antichità e del medioevo.
La Religione

Introduzione
Il pantheon etrusco
Lo spazio sacro
L 'al di là
Forme del culto
Il culto degli dei e dei defunti
La ''disciplina etrusca"
L'interpretazione dei fulmini e delle viscere
L'osservazione dei prodigi
Libri Fulgurales
L'arte della divinazione
Il rito di fondazione
Le pratiche rituali
Il rituale funerario
Il culto dei morti




 Introduzione
Gli autori latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo
religiosissimo esperto nell'arte divinatoria. Ebbero infatti un'articolata
letteratura religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano
una serie di rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli
uomini (quella che costituiva la ''disciplina etrusca", ossia scienza
etrusca), quindi sul rito e sull'interpretazione della volontà divina. Di
queste norme possiamo farci solo un'idea attraverso alcuni passi di
Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni
che non ci sono pervenute) e tramite rarissimi documenti etruschi come la
"mummia di Zagabria" o il "fegato di Piacenza". Sappiamo inoltre che quella
etrusca fu una religione rivelata attraverso le profezie di esseri superiori
come il fanciullo Tagete e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle
origini la divinità appare sempre in modo molto impreciso, sia nell'aspetto
che nelle mansioni ed è ragionevole pensare che in principio vi fosse
un'unica entità divina che si manifestava in molteplici modi, assumendo
connotati diversi. Tra l'VIII e il VI secolo a.C. si assiste alla
trasformazione della religione etrusca. Dalla Grecia vennero importate in
Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero figura umana e col tempo
ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli dèi dell'Olimpo classico.





Il pantheon etrusco

Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della
natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarconte era il dio della
tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era
il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell'Etruria -
dice Varrone - era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il multiforme,
che rappresentava l'eterno mutare della stagioni ed era adorato nel
santuario federale di Volsinii. All'antico pantheon appartenevano anche gli
dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità
probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo
originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità
superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l'equivalente
di Zeus ossia Juppiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di
Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea
dell'amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina;
Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon
(Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio); Fufluns a Dionisio (Bacco); Sethlans a
Efesto (Vulcano); di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri)
diventati Castur e Pultuce, ecc.. Ci furono anche dèi nuovi, importati
direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena
etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu
chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l'origine
etrusca delle ''triadi" che conosciamo con certezza soltanto nel mondo
romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva
corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le
coppie (''diadi"), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in
etrusco Aita e Phersipnai).
Gli Etruschi credevano nell'ineluttabilità del destino, al limite potevano
solo rendere più piacevole la loro permanenza terrena, per questo motivo
compivano feste e riti magici. Credevano nell'aldilà, in particolare nell'
inferno, che aveva una porta di accesso, detta mundus, sorvegliato dalla
terribile figura del demone Tuchulcha, mostro con orecchie d'asino, il muso
di avvoltoio e i capelli fatti da serpenti. Questa figura fa maggiormente la
sua presenza nella fase di declino della cultura etrusca, caratterizzata
dalla presenza di morte e persecuzioni.
Il demone degli inferi era Charun, che accompagna i morti nell'aldilà, da
cui si rievoca la figura di Caronte, portava indosso un mantello ed aveva in
mano un martello, simile a quello impiegato oggi per la sepoltura del Papa,
con il quale si tocca tre volte la tempia del pontefice defunto. Un gioco
funebre caratteristico è quello legato al mito di Phersu, da cui ha origine
la parola "persona", che aizza un cane contro una persona con la testa
coperta da un sacco, che lentamente viene legata. Il cane sbrana la persona
e sta a testimoniare l'ineluttabilità del destino. Le tombe rappresentavano
le scene di vita quotidiana: gioia, feste, pranzi e, negli ultimi anni,
dolore e terrore. Adottarono un calendario introdotto dai Tarquini, con
influenze mesopotamiche, e poi modificato da Cesare, con l'aiuto sempre di
tirreni. In esso si ricordavano feste e appuntamenti sacri. Suddivisero la
loro era in dieci saeculum dopo dei quali ci sarebbe stata la fine della
civiltà tirrenica, come in realtà fu confermato dalla storia.





Lo spazio sacro

Lo spazio "sacro", orientato e suddiviso, risponde ad un concetto che in
latino si esprime con la parola templum. Esso riguarda il cielo, o un'area
terrestre consacrata - come il recinto di un santuario, di una città, di
un'acropoli, ecc. -, ovvero anche una superficie assai più piccola (ad
esempio il fegato di un animale utilizzato per le pratiche divinatorie),
purchè sussistano le condizioni dell'orientamento e della partizione secondo
il modello celeste. L'orientamento è determinato dai quattro punti
cardinali. congiunti da due rette incrociate, di cui quella nord-sud era
chiamata cardo (con vocabolo prelatino) e quella est-ovest decumanus nella
terminologia dell'urbanistica e dell'agrimensura romana che sappiamo
strettamente collegate alla dottrina etrusco-italica.

Posto idealmente lo spettatore nel punto d'incrocio delle due rette, con le
spalle a settentrione, egli ha dietro di se tutto lo spazio situato a nord
del decumanus. Questa metà dello spazio totale si chiama appunto «parte
posteriore» (pars postica). L'altra metà che egli ha dinnanzi agli occhi,
verso mezzogiorno, costituisce la «parte anteriore» (pars antica). Una
analoga bipartizione dello spazio si ha nel senso longitudinale del cardo: a
sinistra il settore orientale, di buon auspicio (pars sinistra o
jamiliaris); a destra il settore occidentale, sfavorevole (pars d extra o
hostilis). La volta celeste, così orientata e divisa, s'immaginava
ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, nelle quali erano le
abitazioni di diverse divinità. Questo schema appare riflesso nelle caselle
del bordo esterno (appunto in numero di sedici) e nelle caselle interne (ad
esse corrispondenti, seppure in maniera non del tutto chiara) del fegato di
Piacenza. Tra i numi dei sedici campi celesti, citati da M. Cappella, e i
nomi divini in scritti sul fegato esistono indubbie concordanze, ma non una
corrispondenza assoluta, perche l'originaria tradizione etrusca pervenne
presumibilmente alterata nelle fonti del tardo scrittore romano, con qualche
spostamento nelle sequenze. Ciò nonostante è possibile ricostruire un quadro
approssimativo del sistema di ubicazione cosmica degli dèi secondo la
dottrina etrusca. Esso ci mostra che le grandi divinità superiori,
fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli, si localizzavano
nelle plaghe orientali del cielo, specie nel settore nord-est; le divinità
della terra e della natura si collocavano verso mezzogiorno; le divinità
infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si supponevano abitare nelle
tristi regioni dell'occaso, segnatamente nel settore nord-ovest, considerato
come il più nefasto.
La posizione dei segni che si manifestano in cielo (fulmini, volo di
uccelli, apparizioni prodigiose) indica da qual nume proviene agli uomini il
messaggio e se esso è di buono o di cattivo augurio. Indipendentemente dal
punto di origine, una complicata casistica riguardante le caratteristiche
del segnale (per esempio la forma, il colore, l'effetto del fulmine, o il
giorno della sua caduta) aiuta a precisarne la natura: se si tratti cioè di
un richiamo amichevole, o di un ordine, o di un annuncio senza speranza e
così via. Lo stesso valore esortativo o profetico hanno le speciali
caratteristiche presentate dal fegato di un animale sacrificato, preso in
esame dall'aruspice, secondo una corrispondenza delle sue singole parti con
i settori celesti. Così l'«arte fulguratoria» e l'aruspicina, le due forme
tipiche della divinazione etrusca, appaiono strettamente collegate; ne fa
meraviglia che esse possano essere state esercitate da un medesimo
personaggio, come quel L. Cafatius di cui si rinvenne a Pesaro l'epitafio
bilingue e che fu appunto haruspex (in etrusco netsvis) e fulguriator (cioè
inrerprete dei fulmini: in etrusco trutnvt frontac o trutnvt?). Uguali norme
devono aver presieduto all'osservazione divinatoria del volo degli uccelli,
come intravvediamo specialmente da fonti umbre (Tavole di Gubbio) e latine.
A tal proposito ha speciale importanza lo spazio terrestre d'osservazione, e
cioè il templum augurale, con il suo orientamento e le sue partizioni, cui
senza dubbio si ricollega la disposizione non soltanto dei recinti sacri, ma
dello stesso tempio vero e proprio, cioè l'edificio sacro contenente il
simulacro divino, che in Etruria appare di regola orientato verso sud o
sud-est, con una pars antica che corrisponde alla facciata ed al colonnato
ed una pars postica rappresentata dalla cella o dalle celle. E del pari le
regole sacre dell'orientamento si osservano (almeno idealmente) nella
planimetria delle città (concreto esempio monumentale è Marzabotto in
Emilia), e nella partizione dei campi.
In tutte queste concezioni e queste pratiche, come in generale nelle
manifestazioni rituali etrusche, si ha l'impressione, come già accennato, di
un abbandono, quasi di una abdicazione dell'attività spirituale umana di
fronte alla divinità: che si rivela nella duplice ossessione della
conoscenza e dell'attuazione della volontà divina, e cioè da un lato nello
sviluppo delle pratiche divinatorie, da un altro lato nella rigida
minuziosità del culto. Così anche l'adempimento o la violazione delle leggi
divine, nonche le riparazioni attuate attraverso i riti espiatorii, sembrano
essere soprattutto formali, al di fuori di un autentico valore etico,
secondo concezioni largamente diffuse nel mondo antico, che però appaiono
soprattutto accentuate nella religiosità etrusca. Ma è possibile che almeno
gli aspetti più rigidi di questo formalismo si siano definiti soltanto nella
fase finale della civiltà etrusca, e precisamente nell 'ambito di quelle
classi sacerdotali le cui elaborazioni rituali e teologiche trovarono la
loro espressione nei libri sacri, forse favorite dal desiderio dei sacerdoti
stessi di accentrare nelle loro mani l'interpretazione della volontà divina
e quindi la direzione della vita spirituale della nazione.
Un altro aspetto, che si ricollega alla mentalità primitiva degli Etruschi,
è l'interpretazione illogica e mistica dei fenomeni naturali, che
persistendo sino in età molto recente viene a contrastare in maniera
drammatica con la razionalità scientifica dei Greci. A questo riguardo è
particolarmente significativo e rivelatore un passo di Seneca (Quaest. nat.,
II, 32, 2) a proposito dei fulmini: Hoc inter nos et Tuscos...interest: nos
putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti,. ipsi existimant nubes
collidi, ut fulmina emittantur," nam, cum omnia addeum referant, in ea
opinionesunt, tamquam non, quiafactasunt, significent, sed quia
significatura sunt, fiant. (La differenza fra noi [cioè il mondo
ellenistico-romano] e gli Etruschi... è questa: che noi riteniamo che i
fulmini scocchino in seguito all'urto delle nubi; essi credono che le nubi
si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo alla
divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un significato
in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perche debbono avere un
significato...).





L 'al di là

La mistica unità del mondo celeste e del mondo terrestre si estende
verisimilmente anche al mondo sotterraneo, nel quale è localizzato, secondo
le dottrine etrusche più evolute, il reame dei morti. Gran parte delle
nostre conoscenze sulla civiltà degli antichi Etruschi proviene, come è
noto, dalle tombe (la stragrande maggioranza delle iscrizioni è di carattere
funerario; alle pitture, alle sculture, alle suppellettili sepolcrali siamo
debitori dei dati fondamentali sullo sviluppo delle forme artistiche e sugli
aspetti della vita). Ed è naturale che le tombe ci offrano, più o meno
direttamente, indizi sulle credenze relative alla sorte futura degli uomini
e sui costumi e sui riti collegati a queste credenze. Ciò nonostante siamo
ancora ben lungi dall'avere una idea chiara dell'escatologia etrusca. Motivi
complessi e contrastanti denunciano livelli diversi di mentalità religiosa
ed influenze eterogenee. Ne risultano problemi tuttora in parte irresoluti,
singolarmente affascinanti.
Il carattere stesso delle tombe e dei loro equipaggiamenti, soprattutto
nelle fasi più antiche, offre una testimonianza inequivocabile del
persistere di concezioni primitive universalmente diffuse nel mondo
mediterraneo, secondo le quali la individualità del defunto, comunque
immaginata, sopravvive in qualche modo congiunta con le sue spoglie mortali,
là dove esse furono deposte. Ne consegue l'esigenza, fondamentale per i
superstiti, di garantire, difendere, prolungare concretamente questa
sopravvivenza, non soltanto come tributo sentimentale di affettuosa pietà,
ma come obbligo religioso non disgiunto, probabilmente, da timore. A questo
genere di concezioni appartiene in Etruria, come altrove (e segnatamente
nell'antico Egitto), la tendenza ad immaginare il sepolcro nelle forme di
una casa, a dotarlo di arredi e di oggetti d'uso, ad arricchirlo di
figurazioni pregne, almeno originariamente, di significato magico
(specialmente pitture tombali con s.cene di banchetto, di musica, di danze,
di giuochi atletici, ecc.), a circondare il cadavere delle sue vesti, dei
suoi gioielli e delle sue armi; a servirlo con cibi e bevande; ad
accompagnarlo con figurine di familiari; e, infine, a riprodurre l'immagine
somatica del morto stesso, per offrire un incorruttibile «appoggio» allo
spirito minacciato dal disfacimento del corpo, onde in Etruria (come già in
Egitto) sembra nascere il ritratto funerario. Ma quale sia l'effettiva e più
profonda natura delle idee religio- se che traspariscono esteriormente in
così fatte costumanze e come esse abbiano potuto sussistere ed evolversi
accanto ad altre credenze è cosa ancora tutto sommato assai oscura.
All'origine della storia delle città etrusche vediamo infatti dominare
pressoche esclusivo un rito funebre, quale è quello della cremazione, che
non può non riflettere concetti estranei a quelli del legame materiale tra
spirito e corpo del defunto; che anzi, almeno nella piena età storica, esso
sembra talvolta significare un'idea di «liberazione» dell'anima dai ceppi
della materia verso una sfera celeste. Tanto più curioso è osservare come
nelle tombe etrusche del periodo villanoviano e orientalizzante le ceneri e
le ossa dei morti bruciati si contengano talvolta in urne in forma di
abitazioni o entro vasi che tentano di riprodurre le fattezze del morto (i
così detti "canopi" di Chiusi): ciò che rivela, già dai tempi più antichi
del formarsi della nazione etrusca, una mescolanza di credenze e forse anche
un riaffermarsi delle tradizionifunerarie mediterranee sul costume diffuso
dai seguaci della cremazione. Ne si può affermare che l'idea della
sopravvivenza nella tomba escluda assolutamente una fede nella
trasmigrazione delle anime verso un regno dell"'al di là". Ma è certo che in
Etruria quest'ultima concezione si venne affermando e concretando
progressivamente sotto l'influsso della religione e della mitologia greca,
con l'attenuarsi delle credenze primitive: e si configurò secondo la visione
dell'averno omerico, popolato da divinità ctonie, spiriti di antichi eroi ed
ombre di defunti. Già nei monumenti del Ve IV secolo, e poi soprattutto in
quelli di età ellenistica, la sorte futura è rappresentata come un viaggio
dell'anima verso il regno dei morti e come un soggiorno nel mondo
sotterraneo. Soggiorno triste, senza speranza, a volte dominato dallo
spavento che incute la presenza di mostruosi dèmoni, o addirittura dai
tormenti che essi infliggono alle anime. È, in sostanza, la
materializzazione dell'angoscia della morte in una escatologia
essenzialmente primitivistica. E a simboleggiare la morte sono specialmente
due figure infernali: la dea Vanth dalle grandi ali e con la torcia, che,
simile alla greca Moira, rappresenta il fato implacabile; e il dèmone
Charun, figura semibestiale armata di un pesante martello, che può
considerarsi una paurosa deformazione del greco Caronte dal quale prende il
nome. Sia di Vanth sia di Charun esistono moltiplicazioni, forse con una
propria individualità ed un proprio secondo nome. Ma la demonologia
infernale è ricca e pittoresca, e conosce altri personaggi, come
l'orripilante Tuchulcha dal volto di avvoltoio, dalle orecchie d'asino e
armato di serpenti; accoglie largamente la simbologia di animali ctonii,
come il serpente e il cavallo.
Anche per questa fase più tardiva le fonti monumentali, nei loro aspetti
frammentari ed esteriori, sono insufficienti a darci un'idea sicura e
completa delle credenze contemporanee sull'oltretomba. Stando alle pitture e
ai rilievi sepolcrali, parrebbe che il destino dei morti fosse
inesorabilmente triste ed uguale per tutti: la legge crudele non risparmia
neanche i personaggi più illustri, la cui affermazione di superiorità si
limita ai costumi sfarzosi, agli attributi delle cariche rivestite e al
seguito che li accompagna nel viaggio agli inferi. Esistono tuttavia nella
tradizione letteraria, alcuni accenni più o meno espliciti a consolanti
dottrine di salvazione, e cioè alla possibilità che le anime conseguano uno
stato di beatitudine o addirittura q i deificazione, attraverso speciali
riti che sarebbero stati descritti dagli Etruschi nei loro Libri
Acherontici. Un prezioso documento originale di queste cerimonie di
suffragio, con prescrizioni di offerte e di sacrifici a divinità
specialmente infernali, sembra esserci conservato nel testo etrusco della
tegola di Capua, che risale al V secolo a.C.. Non sappiamo fino a che punto
allo sviluppo di queste nuove concezioni escatologiche abbia contribuito il
diffondersi in Etruria di dottrine orfiche, pita- goriche e, più ancora,
dionisiache (il culto di Bacco è, in verità, largamente attestato anche in
rapporto con il mondo funerario). Comunque le speranze di salvazione
sembrano restare collegate al concetto delle operazioni magico-religiose,
proprie di una spiritualità primitiva, piuttosto che dipendere da un
superiore principio etico di retribuzione del bene compiuto in vita.





