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STORIA DELLA CHIESA

LA STORIA DELLA CHIESA ED ALCUNI SUOI PERSONAGGI PIU' SIGNIFICATIVI

GIOVANNI DIODATI
teologo riformato italiano



Introduzione

La teologia riformata, altrimenti detta 'Calvinismo' che noi desideriamo continuare a portare avanti oggi come l'espressione più genuina nella fede biblica e protestante, comprende fra i suoi teologi più significativi un italiano: Giovanni Diodati (1576-1649). Molto noto perché il suo nome è legato indissolubilmente ad una classica traduzione della Bibbia in italiano, egli per altro è meno conosciuto come esponente del Calvinismo classico, e come diretto successore, con Benedetto Turrettini, a Ginevra, dello stesso Giovanni Calvino. Vorrei quest'oggi dunque celebrarne la memoria e ricuperare, anche con una certa fierezza, la rilevante influenza che l'Italia ha avuto sul Protestantesimo.

Biografie. Sono stati fatti tre tentativi di ricostruire la vita del Diodati. Il primo fu "Jean Diodati" pubblicata in olandese all'Aia e scritta da G.D.C. Schotel nel 1844. Quest'opera è la produzione non ortodossa di uno studioso eccentrico e di scarso valore per lo storico moderno. Una sua biografia apparve a Torino nel 1854: "Brevi introduzioni ai libri sacri dell'Antico e del Nuovo Testamento per Giovanni Diodati, traduttore della Bibbia preceduti dalla vita dell'Autore". La biografia che però ebbe maggiore circolazione fu la "Vie de Jean Diodati, Theologien Genevois", di E. De Budé (Losanna 1869). Questa biografia è il resoconto più soddisfacente della carriera di Diodati, sebbene sia intellettualmente insoddisfacente, contenga errori sui fatti narrati e sia più interessata con questioni biografiche e genealogiche che con i risultati accademici e teologici di Giovanni Diodati. Questa vita di Diodati è stata tradotta in italiano e pubblicata nel 1870 come "Vita di Giovanni Diodati, Teologo ginevrino".

I. Origini della famiglia Diodati

Giovanni Diodati nacque a Ginevra il 3 giugno 1576.

La sua famiglia proveniva da Lucca, dove era stata convertita al Protestantesimo durante il soggiorno di Pietro Martire Vermigli in quella città. La famiglia Diodati, una delle più antiche famiglie della repubblica, fino dal 13° secolo avevano avuto incarichi pubblici importanti, e si erano distinti tanto nella letteratura e nelle scienze.

Un fatto curioso ha per protagonista Michele Diodati, nonno del nostro Giovanni e dignitario di Lucca. Nel 1541 convengono in questa città l'imperatore Carlo V (acerrimo memico della verità evangelica) e il Re di Francia Francesco I per discutere diverse questioni politiche, fra cui anche la "rivoluzione protestante" in Germania. Il caso vuole che Anna Diodati, moglie del Consigliere Michele dovesse dare alla luce un figlio (il futuro padre del nostro Giovanni). L'imperatore, informato dell'evento, si offre per farne da padrino al battesimo e chiede che quel bambino porti il suo nome: Carlo. Il papa Paolo III, saputa anch'egli la cosa, si offre di celebrare lui il battesimo!

Le connessioni con la politica ufficiale del tempo e con il papato, non impedirà a Giovanni Diodati di interessarsi delle nuove idee protestanti portate da Pier Martire Vermigli, di averne simpatia e poi abbracciarle. Nel 1558 sospettato di eresia, era stato rimosso dalle sue cariche ufficiali, e citato a comparire a Roma davanti al Sant'Uffizio, il quale non lo rilasciò che dopo due anni di alternate vicende (1558-1560).

Il figlio, Carlo Diodati si reca poi a Lione come impiegato di commercio, dove ha stretto contatto con i pastori riformati. Quando però si accende in Francia una forte persecuzione contro i riformati decide di rifugiarsi a Ginevra nel 1567. Qui fa aperta adesione alla Chiesa Riformata, alla quale facevano parte già parecchi lucchesi. I Diodati erano profughi benestanti e si distinguono nella città insieme alle altre famiglie lucchesi di esiliati come i Turrettini e i Calandrini. Nel 1572 gli viene conferita la cittadinanza ginevrina diventandone patrizio, e nel 1573 viene eletto nel Consiglio dei 200 della città. Dal suo secondo matrimonio nasce, il 3 giugno 1576 il nostro Giovanni, poi battezzato dal pastore riformato lucchese Nicola Balbani. Carlo Diodati muore a 84 anni nel 1625.

II. Giovinezza

Di Giovanni si dice che cresce giovane serio, di grande ingegno e forte lavoratore.
Giovanni studia teologia presso l'Accademia di Ginevra sotto i successori di Calvino, uomini come Teodoro di Beza e Casabono. Studia inoltre ebraico ed aramaico all'università (o Accademia) riformata tedesca di Herborn (simile a quella di Ginevra e di Leiden), fondata nel 1584 e chiusa da Napoleone nel 1812 ["Die Matrikel der Hohen Schule und des Paedagogiums zu Herborn, herausgegeben von Gottfried Zedler und Hans Sommer (Wiesbaden 1908)" v. Johannes Deodatus Genevensis (1589/90) p. 11 no. 183-5: "Johannes Deodatus Genevensis, nunc ibid. profess. theol. clarissimus" and p. 190 no. 224-1]. Probabilmente suo insegnante era stato Johann Fischer (Piscator), rettore dell'università di Herborn dal 1584 al 1625, traduttore a sua volta della Bibbia ufficiale di Berna. Giovanni si dimostra così ben presto valente linguista.
La connessione con l'università di Herborn è importante pure per comprendere i suoi collegamenti con il mondo puritano, come Jan A. Comenius, Althusius, Piscator, Alsted, Buxdorf, Aslakssen, ecc. Tutti questi, insieme ai loro libri stampati all'università di Herborn, giocano un ruolo importante nell'America dei "padri pellegrini".
Diventa dottore in teologia all'età di 19 anni, e professore di ebraico all'Accademia di Ginevra all'età di vent'anni. Succede in questa funzione a Casabono, che aveva lasciato Ginevra per recarsi a Montpellier.
Nel 1600 sposa Maddalena Burlamacchi, e il matrimonio, benedetto dal pastore Bernardo Basso, di Cuneo, viene celebrato a Ginevra nella Chiesa riformata italiana.
Dal suo matrimonio nascono 9 figli, 5 maschi e 4 femmine.