Forme del culto

Le testimonianze monumentali, i documenti scritti etruschi e i riferimenti
delle fonti letterarie classiche offrono numerosi dati per la ricostruzione
della vita religiosa e delle forme del culto. Si tratta di costumanze che,
almeno per quel che riguarda gli aspetti sostanziali (luoghi sacri e templi,
organizzazione del sacerdozio, sacrifici, preghiere, offerte di doni votivi,
ecc.), non differiscono profondamente dalle analoghe manifestazioni del
mondo greco, italico e, specialmente, romano. Ciò si spiega per un verso
considerando i comuni orientamenti spirituali della civiltà greco-italica a
partire dall'età arcaica, per altro verso tenendo conto della fortissima
influenza esercitata dalla religione etrusca su quella romana. Uno studio
delle antichità religiose etrusche non può quindi prescindere dal quadro,
ben altrimenti particolareggiato e complesso, che in materia rituale ci
presentano la Grecia e Roma: tanto più difficile è determinare i riflessi
che le concezioni proprie della mentalità religiosa etrusca ebbero, con
motivi peculiari, nella prassi del culto.
Sarà, in primo luogo, da attribuire agli Etruschi quella concreta e quasi
materialistica adesione a norme sancite ab antiquo, quel preoccupato
formalismo dei riti, quel frequente insistere sui sacrifici espiatorii, che
si avvertono nell'ambito delle tradizioni religiose romane come un elemento
in certo senso estraneo alla semplice religiosità agreste dei prisci Latini
e indizio della presenza di un fattore collaterale che non può non
riportarsi ad una antica e matura civiltà cerimoniale, quale è appunto
l'etrusca. Questa ars colendi religiones (secondo l'espressione di Livio nel
passo sopra citato) risponde in pieno al senso di subordinazione dell'uomo
alla divinità, che sappiamo predominante nella religiosità etrusca e
presuppone la fede nella efficacia magica del rito, proprio delle mentalità
più primitive. La concretezza degli atti cultuali si manifesta nella precisa
determinazione dei luoghi, dei tempi, delle persone e delle modalità, entro
i quali e attraverso i quali si compie l'azione stessa volta ad invocare o a
placare la divinità: quell'azione che i Romani chiamavano nel loro complesso
res divina e gli Etruschi probabilmente ais(u)na (cioè, appunto, servizio
"divino", da ais "dio"): donde, anche, la parola umbra esono "sacrificio".
Essa si svolge nei luoghi consacrati (tempia) dei quali si è fatta già
menzione: recinti con altari ed edifici sacri contenenti immagini delle
divinità. Sovente questi edifici sono orientati verso sud e sud-est. Il
concetto di consacrazione al culto di un determinato luogo o edificio è
forse espresso in etrusco dalla parola sacni (donde il verbo sacnisa):
questa condizione può estendersi, come in Grecia e nel mondo italico e
romano, ad un complesso di recinti e templi, per esempio sulle acropoli
delle città (Marzabotto); carattere in certo senso analogo hanno anche le
tombe, presso le quali o entro le quali si compiono sacrifici funerari o si
depongono offerte.
Speciale importanza deve avere avuto in Etruria la regolamentazione
cronologica delle feste e delle cerimonie, che, insieme con le modalità
delle azioni sacre, costituiva la materia dei Libri Rituales ricordati dalla
tradizione. Il massimo testo rituale etrusco, tramandatoci nella lingua
originale -e cioè il manoscritto su tela parzialmente conservato nelle fasce
della mummia di Zagabria - contiene un vero e proprio calendario liturgico,
Con l'indicazione dei mesi e dei giorni ai quali si riportano le cerimonie
descritte. È probabile che altri documenti fossero redatti nella forma
attestata dai calendari sacri latini: e cioè come una elencazione
consecutiva di giorni contrassegnati dal solo titolo delle feste o dal nome
della divinità celebrata.
Il calendario etrusco era forse analogo al calendario romano precesareo:
conosciamo il nome di alcuni mesi e sembra che le "idi", circa a metà del
mese, abbiano un nome di origine etrusca; ma il computo dei giorni del mese
segue generalmente, a differenza del calendario romano, una numerazione
consecutiva. Ogni santuario ed ogni città doveva avere, come è logico, le
sue feste particolari: tale è appunto il caso del sacni cilfh (santuario di
una città non altrimenti identificabile), al quale fa riferimento il rituale
di Zagabria. Le celebrazioni annuali del santuario di Voltumna presso
Volsinii avevano invece carattere nazionale, come sappiamo dalla tradizione.
Tra le cerimonie e gli usi sacri può ricordarsi quello della infissione dei
chiodi per segnare gli anni (clavi annales) nel tempio della dea Nortia a
Volsinii, ricordato a proposito dell'analogo rito del tempio di Giove
Capitolino a Roma. Anche per intendere la natura e l'organizzazione dei
sacerdozi siamo costretti ad avvalerci del confronto con il mondo italico e
romano.
Abbiamo in ogni caso indizi per ritenere che essi fossero varii e
specializzati, strettamente collegati con le pubbliche magistrature e
sovente riuniti in collegi. Il titolo sacerdotale cepen (con le variante
cipen attestata in Campania), particolarmente frequente nei testi etruschi,
è ad esempio seguito spesso da un attributo che ne determina la sfera
d'azione o le specifiche funzioni: come nel caso di cepen fhaurx, che senza
dubbio indica un sacerdote funerario (da fhaura «tomba»). La dignità
sacerdotale in genere o specifici sacerdozi sono designati anche con altre
parole: quali eisnevc (in rapporto con aisna, l'azione sacrificale), celu,
forse santi, ecc. Si hanno inoltre i sacerdoti divinatori: e cioè gli
aruspici (netsvis), rappresentati nei monumenti con un costume
caratteristico composto di un berretto a terminazione cilindrica e di un
manto frangiato, e gl'interpreti dei fulmini (trutnvt?). Il titolo marun-,
è, come già sappiamo, in rapporto con funzioni sacrali, per esempio nel
culto di Bacco (marunux paxanati, maru paxafhuras): si osservi il doppio
titolo cepen marunuxva, che indica probabilmente un sacerdozio con le
funzioni proprie dei maru. Si può ricordare anche il titolo zilx cexaneri,
nel quale si è voluto intendere qualcosa come "curator sacris faciundis",
(ma è congettura molto opinabile). Probabilmente a confraternite si
riferiscono termini collettivi quali paxafhuras,  formalmente analoghi a
quelli che esprimono aggregati gentilizi (per es. Velfhinafhuras nel senso
dei membri della famiglia Velfhina) o altri collegi.
A Tarquinia esisteva in età romana un arda LX haruspicum veri similmente di
antica origine. Uno degli attributi dei sacerdoti era illituo, bastone
dall'estremità ricurva, che è però frequentemente rappresentato nei
monumenti anche in rapporto ad attività profane, per esempio in mano ai
giudici delle gare atletiche. L 'azione del culto è volta ad interrogare la
volontà degli dèi, secondo le norme dell'arte divinatoria; e quindi ad
invocare il loro aiuto e perdono attraverso l'offerta. È probabile che l'una
e l'altra operazione fossero strettamente collegate tra loro; benche sia
ricordata dalle fonti letterarie una distinzione tra vittime sacrificate per
la consultazione delle viscere (hastiae cansultatariae) e vittime destinate
all'offerta vera e propria, in sostituzione dei sacrifici umani (hastiae
animales). Del pari intrecciate in complicati cerimoniali sembrano le
offerte incruente (di liquidi e cibi) con quelle cruente di animali. Il
grande rituale di Zagabria e il rituale funerario della Tegola di Capua
descrivevano minuziosamente, in tono prescrittivo e con un linguaggio
tecnico specializzato, queste liturgie; ma lo stato delle nostre cognizioni
della lingua etrusca non ci consente di stabilire con esattezza il
significato di molti 'termini impiegati nella descrizione dei riti e,
pertanto, di ricostruirne in pieno lo svolgimento. La preghiera, la musica,
la danza dovevano avere larga parte nelle cerimonie. Una scena di culto con
offerte è rappresentata nella parete di fondo della Tomba del Letto Funebre
di Tarquinia.
I doni votivi offerti nei santuari, per grazie chieste o ricevute,
consistono per lo più di statue di bronzo, pietra, terracotta, raffiguranti
le divinità stesse e gli offerenti, o anche animali, in sostituzione delle
vittime, e parti del corpo umano; inoltre vasi, armi, ecc. Questi oggetti
che erano ammassati in depositi o favisse, recano spesso iscrizioni
dedicatorie. Essi variano per valore artistico e per pregio (la massima
parte è costituita da modeste figuri ne di terracotta lavorate a stampo):
ciò che indica, intorno ai grandi centri del culto, una diffusa e profonda
religiosità popolare.





Il culto degli dei e dei defunti

Dopo che i sacerdoti avevano ottenuto attraverso la divinazione la
conoscenza del volere divino, si dava attuazione a tutto ciò che ne derivava
dal punto di vista del comportamento, sulla base delle norme che facevano
anch'esse parte della ''disciplina etrusca" ed erano oggetto di trattazione
nei Libri Rituales. Queste norme si traducevano (e si esaurivano) in una
serie impressionante di pratiche, cerimonie e riti rigidamente codificati e
ripetuti meccanicamente fino a diventare puro e semplice formalismo. Essi
toccavano sia gli aspetti religiosi della vita degli etruschi sia quelli
civili, secondo il principio che ''ogni azione umana doveva essere compiuta
in conformità della disciplina". E per ogni rito, cerimonia di culto o
servizio divino doveva essere stabilito con precisione il luogo, il tempo,
il modo, lo scopo, la persona preposta e, naturalmente, la divinità che
veniva chiamata in causa. Le funzioni sacre si svolgevano perciò in luoghi
rigidamente circoscritti e consacrati (templi, santuari, altari) e il loro
svolgimento era codificato fin nei minimi particolari tanto che, se veniva
sbagliato od omesso anche un solo gesto, tutta l'azione doveva essere
ripetuta da capo. Musica e danza vi trovavano ampio spazio. Oltre all'uso di
sacrificare bovini, ovini e volatili, particolarmente diffuso era quello dei
doni votivi che potevano andare dagli ex voto (statue e statuine di divinità
e di offerenti), alle prede di guerra (armi, carri), agli stessi edifici
sacri (dedicazione di un tempio o di un sacello).
Tra le pratiche di carattere religioso quelle destinate ai defunti avevano
presso gli etruschi un carattere tutto particolare. Esse erano legate alla
concezione (del resto diffusa in altre civiltà del Mediterraneo) che
l'attività vitale del defunto, la sua ''individualità" continuasse anche
dopo la morte e che questa sopravvivenza avesse luogo nella tomba. Spettava
però ai vivi, ai familiari e dei parenti, garantire la sopravvivenza
dell'entità vitale del defunto al quale doveva essere data una tomba, cioè
una nuova casa, e un corredo di abiti, oggetti d'uso personali, cibi, di cui
si serviva simbolicamente o magicamente. Per la stessa ragione vitalità e
forza venivano trasmesse al defunto con giochi e gare atletiche che si
svolgevano in occasione dei funerali o delle ricorrenze anniversarie della
morte. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, la prassi non era
dissimile da quella che avveniva altrove: esposizione del cadavere al
compianto pubblico e alle lamentazioni di donne appositamente pagate
(prefiche), corteo funebre e banchetto presso la tomba. Il culto della
''sopravvivenza" nel sepolcro era ulteriormente sviluppato nel culto degli
antenati e in particolar modo del capostipite, specie delle famiglie
gentilizie. Tra il V e il IV secolo a.C., però, la fede della sopravvivenza
del morto nella tomba cambiò sotto l'effetto delle suggestioni provenienti
dalla civiltà greca. Ad essa si sostituì la concezione di un ''mondo dei
morti" (simile all'Averno o all'Ade) dove le ''ombre" soggiornavano. Ai
defunti vennero allora dedicati particolari riti di suffragio, stabiliti dai
Libri Acherontici, e offerte alle divinità infere (in particolare il sangue
di alcuni animali) che potevano consentire alle anime il conseguimento di
uno speciale stato di beatitudine.





La ''disciplina etrusca"

Secondo gli etruschi gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana:
occorreva quindi ''tradurre" la loro volontà andando in cerca dei segni
attraverso i quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a
disposizione un codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme
precise e costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento
atto a soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo
complesso di conoscenze fu chiamato dai romani ''disciplina etrusca" i cui
principi ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all'intervento
rivelatore della stessa divinità. Essa si sarebbe servita di esseri mitici o
semidei (come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero
''dettato" le verità soprannaturali e insegnato agli uomini l'arte di
avvicinarsi ad esse: in pratica la divinazione. Appositi collegi
sacerdotali, che si tramandavano la professione di padre in figlio, erano
preposti all'interpretazione dei segni della volontà divine: i fulguratores
osservavano le traiettorie dei fulmini, gli àuguri interpretavano i voli
degli uccelli, gli arùspici leggevano il fegato delle pecore e di altri
animali sacrificati.
Le dottrine divinatorie, e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso
e vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della cosiddetta
''disciplina etrusca": i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo Tagete,
trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i Libri
Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa Vegoe,
riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati anch'essi
dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta celeste, della
gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità per la
fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine degli
ordinamenti civili e militari. Esistevano poi i Libri Acherontici, svelati
da Tagete, che esponevano le credenze nell'oltretomba e dettavano le norme
per i riti di salvazione. Infine v'erano i Libri Fatales, nei quali si
trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca, e
i Libri Ostentaria che trattavano dell'interpretazione dei prodigi e dei
fenomeni naturali.




L'interpretazione dei fulmini e delle viscere

L'interpretazione dei fulmini
L'osservazione e l'interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica
alquanto complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui
essi apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le
varie divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di
un solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre.
Il primo era il fulmine "ammonitore" che il dio lanciava di sua spontanea
volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine
che "atterrisce" ed era considerato manifestazione d'ira; il terzo era il
fulmine "devastatore", motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca
scrive che esso "devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di
cose che trova, sia pubbliche che private". I fulmini erano variamente
classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o
solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello
della caduta. C'era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che
alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice
Seneca, "o minaccia o promette o avverte"; quindi quello che "fora", sottile
e senza danni; quello che "schianta"; quello che "brucia", ecc. Ma Seneca
parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che
recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un
tale groviglio di possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano
sbrogliarsi. Plinio il Vecchio arriva ad affermare che un sacerdote esperto
poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario,
riuscire con speciali preghiere, ad ottenerla.
Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c'era l'obbligo di costruire
per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un tumuletto di terra, in
cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i resti delle cose che il
fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone
uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba erano considerati
sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio calpestarli,
erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali "nefasti da
sfuggire", come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio originario
dell'etrusca Volterra.

L'interpretazione delle viscere

Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette in latino
exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato
(in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli
animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione
divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per il sacrificio. Esse
venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi
ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti
da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi e talvolta
anche di cavalli ma soprattutto di pecore.
Delle viscere dovevano essere prese in considerazione la forma, le
dimensioni, il colore ed ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali
difetti. Quando non rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione,
erano ritenute "mute" e inutilizzabili; erano invece "adiutorie" quando
indicavano qualche rimedio per scampare ad un pericolo; "regali" se
promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; "pestifere" quando
minacciavano lutti e disgrazie. L'osservazione era più minuziosa nel caso
del fegato, dato che in esso, per l'aspetto generale e per la particolare
conformazione, veniva riconosciuto il "tempio terrestre" corrispondente al
"tempio celeste". La sua importanza era del resto connessa alla credenza
diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede degli affetti, del
coraggio, dell'ira e dell'intelligenza. Ritenuto che nel fegato fosse
esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di
riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel fegato, le
irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le regolarità, e
quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che occupava la
casella interessata. Per meglio riuscire nell'intento, per l'istruzione dei
giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli di fegato, in
bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e
scritti i nomi delle diverse divinità.





L'osservazione dei prodigi

La fama di insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale
godevano gli Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche
esperti conoscitori del significato di ogni genere di prodigi. Il romano
Varrone, che desumeva evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i
prodigi si distinguevano l'ostentum, che prediceva il futuro; il "prodigio",
che indicava il da farsi; il "miracolo", che manifestava qualcosa di
straordinario; il "mostro", che dava un avvertimento. Tra i prodigi più
frequenti erano annoverati la pioggia di sangue, la pioggia di pietre e
quella di latte, gli animali che parlavano, la grandine, le comete, le
statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle manifestazioni di carattere
straordinario, nelle categorie dei prodigi rientravano anche fatti del tutto
naturali: c'erano perciò alberi e animali "felici" o "infelici", cioè
portatori di cattivo o di buon auspicio, piante commestibili che portavano
bene e piante selvatiche che portavano male. La casistica era infinita: ad
essa tutti prestavano in genere molta attenzione, magari per tradizione o
per rispetto della comune opinione.





Libri Fulgurales

Seneca (II 32 ss.) e Plinio (II,135 ss:) hanno conservato una larga parte di
excepta dai libri fulgorales etruschi e della loro minuziosa casistica
(soprattutto delle opere del volterrano Cecina). Il principio basilare e'
quello secondo il quale: alcuni Dei posseggono le Manubiae, ovvero le
potesta' di scagliare i fulmini.(Serv. Aen. I,42.) In particolare 9 dei
(Plin. n. h.,II,138), forse da identificare con i misteriosi dii novensiles
o novensides della lista di Marziano Capella, ma noti anche in dediche
romane.
I tipi di Fulmine sono 11 per 9 Dei, perche' Tinia (Tin = Giove) possiede 3
manubiae. (Plin. n.h., II, 138; Sen. n.q. II,41) Le 3 manubie possono
distinguersi per il loro significato e per il fatto di essere scagliati da
Giove da solo o con il "consiglio" degli altri Dei.
Prima manubia           del Solo Tinia
Seconda manubia       di Tinia + i 12 Dei Consentes
Terza Manubia           di Tinai + Dei Involuti
I 3 tipi di fulmini possono essere  di natura fisica (Fest. p. 114 L; Sen.
n.q. II, 40) oppure  per alcuni  (Serv. auct. Aen. VIII, 429)
ostentatorium = dimostrativo
(dopo consultazione con i 12 Dei Consentes. Segno di Ira degli Dei.Utile e
dannoso serve per impaurire).
peremptorium = perentorio
(Dopo consultazione con i Dei superiores et involuti. Devasta. Indica che
tutto verra' radicalmente trasforamato nella vita pubblica o privata.)
presagum = presago
(Di avvertimento per suadere (convincere) o dissuadere (far cambiare idea)).
Da Seneca ..manubia placata est et ipsius concilio iovis mittitur.
oppure per altri  (Serv. Aen. I, 230)
quod terreat  = che atterisce
quod adflet    = che soffia
quod puniat   = che punisce
Degli altri 9 Dei abbiamo  solo degli indizi,dalle fonti letterari, per 5 di
essi:
Uni = Giunone
Menerva = (Mnrva,Menrua,Meneruva,Merva,Merua,Mera)= Minerva
Sethlans =   Vulcano
Mari = (Mars,Maris) Marte
Satres = (Satrs) Saturno
La dottrina romana del fulmine attribuiva i fulmini notturni a Summanus e
tenendo conto del fegato di Piacenza e cio' che dice Capella probabilmente
il corrispondente etrusco potrebbe essere Cilen - Nocturnus. Mentre
l'identita' tra Vetisl etrusco e Vediovis o Veiovis romano farebbe
attribuire a questo una manubia infera, anche in considerazione di uno Zeus
sbarbato munito di fulmine frequente nella iconografia etrusca. Anche per i
fulmini vale la dottrina delle 16 regioni che vale per l'epatoscopia.(Plin.
n.h. II, 143)
L'esame del fulmine (e del tuono) da parte dell'aruspice prevedeva una
casitica precisa, enunciataci da Seneca (n.q. II ,48 ,2 ):
1- Da parte di quale Dio proviene
2- quale = di che tipo e'
3- quantum = la durata
4- ubi factum sit, cui = l' oggetto colpito
5- quando, in qua re = in che circostanza

Per quel che riguarda il tipo:
1 - di che colore era il fulmine
manubiae albae = bianche = forse di Tinia
manubiae nigrae = nere = di Sethlans
manubiae rubrae = rosse = forse di Mari
Provenienti dai Pianeti associati al nome divino e non dal Dio.
I fulmini provenienti da Satres provenivano anche dalla Terra in inverno ed
erano detti Infernali.
2 - genus:
l' acre  del fulmine, il grave  del tuono, intensita' e capacita' erano di 3
tipi:
quod terebrat = che perfora,sottile e fiammeggiante.
quod dissipat = che si disperde,passante,capace di rompere senza perforare.
quod urit = che brucia in 3 modi
come un soffio (afflat) e senza grave danno bruciando dando fuoco

3 - C' erano fulmini Secchi - Umidi e Clarum (Plinio)
Per quel che riguarda l'oggetto colpito i fulmini possono essere
fatidica = cioe' portatori espressi di segni eventualmente comprensibili
(fata)
bruta = privi di significato
vana = il cui significato si perde
l'oggetto puo' essere
schiantato = discutere
non rompersi = terebrare
essere + o - affumicato = urere
restare affumicato = fuscare

Per quel che riguarda l'auruspice Seneca dice che il sacerdote procedeva
con l'analisi sistematica = quomodo exploremus
con l'interpetazione dei segni = quomodo interpretemus
con l'espiazione, propiziazione e purificazione = quomodo exoremus
Ma soprattuto il sacerdote non era solo in grado di leggere i segni
ma anche di evocarli con l'attirare (exorare) il fulmine.