Nel 1608 Diodati diventa rettore e conserva la sua cattedra di ebraico fino al 1618. E' professore all'Accademia di Ginevra dal 1599 al 1645, quattro anni prima della sua morte.
Diodati lascia Ginevra per un breve periodo per recarsi a Venezia, per visitarvi le chiese riformate francesi e poi sarà delegato di Ginevra presso il Sinodo di Dordrecht.

III. Italiano o ginevrino?

Nonostante il suo rapporto con Ginevra, che durerà tutta la vita, Diodati sembra essersi sempre considerato come un lucchese che vive a Ginevra. Nella sua prima versione annotata della Bibbia in italiano, pubblicata nel 1607, egli descrive sé stesso come "di nation lucchese". Questa identificazione con Lucca non è solo tipica del giovane Diodati, dato che continua ad identificarsi in questo modo anche nella sua versione italiana della Bibbia del 1640/41, prodotta verso la fine della sua vita. Nonostante quindi la sua associazione con Ginevra, Diodati si era sempre considerato italiano, e la prova migliore risiede proprio nel fatto che la sua traduzione italiana delle Scritture si è comprovata così utile che ancora oggi essa continua ad essere pubblicata, sebbene in forma modificata, più di trecento anni dopo la sua prima apparizione., ma non solo questo, fin dalla sua giovinezza egli aveva ardentemente desiderato che la causa dell'Evangelo trionfasse in Italia, e che gli italiani si ribellassero alla tirannia del papato.

IV. Diodati linguista

La carriera del Diodati è stata quella di un pastore riformato al servizio accademico della Chiesa di Ginevra. Diodati forse, era più un linguista che un teologo. Per lui era di grande interesse che le Scritture dovessero essere disponibili a tutti in forma leggibile e con semplici annotazioni. A questo fine Diodati dedica tutti i suoi doni accademici per la più gran parte della sua vita. Intraprende quindi a tradurre l'Antico e il Nuovo Testamento dagli originali ebraico e greco; e nel 1607 ne pubblica la prima edizione, corredata di note; poi nel 1641 la seconda, riveduta, annotata più ampiamente dell'altra, con l'aggiunta di una versione metrica dei Salmi
Inevitabilmente questa sua preoccupazione di rendere accessibile a tutti la Parola di Dio doveva rendersi evidente nel suo incarico accademico di docente d'ebraico nell'Accademia ginevrina. Prima del suo incarico, la cattedra d'ebraico era stata una creazione degli umanisti, dedicata allo studio della lingua, puramente a livello linguistico. Con Diodati, questa impostazione doveva cambiare, portandovi una marcata accentuazione teologica.

V. Diodati e l'Italia

Il principale coinvolgimento del Diodati negli affari italiani comincio quando era ancora giovane, nel tempo in cui aveva appena completato la sua prima versione annotata della Bibbia in italiano. Suo primo e più grande desiderio era che la Riforma protestante potesse trionfare e diffondersi in Italia, e vedere la tirannia papale sempre più rifiutata dagli italiani.
Per questo trovò dapprima nella Repubblica veneta un terreno favorevole all'affermazione della Riforma.
Ecco così che fa ben presto parte del gruppo di "cospiratori" a Venezia, che aveva coinvolto fra Paolo Sarpi, il teologo ufficiale della repubblica veneta, due ambasciatori inglesi, sir Henry Wotton e Sir Dudley Carleton; George Bedell e il leader ugonotto francese Philippe du Plessis-Mornay.
Diodati opera in questo gruppo con l'obiettivo di indebolire il potere papale a Venezia e visita questa repubblica due volte, nel 1605 e nel 1608, nascosto sotto lo pseudonimo di Giovanni Coreglia.
Il primo giugno 1605 egli scrisse ad un suo amico: "Gli affari vanno di bene in meglio, il numero degli evangelici cresce grandemente. Desidero ardentemente lavorare in quei luoghi, e rapidamente. Mi sono deciso a intraprendere questa vocazione santa e desiderabile... Il papa ha le sue astute spie, e lo si può vedere dalla sorte che hanno avuto le bibbie che ho mandato".
Egli scrisse una cronaca della seconda, la quale fu pubblicata da E. de Budé nel 1863 come "Briève relation de mon voyage a Venise en septembre 1608".

Nel novembre 1605 Paolo Sarpi in una sua lettera certifica che a Venezia, fra il popolo vi sono fino a 15.000 persone "disposte a rinunciare alla Chiesa di Roma", e annota: "Vi sono alcuni che da padre in figlio preservano la conoscenza del vero Dio, o perché sono discendenti dei riformati grigionesi, nostri vicini, o perché sono i superstiti degli antichi Valdesi, che avevano lasciato seguaci in Italia".

La cospirazione contro il potere papale che, su piano politico poteva solo essere promossa e difesa dalla conversione di nobili e influenti autorità, venne ben presto repressa, gli ecclesiastici compromessi con la Riforma esiliati, i nobili impauriti facevano marcia indietro, mentre al popolo non restava che sottomettersi alle autorità cattoliche, o conservare in segreto la fede riformata.
Il fallimento dei progetti dei riformati a Venezia prese avvio quando una delle lettere del Diodati cadde nelle mani del gesuita francese Pierre Coton, che a quel tempo era confessore del Re di Francia e che più tardi attaccò la traduzione francese della Bibbia ginevrina.

Non dobbiamo però pensare ad un Diodati abile politico, che intendesse far trionfare la Riforma con trame politiche. Diodati era un genuino evangelista e numerose volte aveva affermato che solo lo Spirito Santo avrebbe potuto far trionfare la causa della Riforma.
In una sua lettera a Duplessis-Mournay egli scrive: "Io voglio stare molto attento a non porre il minimo ostacolo alla libera azione dello Spirito Santo, sia per mia incapacità, che per paura di pericoli. Io sono convinto che Dio, che oltre le mie stesse speranze ed in modi a me sconosciuti, mi ha utilizzato nell'opera delle Sue Scritture, in questo stesso tempo e con grande successo, come mi assicura il giudizio di molti uomini d'esperienza e voi fra di essi. Sarà Lui a darmi, se necessario, parole di potenza e di sapienza, per il Suo servizio in questi luoghi per l'avanzamento del Suo regno, e la distruzione della grande Babilonia".

Vi sono due riferimenti al Diodati nella corrispondenza pubblicata del Sarpi, in "Paolo Sarpi - Lettere ai Gallicani" di Boris Ulianich, e "Fra Paolo Sarpi - Lettere ai Protestanti, di Manlio Dirilo. Il coinvolgimento del Diodati con il Sarpi, lo spinse a tradurre in francese la sua Storia del Concilio di Trento, un'opera che ebbe più successo di ogni altra opera del Diodati, con l'eccezione della Bibbia italiana del 1640/41.