L'arte della divinazione

Il segno più importante, la ''voce" più potente della divinità era il
fulmine, che proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l'ars
fulguratoria, cioè quella di trarre dalla sua osservazione tutte le
informazioni possibili, era quindi al primo posto nella divinazione etrusca.
Era regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della
parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in
sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore,
degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all'osservazione
dei fulmini (cheraunoscopia) c'era un'altra forma di divinazione molto
generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse
ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi
dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine. Era l'epatoscopia, o
lettura del fegato degli animali sacrificati, che i romani chiamavano
haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva fosse proiettata la
divisione della volta celeste, veniva strappato ancora palpitante dal corpo
dell'animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano le regolarità e
irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un messaggio. Per questo
venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in terracotta sui quali
erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle divinità. Fra
i modelli giunti sino a noi il più celebre è il ''Fegato di Piacenza". Oltre
al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come il cuore, i
polmoni, la milza.





Il rito di fondazione

Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l'antichità era
quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime
disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo
consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine
significativo di templum) all'interno della quale trarre gli auspici dedotti
dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che
in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione
considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati il centro
della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in
cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti
di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un aratro dal
vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura,
interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco
diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo
equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura
correva inoltre, tanto all'esterno quanto all'interno, un'ampia fascia di
terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che
era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava
la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo
così come ce l'hanno tramandata le leggende è un'applicazione puntuale del
rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi
dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo,
l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del perimetro, profana i sacri
confini e ''invade" la nuova fondazione.





Le pratiche rituali

Dal momento che con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del
volere divino, si trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava
dal punto di vista del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle
norme prescritte dalla "disciplina" e oggetto della trattazione specifica
dei "libri rituali". Tali norme si traducevano in una serie interminabile di
pratiche, di cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i
tempi e i modi nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che
veniva chiamato il "servizio divino" (aisuna o aisna, da ais che significa
dio), nell'indicazione delle persone alle quali l'azione competeva e,
naturalmente, prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I
luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi
regolati dalla successione cronologica delle feste e delle cerimonie
previste ed elencate nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi
particolari, tanto che, qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo
gesto, tutta l'azione avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni
trovavano ampio spazio la musica e la danza; le preghiere potevano essere d'
espiazione, di ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti
riguardavano particolari categorie di animali; le offerte comprendevano
prodotti della terra, vino, focacce e altri cibi preparati.
Particolarmente diffusa, tanto a livello di religiosità "ufficiale" quanto a
livello di religiosità popolare, era l'usanza dei doni votivi. Nel primo
caso poteva trattarsi di statue o altre opere d'arte, di oggetti
particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri; nel secondo
caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per lo più di terracotta (ma
anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i fedeli compravano nelle
apposite rivendite presso i santuari.





Il rituale funerario

Durante il periodo villanoviano, il corpo del defunto era spesso cremato; le
sue ossa combuste venivano raccolte in un apposito vaso che per la sua forma
gli archeologi hanno chiamato "biconico", poichè costituito da due coni
contrapposti, collegati per le basi (museo archeologico-topografico, sala di
Roselle ecc.). In genere, questo contenitore ha soltanto un' ansa (quando ve
n'erano due, una veniva ritualmente spezzata). Inoltre, la sua bocca è
coperta da una ciotola, anch'essa munita di una sola ansa; oppure, nel caso
che il defunto fosse appartenuto alla classe dei guerrieri, è talvolta
coperta da un elmo. Il vaso e il corredo funebre, composto dagli oggetti più
cari al defunto, vengono deposti in un "pozzetto", scavato appositamente nel
terreno; talvolta, le sue pareti vengono foderate con lastre di pietra e
l'apertura ne è chiusa con un lastrone. In alcune zone dell'Etruria d'epoca
villanoviana i cinerari hanno la forma di capanna, le cosiddette "urne a
capanna" appunto (museo archeologico-topografico, sala di Vetulonia), quasi
a voler ricostruire per il defunto la sua casa terrena.
Il corredo mostra alcune differenze, soprattutto a livello di sesso: spesso
la presenza di un rasoio distingue la deposizione dell'uomo, mentre quella
della donna è evidenziata da oggetti usati per la filatura, come un fuso o
una fuseruola. Successivamente, nell'VIlI secolo a.C. il corredo che
accompagna il defunto diventa più prezioso, aumentano gli oggetti di
metallo, soprattutto in bronzo, e compa- provenienti dalla Grecia;
cominciano inoltre altri tipi di sepolture, contraddistinte da dimensioni
maggiori, come le tombe a fossa, nelle quali viene deposto il defunto
inumato. Con l'inizio di questo tipo di sepoltura, il rito cambia; in-
fatti, il corpo del defunto non è cremato, ma è deposto in una fossa scavata
nel terreno, munita talvolta di pareti foderate con lastre di
pietra -Sovana-, come i "pozzetti". In alcune aree dell'Etruria, per esempio
a Vetulonia, più tombe di questo tipo vengono riunite entro circoli di
pietre, quasi a voler tener uniti i membri di una medesima famiglia.
La differente ricchezza presente nei contesti funebri è un dato molto
importante perche segnala, all'interno della società etrusca, il formarsi di
una diversa stratificazione sociale rispetto alla più omogenea situazione
del periodo villanoviano. Nel periodo orientalizzante, nel VII secolo a.C.,
troviamo tombe costruite o scavate nella roccia; la scelta fra le due
possibilità è dovuta ai diversi tipi di formazione geologica presenti nelle
differenti aree e, per molti decenni, i membri di una stessa famiglia (gens)
vengono sepolti all'interno di una medesima tomba . I corredi raggiungono
talora livelli di ricchezza eccezionali; la tomba assume carattere
monumentale, manifestando così la potenza della famiglia a cui appartiene.
Un lungo dròmos (corridoio) porta all'interno della tomba, in cui è scavata
o costruita la camera funeraria sotterranea; all'esterno la protegge un
tumulo artificiale di terra, contenuto da un "tamburo" (un muro circolare)
di pietra. Dal VI secolo a.C. diminuiscono le dimensioni delle tombe,
scompare il loro aspetto monumentale e si assiste talvolta a una specie di
"pianificazione edilizia" all'interno della necropoli, come quella della
Necropoli del Crocifisso del Tufo a Orvieto. Il dato archeologico ci fa
comprendere, in tale caso, che la grande aristocrazia, quella proprietaria
dei monumentali tumuli, ha perso potere in quest'area, lasciando spazio a un
ceto medio. Le costruzioni monumentali permangono in uso solo in alcune zone
dell'Etruria. A Populonia troviamo nella seconda metà del VI secolo un tipo
di costruzione piuttosto origi nale, la cosiddetta "tomba a edicola", il cui
esterno è simile a una piccola casa munita di un tetto a doppio spiovente.
Nel periodo ellenistico ci sono ancora tombe di proporzioni monumentali,
come quelle di Sovana o di Norchia, le note e affascinanti tombe rupestri
scavate nella roccia tufacea. Le loro facciate imitano quelle dei templi o
dei palazzi, come si rileva per la tomba Ildebranda a Sovana. S'intendeva
evidentemente eroizzare il defunto, deponendo il suo corpo all'interno di un
vero e proprio "tempio"; vicino alla tomba vi possono essere altari per le
celebrazioni cultuali dei defunti. Nello stesso periodo, a Volterra le tombe
vengono scavate nella roccia tufacea; sulle loro banchine, ricavate nella
pietra, troviamo urne contenenti le "ceneri" dei defunti di una medesima
gens . Tali "urnette", prodotte dalle botteghe locali in alabastro o tufo,
sono decorate sulla cassa con rilievi più o meno alti, raffiguranti scene
mitologiche tratte dal repertorio greco (Iliade, Odissea, ecc. ) oppure
legati al mondo etrusco (il congedo del defunto dai propri cari, mostri
dell'aldilà ecc.). Il coperchio "rappresenta" in genere il defunto/a disteso
sul letto da banchetto. Il viso della persona effigiata non è inteso quale
ritratto nel senso proprio del termine, ma piuttosto una "tipologia" di
volto, che raffigura  per esempio una "giovane donna" oppure un "uomo
anziano".
Nel II secolo a.C., accanto a questo tipo di urna cineraria, rivolta a una
committenza appartenente a un ceto "medio", compaiono urnette in terracotta,
provenienti dal territorio di Chiusi, realizzate a matrice e deposte in
tombe a "nicchiotto" semplicemente scavate. Furono fatte per una classe
sociale economicamente meno rilevante, che tuttavia ebbe notevole fortuna
politica nell'Etruria Settentrionale del tempo. In alto, sulla cassa, è
scritto il nome del defunto, a testimoniare la diffusione
dell'alfabetizzazione, ormai raggiunta anche da ceti sociali "subalterni".

L'antropomorfizzazione e le statue cinerario

Il Museo Archeologico di Firenze rivela al visitatore un aspetto
interessante della civiltà etrusca, talvolta non del tutto conosciuto. Il
fenomeno riguarda in particolare la città di Chiusi, le cui manifestazioni
connesse all'arte e all'artigianato rivelano, già nel VII secolo a.C., una
tendenza all'antropomorfizzazione: i vasi canopi. Sono ossuari realizzati in
genere con ceramica di impasto, ma talvolta anche in metallo (bronzo),
cinerari che presentano per coperchio una raffigura zione stilizzata della
testa del defunto; qualche volta, il "vaso" ha due piccole braccia disegnate
a rilievo e può essere collocato sulla rappresentazione miniaturizzata di un
sedile (Museo archeologico-topografico, sala di Chiusi). Qualcosa di simile
troviamo anche nel periodo Villanoviano, quando per coperchio del vaso
biconico è posto un elmo, quasi a voler restituire un 'integrità fisica al
defunto.
Successivamente, nel V secolo a.C., questa tendenza diventa ancora più
evidente con la presenza, sempre nella città di Chiusi, di statue cinerario:
grandi sculture, come quella della Mater Matuta, scolpite in pietra, che
ospitano in una cavità interna le "cene ri" del defunto, mentre la testa
amovibile della statua funge da "chiusura".

La tomba come casa del defunto
Gli scavi archeologici delle necropoli ci hanno fornito molti dati sulla
civiltà etrusca. Un fattore costante nell'ideologia funeraria etru- sca
risulta la tomba, sentita come dimora del defunto. Abbiamo già riferito di
alcune urne cinerarie conformate "a capanna", ma anche taluni monumenti
funerari possono denotare questo aspetto. L'ingresso della tomba può essere
costituito da una porta in pietra con tanto di battenti e, a guardia di essa
come a custodia di un'abitazione terrena, sono poste statue di animali
fantastici, quali sfingi leonine, o più vicini alla realtà, come i leoni;
oppure, a testimonianza dell' importanza del defunto, troviamo statue
rigididamente composte di prefiche. Talvolta le camere sotterranee delle
tombe gentilizie riproducono fedelmente la pianta e l'interno di
un'abitazione, il cui "arredo" viene allora "scolpito" nell'interno: sedie,
letti, porte modanate, le stesse suppellettili, nonche i tetti a doppio
spiovente con l'orditura delle travi del soffitto. Medesima decorazione si
riscontra nella forma e nel coperchio di alcune urne cinerarie, che hanno l'
aspetto esteriore identico a quello di una casa. Da tutto ciò emerge
chiaramente l'immagine di un mondo dell'aldilà molto prossimo a quello
terreno. Gli oggetti che facevano parte del corredo funebre testimoniano la
volontà degli Etruschi di ricreare nell'oltretomba la realtà di ogni giorno.
Un'ulteriore testimonianza di ciò è notoriamente rappresentata dalle pitture
delle tombe, che spesso riproducono scene di vita quotidiana e in
particolare di banchetto.





Il culto dei morti

Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto particolare
occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei primi tempi,
esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la morte di una
speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si accompagnava l'
idea che quell'attività avesse luogo nella tomba e fosse in qualche modo
congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva dalla
collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a garantire,
agevolare e prolungare per quanto possibile la "sopravvivenza" con adeguati
provvedimenti.
La prima esigenza da soddisfare era quella di dare al morto una tomba, che
sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo veniva quella di fornirgli
un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d'uso e, insieme, una scorta di cibi
e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del
rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi. Si
poteva così foggiare la tomba nell'aspetto sia pure parziale o soltanto
allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e arredi, e magari
affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei momenti più
significativi della vita del defunto. Quanto alle pratiche proprie dei
funerali, esse andavano dall'esposizione al compianto pubblico al corteo
funebre al banchetto davanti alla tomba. Tutte queste pratiche, insieme alle
cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità
connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei
morti, sacro da rispettare e da venerare. La situazione tuttavia cambiò con
il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo
greco, nel corso del V secolo a .C., alla primitiva fede di sopravvivenza
del morto nella tomba, si sostituì l'idea di uno speciale regno dei morti.
Questo fu immaginato sul modello dell'Averno (o Acheronte) greco, il regno
dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e
Persefone greci).
ALCUNE OPERE:
ARRINGATORE
Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze

Provenienza: Il grande bronzo entrò a far parte, nel 1566, delle collezioni
del Granduca Cosimo de' Medici. Scrive a tal proposito Vasari, in una
lettera datata 20 settembre 1566, al Borghini: "Il Duca ha avuto una statua
di bronzo intera che non gli manca niente, d'uno Scipione Minore" - (l
'identificazione era errata) -"di braccia 3 incirca in atto di locuzione".
Non conosciute le circostanze del recupero, il luogo di rinvenimento rimane
incerto tra quello tradizionale, Sanguineto (PG) sulla riva settentrionale
del lago Trasimeno, e Pila, presso Perugia, località emersa da fonti
archivistiche.

Stato di conservazione e tecnica: grande statua in bronzo eseguita con
tecnica a cera perduta, a fusione cava, in sette parti (testa e collo,
tronco in due pezzi, braccio destro, mano sinistra, le due gambe) poi
saldate e, nel caso delle gambe, inferiormente piene per maggior robustezza,
fissate con chiodi alla toga. Gli occhi, in diverso materiale (avorio, osso
e/o pasta vitrea) erano inseriti a parte e sono oggi perduti. Ciocche di
capelli, bordi della toga, iscrizione ed altri particolari sono incisi. La
mano destra fu spezzata al momento del primo rinvenimento.

Datazione: primi decenni del I sec. avanti Cristo.

Soggetto: la statua, a grandezza naturale, rappresenta un uomo maturo, con i
capelli aderenti alla testa pettinati a ciocche, vestito di una corta toga
(toga exigua), praetexta, e, a contatto con la pelle, di una tunica bordata
da una stretta banda (angustus clavus; vedi il braccio destro). Indossa dei
calzari (calcei). Il suo rango è dichiarato dall' anello che porta alla
sinistra.
La destra è alzata, la mano aperta nel gesto del silentium manu lacere: il
personaggio è ritratto nel momento in cui, apprestandosi a parlare in
pubblico, chiede l'attenzione, di qui il nome con cui la statua è
universalmente nota, l"'arringatore".

Il personaggio, un etrusco, come vedremo dall'iscrizione, si atteggia e
veste ormai alla maniera romana: la sua veste, pur riportabile alla tebenna
etrusca, è ormai accostabile alla toga romana; i calzari presentano la
caratteristica linguetta (lìngula) e le corregge (corrigiae) dei calcei
senatorii romani.

L'iscrizione: incisa su tre righe sul bordo della toga, è un 'iscrizione di
carattere "pubblico": la grafia è composta e ben curata, le lettere
presentano appendici (apicature) destinate a renderle più belle e ricercate.
Il tipo di alfabeto usato è quello presente, in epoca tardo etrusca, nell
'area di Chiusi e Cortona.

aulesi .metelis .ve. vesial. clensi cen .jleres .tece .sansl. terine tu ines
.chisvlics

così interpretabile: "per Aule Metelifiglio di Vel e di una Vesiquesto
(oggetto sacro) al dio Tece Padre è posto (o simile) dal pago (o vico) di
Chiusuli". Certa è l'interpretazione della prima riga, incerta quella delle
altre; quanto basta comunque per capire che ci troviamo di fronte ad una
statua comnemorativa di un uomo pubblico, politico, Aulo Metello appunto,
offerta in suo onore da una qualche comunità in un santuario della zona di
Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno.

Il ritratto: l'iscrizione dichiara con evidenza che, con questa statua, si
voleva ricordare, e rappresentare, un uomo ben preciso, Aulo Metello. Anche
il volto dunque si sarà voluto avvicinare alle fattezze del personaggio,
accentuandosi in questo una tendenza stilistica di pronunciato verismo di
influenza, ancora, romana. Lungo e dibattuto è il problema del nascere e del
fiorire del genere artistico del ritratto, e, soprattutto, il problema di
quando si possa parlare, per una testa dipinta o scolpita, di ritratto,
nella "moderna" accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state
individuate le seguenti tappe:
l) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta
nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine
generica;
2) ritratto tipologico: la genericità dell'immagine si riduce, cercandosi di
indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un
re, un guerriero, un dio), e la sua età (vecchio, giovane).
La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali
del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto
fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un'espressione
psicologica che meglio ricordi il personaggio: è il ritratto fisionomico,
ritratto nella sua accezione moderna, che affonda però le sue radici nei
fermenti della Grecia del IV sec., quando, sullo stimolo della sofistica, si
abbandonano le più antiche remore ideologiche che avevano fino ad allora
impedito dieternare con un tale tipo di ritratto un individuo isolandolo al
di sopra della massa di suoi pari, per giungere ora ad un più pieno
apprezzamento della individualità del singolo. Se ancora per il sarcofago
dell"'obeso" siamo incerti se ci troviamo di fronte ad un ritratto
fisionomico, e non piuttosto ad un ritratto tipologico di dominus adagiato
sulla sua kline, per la nostra statua è ormai chiara, nella cura minuziosa
dei dettagli, la potente influenza del verismo ritrattistico di Roma. Il
collo è lungo, la fronte è solcata da profonde rughe, il taglio degli occhi
prosegue lateralmente in sottili incisioni e la loro intensità è aumentata
dall'ampiezza delle guance, magre e glabre; la bocca, ben disegnata, è
sottolineata da un mento piuttosto deciso.
Aule Meteli, un etrusco (lo dichiara, l'iscrizione) che veste, si fa
ritrarre alla maniera romana. Un etrusco, dunque, ormai pienamente
romanizzato, come giuridicamente romanizzata è, proprio in questi anni,
l'Etruria che, con la Lex Iulia e laLex Calpurnia de civitate (90 a.C.),
acquisisce la cittadinanza romana. La nostra statua è dunque un monumento
che possiamo prendere a simbolo dello scomparire di una civiltà, quella
etrusca, lentamente ed inesorabilmente assorbita da quella romana. Con
debita prudenza possiamo quasi riassumere in questo bronzo un'epoca: " Aulo
Metello, nato etrusco, cittadino romano".
CHIMERA
Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze

 La storia
La Chimera fu scoperta nel 1553 (secondo il Vasari nel 1554), durante la
costruzione di fortificazioni medicee alla periferia della città. Il
ritrovamento avvenne il 15 novembre 1553 e dopo il rinvenimento fu subito
trasportata a Palazzo Vecchio. Questa scoperta sensazionale ebbe larga eco
tra artisti e letterati dell'epoca, come ad esempio il Cellini, il Vasari,
Tiziano ecc. ela notizia si diffuse assai rapidamente, tanto che nella
seconda metà del'500 la Chimera divenne l'interesse precipuo e la mèta di
numerosi viaggiatori stranieri che ne parlarono in appunti di viaggio
corredati spesso da disegni dell'opera.
Da alcuni disegni più antichi e da notizie sul ritrovamento nell'Archivio di
Arezzo risulta che solo la coda, rintracciata dal Vasari, mancava e che non
fu ricomposta. Così viene anche a cadere la leggenda che vedeva nel Cellini
l'esecutore del restauro integrativo delle zampe che dovevano quindi essere
complete seppur danneggiate. Dopo il rinvenimento si cominciò la ricerca di
testimonianze iconografiche che garantissero che si trattasse proprio della
Chimera di Bellerofonte, indirizzando l'indagine soprattutto sui reperti
numismatici. Dal Vasari (Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in
Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime, Firenze 1558, ed Arezzo
1762, pp. 107-8) si ricava e si ha testimonianza del metodo seguito per
giungere ad affermare che il "leone" scoperto ad Arezzo era proprio la
Chimera. Ad un interlocutore che domanda se si tratta proprio della Chimera
di Bellerofonte, come dicono i letterati, il Vasari così risponde:

"Signor sì, perche ce n'è il riscontro delle medaglie che ha il Duca mio
signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in sul collo
di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di serpente, e
abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que' fragmenti di bronzo con
tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite che ella ha
addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella prontezza
della testa di questo animale...".

Quindi, per risolvere i problemi interpretativi che si erano venuti a creare
con il ritrovamento della statua, l'indagine non si limitò alle
testimonianze letterarie e mitologiche, ma progredì nella ricerca di
documentazioni iconografiche antiche, particolarmente per quello che
concerneva la documentazione numismatica. E non si può escludere che la
ricerca di medaglie avesse come fine ultimo quello di scoprire un modello
per restaurare la statua che mancava della coda. Infatti, furono trovate
delle monete d'argento di Sicione recanti l'immagine della Chimera. Queste
monete, ora nel Medagliere del Museo Archeologico di Firenze, facevano
presumibilmente parte delle Collezioni Granducali. Esse mostrano la Chimera
con la giusta posizione della coda, formata dal serpente. La coda con la
testa di serpente doveva avventarsi minacciosa contro l'avversario e non
mordere un corno della testa della capra: si tratta infatti di un restauro
sbagliato eseguito, in epoca neoclassica, da Francesco Carradori nel 1785.

I Medici e la Chimera
La Chimera, come abbiamo detto sopra, fu subito portata a Palazzo Vecchio
nella sala di Leone X: si trattava di un'operazione non solo artistica (in
quanto si adattava al progetto decorativo stabilito dal Vasari) ma anche
"strategica"; in questo senso la Chimera, l'opera più importante
dell"'etruscheria" toscana, stava anche a simboleggiare le fiere che Cosimo
aveva combattuto e domato per costruire il suo regno.

Il mito
Chìmaira, in greco, letteralmente significa capra. Ed infatti questo mostro
della mitologia greca con il corpo e la testa di leone, talvolta alato, con
la coda a forma di serpente, portava nel mezzo della schiena una testa di
capra. Omero (II. VI, 181-182) ed Esiodo (Theog., 321-322) narrano che era
figlia di Tifone. La Chimera fu uccisa dall'eroe Bellerofonte, ritenuto da
alcuni addirittura figlio di Posidone; Bellerofonte riuscì a catturare e
domare il cavallo alato Pègaso, con il quale riuscì ad uccidere la Chimera.
La statua bronzea del Museo Archeologico di Firenze rappresenta la Chimera
ferita in atto di avventarsi sul suo aggressore, mentre la testa di capra si
reclina, morente, per le ferite ricevute.
La coda con la testa di serpente, come abbiamo detto, è un restauro non
giusto: doveva avventarsi minacciosa contro l'avversario e non mordere un
corno della testa della capra. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un
gruppo con Bellerofonte sul Pegaso che colpiva dall'alto, come fa supporre
la ferita sanguinante sul collo della capra. Però non si può escludere
completamente 1 'ipotesi che si trattasse di un dono votivo a se stante.

La datazione
Molto si è discusso sull'appartenenza della Chimera all'arte etrusca, tesi
ormai accettata senza riserve dagli studiosi. La "maniera etrusca" già
notata dal Vasari si riflette in quel misto di naturalismo (nella
muscolatura e nelle vene rilevate, rese con calligrafico realismo, del corpo
teso del leone) e di stilizzazione (nella testa con fauci spalancate in atto
di feroce aggressione e nel pelame della criniera e del dorso, reso con
ciocche dette convenzionalmente "a fiamma"); di conservatorismo (negli
elementi convenzionali arcaizzanti della testa e della criniera) e di
intensa espressività (nell'aggressività feroce del muso del leone e nel
patetico abbandono della testa della capra). Altro elemento a favore della
etruschità di questa opera d'arte è la iscrizione sulla branca anteriore
destra, tracciata sul modello ed eseguita insieme alla fusione. Vi si legge
tinscvil, cioè dono votivo al dio Tinia (assimilabile al Giove dei Romani).
Si tratta di un'iscrizione dedicatoria con caratteristiche grafiche
appartenenti all'area etrusco-settentrionale, cosa che avvalorerebbe
l'ipotesi di una offi- cina nord-etrusca, localizzata ad Arezzo o in zona
contigua. Per quanto riguarda la datazione, quella finora consueta della
fine del V secolo a.C. è universalmente abbassata ai primi decenni del IV
sec. a.C.

La collocazione al Museo Archeologico
Come abbiamo detto sopra, la Chimera rimase a lungo, come un simbolo, a
Palazzo Vecchio e solo molto tempo dopo, nel 1718, venne trasportata nella
Galleria degli Uffizi, proprio come oggetto da esporre in museo. Non a caso
fu trasportata agli Uffizi: in questo periodo, la famiglia Medici non era
più quella potente di una volta e cominciava anche, lentamente, uno studio
più serio sull"'etruscheria", che andava ben oltre la semplice curiosità.
Dopo il 1879 ci furono forti pressioni perche tutto il materiale antico
fosse collocato nel Palazzo della Crocetta, l'odierna sede del Museo
Archeologico. Lo scopo fu raggiunto solo in parte, ma tra le opere
trasferite ci furono l'Idolino, la Chimera ed altri bronzi classici (1890).
MATER MATUTA
Provenienza: Chianciano (Siena). Venne scoperta probabilmente nel 1846 o nel
1847 da Luigi Dei in un terreno a 1 krn. a sud di Chianciano, in località
'La Pedata'.

Stato di conservazione: lacunoso, con numerose reintegrazioni.

Datazione: 450-440 a.C

La statua-cinerario aveva subìto un primo restauro ad opera di restauratori
chiusini dell'800, i quali, seguendo il gusto e la moda dell'epoca, avevano
integrato le parti mancanti con tasselli, scolpiti nella stessa 'pietra
fètida' della scultura (pietra arenaria a grana finissima, tipica delle cave
esistenti nelle vicinanze di Chiusi), tenuti insieme da un impasto di
polvere di pietra fètida e di gomma collosa di natura organica, in modo da
ottenere l'effetto di integrità.

A causa dei danni rilevanti arrecati alla Mater Matuta dall'alluvione del
1966, fu necessario un nuovo intervento di restauro, effettuato con tecnica
perfezionata e rigore scientifico, che ha pennesso di discernere le parti
autentiche del monumento dai posticci del restauro ottocentesco ( eliminati,
quindi, nella nuova ricostruzione).
Il cinerario è in fonna di statua femminile, che regge sul grembo un
bambino, avvolto in un panno. La figura è seduta su un trono, di fonna
cubica, con i braccioli pieni a fonna di finge accosciata con le ali aperte.
La testa, mobile, fungeva da coperchio; ugualmente mobili sono i piedi. Il
corpo, che fa un tutt'uno con il tronco, fu probabilmene ricavato da un
unico blocco di pietra. Nell'interno della statua, secondo Milani, furono
rinvenuti l'oinochòe plastica a testa femminile e lo spillo d'oro con
decorazione granulare, conservati nella vetrina adiacente.
 La statua-cinerario di Chianciano, variamente identificata con una divinità
(Bona Dea; Tujltha, la dea degli Etruschi protettrice dei morti, Proserpina;
o Mater Matuta) con tutta probabilità rappresenta una defunta con il suo
bambino. Dal punto di vista stilistico si nota una tale discrepanza tra
l'esecuzione della testa e quella del corpo (fenomeno, questo, tuttavia
frequentissimo nell'arte etrusca, che si rinnova, anche in epoca posteriore,
nelle figure dei defunti sui coperchi delle urne), da far pensare che siano
stati prodotti in botteghe diverse. Il corpo, massiccio, si stacca appena
dal blocco cubico del trono; il panneggio del chitone e del himàtion è reso
con vivo plasticismo e senso volumetrico nelle ampie e pesanti pieghe
accentuate soprattutto sulle gambe. Molto bella è la testa, con capelli
spartiti sulla fronte, trattenuti da una tenia e ricadenti sulle tempie in
bande ondulate; volto ovale con grandi occhi a mandorla, sottolineati da
palpebre pesanti; naso diritto; bocca con labbra carnose, leggermente
aggettanti, che ne accentuano l'espressione serena e pensosa, che riflette
una eco della grande arte greca del V sec. a.C. La datazione è stata molto
discussa, oscillando tra la metà del V ed il IV sec a.C. Gli oggetti del
corredo (la oinochòe a testa femminile, datata dal Beazley a1470-450 a.C. e
lo spillo d'oro granulato, datato nel 2° venticinquennio del V sec.a.C.) ed
i dati iconografici sembrano confermare la datazione della Mater Matuta al
450-440 a.C. Per il suo uso come cinerario, la Mater Matuta si collega ai
canopi chiusini.
Il canopo (o più propriamente "ossuario antropòide") non è che un 'urna
cineraria con copertura a testa umana, tipica e caratteristica della regione
chiusina. A sua volta, il canopo si riallaccia ad una lunga tradizione, che
sorge nella civiltà villanoviana. Infatti, la copertura ad elmo di alcuni
ossuari villanoviani (generalmente coperti da ciotola-coperchio monoansata)
non è che un principio di antropomorfizzazione, che troverà il suo pieno
sviluppo proprio nell'ossuario antropoide chiusino. Cronologicamente, i
canopi vanno dalla metà del VII al principio dell'età ellenistica (IV
sec.a.C.). I canopi, come le statue-cinerario, hanno una testa mobile, che
chiude il vaso contenente le ceneri; anche essi sono posti su di un sedile
di trono, spesso in terracotta, talora in lamina bronzea, più modesto dei
troni delle statue-cinerario, ma indicante una chiara intenzione di onorare
il ricordo del defunto. Sia i canopi che le statue-cinerario sono peculiari
dell'ambiente chiusino e attestano la continuità coerente e costante di una
cultura artistica che può aver determinato il fiorire in Chiusi di una
scuola scultorea di notevole importanza. Ciò è dovuto prevalentemente al
tipo di fiorente economia agraria, che Chiusi sviluppa in modo particolare,
ma che si ritrova anche in altre città dell'Etruria interna (a differenza di
quanto troviamo nei centri dell'Etruria costiera, la cui florida economia
commerciale e marittima subisce un arresto ed una conversione da mercantile
ad agraria soltanto dopo la sconfitta etrusca a Cuffia del 474 a.C. e la
conseguente perdita del dominio sul mare).
Il SARCOFAGO di LARTHIA SEIANTI

Provenienza: tomba a camera della gens Larcna, rinvenuta nel 1877 in loc.
Martinella, un km a NE di Chiusi.


Stato di conservazione: il sarcofago, pressochè intatto, conserva gran parte
della policromia antica, frequente in monumenti del genere, ma spesso
sbiadita irrimediabilmente dal tempo e dalle condizioni di giacitura dei
reperti. Realizzato in terracotta, fu confezionato in quattro parti distinte
(e poi giustapposte) per l'impossibilità di cuocere insieme il grande
coperchio e la grande cassa. La figura è stata eseguita a mano libera; per
la decorazione della cassa si è probabilmente fatto uso di stampi.

Datazione: secondo quarto delll secolo a.C.

Soggetto: la defunta è immaginata semidistesa sulla kline, il busto tenuto
eretto puntellando il braccio sinistro su due cuscini a bande gialle,
bianche e violacee (nell'indicazione dei colori seguiremo anche le
descrizioni del pezzo al momento della scoperta, quando essi erano più vivi)
dalle lunghe frange gialle e viola. Tiene nella mano sinistra aperta, dalle
dita inanellate, uno specchio circolare: la superficie riflettente interna è
in azzurro, la cornice perlinata in giallo e deve quindi essere immaginata
aurea. La destra discosta dal volto, in un gesto di pudicizia, un lembo
dell'ampio mantello bianco, bordato da una striscia violacea tra due minori
verdi, che le avvolge le spalle, i fianchi e le gambe, coprendo una tunica,
pure bianca, decorata da tre bande verticali (due laterali violacee ed una
verde centrale) e da una banda a V che sottolinea la scollatura. Stringe la
tunica, poco sotto il seno, una cintura annodata, gialla, frangiata, con
motivi rilevati a fulmine ed a dischetto, con punto centrale rosso (forse ad
indicare l'inserzione di una qualche pietra dura). I piedi, con calze verdi,
calzano sandali con legacci verdi decorati con borchiette gialle. La chioma,
a corte ciocche regolari che incorniciano la fronte, reca un diadema (o
forse una ghirlanda) di fiori in giallo; ricordano l'oro la collana a
girocollo con pendente, la bulla a testa di Medusa sullo scollo, le due
armille sul braccio destro. Gli orecchini, a disco con pietre rosse, hanno
un pendente a ghianda.
Il fronte della cassa è decorato secondo un chiaro partito architettonico,
generato forse dalla particolare ideologia funeraria etrusca (la tomba vista
come casa del defunto), o forse, più semplicemente, mediatovi come elemento
decorativo. E' ripartito in quattro settori da cinque pilastrini scanalati
con capitelli compositi, che sorreggono una fila di ovoli ed un listello
piatto su cui è impresso il nome della defunta. I pilastrini inquadrano
spazi rettangolari decorati con due rosoni a rilievo violacei e rossi,
intercalati a due pàtere umbelicate dipinte di giallo.

Il ritratto: come vedremo, l'iscrizione tracciata sul sarcofago al momento
della sua esecuzione, venne poi sostituita, prima dell'uso effettivo, da un'
altra, con un diverso nome: il fatto rende ancorpiù evidente il problema
dell'eventuale valore ritrattistico della figura sul coperchio. In effetti
lungo e dibattuto è, in generale, il problema del ritratto, del suo nascere
e fiorire e, soprattutto, di quando si possa parlare, per una testa, di
ritratto nella "moderna" accezione del termine. Nella sua evoluzione sono
state individuate le seguenti tappe: 1) ritratto intenzionale: il primo
impulso al ritratto, che si manifesta nella sua forma più ingenua,
attribuendo un nome determinato ad una immagine generica; 2) ritratto
tipologico: la genericità dell'immagine si attenua, cercando di indicare con
essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un re, un
guerriero, un dio, una matrona), e la sua età (giovane, vecchio). La III e
la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali del
soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto
fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un' espressione
psicologica che meglio connoti il personaggio: è il ritratto fisionomico, il
ritratto come oggi lo concepiamo.
Nel monumento, la caratterizzazione del volto è piuttosto scarsa e non
sembra andare oltre la generica rappresentazione di una giovane matrona
pomposamente recumbente sulla sua ricca kline, nello sfoggio della sua
ricchezza. La notevole somiglianza del volto stesso con quello dell'analogo
sarcofago di Seianti Tanunia conservato presso il British Museum di Londra,
ci convince ad assegnarlo all'ambito del semplice "ritratto tipologico". L'
iscrizione: larqia:seianti:s.i:sve.(impressa nell'argilla); ...ti
a:lar...lisa: niasa (dipinta sullo stucco che ha coperto la prima): vedi
Corpus Inscriptionum Etruscarum 1215.
Impressa sul listello superiore della cassa prima della cottura, quando
l'argilla era ancora cruda, l'iscrizione indica il nome della defunta, o
forse il nome del personaggio che commissionò il sarcofago, senza poi
usarlo. L'iscrizione, in effetti, risultava, al momento della scoperta,
parzialmente riempita e ricoperta da uno strato di stucco (alcune lettere
sono ancora mal leggibili) sul quale era stato dipinto un secondo nome,
diverso dal primo, oggi quasi completamente scomparso. Poco chiaro per
questo il reale rapporto tra la defunta seppellita nel nostro sarcofago e
gli altri personaggi sepolti nella stessa tomba, sicuramente pertinente alla
famiglia larcna.

Il corredo: attorno al sarcofago furono rinvenuti i seguenti oggetti.
Argento: craterisco in lamina; padella; doppio pettine; tre pàtere; tre
spilloni; un cucchiaino per cosmetici; tre aghi (forse frammento di una
fibula); un paio di pinzette; vetro: cinque pedine da gioco, di vario
colore; alabastro: due anforischi; bronzo: una fiaschetta in lamina; un asse
romano.
Possiamo agevolmente distinguere tre gruppi di materiale: il vasellame da
mensa miniaturizzato, gli oggetti da toeletta, la moneta. Proprio quest
'ultima, presente nel corredo come obolus Carontis, cioè come offerta che la
defunta elargirà al traghettatore degli Inferi al momento di esser
trasportata nel mondo dei morti, ci fornisce un utile dato cronologico per
la datazione della tomba: il monetiere che ha curato la sua coniazione è
infatti M. Titinius, che sappiamo attivo a Roma tra il 189 ed il 180 a.C..
La sepoltura sarà dunque di poco posteriore a tale epoca, visto che la
datazione tipologica degli altri oggetti di corredo non può scendere molto
nel II sec. a.C. I ricchi oggetti da toeletta non fanno che completare,
stavolta con l' oggetto reale, la ricca parure già esibita dalla figura sul
coperchio.
Il vasellame da mensa, miniaturistico, rimanda al mondo del banchetto
aristocratico: una delle manifestazioni tipiche del vivere gentilizio,
esaltata nei cicli pittorici delle tombe di Tarquinia (Tomba del Triclinio,
Tomba dei Leopardi...) come anche e soprattutto dalla figura sdraiata a
banchetto dei grandi sarcofagi maschili ( cfr. quello dell'obesus ) e delle
piccole urne cinerarie. Il particolare pregio del metallo con cui tali
oggetti di corredo sono stati realizzati costituisce un'ulteriore prova
della estrema ricchezza della defunta. Una ricca signora, dunque,
debitamente onorata anche nell ' oltretomba: uno dei tanti indizi della
particolare considerazione della donna nel mondo etrusco. Una considerazione
spesso esagerata da certi moderni, specie influenzati dalla propaganda
"scandalistica" della storiografia greca. Una società rigidamente
androcentrica non poteva che stigmatizzare negativamente la libertà ad essa
concessa, ancor più se questa lo era da un mondo economicamente in
competizione, quale quello etrusco. Al di là di facili esagerazioni possiamo
comunque riscontrare numerose prove di un diverso ruolo rivestito dalla
donna etrusca rispetto ad altre civiltà antiche, assolutamente
androcentriche. Un esempio tra tutti, quello offertoci dall'onomastica. Le
formule onomastiche antiche citano il nome del padre, il patronimico; quelle
etrusche citano talvolta anche il nome della madre, il metronimico (che però
mai sostituisce il primo!). Si veda, come esempio, l'iscrizione tarquiniese
CIE 5471:

Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc Apatrual..., cioè Larth, figlio di Plecus
e di Ramtha Apatrui.
Mentre la donna romana, inoltre, non possedeva un prenome, cioè un nome
proprio, diverso dal nome familiare (ossia il gentili zio che, volto al
femminile, la designava), la donna etrusca aveva invece il proprio prenome
al pari dell'uomo. Il diverso rilievo della donna etrusca nell'ambito delle
società antiche ci è poi confermato anche da altri indizi, anche storici: è
l'etrusca Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, che, alla morte del
marito, impone a Roma il regno di un sovrano ne appartenente alla linea
dinastica, ne voluto da (almeno apparenti) forze politiche interne: Servio
Tullio (vedi Livio, 1,34).
La Lingua
L'etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di origine greca e affine
all'alfabeto latino. Le incognite che ancora oggi la lingua etrusca presenta
sono da attribuire alla sua estraneità rispetto ai gruppi linguistici noti.
A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di Alicarnasso, la lingua
parlata dagli Etruschi era diversa da tutte le lingue conosciute. Dopo la
conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal latino, fino ad
uscire completamente dall'uso.