VI. Diodati al Sinodo di Dordrecht

Diodati venne inviato, con Teodoro Tronchin, a rappresentare la città e la chiesa riformata di Ginevra al Sinodo riformato di Dordrecht del 1618/19.

I princìpi dottrinali della teologia riformata classica (Calvinismo) erano stati messi in questione all'interno dello stesso mondo riformato, da professori d'università che ne avevano alterato la consistenza rivedendo tutto il sistema calvinista sulla base di principi estranei. E era stato così introdotto all'interno del mondo riformato un serio elemento di disgregazione che ne avrebbe messo in pericolo l'unità se non vi fosse messo al più presto rimedio convocando uno speciale Sinodo generale del mondo riformato. In esso sarebbero state messe a confronto le due posizioni mentre sarebbe stata ribadita l'ortodossia calvinista contro queste nuove sfide. L'importanza della cosa non era sfuggita alla Chiesa di Ginevra, che pure era stata invitata a prendervi parte attiva.
Il Sinodo, tenuto appunto negli anni 1618-19 nella città omonima olandese, produsse i famosi "Canoni di Dort", uno degli standard dottrinali delle posizioni riformate classiche (Calvinismo). Esso affermava la posizione calvinista ortodossa sulla predestinazione e sui problemi annessi, e venne diretto contro i Rimostranti (o Arminiani), che avrebbero voluto un'affermazione che lasciasse maggiore spazio alla libera volontà umana. Arminio era morto nel 1609; nel 1610 i suoi seguaci avevano prodotto una Rimostranza contro l'insistenza degli ortodossi sulla predestinazione individuale; nel 1611 una Contro-rimostranza ribadiva la posizione ortodossa, ed era così esplosa una forte polemica. Oltre alla predestinazione sarebbero stati trattati altri temi: i Rimostranti volevano una chiesa tollerante, sotto la supervisione dello stato, mentre i contro-rimostranti lottavano per l'indipendenza della chiesa. La questione ebbe riflessi anche sulla politica del tempo. Convocato dagli Stati Generali, il Sinodo comprendeva delegati eletti dalle diverse provincie dei Paesi Bassi. Oltre ai suoi membri olandesi, pastori e laici, avrebbe compreso delegati stranieri provenienti dalle chiese riformate dell'Inghilterra, della Scozia, del Palatinato, di Brema, dell'Assia, dei cantoni svizzeri e di Ginevra, rappresentata appunto da Giovanni Diodati. Vennero invitati anche i riformati francesi, ma Luigi XIII impedì loro di partecipare. Gli Stati-Generali scelsero cinque professori di teologia e 18 commissionieri per dare pure consiglio. I delegati regolari erano 56. Il Sinodo prese la posizione convenuta di giudicare se i Rimostranti concordassero con la posizione delle Confessioni di Fede riformate e citarono gli esponenti arminiani ad intervenire. Nonostante le proteste dei rimostranti se il tema fosse o no la revisione delle Confessioni di Fede, il Sinodo proseguì i suoi lavori. Il rimostrante Episcopius denunciò il sinodo come non-qualificato e non rappresentativo, e rifiutò di cooperare.
Giudicando i rimostranti dai loro scritti, il Sinodo ne concluse che non erano ortodossi perché annullavano l'elezione della grazia e rendevano l'uomo arbitro della propria salvezza.
Vennero formulati dei Canoni per riassumere la posizione ortodossa contro i Rimostranti, ed affermò la depravazione totale dell'uomo (cioè l'uomo, dopo la Caduta, non può scegliere di servire Dio), l'elezione incondizionata (la scelta che Dio fa degli eletti non è condizionata da azione alcuna che essi compiano), la redenzione limitata (Cristo è morto solo per gli eletti, dato che coloro per i quali morì vengono salvati), la grazia irresistibile(la grazia divina non può essere respinta dagli eletti), e la perseveranza dei santi (una volta eletto, eletto per sempre). I Canoni vennero adottati ufficialmente dalla Chiesa riformata olandese. Ai Rimostranti venne negato il pulpito e i loro leader espulsi dal paese.

Durante il Sinodo Diodati cadde malato e sappiamo che egli non fu in grado, di conseguenza, a partecipare a tutte le sessioni. Questa malattia, però, non impedì al Diodati di prendere parte attiva ai lavori del Sinodo. Egli rivolse la sua parola personalmente al Sinodo sull'argomento della Perseveranza dei santi colpendo favorevolmente l'uditorio, perché il delegato scozzese Balcanqual scrisse che il Diodati era intervenuto con la stessa dolcezza con la quale predicava, non come i dottori usavano fare nelle scuole. Questo discorso venne pure accolto bene dallo storico arminiano olandese G. Brandt, che generalmente non aveva preso in simpatia il Diodati. In questa circostanza il Brandt aveva lodato la moderazione del Diodati. Diodati aveva pure consigliato il Sinodo al riguardo delle traduzioni bibliche, ma sfortunatamente ogni traccia di quanto aveva di fatto detto sembra essere andata perduta. Diodati discusse pure la questione della censura sulla stampa, forte della sua esperienza a Venezia, sostenendo la tesi che troppa severità sarebbe stata altrettanto dannosa che pochi controlli.

I delegati di Ginevra al Sinodo di Dordrecht presero dunque una parte attiva alle discussioni teologiche di quella assemblea. Diodati venne eletto dal comitato che doveva produrre i Canoni di Dordrecht, a redigere l'affermazione finale del Sinodo sulla dottrina della salvezza. I ginevrini pure scrissero un loro proprio resoconto sulle questioni in considerazione. In generale Giovanni Diodati e Teodoro Tronchin esprimevano opinioni che erano generalmente simili a quelle degli altri delegati riformati al Sinodo. Al riguardo del secondo articolo però: Morte di Gesù Cristo e redenzione degli uomini mediante essa, i ginevrini presentarono un'interpretazione in qualche modo diversa da quella delle altre delegazioni. In questo caso i ginevrini si erano rifiutati di essere legati al concetto anselmiano della teoria della redenzione che era tipica delle altre delegazioni. I contributi di Ginevra vennero stampati negli Acta del Sinodo di Dordrecht.