Il presunto mistero
Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti
Documentazione diretta
Documentazione indiretta
II processo interpretativo
Alfabeto etrusco
Piccolo vocabolario etrusco
Trascrizione delle iscrizioni
Iscrizioni indicanti alfabeti





Il presunto mistero

Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua
etrusca sono tutt'altro che 'indecifrati' o 'indecifrabili': scritti con un
alfabeto di derivazione greca, di tipo euboico ('rosso', cioè occidentale,
secondo la divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei Greci),
fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma
anche in precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni, l'
epigrafia aveva rappresentato il capitolo forse più solido nell'intero
panorama dell'etruscologia.
Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli Etruschi erano
certamente in possesso d'un alfabeto, introdotto in Italia centrale da
coloni euboici dell'isola d'Ischia e comprendente ventisei lettere, come si
desume da una tavoletta d'avorio, dalla finalità evidentemente scolastica,
ritrovata a Marsiliana d'Albegna (Grosseto). Ma quattro lettere non sono
effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e la o, che si confondeva
col suono u), mentre per il suono f dal VI secolo a.C. è introdotto un segno
apposito. La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai
più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento bustrofèdico, cioè
alternato riga per riga. In epigrafi meno antiche si possono incontrare
puntini di separazione tra le parole. In realtà il problema è un altro ed è
un problema d'interpretazione linguistica, non di decifrazione epigrafica:
quello d'intendere il significato dei testi, redatti in una lingua che non
sembra imparentata con nessun altra delle antiche o moderne proposte alla
comparazione, e di elaborare, possibilmente, una descrizione grammaticale,
morfologica e sintattica, di questa lingua, che è poi la condizione stessa
della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di vista, bisogna ammettere
che, nonostante lo sforzo grandioso di molte generazioni di studiosi, i
risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e ciò non per insufficienza
d'impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati, ma per la qualità
medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni etrusche, anche se
numerose (circa 10.000), vengono in grandissima parte da necropoli; sono
perciò di carattere funerario e generalmente molto brevi. Esse ci danno
perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di persona e indicazioni
anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte abbastanza facilmente (ma
talvolta approssimativamente) traducibili.
I pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo
di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria;
una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia -
suscitano invece gravi difficoltà nell'interpretazione, anche perché non si
conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione
letterale (del tipo della Stele di Rosetta). Ciononostante la pazienza degli
indagatori conduce pian piano a singole acquisizioni che, pur nei limiti
quasi invalicabili imposti dalla quantità e dalla qualità dei documenti (ai
testi epigrafici bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli
scrittori antichi), possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza
ben definito. Dopo l'esperienza dei metodi 'etimologico' (che presupponeva
la parentela dell'etrusco con altre lingue conosciute) e 'combinatorio'
(rivolto ad analizzare solo per via interna la 'combinazione' degli elementi
costitutivi del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due nuovi
modi d'accostare il problema linguistico: il cosiddetto 'bilinguismo',
promosso specialmente da Massimo Pallottino, che integra l'analisi
combinatoria con l'uso di fonti interpretative esterne (per esempio, il
confronto con formule di dedica latine e greche); e lo 'strutturalismo' di
Helmut Rix, che reputa sufficiente una descrizione della 'struttura' dei
testi a chiarirne anche il significato. Della grammatica dell'etrusco non è
qui il caso di parlare diffusamente, perché c'introdurrebbe in un terreno di
ardua e complicata spiegazione. Preferiamo dare al lettore l'esempio di una
declinazione di sostantivo ormai sufficientemente accertata (secondo gli
schemi di lingue più note, come il greco e il latino e quello di un
'epigrafe funeraria abbastanza traducibile.
Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che significa 'nome
'): methlumes ('del nome'); methlumth ('nel mome', con valore locativo);
methlumeri ('al nome'). Ed ecco invece l'esempio di epigrafe funeraria (si
tratta dell'iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e riportata sia nel
Corpus Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070, sia nel nuovo
Corpus Inscriptionum Etruscarum, N. 5874): Arnth Churcles [Arnth Churcle],
Larthal [di Larth] clan [figlio] Ramthas Nevtnial [(e) di Ramtha Nevtni],
zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch [appartenente al collegio dei
'maroni'] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu [ha esercitato], avils [di
anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu [è morto].





Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti

Si è già detto che uno dei fondamentali fattori negativi per la conoscenza
della lingua etrusca (e potremmo aggiungere più generalmente della civiltà
etrusca) è costituito dalla ristrettezza della documentazione. Tuttavia
questa documentazione è tutt'altro che trascurabile: si tratta infatti del
più ingente complesso di testimonianze scritte di una lingua antica parlata
in Italia, e nell'intero Mediterraneo centro-occidentale, a parte il greco,
il fenicio-punico e il latino; in età arcaica gareggia per entità con i
resti epigrafici di queste stesse lingue; ed è in continuo aumento. Proprio
il flusso delle nuove scoperte ravviva la speranza che il futuro, anche
prossimo, possa riservarci ulteriori sorprese. È più che probabile che il
sottosuolo etrusco nasconda ancora un ricco patrimonio di iscrizioni. Non si
può escludere che un' attenta indagine nelle aree dei maggiori centri urbani
porti al ritrovamento di testi epigrafici di carattere pubblico,
storico-commemorativo o giuridico eventualmente redatti in etrusco e in
latino (ciò che è ben possibile per le fasi più recenti dell'Etruria
sottomessa o federata a Roma).
Rimarrà naturalmente comunque l'incolmabile lacuna dell'assenza di testi
letterari, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere l'etrusco alla
stessa stregua delle altre lingue del mondo classico. In teoria documenti
letterari etruschi potrebbero scoprirsi nel futuro in papiri dell'Egitto o
di Ercolano (se si tien conto del già avvenuto miracolo - che di un vero
miracolo dobbiamo parlare - del rinvenimento di un testo etrusco sulle bende
di tela di una mummia egiziana); ma si tratta purtroppo di possibilità tanto
tenui e remote da potersi definire chimeriche.





Documentazione diretta

Le testimonianze che attualmente possediamo aifini della conoscenza della
lingua etrusca si distinguono in dirette e indirette. Testimonianze dirette
sono i testi: in gran parte editi nel C.I.E.. in altre raccolte e rassegne
specifiche, ed in varie pubblicazioni monografiche e periodiche; alcuni
pochi ineditì (soprattutto quelli che continuamente vengono in luce, nella
fase che segue immediatamente la loro scoperta). Si tratta di materiale
tutto di carattere epigrafico, cioè di iscrìzioni sopra monumenti od oggetti
di scavo, salvo i frammenti del libro della mummia di Zagabria, che ha
tuttavia anch'esso una provenienza archeologica.
Quest'ultimo documento è di importanza eccezionale non soltanto per la
civìltà etrusca, ma anche più generalmente per le antichità classiche,
trattandosi dell'unico libro sacrale su tela (liber linteus) che ci sia
stato conservato per il mondo greco ed italico-romano. Aveva originariamente
la forma di un panno rettangolare ripiegato, quale è riconoscibile in alcuni
monumenti funerari etruschi. Fu poi tagliato in strisce ed impiegato per
avvolgere la mummia di una donna egiziana, di età tolemaica o romana,
scoperta probabilmente nel medio Egitto (ma il luogo di ritrovamento è
incerto). Questa utilizzazione, nella quale andarono perduti importanti
frammenti del testo originario, è senza dubbio secondaria; ignoriamo quali
precedenti circostanze abbiano determinato la presenza di un libro religioso
etrusco in Egitto. La mummia fu portata in Europa da un viaggiatore croato e
poi dònata al Museo Nazionale di Zagabria, dove J. Krall riconobbe la
scrittura delle fasce come etrusca. Riaccostando tra loro queste bende, si è
potuto ricostruire un testo scritto entro i limiti di almeno dodici colonne
verticali: esso consta attualmente di circa 1200 parole più o meno
chiaramente e completamente leggibili, alle quali si può aggiungere almeno
un centinaio di altre parole che si ricostruiscono dal contesto. Data la
frequenza delle ripetizioni, il numero delle parole sicure diverse fra loro
si riduce a poco più di 500. Comunque il libro di Zagabria è senza paragone
il più lungo ed il più importante di tutti i documenti etruschi finora in
nostro possesso.
Le iscrizioni, scoperte soprattutto nell'Etruria tirrenica, campana e
padana - in minor numero o eccezionalmente nel Lazio, in territorio umbro e
fuori d'Italia (Africa, Francia meridionale) -, sono incise o dipinte sopra
elementi architettonici, pareti di tombe, cippi, sarcofagi, urne, tegole,
statue, arredi, laminette metalliche, vasi, ecc. Esse ammontano ad oltre
diecimila; ma solo pochissime sono di entità rilevante. Tra queste alcune
hanno il carattere di documenti autonomi non legati alla natura
dell'oggetto, nel senso cioè che il loro supporto mobile ha la funzione di
una specifica superficie scrittoria (non diversa da quelle di materiale
deperibile come i volumi di tessuto o di pelle, le tabelle e i dittici
lignei, ecc., che vediamo frequentemente riprodotti nei monumenti figurati
etruschi, ma che nella realtà sono andati perduti a causa del nostro clima,
mentre il clima secco dell'Egitto ha salvato illiber linteus di Zagabria).
La più lunga è inscritta sopra una lastra di terracotta in forma di tegola
proveniente da Capua e successivamente passata ai Musei di Berlino: esso
consta di 62 righe conservate, divise in dieci sezioni, con quasi 300 parole
leggibili; la seconda parte del testo è molto rovinata; la scrittura è
tracciata a righe alternativamente rovesciate in modo da imitare il
procedimento detto bustrofedico. Un testo graffito su ambedue le facce di un
lungo nastro di lamina di piombo, purtroppo trovato in frammenti, è venuto
recentemente alla luce in un piccolo santuario presso Santa Marinella (C. I.
E. 6310): vi si leggono tracce di almeno 80 parole, di cui solo una
quarantina leggibili integralmente; ed è inciso con lettere di proporzioni
miniaturistiche. Una laminetta lenticolare anch'essa di piombo rinvenuta a
Magliano e conservata nel Museo Archeologico di Firenze (C. I. E. 5237) è
caratterizzata da una iscrizione incisa, sui due lati, a spirale con
movimento dal margine esterno verso il centro: vi si contano almeno 70
parole (talvolta non è facile distinguere se un gruppo di lettere contiene
una o due parole).
Un carattere del tutto particolare, per la loro materia e la loro importanza
linguistica e storica, hanno infine le lamine d'oro scoperte nel santuario
di Pyrgi, già più volte citate, di cui due scritte in etrusco una in fenicio
(C.I.E. 6314-6316); l'etrusca più lunga, di 15 righe e 36 o 37 parole,
corrisponde a quella fenicia (nel senso di una bilingue, come già sappiamo);
mentre la più breve è di 9 righe e 15 parole). Non mancano altri documenti
di un certo sviluppo su lamine metalliche, come le tabellae defixionis (cioè
consacrazioni a divinità infere di persone che si vogliono maledire:
specialmente quelle di Monte Pitti C.I.E. 5211 e di Volterra C.I.E. 52) e
alcune di contenuto non precisabile.
Fra i titoli propriamente epigrafici eccelle il cippo di pietra, pro-
babilmente confinario, del Museo di Perugia (C.I.E. 4538), che pre- senta su
due facciate una lunga e bella iscrizione scolpita di 46 righe e 136 parole.
Tra le iscrizioni funerarie alcune sono estese come quella del sarcofago di
Laris Pulenas del Museo di Tarquinia (C. I. E. 5430), tracciata sul rotolo
aperto esibito dal defunto scolpito sul coperchio, con 9 righe e 59 parole;
ma ne esistono anche altre non meno lunghe e rilevanti, benche più rovinate,
dipinte sulle pareti delle tombe di Tarquinia. Esistono inoltre diverse
epigrafi di sepolcri, sarcofagi, cippi che presentano alcune righe di testo
ed una certa varietà di parole; ma la grandissima maggioranza consta di
poche parole ed è redatta secondo formule fisse; non mancano alcune brevi
bilingui etrusco-latine. Le iscrizioni dedicatorie su oggetti mobili si
distinguono in un gruppo arcaico, con proprie formule ed il nome del
dedicante, e in un gruppo più tardo in cui è più frequente il nome della
divinità; ma, tolte le leggende piuttosto estese di alcuni vasi arcaici,
sono anch'esse generalmente brevi e stereotipe. Dobbiamo ricordare infine le
innumerevoli leggende esplicative delle figurazioni tombali, dei vasi
dipinti, degli specchi, ecc., le iscrizioni su monete, proiettili di piombo
e altri oggetti minimi, le marche di fabbrica, in gran parte con nomi
propri. Si aggiungano, per la loro singolarità, i famosi dadi da giuoco di
avorio detti provenire da Tuscania e conservati nella Bibliothèque Nationale
di Parigi, con parolette (certamente numerali) su ciascuna delle sei facce.





Documentazione indiretta

Fonti indirette per la conoscenza dell'etrusco sono: 1) le glosse, ed altre
informazioni offerte dagli scrittori classici e postclassici; 2) gli
elementi etruschi passati nel latino e gli elementi comuni etrusco-italici;
3) gli elementi etruschi sopravvissuti nella toponomastica; 4) i supposti
frammenti di versioni latine da testi originari etruschi.
Le glosse sono parole etrusche delle quali è data la traduzione latina o
greca: citate occasionalmente in testi di autori classici o inserite in veri
e propri dizionari. Se ne contano una sessantina; ma il loro valore come
elementi traduttori esterni, ai fini dell'interpretazione dell'etrusco, è
piuttosto limitato: proprio come nel caso delle bilingui etrusco-latine.
Glosse di carattere vario ci provengono da Varrone (de lingua latina), da
Verrio Flacco (de verborum significatione), da Isidoro (Etymologicum) e
specialmente nel Lessico di Esichio. A speciali categorie di vocaboli
appartengono le glosse etrusche con nomi di piante medicinali e con nomi di
mesi (Papia, Liber Glossarum di Leida) che pare si ritrovino anche nei testi
etruschi: es. Aclus = giugno, cfr. nel testo di Zagabria. Osservazioni di
carattere fonetico e grammaticale sull'etrusco, di scarsissimo valore,
risalgono a Varrone, all' Ars de orthographia di M. Cappella. Per alcune
parole l'origine etrusca è esplicitamente testimoniata dagli scrittori
classici (mantisa. histrio. /ucumo. atrium. ecc.); per altre è ipotetica e
si può anche pensare ad una formazione analogica, cioè a parole latine che
imitino nella terminazione i derivati etruschi, come pure a relitti del
generale substrato preindoeuropeo d'Italia, piuttosto che ad imprestiti
dall'etrusco nella sua fase storica. Preferibilmente si riterranno o
sospetteranno etrusche quelle parole latine di etimologia oscura e di
terminazione etruscheggiante che si riferiscono al linguaggio tecnico del
culto, delle istituzioni civili e militari, della tecnica, ecc. : teniamo
presente il fortissimo influsso culturale esercitato dall'Etruria su Roma
primitiva in questi settori. Ne mancano esempi di vocaboli per i quali
l'etrusco è stato probabilmente intermediario tra il greco e il latino: per
es. groma (nome di uno strumento di orientazione e misurazione dei campi).
Non è da escludere neanche qualche limitato influsso dell'etrusco sulla
fonetica e sulla morfologia del latino. Il problema in tutto il suo
complesso meriterebbe un nuovo più attento esame, anche ai fini
dell'ermeneutica etrusca. Ancora meno chiara è la questione di eventuali
dirette sopravvivenzelessicali etrusche in volgari italiani; mentre
l'ipotesi di una derivazione etrusca dell'aspirazione toscana è accettata da
diversi linguisti.
La difficoltà fondamentale consiste soprattutto nel distinguere tra i
diversi strati e le diverse aree di diffusione dei toponimi preindoeuropei:
ad esempio tra voci toponomastiche di tipo «mediterraneo» o «paleoeuropeo»
generale, diffuse anche nell'Italia centrale (come i derivati dalle basi
carra-, pala-, gav-, ecc.), e voci toponomastiche che invece derivano
dall'etrusco di età storica direttamente o attraverso una forma latina come
alcuni nomi di città (per es. Bolsena da Volsinii, etr. Velsna-). Vanno
infine menzionati gl'ipotetici esempi di versioni in latino dall'etrusco.
Già sappiamo che il corpo dei libri sacri etruschi fu tradotto o compendiato
in latino. Nelle congerie di riferimenti indiretti, riassunti, rifacimenti
di scritti etruschi, dei quali qualche eco è giunta fino a noi, si notano
alcuni brani che ci interessano non soltanto per la conoscenza della
letteratura e della civiltà etrusca, ma anche per le forme di espressione
che potrebbero riflettere una particolare struttura di linguaggio: per
esempio il frammento tratto dai Libri Vegoici e riportato dai Gromatici con
insegnamenti della Lasa Vegoia sulla divisione dei campi.