VII. Diodati predicatore

Al Sinodo di Dordrecht Diodati non aveva limitato i suoi interventi teologici alle sessioni del Sinodo, ma aveva pure predicato altrove in Olanda in diverse occasioni. Al suo ritorno a Ginevra, il suo collega Tronchin aveva informato il Consiglio di Ginevra che: "Pendant notte sejour, outre le devoir qu'avons taché de rendre au Synode, Monsieur Diodati et moy avons presché fort souvent a Dordrecht, Rotterdam, Delft, La Haye, Amsterdam, et en autres lieux, non sans fruit par la benediction de Dieu".
Questi tentativi avevano riscontrato vario successo. I suoi uditori erano rimasti stupiti dalla chiarezza e dalla scorrevolezza con cui annunciava le verità evangeliche, e tutti se ne sentivano toccati nel cuore.
Sir Dudley Carleton, allora ambasciatore inglese all'Aia, scrisse di come Diodati aveva predicato di fronte alla corte di Maurice di Nassau a Natale del 1618: "Diodati, ministro a Ginevra, era stato all'Aia durante i recessi del Sinodo, ed aveva predicato alla cappella di corte sia ieri che oggi, alla presenza del principe d'Orange e del conte Guglielmo, la principessa ed il conte Enrico, ed un grande concorso di uomini e di donne d'entrambe le fazioni, il che è presagio di un possibile accordo". Ciononostante, non tutti i sermoni del Diodati erano stati bene accolti. Secondo il suo desiderio di promuovere il Protestantesimo italiano, a Dordrecht aveva deciso di condurre i culti riformati in italiano, quanti però l'avrebbero compreso?

E' necessario mettere in evidenza l'importanza della predicazione del Diodati, specialmente in italiano, perché nessuno dei suoi sermoni è sopravvissuto, sia come manoscritto che in forma pubblicata. Non è nemmeno isolabile alcuno suo scritto completo per conoscere il suo pensiero specifico. Esso può essere dedotto in generale dai Canoni di Dort, che egli ha contribuito a stilare, e negli atti concernenti il procedere delle discussioni al Sinodo. L'unica fonte importante sono i commenti al testo della sua Bibbia del 1640/41.

VIII. Diodati diplomatico

Diodati pure esercitò attività diplomatica al servizio dello Stato di Ginevra durante il suo soggiorno a Dordrecht. Con Tronchin, egli aveva avuto istruzioni di entrare in negoziato con il governo olandese, col proposito di tentare di convincere gli olandesi a cancellare un considerevole debito finanziario che Ginevra aveva contratto con il governo dei Paesi Bassi. Diodati in questo ebbe successo, perché durante l'aprile 1689, una lettera del Diodati dall'Olanda venne letta al Consiglio di Ginevra. Egli aveva scritto che: "il a sondé quelques uns de Mrs. les Estats les plus confidents touschandt les obligations qu'il a recogneu lor intention de ne nous jamais rien demander".

I viaggi dei Diodati vennero poi molto limitati a causa delle sue cattive condizioni di salute. In due occasioni egli aveva avuto la funzione d'agente ginevrino in Francia (nel 1611 e nel 1617). Nel 1611 egli era stato inviato per assicurare gli aiuti di Ginevra fra elementi ugonotti.

IX. Diodati: rinomato in tutt'Europa

Diodati era una figura relativamente ben conosciuta nell'Europa di quel tempo. La sua corrispondenza rivela contatti con molte figure interessanti in diversi paesi, come il leader ugonotto Philippe Du Plessis-Mournay, il teologo espatriato scozzese John Cameron, il diplomatico inglese Sir Dudley Carleton, il principe di Orange, Cyril Lucaris, Patriarca di Costantinopoli, il famoso ecumenista John Dury, il teologo francese André Rivet, come pure molte lettere associate al nome di J.J.Breitinger, il leader della Chiesa Riformata di Zurigo, che manteneva una vasta corrispondenza con teologi ed uomini d'affari in tutta Europa. La statura del Diodati è stata già rivelata per la sua associazione con Paolo Sarpi, che conosceva personalmente. Diodati tradusse pure l'opera di Edwin Sandys Europae Speculum. Diodati era quindi pure molto interessato ai dibattiti culturali del tempo. La sua reputazione era considerevole in Inghilterra, dove l'uso del suo nome si comprovò utile ai propagandisti realisti al tempo della guerra civile.

X. Gli ultimi suoi anni

Diodati rimane al fedele servizio della Chiesa riformata di Ginevra per tutta la sua vita ma nella lotta del Diodati per pubblicare la sua versione francese della Bibbia, i suoi ultimi anni vennero disturbati da una serie di dispute all'interno della Chiesa ginevrina, e soprattutto di natura personale. La vita del Diodati è lungi dall'essere uniformemente felice.

La salute, che aveva sempre avuta sana e robusta, cominciò a venirgli meno; una malattia di fegato, che gli procura molte sofferenze, lo tormenta fino alla sua morte. La sorte dei figli lo turba molto.
Dopo una brillante carriera durante la sua giovinezza, negli ultimi vent'anni della sua vita egli soffre di un declino di popolarità nella Chiesa di Ginevra, e diventa uomo isolato e spesso amareggiato.

Il coraggio, pertinacia e rabbia del Diodati si rivela nella parte da lui avuta nella condanna di N. Anthoine, un unitario, punito con la pena capitale per giudaismo durante la metà del 17° secolo, e per la sua denuncia dei regicidi inglesi dal pulpito della cattedrale di Ginevra. Una fra le ragioni del cambiamento nelle circostanze della vita del Diodati era l'effetto della sua salute malferma, ma la ragione principale sembra però essere certamente stata l'effetto psicologico della lotta protratta del Diodati per pubblicare una Bibbia francese. Questo lungo ed infelice episodio doveva assorbire molte delle energie del Diodati, e sembra certo che questa faccenda gli abbiano impedito di completare e pubblicare la sua proposta traduzione latina delle Scritture.

Giovanni Diodati muore il 13 ottobre del 1649, a 73 anni d'età, lasciando un caro ricordo di sé in quella gloriosa Accademia nella quale per tanti e tanti anni aveva insegnato con vasta dottrina e con profonda pietà. Di lui si dice che "era affabile e socievole con gli amici, marito esemplare e cittadino integerrimo, di carattere adamantino, meritò il nome di 'Catone di Ginevra'. La sua pietà era sincera e profonda; la sua carità ampia ed inesauribile". Le sue spoglie vennero tumulate nella cattedrale di Saint Pierre, dove gli fu eretto un monumento a spese della Repubblica.

XI. Le sue opere maggiori

Questi incidenti non pregiudicano i successi avuti dal Diodati come traduttore della Bibbia in italiano. La traduzione del Diodati condivide la fama ottenuta dalla versione autorizzata inglese del Re Giacomo (King James), come traduzione del 17° secolo ancora in uso nel 20° secolo. Egli è riuscito a creare lo standard per la Bibbia del Protestantesimo italiano. Vedi qui riproduzione della copertina (42KB) e di una pagina (262 KB) della prima edizione della sua Bibbia.

L'unica altra parte delle sue opere che gli siano sopravvissute è la traduzione francese da lui compiuta della storia del Concilio di Trento prodotta dal Sarpi, ripubblicata molte altre volte dopo la prima edizione del 1649.

La traduzione italiana della Bibbia di Giovanni Diodati è rimasta come memoriale perenne del suo traduttore. E' sopravvissuta a due livelli. Ha dapprima ritenuto rispetto accademico per le capacità linguistiche del Diodati. Sebbene con diverse correzioni, essa ha conservato il suo posto di traduzione responsabile ed accurata, fatto questo che ha condotto alla sua accettazione da parte delle maggiori Chiese protestanti, e la sua diffusione da parte delle Società Bibliche. Questa propagazione della Bibbia del Diodati è stata talora accompagnata da un certo numero di critiche da diverse fonti, soprattutto cattoliche, ma questo non ha impedito la Bibbia dal conservare la sua posizione come la versione più influente delle Scritture in italiano. In secondo luogo la traduzione della Bibbia italiana da parte del Diodati è rimasta accettabile sia dal punto di vista letterario come accademico. In un senso, la Bibbia italiana del Diodati è stata un'impresa ancora più notevole della Versione Autorizzata inglese, perché quest'ultima era il risultato del lavoro di un gruppo di studiosi, mentre Diodati aveva lavorato da solo, con eccezione forse dell'assistenza di Benedetto Turrettini, e per aver prodotto una versione annotata completa della Bibbia nel 1607 quando aveva solo 31 anni. Le sue annotazioni rivelano un accento pietista e non dogmatico che era almeno cinquant'anni in anticipo con i maggiori sviluppi intellettuali delle Chiese riformate. Sebbene egli non avesse potuto vivere in Italia, il teologo "di nation lucchese" non avrebbe potuto dare migliore contributo di questo al Protestantesimo italiano ed alla letteratura italiana.

Ecco un elenco dettagliato dei suoi scritti:
1) La Bibbia italiana. Edizioni principali: 1. Edizione del 1607, con apocrifi, introduzione ai libri ed ai capitoli, ed una combinazione di note marginali ed a pie' di pagina. 2. Edizione del 1641, "migliorata ed accresciuta", con l'aggiunta dei salmi in rima. Contiene apocrifi, introduzione ad ogni libro e capitolo, riferimenti incrociati a margine, copiose note a pie' di pagine più vaste del testo stesso, diverse dalle note dell'edizione precedente;
2) La Bibbia francese del 1643;
3) Traduzione delle annotazioni alla Bibbia in diverse lingue;
4) La traduzione francese dell'opera del Sarpi, 1621.
5) La traduzione francese dell'opera di Sandys, 1626.
6) Lettera all'Assemblea di Westminster, 1646.
7) Lettera a Lady Westmoreland, 1648.

A questo vanno aggiunte, dal 1619 al 1632 una ventina di Dissertazioni latine sopra argomenti teologici, e una grande quantità di sermoni e discorsi occasionali, che però non ci sono pervenuti.

XII. La traduzione italiana della Bibbia

Precedenti. Gli emigrati italiani che avevano abbracciato la Riforma e che si erano rifugiati a Ginevra, facevano fino allora uso del Nuovo Testamento tradotto nel 1551 dal testo greco dal fiorentino Massimo Teofilo, studioso riformato, del quale non si hanno notizie precise, e di Edoardo Reuss, ex frate benedettino. Per la Bibbia intera si faceva uso della versione, molto apprezzata dal Diodati stesso, di Antonio Brucioli, riveduta dal lucchese Filippo Rustici (1552), anche lui esule a Ginevra.

La prima edizione completa, in quarto, della Bibbia in lingua italiana con annotazioni venne pubblicata nel 1607 come "La Bibbia, cioè i libri del vecchio e del nuovo testamento, nuovamente traslati in lingua italiana, da Giovanni Diodati, di nation lucchese" e un Nuovo Testamento, senza annotazioni, apparve nel 1608. Traduce dalle lingue originali, tenendo però d'occhio la versione di Massimo Teofilo, perché anch'essa dipendente dalle lingue originali.
Appena apparve, la versione che il Diodati aveva pubblicata a proprie spese gli era costata 14 anni di ardua cura, ed ebbe subito gli elogi degli uomini più dotti del tempo, e anche chi la giudicò severamente dovette riconoscere che il Diodati aveva fatto un'opera pregevole.

Questi vennero seguiti quasi trent'anni dopo da una seconda edizione migliorata negli anni 1640/41. Quest'opera monumentale ha fornito il protestantesimo italiano della sua versione ufficiale standard della Bibbia. Il merito del Diodati fu quello di produrre, lui solo, una delle maggiori bibbie del Protestantesimo europeo, da mettersi sul livello della Bibbia tedesca di Lutero e di quella inglese autorizzata dal re Giacomo.

Caratteristiche. Un aspro critico della sua Bibbia aveva tuttavia affermato: "Il metodo seguito nella versione è più quello di un teologo e predicatore che di dotto critico. Egli ha cercato soprattutto la verità significata, togliendo ciò che per lui era ambigui, quindi egli pone nel testo parole che non compaiono nell'originale, ma che rendono vera significazioner, parole che giustamente vengono stampate in caratteri diversi per mostrare come esse siano state aggiunte per renderlo più intellegibile, ma che non sono di intralcio al senso del testo. Bisogna ciononostante confessare che, in molti luoghi, egli spiega con molta più chiarezza di altri traduttori, ma questo non scusa la grande libertà che a volte si prende nella traduzione".
I caratteri eccellenti che distinguevano la versione del Diodati erano dunque molti, in primo luogo la fedeltà, qualità essenziale per interpretare il testo sacro; in secondo luogo la chiarezza, dovuta all'integrità dei termini usati dal traduttore ed alle parafrasi che, sebbene molto criticate, non sono meno utili per il significato del senso biblico; in terzo luogo il valore teologico delle note e dei commenti che accompagnano la versione, che testimoniano una profonda conoscenza delle lingue antiche ed una completa comprensione delle Scritture; ed infine grande eleganza di stile.