II processo interpretativo

È evidente che il nostro interesse si concentra soprattutto sulla
documentazione diretta, cioè sui testi etruschi, mentre le fonti indirette
potranno se mai considerarsi come dati accessori e ausiliari. Il problema
che intendiamo affrontare in modo specifico a questo punto è dunque
essenzialmente quello dell'interpretazione dei testi (o «ermeneutica» in
senso proprio, volendo usare il termine tradizionalmente diffuso negli studi
etruscologici), cioè della comprensione del significato dei documenti,
indipendentemente dall'obiettivo della conoscenza della struttura della
lingua dei cui risultati si darà conto nel capitolo successivo.
Il punto di partenza è la constatazione ormai pacificamente e
incontrovertibilmente acquisita in sede scientifica (contro ogni residua
disinformazione in materia) che esiste da tempo una generale e basilare
capacità di leggere e capire, individuandone la qualità e il senso o il
contenuto certo o approssimativo, ogni testimonianza scritta etrusca che
costituisca l'illustrazione di monumenti figurati (nomi di divinità e di
eroi, di persone, ecc.), o ricordi i defunti menzionandone la genealogia,
l'età, la qualità o le azioni, o indichi l'appartenenza e la destinazione di
singoli oggetti con particolare riguardo alle dediche votive, e così via;
mentre per alcuni testi più lunghi di carattere rituale (è il caso
specialmente del manoscritto della mummia di Zagabria, della tegola di
Capua, della laminetta di piombo di Magliano si pensi al Cippo di Perugina)
possiamo accostarci alla comprensione complessiva del valore del documento,
talvolta alla sua articolazione in settori, paragrafi o frasi, e perfino
alla interpretazione di singoli brani.
Il fondamentale ostacolo a maggiori approfondimenti eprecisazioni è
rappresentato dalla incertezza dei valori semantici di una parte notevole
del lessico etrusco, cioè del significato di molte parole e radici, talvolta
anche ricorrenti con frequenza e perciò sicuramente riferibili a concetti
importanti (per esempio la serie di voci diffusissime ar, ara, aras, arce,
art?, ecc. , di cui, nonostante tante autorevoli e motivate ipotesi, non
crediamo ancora possibile considerare accertato il senso); ed in questi casi
occorrerà onestamente confessare la nostra ignoranza. Di molte parole si sa
la rispondenza a concetti generici senza possibilità di precise
oggettivazioni: così nei testi rituali ricorrono termini con funzione
verbale dalle basi hec-, sac-, acas-, ecc. , indicanti azioni di culto, più
o meno nel senso di offrire, porgere, sacrificare, consacrare, forse
invocare; mentre termini come fase, cleva, tartiria, acazr, debbono
corrispondere a singoli tipi di cerimonie e di offerte a cose concretamente
offerte, sacrificate o donate, per altro non distinguibili. Si sa d'altra
parte che la nozione generale di offrire, donare, dare (nell'ambito sacro,
eventualmente votivo, ma anche presumibilmente in quello profano) è espressa
con assoluta certezza dai «verbi» mul-. tur-. al-: il cui reciproco
rapporto, di diversa sfumatura o di diverso impiego preferenziale nel tempo
o di pura sinonimia, resta tuttavia incerto. Il fatto è che per «tradurre»
esattamente non poche parole etrusche occorre, od occorrerebbe, conoscere la
realtà dei concetti che ad essi si sottendono sul piano religioso,
istituzionale, sociale, tecnico: problema, dunque, non tanto linguistico
quanto piuttosto storico-culturale.
Ma i nostri sforzi per intaccare questo grosso nucleo di oscurità del
lessico etrusco, per precisare il significato di parole e di frasi vagamente
intelligibili, e conseguentemente per interpretare sempre più puntualmente e
sempre in maggior numero i testi, sono in continuo, seppur lento e limitato,
progresso, soprattutto a seguito dell'ininter- rotto acquisto di nuovo
materiale di studio, divenuto particolarmen- te sostanzioso nel corso degli
ultimi anni, come già si è rilevato nel capitolo precedente. Si può citare
come esempio tra i più istruttivi il caso della scoperta della già
menzionata iscrizione ceretana «dei Claudii», che con l'espressione apa-c
ati-c, manifestamente significante «e il padre e la madre» ( = latino
paterque materque), conoscendosi già con certezza il valore ati = «madre» e
l'uso della copulativa enclitica -c, ha consentito di accertare
definitivamente il senso della parola apa = «padre», in precedenza vagamente
sospettato e per così dire avvicinato e circuito, ma rimasto nella
nebulosità dell'ipotesiI6. Analoga considerazione, come ben s'intende, vale
per quanto si è detto a proposito della prova del valore ci = «tre», fornita
dalla corrispondenza bilingue delle lamine di Pyrgi. I risultati finora
conseguiti si estendono naturalmente dal signi- ficato delle parole alle
loro funzioni e correlazioni, che danno senso ai contesti. A questo
proposito esistono alcune certezze elementari, come il rapporto di
appartenenza o discendenza indicato da un suffisso di «genitivo» nelle
usuali formule onomastiche: Larces clan «di Larce figlio».
Diremo che esistono due soli principi di evidenza in assoluto: 1)
riconoscere comechessia il significato e la funzione di singole parole; 2)
constatare la natura del documento e, conseguentemente, desumerne il
contenuto complessivo. Si tratta di approcci fondamentalmente diversi e, nei
loro sviluppi, addirittura opposti. Il primo è basato su dati analitici, dai
quali, attraverso un'indagine linguistica strutturale e combinatoria, si
tende alla ricomposizione e ricostruzione del senso generale del testo (o
del contesto). Il secondo, al contrario, considera i testi sinteticamente
per quanto essi possano voler dire, partendo dalle loro caratteristiche
archeologiche e affinità culturali, per poi discendere ai particolari della
valutazione linguistica dei singoli elementi che li compongono.
Le prime parole riconosciute e riconoscibili dell'etrusco sono i nomi
propri. Essi costituiscono di fatto l'enorme maggioranza delle parole
presenti nelle iscrizioni etrusche ed hanno rappresentato il fondamento
iniziale di ogni loro tentativo d'interpretazione. Per quanto riguarda
l'onomastica personale appariva ed appare immediata l'identità formale con
elementi onomastici latini, prenomi (Marce: lat. Marcus) e nomi gentilizi
(Vipi: lat. Vibius); si è constatata altresì un'analoga costruzione con
formula bimembre (prenome e gentilizio) o trimembre (prenome, gentilizio,
cognomen) e presenza del patronimico. Con altrettanta facilità si
riconoscono nomi divini comuni al latino e all'etrusco (Menerva: lat.
Minerva. Selvans: lat. Silva- nus) e nomi greci di divinità e personaggi
mitologici (Alexsantre, Elina, Elinai). Aggiungiamo i toponimi ravvisabili
dalla loro forma latina (Pupluna: lat. Populonia) e loro derivati con valore
di etnici (rumax «romano» da Ruma- «Roma»).
Diverso è il caso per quel che riguarda tutto il resto del patrimonio
lessicale etrusco, estraneo all'onomastica, cioè le parole comuni o
appellativi. È qui che s'incontrano le difficoltà di fondo. Non possiamo
contare su strumenti diretti di traduzione se non per le scarse e malsicure
nozioni fornite dalle glosse. Si vorrebbe perciò ricorrere al confronto con
radici e formazioni di parole di altre lingue, supponendo una loro origine
comune, nel senso del vecchio metodo etimologico.
Passiamo ora all'esame dell'altra possibilità di cogliere l'espressione di
un testo, o di parte di esso, nella sua globalità partendo da indizi
esterni. Il tipo del monumento o dell'oggetto inscritto è stato sempre, fin
dall'inizio, una guida sicura per delimitarne il senso: tanto ovvia e
istintiva da restare per lungo tempo sottintesa (se ne è avuta coscienza
critica soltanto con la teorizzazione del metodo bilinguistico). È evidente
che l'epigrafe di un sarcofago o di un loculo tombale non può che riferirsi
ad un defunto, formulandosi presumibilmente nello stesso schema dei testi
funerari latini: ciò che era stato avvertito già a partire dalle
osservazioni degli eruditi del Settecento, con tutte le conseguenze relative
(onomastica personale, rapporti e termini di parentela come clan = figlio,
sex = figlia, e così via). Altrettanto evidente è che sugli oggetti mobili
(vasi, statuette di bronzo, ecc.) debbono necessariamente comparire
annotazioni di proprietà o di destinazione o, soprattuto se il luogo di
provenienza è un santuario, dediche a divinità, implicanti la presenza del
nome dell'offerente, dei termini esprimenti l'azione dell'offerta,
eventualmente del nome divino, come nelle analoghe iscrizioni greche o
latine. Ancora più evidente è che le parole scritte accanto a figure di
divinità o di eroi, per esempio in scene di specchi o in pitture, sono
didascalie che notificano il personaggio (cosiddette «bilingui figurate»).
Le parolette incise su ciascuna delle sei facce dei dadi da giuoco «di
Tuscania» rappresentano senza il minimo dubbio le prime sei unità numerali.
Ogni scarto da questi elementi di certezza non può che condurre ad
interpretazioni aberranti.
L'evidenza «obiettiva» desunta dall'accostamento di testi etruschi a testi
di altra lingua in ambienti culturalmente vicini e per casi di dimostrabile
o presumibile af- finità di contenuto può estendersi, sia pure con cautela,
anche a documenti per i quali sono meno significativi gl'indizi offerti
dalla natura archeologica dell'oggetto o del luogo, quale è soprattutto il
libro su tela di Zagabria, le cui formule rituali sono state studiate
tentando di stabilire paralleli con formule rituali umbre delle Tavole
Iguvine, o latine degli Atti dei Fratelli Arvali, del de agricultura di
Catone, e altre.
Richiami culturali e storici valgono talvolta a legittimare confronti anche
più lontani, come quello fra il titolo di magistratura etrusca zilafh mexl
rasnal (ricorrente con lievi varianti formali in iscrizioni del IV-III
secolo a.C.) e il titolo onorifico latino di età romana imperiale praetor
Etruriae o praetor (Etruriae) quindecim populorum, di cui si è già parlato:
esempio significativo di una rispondenza generale che dà l'impressione di un
vero e proprio «calco linguistico», ma che è più difficile analizzare nel
senso e nel rapporto delle singole parole dei populi etruschi. Lo stesso
«principio dei testi paralleli» come fonte primaria d'interpretazione
globale vale ovviamente, per le vere e proprie bilingui. Le quali tuttavia,
salvo il caso speciale di Pyrgi, sono poche e brevissime. Si tratta di
iscrizioni funerarie redatte in etrusco e in latino, che presentano
corrispondenze di nomi personali e solo eccezionalmente dati utili per la
conoscenza del lessico e della grammatica. Assai più ampio e complesso è
naturalmente il contributo che hanno offerto e possono offrire le lamine
d'oro di Pyrgi inscritte in fenicio e in etrusco (A), per le quali potrebbe
essere discutibile la definizione come «bilingue» in senso tecnico,
trattandosi di oggetti distinti (comunque uguali e trovati insieme); ma che
a parte alcune indiscutibili divergenze tra i due testi, hanno in sostanza
lo stesso contenuto: cosicche la versione etrusca risulta più o meno
efficacemente illuminata da quella fenicia, con risultati di grande
importanza ermeneutica già in parte rilevati e di cui si tratterà ulterior-
mente più avanti in uno specifico esame di queste iscrizioni.
Partendo dalle certezze di base sin qui descritte (valore di singole parole
con particolare riguardo all'onomastica e significato d'insieme dei testi),
il processo interpretativo si sviluppa ulteriormente, a livello di ipotesi,
attraverso più approfonditi tentativi di analisi contestuale e strutturale,
nei quali consiste l'essenza di ciò che, più o meno vagamente, suole
intendersi come metodo combinatorio: com- plesso di operazioni che non ha,
dunque, capacità di rivelazioni ermeneutiche primarie, ma svolge una
funzione secondaria di verifica, precisazione ed estensione dei dati
acquisiti. Si tratta di controllare la ricorrenza delle singole parole,
valutarne la posizione e i rapporti, studiarne le forme, prospettarne le
funzioni, distinguere frasi e partizioni dei testi, e così via. Molte volte
i risultati di queste indagini ricostruttive sono ovvii o altamente
probabili: quasi un semplice prolungamento delle nozioni di partenza, con
conseguente ampliarsi delle zone di traducibilità praticamente sicura. Altre
volte invece si tende a costruire ipotesi ingegnose, ma non dimostrabili,
spesso contrastanti tra loro, o a costruire ipotesi sopra ipotesi, e a
sostenerle puntigliosamente, sino a dare l'impressione di una gigantesca
macchina girante a vuoto: ciò che costituisce appunto il limite degenerativo
di tanta parte dei tentativi «combinatorii» degli ultimi decenni, cui va
reagito con un maggiore senso di misura e di prudenza.
Occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che non soltanto
tutte le conquiste sino ad oggi realizzate nel processo d'interpretazione
dei testi etruschi, ma anche l'intero patrimonio di conoscenze sulle
caratteristiche e sulla struttura della lingua etrusca di cui si darà conto
nel capitolo successivo derivano in ultima analisi da quei dati di evidenza
primaria sui quali si è ritenuto opportuno insistere nelle pagine che
precedono. Lo studio linguistico è nettamente conseguente all'originaria
certezza dei significati, e non viceversa.





Alfabeto etrusco

Si riporta brevemente l'alfabeto etrusco, visto nelle diverse fasi del
periodo etrusco:


Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle principali lingue
del mondo classico:



Inoltre, si confrontano gli alfabeti delle principali lingue italiche:

Etrusco

Osco

Umbro

Volsco







Piccolo vocabolario etrusco
In questo vocabolario, uso le due lettere sh per rappresentare la lettera M
Etrusca, scritto normalmente con s'.
ais, plurale
aisar, dio.
am, esser.
an, egli, ella.
apa, padre.
ati, mader.
avil, anno.
clan, figlio.
eca, questo.
fler, offerta, sacrificio.
hinthial, anima.
in, esso.
lauchum, re.
lautun, famiglia.
mi, mini, Io, me.
mul-, offrire, dedicare.
neftsh, nipote.
puia, moglie.
rasenna or rasna, Etrusco.
ruva, fratello.
spur- or shpur-, città.
sren or shran, figura.
shuthi, tomba.
tin-, giorno.
tular, confini.
tur-, dare.
zich-, scrivere.
zilach, un tipo di magistrato.

Numerali:
1. thu
2. zal.
3. ci.
4. sha.
5. mach 6. huth.
7. semph.
8. cezp.
9. nurph.
10. shar.






Trascrizione delle iscrizioni

Le trascrizioni delle lettere etrusche qui adottate sono conformi agli usi
più comuni tra gli etruscologi. Ciò a comportato la composizione di
segni-immagini appositamente create , , ,   etc. che potessero essere viste
con qualsiasi sistema operativo. La soluzione non è molto elegante sul piano
tipografico, ma non crea confusioni di lettura rispetto ai simboli
tradizionali.
Per la trascrizione delle spiranti si sono impiegati i simboli tradizionali
(quelli del Thesaurus Linguae Etruscae e del Corpus Inscriptionum
Etruscarum), sebbene vari autori si siano adeguati al sistema del Prof.
Helmut Rix, sistema che dà luogo a qualche arbitrarietà, poiché presuppone
una precedente ipotesi sulla provenienza dell'iscrizione. I valori delle
lettere dell'alfabeto etrusco sono noti da parecchio tempo anche nelle
varietà locali. L'unico problema riguarda il suono marcato dal san o tsade
nell'area meridionale che equivale al suono marcato dal sigma comune a tre
tratti al Nord e al sigma a quattro tratti  usato a Caere. Il prof. H. Rix
ha riportato in auge una vecchia ipotesi di A. Pauli, secondo cui  l'etrusco
ha una spirante postden­tale [s] e una spirante palatale [ ] (quella di it.
sci, ingl. shape, franc. chou etc.). Questa tesi va acriticamente prendendo
piede presso altri etruscologi, sebbene non possa basarsi su alcuna prova
epigrafica e linguistica. Secondo un'altra ipotesi, sostenuta da M. Durante
(in Studi in onore di V. Pisani, I, Brescia 1969, pp. 295-306) e caldeggiata
da M. Cristofani (Introduzione allo studio dell'etrusco, Firenze 1991), i
grafemi suddetti marcano /ss/: lo dimostrerebbe il fatto che il suffisso
patronimico e gamonimico -sa (al Nord) o - a (al Sud) è trascritto in
caratteri latini come -ssa.

L'ipotesi che il san meridionale e il sigma settentrionale esprimano [ss]
potrebbe essere accet­tata senza grosse obiezioni quando tale grafema non è
all'inizio della parola; ma per i numerosi termini "meridionali" che
iniziano col san e "settentrionali" che iniziano col sigma occorrerebbe
supporre una "tensione dei muscoli orali" (per usare le parole del
Cristofani) che contrasta con le regole dell'economia fonetica. È probabile
che nell'etrusco recente questo potesse essere uno degli esiti del suffisso
suddetto. Occorre però notare che a volte il suffisso è scritto -za sia in
caratteri latini che etruschi e che anche altri dati epigrafici (ad es. la
serie ut(u)s e / u uze / utu e / utuse) mostrano come i grafemi in questione
marcassero un'affricata postdentale o un suono confondibile con essa. A
nostro avviso il san meridionale  (Volsinii, Vulci, Tarquinia, Campania), il
sigma  al Nord (Chiusi, Perugia, Cortona, Siena, Volterra, Vetulonia,
Populonia, Emilia, Adria) e il sigma a quattro tratti  di Caere marcano
appunto un suono affricato postdentale, che spesso è l'esito di un incontro
s+t o di un originario gruppo st- . Come afferma ad es. André Martinet, in
latino i gruppi -ts- originari si risolsero in -ss-. Quindi anche nel tardo
etrusco la particolare affricata posdentale marcata dai simboli suddetti,
forse più prolungata di /z/, si sarebbe risolta ora in -ss- ora in -zz-
(sorda) quand'era in  posizione intervocalica.
             In alcune iscrizioni della zona di Cortona, e in particolare
nella Tabula Cortonensis, è usata una e rovesciata  che qui viene riprodotta
con lo stesso simbolo.  Dall'esame della Tabula Cortonensis si deduce che
essa marca tre diversi suoni:
1) una e con indebolimento verso i, come nei derivati di *pet- (p tkeal, p
tr-), in t csinal, s tmnal etc.
2) una tendenza all'atonìa a favore della liquida o nasale successiva (p
rkna, t rsna, c n, t n a) o una colorazione verso o (ad esempio i casi in
cui si ha lat. ol, rispetto a etr. el : nel gruppo vel- di V l, V lara, V l
inal, V l ur, V lusina, V l e e poi in F l ni, liunt , t l; in C latina e
anche in pru che pare avere la base di lat. oper-.
3) una  e lunga e chiusa in Sc va < Skaiva, Sc v  < Scevai , An < Anei ,
sparz te < *sparzaite che corrisponde all'uso del digrafo ei nell'umbro
scritto in caratteri latini.

    In alcune iscrizioni dell'area senese e nel Fegato di Piacenza è usata
una particolare forma a U o V rovesciato ( ) per marcare /m/. Ad esempio le
iscrizioni

 si leggono
1 = l . hepni . hermes  2avial
2 = herme . hereni  2 lar al.

Nell'iscrizione 2 sono notevoli le forme di m e di h ; in 1 sono notevoli le
legature di lettere che realizzano ep e me.






Iscrizioni indicanti alfabeti

            Si riportano brevemente esempi di alfabeti rinvenuti su reperti
archeologici


1. a b c d e v z h  i k l m n s  o p s q r s t u
2. a b c d  v e z h  i k l m n  o r s q s t u

1 Alfabeto modello inciso su una tavoletta di avorio, da Marsiliana (agro di
Vulci; VII sec. a. C.). Si notino le spiranti   , M, , X.
2 Alfabeto inciso sull'anforetta di Formello (presso Veio; VII sec. a. C.)
con le spiranti   , M, , X.