Il più importante aspetto della vita del Diodati venne da lui intrapreso in spirito di umiltà e di riconoscenza verso Dio. Diodati attribuiva ogni bene che poteva trovarsi nella sua opera a Dio solo e frequentemente affermava che il Signore l'aveva aiutato nel suo compito. In questo Diodati si poneva nella tradizione di Melantone nel fare uno stretto legame fra la guida di Dio e l'impegno umano nella materia delle traduzioni bibliche. Questo viene bene illustrato dalla lettera di Giovanni Diodati a J. A. De Thou, scritta durante il 1607:

...mi sono proposto con tutte le mie forze e nella più grande coscienza... di aprire la porta ai nostri italiani alla conoscenza della verità celeste. Nostro Signore, che mi ha miracolosamente guidato e fortificato in quest'opera, la fortifichi con la Sua benedizione, alla quale solo addebito la perfezione della mia opera, e dalla quale solo io confido della sua gloria, a salute di coloro che Gli appartengono, il che è e sarà sempre l'unico obiettivo a cui dirigerò tutti i miei sforzi.

Stimolo immediato dell'opera del Diodati fu la situazione a Venezia durante la prima parte del 17° secolo, quando v'erano state grandi speranze fra i protestanti d'Europa che la repubblica si potesse convertire alla fede riformata. C'era grande necessità di libri protestanti fra l'aristocrazia veneta e Diodati stesso scrisse al leader ugonotto du Plessis Mornay nel 1609 che: "Un numero infinito di libri vi sono entrati a fiotti tutti i giorni, e sono avidamente raccolti tanto che se li strappano l'un l'altro con le mani e con le unghie".- Diodati tradusse la Bibbia in italiano per venire incontro a questo bisogno e, per ragioni simili tradusse le opere di Fra Paolo Sarpi e di Sir Edwin Sandys in francese. La bibbia del Diodati venne distribuita dall'ambasciatore inglese a Venezia, Sir Henry Wotton, e volle pure che fosse prodotto un Nuovo Testamento in formato più ridotto per renderne più facile la diffusione. Wotton venne criticato dai livelli più alti per avere distribuito la Bibbia del Diodati, ed egli stesso scrisse al conte di Salisbury durante il 1609: "Il Papa ha rinnovato personalmente il suo rimprovero, al nuovo vescovo residente di Venezia, circa la Bibbia che io ho introdotto nei suoi stati".

Accoglienza in Italia. Diodati stesso era particolarmente sensibile a come la sua Bibbia venisse accolta in Italia. Nel 1635 egli riassicurava la Compagnia dei Pastori di Ginevra che: "essa ha avuto una grande approvazione da diversi eminenti personaggi ed in modo particolare da Mons. Scaligero". Nella sua lettera al Sinodo di Alençon nel maggio 1637, egli disse che: "Vi dirò dunque, che la divina Provvidenza che, avendomi spinto nei miei primi anni di professione teologica, si, e quasi dalla mia gioventù fino ad oggi, di tradurre e commentare la Bibbia italiana, ho avuto un così grande successo... e i personaggi più eminenti del nostro tempo, hanno tutte raccomandato il mio povero lavoro, e lo dico non senza arrossire: è la verità che io pubblico unicamente per la gloria di Dio".

Ancora una volta Diodati riafferma la sua fede nell'aiuto divino e la sua convinzione di aver compiuto questo lavoro unicamente per la gloria di Dio. Diodati assicurava il Consiglio di Ginevra che la sua Bibbia italiana "è stata ben ricevuta dappertutto". L'introduzione alla pubblicazione in traduzione inglese delle note della Bibbia del Diodati lo conferma.
Nel 1644 Diodati scrive di nuovo alla chiesa riformata francese che la sua Bibbia italiana del 1640/41, prodotta con grande lavoro e sforzo da parte sua, era molto simile alla versione francese del 1644, alla quale egli stava lavorando da molti anni. La versione italiana, egli scrisse, aveva ricevuto "un'approvazione universale, persino tra gli ebrei, i cardinali gesuiti più celebri, altri principali ministri della chiesa romana e di tutti gli altri senza eccezione.

Le reazioni cattoliche, a parte dall'ira del Papa alla distribuzione da parte del Wotton (1607/8) sembra essere stata abbastanza favorevole. L. E. Pan della Sorbona, nella storia del Canone, si riferisce ad essa con animosità: "All'inizio circa del nostro secolo, John Diodati, ministro a Ginevra, ci diede una nuova traduzione italiana dell'intera Bibbia, molto simile all'edizione francese di Ginevra". Il padre Simon trovò sia del bene che del male da dire sull'opera del Diodati, ma era lungi dall'esservi completamente sfavorevole: "Vorrei che coloro che avessero l'interesse di leggere la traduzione italiana della Bibbia del Adeodates, che è più elegante di quella francese, e consiglio di leggere anche solo i riassunti dei capitoli per ottenere un veloce compendio della Bibbia. Accusava però Diodati di fare una parafrasi della Bibbia, solleticando "la fantasia dei suoi fratelli settari". Ecco alcune altre reazioni:
"Il lucchese Giovanni Diodati quanto alla nettezza dell'esposizione meritò sempre elogi sommi; ed io, nel registrare un volgarizzamento riprovevole, siccome opera di un seguace delle ginevrine dottrine, lo ricordo siccome ricco di que' modi di dire di grave e casta semplicità, che provengono alle schiette parole della divina Scrittura" Bartolomeo Gamba (1776-1841).
"La lingua della versione e delle note del Diodati è classica, beché alcune forme non siano del tutto eleganti... Non devo tacere che i clericali scagliarono calunnie e maldicenze contro il Diodati, stimando lecita la frode e la menzogna per metterlo in cattiva vista, e per tal modo distornare altrui dal leggerlo; quasiché la bontà del fine giustifichi l'iniquità dei mezzi... In luogo di calunniare il Diodati per rimuoverlo dalle mani dei cattolici, tornerebbe per avventura meglio purgare questa Bibbia del calvinistico veleno di cui è infetta, e questa edizione corretta e migliorata per promuovere, proteggere e a quella del Martini sostituire" Monsignor Pietro Emilio Tiboni (1853).

Un'accusa? Un'altra accusa rivolta al Diodati, non gli avrebbe certo fatto dispiacere, dato che accusava il Diodati di rendere il testo semplice per coloro che avevano scarsa cultura: "Questo gentiluomo, agendo di sua propria iniziativa, non considera tanto il senso proprio delle parole, così anche il popolano lo potrebbe comprendere. Non è nemmeno un critico, o un oratore, o un teologo: il suo unico obiettivo è quello di compiacere il volgo, e fare leva sulle sue passioni. Le sue note in genere sono abbastanza plausibili, e servono all'interpretazione di diversi testi della Scrittura".

Le poche edizioni del 18° secolo della versione Diodati della Bibbia rivelano l'importanza continuata della sua traduzione. Essa conta così diversi tentativi di revisione stilistica, come ad es. quella di Giovanni David Muller. Muller, nella sua introduzione all'edizione del 1744 pubblicata a Lipsia si riferisce ad essa così: "Traduzione del celebre Giovanni Diodati, la quale, e per l'accuratezza del testo e per la bellezza dello stile, fu sempre approvata ed applaudita da tutti i letterati". Darlow e Moule, nel loro catalogo di Bibbie stampate, rilevano come l'edizione del 1712 a Norimberga, venne modificata da Mattia d'Erberg. L'edizione del Nuovo Testamento dedicata al Duca di Sassonia è pure una trevisione basata sulla versione del Diodati. Così gli studiosi e gli editori del 18. secolo erano pronti ad accogliere la versione Diodati come lo standard, ma con la modernizzazione del suo linguaggio che già era divenuto desiderabile nella sua seconda edizione del 1640/41.
La storia della versione Diodati nel 19. secolo è faccenda complicata, perché è stata riprodotta diverse volte. La cosa più importante, però, è che l'opera del Diodati, però, riuscì a sopravvivere secoli dopo la sua morte.

XIII. Conclusione

A mo' di conclusione vorrei citare per intero le lusinghiere parole scritte da Maria Betts nella sua biografia del Diodati, al termine del suo libro, come riassunto della vita del Diodati.

"A Venezia egli desiderava diffondere fra il popolo la verità dell'Evangelo e la parola del Signore. In Francia egli cercava aiuto e soccorso contro il nemico del suo paese, che cercava di far tornare Ginevra sotto il suo giogo d'errore e di ignoranza. In Olanda egli difendeva il Calvinismo conttro la teologia venefica che silenziosamente minava le fondamenta della Chiesa di Cristo. A Ginevra, come cittadino, non lasciava che mai fosse influenzato da considerazioni personali, e come Consigliere e giudice ecclesiastico, non aveva mai sacrificato le sue profonde convinzioni alla pubblica opinione. Non temeva mai di dire la verità dal pulpito, e non temeva quelli che erano in alta posizione, che erano abituati ad essere lodati da leccapiedi. Davanti ai magistrati della Repubblica, non era mai venuto meno di uno iota alle sue convinzioni. Fino agli ultimi istanti della sua vita egli era come una roccia, sotto la quale le acque scorrono senza posa, ma essa rimane immutabile".


Bibliografia
Maria Betts, Life of Giovanni Diodati, Genevese Theologian, translator of the Italian Bible, Lodon: Chas. J. Thynne, 1905.
Giovanni Luzzi, La Bibbia in Italia - L'eco della riforma nella repubblica lucchese - Giovanni Diodati, e la sua versione italiana della Bibbia. Torre Pellice: Claudiana, 1942.
William A. McComish, The Epigones (A Study of the Theology of the Genevan Academy at the Time of the Synod of Dort, with Special reference to Giovanni Diodati), Allison Park: Pickwick Publications, 1989 - 4137 Timberlane Drive, Allison Park, PA 15101-2932.
Pier Paolo Vergerio (1498-1565)
Pier Paolo Vergerio il giovane nasce a Capodistria nel 1498 da una famiglia di antica nobiltà. Terminati gli studi in legge a Padova diventa notaio ma dopo la morte della moglie si fa sacerdote.
Viene inviato da vari regnanti europei nei paesi tedeschi per cercare di riconvertire i protestanti.
Nel 1536 diventa vescovo di Modrussa e poco dopo di Capodistria.
Dopo i continui contatti con i protestanti, anche con lo stesso Martin Lutero, e lo studio dei documenti sul confronto politico-ecclesiastico e teologico fra cattolici e protestanti, comincia a accettare sempre di più le nuove idee. Lo stesso vale anche per suo fratello Gianbattista, a quel tempo vescovo di Pola. Non appena i due cominciano a diffondere le idee protestanti e, addirittura, a metterle in pratica, vengono indagati dall'Inquisizione.
Nel 1549, dopo la morte del fratello (avvelenato, secondo Vergerio), esasperato dalle continue persecuzioni, si trasferisce nei Grigioni. A Roma scatta allora il processo che si conclude per Vergerio con la perdita del seggio capodistriano.
Vergerio è dapprima pastore, poi, nel 1553, diventa consigliere del duca del Württemberg a Tübingen. Dopo l'invenzione della stampa è nelle regioni retoromanze, dove divulga le idee protestanti.
Negli anni 1555-1556 entra invece in contatto con i protestanti sloveni e croati, soprattutto con Primoz Trubar, che conosce nel 1541.
Su sua iniziativa in un solo anno vengono stampati quattro libri in sloveno e uno in croato. Tutti i libri sloveni (Vangeli di S. Matteo, Abecedarium, Katechismus e Una preghiera) sono marcati con le iniziali di Vergerio e di Trubar o con il solo nome di Vergerio. A lui va il merito di aver introdotto anche negli scritti protestanti la grafia latina in luogo della gotica, sino ad allora prevalente. Inoltre ebbe un ruolo rilevante nella diffusione del protestantesimo in Istria, dove stavano prendendo piede con le loro opere Mattia Flacio Illirico e Stijepan Konzul-Buzec e, soprattutto sotto l'influenza di Primoz Trubar. Fra i protestanti istriani da rilevare ancora Matija Grbec che nel 1540 era professore alla neocostituita università protestante di Tübingen.
Negli ultimi anni di vita Vergerio viaggiò molto in vari stati dell'Europa centrale; nel 1558 visitò Lubiana e Villacco, anche se soggiornò soprattutto in Prussia, in Polonia e in Austria.
Vergerio e' autore di diversi scritti, principalmente di carattere polemico; alcuni sono raccolti in Opera adversus papatum, Tübingen, 1563.
La vasta bibliografia latina e italiana di Vergerio ha attirato, e continua a farlo, numerosi ricercatori e risulta importante soprattutto dal punto di vista della diffusione del protestantesimo e delle posizioni antiromane in ambito europeo.
P. P. Vergerio, da vescovo a pastore protestante, di L. De Chirico
Pier PaoloVergerio (1498-1565): nunzio pontificio, vescovo e riformatore, di E. Campi
 
Ochino (o Tommassini), Bernardino (1487-1565)
http://www.eresie.it/id616.htm
I primi anni
Bernardino Tommassini, detto Ochino dal nome della contrada dell'Oca, il Savonarola del Cinquecento secondo lo storico Roland Bainton, nacque a Siena nel 1487.
Nel 1503 circa entrò giovanissimo nell'ordine dei Francescani osservanti, dove divenne successivamente Provinciale, e successivamente in quello dei Cappuccini, intorno al 1534, diventandone Vicario Generale nel 1538.
Come predicatore brillante ed acclamatissimo (veniva considerato il migliore predicatore dei suoi tempi), percorse in lungo ed in largo l'Italia tra il 1534 ed il 1542: un esempio per tutti, le sue prediche a Siena ammirate da Aonio Paleario.
 