3 Parte di alfabeto scritto su un bucchero del VI secolo a. C., trovato a
Ferentum.
   a c e v z  i k l


4. Alfabeto inciso sul letto funerario di una tomba di Magliano (Toscana),
VI sec. a. C.
   a e v z h  i k l m n p  r s t u    f


5. Alfabeto inciso su un vaso perugino della seconda meta' del VI secolo a.
C.
    a e v z h  i k l m n p  r s t u
Dopo l'alfabeto sono scritte 4 lettere, in senso opposto: tafa (altri
leggono abat o afat).


6. Alfabeto su ciotola proveniente dagli scavi presso Roncoferraro
(Mantova). L'alfabetario, che risale
   al IV sec. a. C., rispecchia fedelmente le norme ortografiche dell'
Etruria padana, da Spina a Bologna.

a e v z h  i k l m n p  r s t u    f


 7. Alfabeto scritto su un fondo di vaso trovato a Poggio Moscini (Bolsena)
e datato al II secolo a. C.      ] c e v z h  i l m n p  r s t u  [

Il Cippo di Perugia

         E' un cippo rettangolare di travertino, ritrovato nei dintorni di
Perugia e conservato ora al Museo archeologico della città.
L'iscrizione corre per 24 righe sulla facciata e continua su una delle
supertìci per 22 righe, per un totale di 128 parole.
La scrittura è quella in uso a Perugia tra III e II secolo a.C.
Il testo, a carattere giuridico, e la trascrizione su pietra di una sentenza
relativa a questioni di proprietà tra le famiglie perugine dei Velthina e
degli Aftuna.
Il Fegato di Piacenza

L'argomento è stato già affrontato nella sezione archeologica relativa a
Piacenza. In questo paragrafo affronteremo l'aspetto linguistico e la sua
interpretazione.

 Il fegato etrusco di bronzo ha le seguenti dimensioni: mm 126 x 76 x 60.

Per l'esame delle viscere esso veniva capovolto di sotto in su perché la
parte inferiore era ritenuta la più importante, su questa si alzano tre
protuberanze che sporgono: la più piccola a forma semi mammellare (il
processus papillaris), la seconda piramidale (il processus pyramidalis), la
terza è la cistifellea.

Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a
nomi di divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone),
Neth (Uns), (Nettuno), Vetisi (Veiove), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva
(Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae
(Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione
romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di un lobo
(Usils = parte del sole), l'altra sull'altro (Tivs = parte della luna). Il
fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici caselle
contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici caselle
corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano il
cielo.


Fegato di fronte e trascrizione

Sul fegato etrusco sono stati fatti molti studi, i più importanti furono
quelli dei  ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905), Thulin (1906)
che misero in risalto l'importanza di questo cimelio archeologico
definendolo un documento fondamentale per la conoscenza della religione e
della lingua etrusca. Ma a che cosa serviva questa riproduzione bronzea di
un fegato di pecora con tante iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo
confrontò con il coperchio di un'urna cineraria ritrovata a Volterra che
rappresentava un sacerdote (3° secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come
quello ritrovato a Ciavernasco di Settima, vicino al ponte della Ragione.
Dunque il nostro bronzo è uno strumento originale della "disciplina";
l'aruspice interpretava il volere divino da segni particolari riscontrati
nel fegato della vittima sacrificata, cioè poteva prevedere se un'impresa si
sarebbe compiuta sotto influssi favorevoli o sfavorevoli, confrontando il
viscere ancora caldo col modello bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da
prontuario.
 Il Fegato Etrusco risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti
Cristo (come denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle
iscrizioni) e non all'epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana
(V - IV - sec. a.C.). Quindi il fegato non è da ritenersi un documento della
dominazione etrusca nella provincia di Piacenza, ma un oggetto prodotto
successivamente da nuclei etruschi presenti nelle colonie tra Pesaro e
Rimini o nella stessa Piacenza, oppure è da ritenersi un oggetto erratico
perduto da un auspice che seguiva una legione romana (Ducati). La sua
relativa "tardità" nulla toglie all'interesse che desta in noi, perché
rappresenta una lunga tradizione conservatasi intatta attraverso i secoli
(Terzaghi). Più di quaranta saggi sono stati pubblicati in tutto il mondo
sul Fegato piacentino, ciò testimonia la "fama" a livello mondiale del
nostro reperto, unico esemplare nella sua forma (esiste un altro Fegato di
Alabastro al museo Guarnacci di Volterra); modelli di fegato con le stesse
caratteristiche suddivisioni, sono stati ritrovati a Babilonia, nella valle
del Tigri e dell'Eufrate e ad Hattusas la capitale degli Ittici. Questi sono
in terra cotta ma utilizzati con lo stesso scopo religioso di quello di
Piacenza.

Esiste anche un'interpretazione geografica del fegato, di cui si riporta una
breve descrizione:
·         le scritte sulla parte posteriore della mappa indicano le due
regioni principali della mappa, la parte meridionale LIVR (o TIVR, non e'
chiara la lattera iniziale) diventa YHDS (oppure T-HDS) che ricorda sia la
parola GIUDA che la HADESH (Kadesh) storicamente famosa e attualmente
localizzata erroneamente nella Siria mediorientale
·         la regione settentrionale viene invece denominata YSILS che
diventa P^HY^, leggibile come PNHYN (in queste scritte le due lettere S
etrusche appaiono unificate e quindi c'e' equivalenza tra la N semitica e la
sua quasi uguale ^, la lettera "muta"), la regione del monte PAN-Cervino
nonche' legata alla questione punica Tra le scritte delle singole regioni
appaiono evidenti le seguenti interpretazioni:
·         la montagna a forma di conoide, il monte Cervino, si presenta con
la scritta TLUS che diventa TYP^ (TYPN), il nome della divinita' TIFEO
(TIFONE)
·         Tifeo-Tifone e' legato storicamente ai vulcani dell'Italia
meridionale, dall'area vesuviana al vulcano Etna e difatti nella mappa
compare la scritta TYP^ esattamente nel settore che corrisponde alla
Campania e nello spicchio esterno corrispondente alla Sicilia
·         tra la regione Sicilia (TLUS che diventa TYP^) e la regione
Calabria c'e' un segno lungo che indica chiaramente lo stretto di Messina
·         la regione Calabria, indica con il nome LEThA tale stretto di
Messina e la parola diventa YG-ZB
·         a prescindere dal significato suo originale (per esempio Z-B,
"questo e' il padre"), ZB e' lo ZEB famoso nelle cronache assire, un fiume
che nasce dal Monviso, scorre nell'Adriatico, passa dallo stretto di Messina
e arriva a sfociare nell'oceano Atlantico
·         che la parola ZB sia legata a questo fiume appena descritto lo
ritroviamo nella parola accanto al Monviso, che anch'essa la si legge come
YG-ZB-K (LEThAM etrusco)
·         sappiamo per certo che il fiume ZEB erano due, uno meridionale e
uno settentrionale, e difatti troviamo aldila' della catena alpina, dove
nasce il fiume Danubio, la parola CAThA che diventa tB-ZB, il "doppio Zeb",
o meglio l'altro Zeb da identificare come Danubio
·         nella parte centrale del fegato abbiamo la catena alpina e sotto
di essa abbiamo il fiume che nasce dalla protuberanza a sinistra, il Po e il
Monviso
·         la catena montuosa alpina si abbassa nella parte occidentale
·         l'ultima lingua della protuberanza rappresenta la striscia
morenica all'imbocco della valle d'Aosta (la piu' grande morena glaciale
d'Europa, un panorama unico che lo si nota fin da lontano)
·         si raggiunge cosi' la zona della grande piramide, cosi' alta da
essere visibile da tutta la pianura
·         finche' siamo in pianura la piramide e' rappresentata dal
Monterosa (un riferimento unico per come si distingua nettamente dal resto
della catena)
·         girando dietro la morena ed entrando nella valle d'Aosta la vera
montagna-piramide la identifichiamo con il monte Cervino
·         la regione Toscana appare come YD^Y, chiaramente legata a Giuda e
la parola successiva contiene il DG che contraddistingue la civilta'
etrusca, il VEL che diventa appunto DGY, con DG uguale a "pesce" ma anche ai
successivi DOGI
·         la regione delle Marche appare come "tHYGL", chiaramente legata ai
TIGLAT assiri di cui troviamo tracce nei reperti Piceni
·         la regione degli Abruzzi appare come NGY-DB e sembra legata
all'influenza della lingua ungherese (non e' un caso che sia cosi' dato che
il popolo Israelitico abitava a fianco di altre popolazioni e gli stessi
Edomiti balcanici presero il loro posto durante le deportazioni), SELVA
diventa NGY-DB, il "grande dio" ("nagy deba")
·         la stessa scritta NGY-DB la ritroviamo difatti nella zona
balcanica a mostrare il collegamento di questa regione italica con quelle
balcaniche-danubiane
·         nelle regioni tedesche, nella parte settentrionale della mappa,
troviamo riferimenti ai "fasci", P-Sh (con la P che semiticamente si tramuta
facilmente in F, come Fenici e Punici)
·         la parte piu' settentrionale, all'incirca la Danimarca, viene
scritta come TINSRNE che diventa THLNS-LG, i "luoghi di Atlans" e mi sembra
ovvio come questo abbia portato a considerare anticamente Atlante colui che
sostiene il mondo (e' questa la regione dove si e' piu' vicini al cielo
della stella polare) e anche Atlantide trova qui la sua localizzazione
Le Lamine di Pyrgi

Nel 1964, a Santa Severa, cittadina che sorge sull'antica Pyrgi, il porto di
Caere, vennero alla luce, durante gli scavi diretti da Massimo Pallottino,
tré lamine d'oro: su una era inciso un testo in lingua punica, sulle altre
due un testo etrusco. Le lamine erano state accuratamente nascoste,
all'epoca della distruzione del santuario, in una vasca scavata fra il
tempio A ed il tempio B. Se è vero che il testo in lingua punica non
presenta problemi insormontabili, nessuno ci dice che l'etrusco ne
costituisca la traduzione. Possiamo solo comparare i nomi propri che
figurano nei due testi. Ad esempio, nella lamina punica un personaggio è
definito "re delle genti di Caere": ora, sappiamo che in quell'epoca la
città non aveva re.
 (scrive il dott. Massimo Pittau, insigne linguista) Il solo dato certo è
che le due versioni parlano dello stesso argomento, cioè di un trattato
stipulato fra Caere e Cartagine; i contraenti invocano a testimoni del patto
le divinità tutelari di entrambe le nazioni. Nei due testi si riconosce il
nome del magistrato di Caere, Thefarie Velianas, che avrebbe dedicato un
santuario ad Uni. Sappiamo che le cerimonie religiose celebrate a
conclusione dell'accordo si svolsero secondo il rito punico. Purtroppo nella
lamina in punico non esiste la traduzione di un solo termine etrusco per noi
nuovo. Si riporta il testo redatto dal Prof . Massimo Pittau, studioso di
lingua etrusca. Circa 40 anni fa, e precisamente nel 1964, si è avuta una
scoperta archeologica e linguistica che ha colpito in maniera immediata e
notevole il mondo degli studiosi specialisti della civiltà antiche, e non
soltanto questi: a Pirgi, cioè nel porto della città etrusca di Cere
(attuale Cerveteri), durante gli scavi condotti in un santuario di cui si
aveva già notizia per antiche testimonianze storiche, nei resti di un
piccolo locale interposto fra i due templi, sono state trovate tre lamine
d'oro. Su queste risultano incise delle scritte, due in lingua etrusca ed
una in lingua punica o fenicia, le quali sono state riportate alla fine del
sec. VI od ai primi anni del V a.C.


Etrusco                                                             Punico
 La notizia rimbalzò da un capo all'altro nel mondo dei dotti, anche per
l'immediata prospettiva che si intravide di avere finalmente trovato
iscrizioni etrusche abbastanza ampie con la traduzione in un'altra lingua
conosciuta e quindi con la speranza di vedere proiettate sulla lingua
etrusca, scarsamente conosciuta, nuove ed importanti cognizioni da parte
della lingua fenicio-punica, che invece è conosciuta in maniera discreta.
Senonché questa speranza cadde quasi immediatamente, quando si intravide che
l'iscrizione in lingua fenicio-punica e quella maggiore in lingua etrusca si
corrispondono tra di loro, sì, ma non costituiscono affatto un esatta
"traduzione" l'una dell'altra, cioè si intravide che si ha da fare non con
un «testo bilingue etrusco-punico», bensì con un «testo quasi-bilingue
etrusco-punico», nel quale cioè i due testi si corrispondono solamente a
grandi linee.
D'altronde quella speranza cadde in larga misura, anche per la circostanza
negativa che pure il testo punico si rivelò subito scarsamente aggredibile
in fatto di interpretazione e di traduzione effettiva e minuta. Dopo circa
un quarantennio di studio ermeneutico molto intenso delle lamine di Pirgi,
condotto sia dagli specialisti della lingua etrusca sia da quelli della
lingua punica, le conclusioni alle quali si è alla fine pervenuti sono che
da un lato alla conoscenza dell'etrusco sono venute dal testo punico alcune
conferme significative, ma purtroppo anche molto ridotte in quantità e in
qualità, dall'altro la traduzione dei due testi, condotta in maniera
comparativa, implica purtroppo numerosi e grandi punti oscuri sia per l'uno
che per l'altro. E la presa di posizione ultima che gli specialisti delle
due lingue hanno assunto, in maniera esplicita od anche implicita, è che
convenga mandare avanti l'analisi e la interpretazione e traduzione di
ciascuno dei due testi in maniera sostanzialmente indipendente l'uno
dall'altro, nella quasi certezza che si ha da fare con due versioni alquanto
differenti di un identico messaggio relativo ad un certo evento storico: la
consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o principe-tiranno di
Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea Giunone-Astarte.
Per parte mia premetto che il mio presente intervento sui testi etruschi
delle lamine di Pirgi trova la sua motivazione in due importanti
circostanze: in questi ultimi quasi quarant'anni che ci separano dalla
scoperta delle lamine, la conoscenza dell'etrusco ha effettuato numerosi ed
importanti passi in avanti, conseguenti sia al ritrovamento di altro
materiale documentario e quindi ad una più ampia e più esatta documentazione
della lingua etrusca, sia al conseguente ulteriore approfondimento
scientifico che ne hanno effettuato gli specialisti, soprattutto quelli di
estrazione propriamente linguistica. Procedo adesso a presentare il testo
delle tre lamine prima nella loro effettiva documentazione epigrafica e dopo
nel loro ordinamento propriamente linguistico, infine la mia traduzione ed
il mio commento storico-linguistico di ciascuna.

 1ª lamina con iscrizione in lingua etrusca




cioè

Traduzione: «Questo thesaurus e queste statuette sono divenuti di
Giunone-Astarte. Avendo la protettrice della Città concesso a Thefario
Velianio due [figli] da Cluvenia, (egli) ha donato a ciascun tempio ed al
tesoriere offerte in terreni per i tre anni completi di questo Reggente,
offerte in sale (?) per la presidenza del tempio di questa (Giunone)
Dispensatrice di discendenti; ed a queste statue (siano) anni quanti (sono)
gli astri!».
tmia «thesaurus, tesoro di santuario», da confrontare col greco tameîon
«tesoro o tesoreria» (vedi sotto tameresca); si trattava di una di quelle
edicole che una città o il suo regnante costruiva accanto ai grandi santuari
per esporvi i doni offerti alle rispettive divinità, anche con finalità
propagandistiche di immagine esterna nei confronti dei numerosissimi
frequentatori dei santuari. ita tmia icac heramasva «questo thesaurus e
queste statuette». Il pronome dimostrativo ita «questo» corrisponde
perfettamente ad ica «questo», per cui è da escludersi che in questo passo
dietro le due varianti esista una qualche distinzione. L'uso così
ravvicinato che lo scrivano ha fatto delle due varianti può essere stato
determinato, al livello di meccanismo inconscio, dalla attrazione delle
consonanti vicine: ita t- e ica-c.
heramasva «statuette», in cui -s(a)- è una variante del noto suffisso
diminutivo -za, mentre -va è la ugualmente nota desinenza del plurale (vedi
avanti heramve). Probabilmente le statuette erano due, una per ciascuno dei
figli di Thefario Velianio, e ancora probabilmente raffiguravano i due
bambini oppure due animali che simbolizzavano altrettante vittime da
immolare alla divinità.
vatiekhe «sono venuti, sono divenuti», forse da confrontare col lat. vadere;
è al preterito debole attivo, in 3ª persona plurale.
unialastres, da distinguere in unial-astres «di Giunone-Astarte», è da
confrontare con fuflunsul pakhies «di Funfluns-Bacco» dell'iscr. TLE-TET
336, prove evidenti, l'una e l'altra, di interpretazione od assimilazione
sincretistica di dèi stranieri in origine differenti. Una spiegazione
unitaria del vocabolo in senso totalmente etrusco è da respingersi perché
inspiegabile dal punto di vista morfologico; d'altronde anche l'iscrizione
punica nella prima riga richiama esplicitamente Astarte: L'STRT.
vatiekhe unialastres «sono divenuti di Giunone-Astarte», cioè, dopo la
dedicazione e la consacrazione ormai «appartengono a Giunone-Astarte».
themiasa probabilmente significa «che ha concesso, avendo concesso»,
participio passato attivo (LEGL 124), da connettere con thamuce «concesse»
della 3ª lamina.
mekh il contesto ci spinge a reintegrare una l morfema del genitivo, cioè
mekhl «della città, della città-stato, dello Stato, del Popolo», in questo
caso "della città-stato di Cere"; vedi mekhl dell'iscr. CIE 5360 di
Tarquinia e della Tabula Cortonensis (capo I).
thuta «tutore, protettore-trice, patrono-a»; cfr. ati thuta «madre
protettrice» dell'iscr. TLE-TET 159; è da confrontare col lat. tutor,
tutrix, che è privo di etimologia (DELL s.v. tueor) e che pertanto potrebbe
derivare proprio dall'etrusco.
thefariei è un prenome maschile, che corrisponde a quello lat. Tiberius; è
in dativo asigmatico (LEGL 80, 2°). In velianas non compare la desinenza del
dativo a norma della "flessione di gruppo"; invece la -s è quella
dell'originario genitivo patronimico ormai fossilizzata (LEGL 78).
sal «due». Non si può affatto escludere che questo sia l'esatto significato
di sal con la considerazione che la compresenza di zal e sal nel Liber
linteus della Mummia vieterebbe che i due vocaboli avessero il medesimo
significato, come ha scritto M. Pallottino, Saggi, 648; infatti l'alternanza
zal/sal «due» si riscontra anche nella Tabula Cortonensis (capo I).
cluvenias gentilizio femm. (in genitivo), che trova riscontro in quello lat.
Cluvenius (RNG).
munistas «del monumento o edificio o tempio», letteralmente «di questo
monumento ecc.», da distinguere in munis-tas (in epoca recente sarebbe stato
munists), in genitivo di donazione (LEGL 104, 136).
thuva(-s) probabilmente aggettivo riferito a munistas e pur'esso in
genitivo; siccome sembra derivato da thu «uno», probabilmente significa
«singolo», «ciascuno», con riferimento a ciascuno dei due templi che
costituivano il complesso sacrale di Pirgi.
tameresca (tameres-ca) «e del tesoriere» del tempio, anch'esso in genitivo
di donazione; vedi tamera «dispensiere, tesoriere, questore» delle iscr.
TLE-TET 170, 172, 195, da confrontare col greco tamías «dispensiere». Per la
congiunzione enclitica -ca vedi hamphisca, laivisca del Liber linteus e
fariceka dell'iscr. TLE-TET 78.
ilacve «offerte» (plur.) (LEGL 69).
tulerase «in terreni» e sarebbe il dativo sigmatico plur. di tul «confine,
terreno, territorio», plur. tular = lat. fines «confine,-i» e «terreno,-i,
territorio» (LEGL 80, 1°).
nac «per, in», preposizione che nella frase ci avil khurvar «per i tre anni
completi», avente un implicito valore "temporale", mostra di reggere
l'accusativo, mentre nella frase seguente nac atranes zilacal «per la
presidenza del tempio», avente un implicito valore "finale", mostra di
reggere il genitivo.
khurvar siccome richiama il lat. curvus, è probabile che significhi
«circolari», ma qui col significato di «completi» (aggettivo plur.) (LELN
122).
tesiameitale, da confrontare con tesinth «curatore, comandante, capo»
dell'iscr. TLE-TET 227 (LEGL 124); lo traduco «di questo Reggente» per il
fatto che non si riesce a capire quale fosse l'esatta posizione
giuridico-istituzionale di Thefario Velianio rispetto alla città-stato di
Cere, anche se si ha l'impressione che fosse un "Principe-Tiranno", come
quelli che di volta in volta si impadronivano del potere in numerose poleis
greche. Inoltre è ragionevolmente ipotizzabile che egli fosse stato aiutato
dalla potente Cartagine nella sua conquista del potere a Cere; ed in questo
modo e per questa ragione si comprenderebbero bene sia la assimilazione
effettuata nella lamina tra la etrusca Giunone e la fenicia Astarte, sia la
versione in lingua punica dell'iscrizione etrusca di questa 1ª lamina. In
proposito è appena da ricordare la notizia data da Erodoto (I 166, 167; VI
17) della lega politico-militare che si era stabilita fra Cere e Cartagine,
la quale aveva attaccato i Focesi della colonia greca di Alalia, in Corsica,
nella battaglia navale del Mare Sardo (circa 535 a.C.) e, pur con un esito
militare incerto, li aveva costretti a sloggiare dalla Corsica. Il vocabolo
è da distinguere in tesiame-itale, con -itale genitivo del pronome
dimostrativo ita «questo-a» in posizione enclitica; in epoca più recente
sarebbe stato -itle e cioè *tesiameitle (cfr. il seguente seleitala).
alsase «in sale» (?), in dativo sigmatico come tulerase, ma al sing.; in
questa supposizione sarebbe da richiamare il greco áls ed il lat. sal,
inoltre il nome della città etrusca di Alsium sulla costa tirrenica presso
Cere andrebbe spiegato con riferimento alla estrazione del sale. È appena da
ricordare il grande valore che aveva il sale in epoca antica, anche per la
conservazione delle carni e dei pesci. In subordine prospetto che ilacve
alsase significhi «offerte (in terreni) ad Alsium».
atrane(-s) sembra un aggettivo derivato dall'etr.-lat. atrium «atrio» ed
anche «tempio», per cui significherebbe «templare, del tempio» (in
genitivo).
zilacal (zilac-al) «della prefettura o presidenza» templare o del tempio.
seleitala «di questa Dispensatrice», da confrontare con selace «ha elargito»
della 3ª lamina; è da distinguere in sele-itala, con -itala ancora genitivo
del pronome dimostrativo ita in posizione enclitica e forse al femm. (cfr.
venala dell'iscr. TLE-TET 34); in età più recente sarebbe stato *seleitla
(cfr. tesiameitale) (LEGL 107).
acnasvers probabilmente «d(e)i discendenti o successori» (genit. plur.), da
confrontare con acnanas «che lascia, lasciando», acnanasa «che ha lasciato,
avendo lasciato» (LEGL 123, 124).
itanim (itani-m) probabilmente «ed a questi-e», dativo plur. di ita
«questo-a», da confrontare con etan «questo-a» (accusativo; TLE-TET 620, Cr
3.24). Però potrebbe corrispondere al più recente etnam «poi, inoltre, in
verità» = lat. etenim «(e) infatti, in realtà, in verità», per cui la frase
andrebbe tradotta: «In verità le statue (abbiano tanti) anni quanti (sono)
gli astri!». In ciascuna delle due soluzioni si deve pensare ad una frase
ottativa, che per ciò stesso spiegherebbe l'ellissi del verbo. È del tutto
errato affermare - come ha fatto un archeologo - che non esistono
proposizioni ottative che sottintendano il verbo: ne esistono in tutte le
lingue, ad es. la locuzione italiana Alla salute! sottintende questo sia o
torni alla tua (vostra o nostra) salute!; la frase augurale Auguri agli
sposi e figli maschi! sottintende ed abbiano figli maschi!
heramve «statue» (plur.), quelle offerte a Giunone-Astarte da Th. Velianio
per i suoi due figli, probabilmente due, cioè una per ciascuno; è da
confrontare col greco hérma «erma, base, sostegno, puntello, cippo (anche
funerario), cippo con figura di Ermes», dio Hérmes «Ermes», fiume Hérmos
della Lidia (finora privi di etimologia, ma probabilmente anatolici e lidî;
GEW, DELG) ed inoltre con la glossa etr. Ermius «agosto» (ThLE 416).
eniaca «quanti-e».
pulumkhva «astri, stelle» (plur., LEGL 69), significato assicurato da un
corrispondente vocabolo della iscrizione punica.

 2ª lamina con iscrizione in lingua fenicio-punica


«Alla signora Astarte questo sacello ha fatto e donato Tiberio Velianio re
di Cere, nel mese di Zebah, come dono nel tempio e nella cella, perché
Astarte ha favorito il suo fedele, nel terzo anno del suo regno, nel mese di
KRR, nel giorno della sepoltura della divinità. E gli anni della statua
della divinità siano tanti quanti (sono) gli astri».
            Questa traduzione della 2ª lamina è stata da me derivata da
quelle correnti prospettate da specialisti della lingua fenicio-punica, ma
adattata alla mia personale traduzione della 1ª iscrizione in lingua
etrusca. Su questa mia traduzione però non intenderei insistere, per il
motivo che sono consapevole di non avere una sufficiente competenza su
questa lingua, tale da osare di confrontarmi coi colleghi semitisti. L'unica
cosa che mi sento di dire è che quasi certamente lo scriba che ha stilato
l'iscrizione fenicio-punica era un cartaginese, il quale non comprese bene
l'iscrizione stilata dal suo collega etrusco; e soprattutto da questo fatto
saranno derivate le discrepanze tra le due iscrizioni.

  3ª lamina con iscrizione in lingua etrusca




cioè:

«Così Thefario Velianio ha concesso l'offerta del corrente mese di dicembre
(ed) ha fatto elargizioni a Giunone. La cerimonia degli anni del thesaurus è
stata la undicesima (rispetto a)gli astri».  Oppure  «Così Thefario Velianio
ha concesso l'offerta del corrente mese di dicembre a Giunone (ed) ha fatto
elargizioni (al tempio). La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la
undicesima (rispetto a)gli astri».
             Sia il cambio di grafia fra le due lamine scritte in etrusco
sia la differenza tra la forma del gentilizio Velianas della prima e
Veliiunas di questa ci assicurano che ciascuna delle due lamine è stata
scritta da un differente scrivano. Probabilmente il nome del committente in
realtà suonava Vélinas, cioè con l'accento sulla prima sillaba e con la
vocale posttonica indistinta.
thamuce «concesse, ha concesso»; nell'iscr. CIE 5357 compare come thamce,
cioè sincopato (vedi themiasa della 1ª lamina).
etan(-al) interpreto «(del) presente o corrente», intendendolo come derivato
dal pronome dimostrativo eta «questo».
masan probabilmente «dicembre» oppure, in subordine, «novembre», e
corrisponde alla forma sincopata masn del Liber linteus.
tiur «mese». masan tiur sono privi della desinenza del genitivo ai sensi
della "flessione di gruppo" (LEGL 83-84).
unia(-s) «(di) Giunone» in genitivo di donazione o dedicazione (LEGL 136).
vacal «rito sacro, cerimonia»; nel Liber linteus figura sincopato in vacl.
tmial «del thesaurus» (genit.); vedi 1ª lamina.
avilkhval (avil-khva-l) «degli anni», in genitivo plur. (LEGL 74).
amuce «fu, è stato».
pulumkhva «per, rispetto agli astri», i quali segnavano il passare del
tempo; è un complemento di tempo con morfema zero.
snuiaph «undici»; già Marcello Durante aveva intravisto che si tratta di un
numerale. Secondo G. Giannecchini («La Parola del Passato», 1997),
indicherebbe il numero «dodici»; io lo escluderei, visto che in etrusco
«dodici» molto probabilmente si diceva sranczl (LEGL 96). Comunque questo
divario di un numero non implicherebbe alcuna differenza effettiva, per
effetto del modo in cui la gente spesso effettua la numerazione, cioè
saltando sia il terminus a quo sia il terminus ad quem. Dunque la
commemorazione della prima fondazione e dedicazione del thesaurus venne
fatta undici/dodici anni dopo, secondo un numero che nei tempi antichi aveva
anche una valenza sacrale in virtù delle dodici lunazioni della luna. E per
questo motivo si spiega la diversità dello scrivano della 1ª lamina rispetto
a quello della 3ª.
Molto notevole è il fatto che in questa 3ª lamina non si faccia alcun
riferimento alla fenicia Astarte e che a questa iscrizione etrusca non ne
corrisponda una analoga punica: nella verosimile supposizione che ho fatto a
proposito della 1ª lamina, evidentemente Thefario Velianio negli
undici/dodici anni trascorsi aveva ormai rafforzato il suo potere su Cere,
per cui non aveva più bisogno dell'aiuto di Cartagine e tanto meno di
ringraziarla pubblicamente.
La Mummia di Zagabria

Il manoscritto della "Mummia di Zagabria" è un "liber linteus" eseguito a
inchiostro con un pennello su di un drappo di lino. E' suddiviso in dodici
riquadri rettangolari ognuno con 34 righe della scrittura. Il drappo veniva
ripiegato "a fisarmonica" seguendo le linee verticali dei riquadri che
funzionavano dunque come le pagine di un libro.
 Attualmente si conserva al Museo Archeologico di Zagabria ma è stato
ritrovato in Egitto, dove era stato "riciclato" tagliandolo orizzontalmente
in lunghe strisce, che furono utilizzate come bende per una mummia.

Solo alcune delle strisce sono conservate, per cui il manoscritto ha grosse
lacune. Il testo è in assoluto il più lungo tra quelli etruschi, esso consta
infatti di 230 righe e di circa 1350 parole. Il testo ha una storia molto
curiosa: verso la metà dell'Ottocento un collezionista croato (Mihail de
Brariæ, scrittore della Regia cancelleria ungherese) aveva riportato in
patria dall'Egitto, secondo l'uso dell'epoca, alcuni oggetti antichi, fra i
quali una mummia. Qualche tempo dopo ci si accorse che le bende del reperto
erano coperte da un testo scritto con l'inchiostro nero. Solo nel 1892
questo testo, di oltre 1200 parole, venne studiato dall'egittologo Brugsch e
identificato come etrusco. Dal 1947 mummia e bende vennero trasferite al
Museo di Zagabria. L'ultimo restauro è stato curato da un'équipe italiana
nel 1997.
 Si tratta di un calendario rituale che specifica le cerimonie da compiere
nei giorni prestabiliti in onore di varie divinità. Le prescrizioni di
carattere religioso sono tipiche dell'area tra Perugia, Cortona e Lago
Trasimeno. La scrittura, molto precisa e accurata, è quella in uso
nell'Etruria settentrionale tra il III e il lI secolo a. C.  Un esempio
dalla III colonna, riga 3: " celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri"
"Settembre sei venti offerte a Nettuno si dedichino " ossia " il 26
settembre si dedichino venti offerte a Nettuno" Si pensa che questo libro di
lino, conosciuto come liber linteus di Zagabria, appartenesse a un aruspice,
e che sia stato poi ridotto in strisce per fasciare la mummia.
La Tabula Cortonensis

Una delle più lunghe iscrizioni in lingua etrusca, la "Tabula cortonensis"
(la tavola di Cortona) del III-II secolo a. C., la cui clamorosa scoperta è
stata annunciata all'inizio della scorsa estate a Firenze, ha cominciato a
svelare i primi "segreti". Nel testo non si parla di defunti o riti
funerari, come succede in genere con i reperti degli Etruschi riemersi dal
sottosuolo, ma di un concreto e articolato passaggio di proprietà fra
etruschi ben in vita e preoccupati di tutelare le proprie ricchezze. Solo
quattro mesi fa Francesco Nicosia, ispettore centrale del ministero dei Beni
culturali, ha reso nota l'esistenza di una tavola bronzea, misteriosamente
ricomparsa nel 1992, con una fitta iscrizione di 32 righe, spezzata in sette
frammenti, la cui decifrazione sta fornendo importantissimi elementi per la
conoscenza della ancora in gran parte misteriosa lingua degli Etruschi.
Ora un articolo della rivista "Archeologia viva" rende noti i significativi
passi in avanti nella decrittazione delle parole della "Tabula Cortonensis",
grazie agli studi del professor Luciano Agostiniani, docente di glottologia
all'università di Perugia. L'ipotesi al momento più fondata è che la "Tavola
di Cortona" racconti di una transizione tra la famiglia Cusu, di cui farebbe
parte il personaggio Petru Scevas, da una parte, e un gruppo di quindici
persone, dall'altra. È stato decodificata anche una serie di numeri: il 10
(sar), il 4 (sa) e 2 (zal), che potrebbero indicare quantità di cose o
estensioni di terreno. È possibile, secondo Agostiniani, che si tratti
dell'atto di vendita di un terreno da parte dei latifondisti Petru Scevas e
Cusu a piccoli proprietari compratori.

Molti sono gli elementi eclatanti in questa straordinaria iscrizione.
Anzitutto la formula di datazione con il nome degli eponimi, attestata qui
per la prima volta per l'Etruria settentrionale. Il primo dei personaggi che
compare nell'ultimo elenco è accompagnato dall'epiteto della carica
rivestita, assai importante e attestata sempre per la prima volta
nell'Etruria settentrionale: si tratta dello "Zilath Mel Rasnal", il
magistrato supremo dello Stato, che intervenne nella stesura dell'atto di
compravendita. Il professor Agostiniani ha ipotizzato, inoltre, in base a
numerosi riscontri, l'esistenza sulla "Tavola di Cortona" di tre elenchi di
nomi: il primo rappresenta i venditori, il secondo i compratori e il terzo i
garanti della regolarità del contratto.
I garanti del contratto erano il magistrato supremo e i figli e i nipoti
delle due parti. Ciò significa che nel diritto orale etrusco, chi garantiva
la regolarità del contratto e i pagamenti non lo faceva solo per sé, ma
anche per i suoi discendenti. Insomma, in caso di disgrazia o di insolvenza,
il figlio o il nipote doveva garantire l'esecuzione del contratto.
La Tegola Capuana

Il testo della famosa "Tegola di Capua" (conservata al Museo di Berlino)
rappresenta la più estesa di tutte le epigrafi etrusche mai ritrovate, se si
eccettuano le bende della "mummia di Zagabria", che costituiscono un vero e
proprio libro. Si tratta di una lastra di terracotta (di centimetri 60 x
50), scoperta nel 1898 nella necropoli di Santa Maria Capua Vetere e recante
una lunga iscrizione graffita, di cui restano leggibili circa treo cento
parole.
Suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale, risulta attualmente
costituito da 62 righe, alcune in parte perdute, e da circa 390 parole, non
tutte conservate per intero. È suddiviso in dieci sezioni da una linea
orizzontale.
La scrittura è quella in uso in Campania intorno alla metà del V secolo a.C.
Si tratta, come nel caso della Mummia di Zagabria, di un "calendario
rituale" dove vengono prescritte cerimonie da compiere in certe date e in
certi luoghi a favore di alcune divinità. Nel 1985 ne è stata presentata una
bella edizione nel testo di Francesco Roncalli, Scrivere etrusco, che
contiene anche il "libro di Zagabria" e il "cippo di Perugia".
Sui problemi dell'interpretazione del contenuto il riferimento più recente e
importante è il libro Tabula Capuana (1995), uno degli ultimi lavori
lasciati dall'archeologo Mauro Cristofani. La redazione del documento si può
datare al 470 a.C., sebbene esso si debba ritenere la copia (o comunque la
trascrizione) di un testo certamente molto più antico. In effetti sulla
tegola è graffito un calendario festivo risalente all'età arcaica: un
calendario di prescrizioni cultuali relativo a celebrazioni pubbliche e
diretto, secondo il Cristofani, alla stessa comunità capuana. Il calendario
è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci mesi del calendario
antichissimo e comincia da marzo (in etrusco, probabilmente, Velxitna).
Anche il calendario romano (da cui deriva il moderno) ebbe, in origine,
dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è provato al di là di ogni
dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e dicembre, che oggi si
trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo posto.
Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re Numa;
nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano che i
mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da cui
ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto 304
giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno 30,
quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre 30».
Ecco dunque alcuni estratti del calendario festivo di Capua.
   I nomi dei mesi etruschi sono noti sostanzialmente attraverso alcune
glosse, la "tegola di Capua" e il "libro di Zagabria" (l'asterisco indica le
forme ricostruite, in quanto conosciute soltanto da glosse e non ancora
attestate nei documenti etruschi originali): marzo = *velxitna; aprile =
apiras( a); maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio =
*turane o par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer.

La Stele di Lemno
Come già detto, alcuni autori antichi condivisero l'idea di un'origine
orientale degli Etruschi. Ellanico, un altro storico, vissuto nel V secolo
a.C., in un brano delle sue storie, sostiene che Ceare (attuale Cerveteri)
in origine si chiamava Agylla e fu fondata dai Pelasgi, provenienti dalla
Tessalia; quando poi i Lidi, al seguito di Tirreno, assalirono Agylla, uno
degli assedianti si avvicinò alle mura e domandò il nome della città; dalle
mura, uno dei Tessali, invece di rispondere, lo salutò con la parola
"chaere". Così i Tirreni, appena presa la città, le cambiarono nome in
Caere. In seguito, gli studiosi sostenitori dell'origine orientale,
affermarono che per la trasformazione dei villaggi villanoviani in città
fortificate, avvenuta all'epoca dell'inizio della civiltà etrusca, sono
state necessarie tecniche e abilità amministrative ben maggiori di quelle
dimostrate dai villanoviani stessi; ne consegue che tali competenze furono
necessariamente arrivate dall'esterno. Altri riscontri archeologici a favore
di questa ipotesi sono le somiglianze trovate tra alcune tombe etrusche e
alcune tombe dell'Asia minore, nonché alcuni aspetti della civiltà etrusca
che sembrano più orientali che italici: il piacere del lusso, l'amore per le
feste e per le danze, alcune pratiche come l'epatoscopia.


 Più che a un'invasione in massa, avvenuta in un unico momento, si può anche
pensare al graduale arrivo dall'esterno di gruppi della stessa popolazione,
che a poco a poco si integrò con la base villanoviana portando i suoi usi e
la sua cultura, in seguito adottati totalmente. Come riscontro archeologico
a quest'ipotesi, nell'isola di Lemno, nei pressi della città di Kaminia, si
può citare il ritrovamento di una stele funeraria recante un'incisione in
una lingua non greca, che è stata interpretata solo grazie alla sua
somiglianza con l'etrusco, segno di un collegamento con l'idioma in uso a
Lemno nel VI sec. a.C., che pur non essendo la stessa lingua, probabilmente
ha delle radici comuni.