O. valdesiano
Iniziò, in questo periodo, a documentarsi sulle dottrine di Lutero e Melantone, ma l'incontro decisivo per il suo futuro di riformista, lo ebbe a Napoli, durante le famose prediche quaresimali da lui tenute nel 1536, nella chiesa del monastero di San Giovanni Maggiore, e che commossero perfino l'imperatore Carlo V (1519-1558), reduce da una spedizione a Tunisi.
A Napoli, nello stesso periodo, O. entrò nel circolo, fondato da Juan de Valdès, dove si concentrava il vertice dei riformisti italiani dell'epoca, composto, tra gli altri, da Pier Martire Vermigli, Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Giovanni Bernardino Bonifacio, Benedetto Fontanini da Mantova, Galeazzo Caracciolo, Bartolomeo Spadafora, Apollonio Merenda, Vittore Soranzo, le nobildonne Vittoria Colonna, Giulia Colonna Gonzaga e Caterina Cibo da Camerino. Dalle conversazioni con quest'ultima, O. stese nel 1539 i suoi Sette Dialoghi, un primo segnale del suo rifiuto verso la teologia cattolica. Assieme a Vittoria Colonna, O. fondò a Ferrara nel 1537 un monastero di clarisse cappuccine ed ebbe l'occasione di conoscere, sebbene solo in un secondo momento rispetto agli altri riformatori, il cardinale inglese Reginald Pole.
A Napoli egli predicò con successo ancora nel 1539 e 1540 (anno in cui si recò anche in Sicilia). Si diceva che lo stesso Valdès gli suggerisse di volta in volta il tema da svolgere: gli argomenti erano quelli cari agli evangelici, come la giustificazione sola fide e sola gratia, il valore delle opere buone, ecc. A questo periodo, nel 1540 circa, risale la conversione di O. al luteranesimo, ma mantenendo un atteggiamento molto riservato, addirittura nicodemitico, egli non attirò i sospetti della Chiesa fino all'anno dopo, quando una vigorosa predica a Venezia, contenente una appassionata difesa di Giulio della Rovere (“un predicatore del puro evangelio”, come scrisse O. successivamente in una lettera del 7 dicembre 1542, subito dopo la sua fuga, ai senatori della Serenissima), arrestato durante la Quaresima dello stesso anno, pose l'O. nel mirino dell'inquisizione di Papa Paolo III (1534-1549).
Nel 1542 gli fu proibito di predicare da parte del nunzio apostolico di Venezia: si recò quindi a Verona, dall'amico, il vescovo Gian Matteo Giberti, e qui lo raggiunse la convocazione a Roma da parte dell'Inquisizione del cardinale Gian Pietro Carafa, il futuro Papa Paolo IV (1555-1559).
 
L'esilio in Svizzera
Nell'agosto dello stesso 1542 O. si avviò alla volta di Roma, ma i due colloqui avuti lungo la strada con un morente Gasparo Contarini a Bologna  e un decisivo incontro con Vermigli a Firenze, gli fecero maturare la decisione di prendere, assieme a Vermigli stesso, la via dell'esilio in Svizzera. Dopo una breve sosta a casa della duchessa Caterina Cibo, dove gettò il saio, O. si rifugiò a cavallo, vestito da laico, dapprima a Morbegno (nella Valtellina sotto il cantone protestante dei Grigioni dal 1512), e poi a Ginevra, dove Calvino lo mise a capo della comunità dei riformatori italiani esuli. A proposito della fuga in Svizzera del Vermigli e dell'O., Marcantonio Flaminio commentò pubblicamente nell'autunno 1542 “ch'erano partiti gli apostoli d'Italia” .
La fuga di O. fece un enorme scalpore in tutta l'Italia: Carafa lo paragonò alla caduta di Lucifero. O. era infatti ammirato, addirittura venerato, dai potenti, come, sopra riportato, lo stesso imperatore Carlo V, da vescovi e da cardinali e lo shock per la sua fuga ed implicita ammissione della conversione alla Riforma fu grandissimo.
A Ginevra, nello stesso 1542, O. fece stampare le sue opere principali, dai primi volumi delle Prediche ai Sette Dialoghi al pasquillo (un tipo di satira a sfondo religioso) l'Immagine di Antechristo, e qui conobbe l'umanista savoiardo Sébastien Castellion.
All'estero risedette, e continuò a svolgere la sua attività di predicatore (per chi capiva l'italiano) dapprima a Basilea (dove venne pubblicato il suo Catechismo nel 1551) nell'agosto 1545, poi a Zurigo, nuovamente a Basilea nel 1546, poi fino al 1547 a Ginevra, per una terza volta a Basilea ed infine ad Augusta, in Germania, dove ebbe contatti con Caspar Schwenckfeld: il mistico tedesco aveva letto i suoi Sette Dialoghi, simpatizzava ed ebbe un intenso scambio epistolare con il senese. Nel 1546 O. conobbe ad un dibattito pubblico a Regensburg (Ratisbona) Francesco Stancaro, con cui condivise il rifiuto delle due nature in Cristo e a cui procurò un lavoro di docente ad Augusta.
Il tono delle prediche dell'O. in questo periodo, oltre ad una netta influenza calvinista, richiamava vagamente il pensiero di Gioacchino da Fiore: la suddivisione della storia della religione in tre periodi della legge, la prima della natura fino a Mosè, la seconda della testimonianza scritta fino a Gesù, la terza della Grazia e dell'Amore, da Gesù in avanti.
 
O. in Inghilterra
Dopo la sconfitta nel 1547 della Lega di Smalcalda, formata dai principi tedeschi luterani, ad opera dell'imperatore Carlo V nella battaglia di Muhlberg, O. si rifugiò in Inghilterra, a Londra, chiamato dall'arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer e dal Duca di Somerset Edward Seymour (1506-1552), Lord Protettore e reggente del trono del nipote, re minorenne, Edoardo VI (1547-1553).
In Inghilterra scrisse Una tragedia del Libero Arbitrio, o dialogo della preminenza ingiustamente usurpata dal vescovo di Roma dove O. ipotizzava che il vescovo di Roma era stato eletto da Lucifero e Belzebù, cioè era una manifestazione dell'Anticristo col preciso intento di rovinare il Cristianesimo.
Ma nel 1553, con l'avvento al trono d'Inghilterra della regina cattolica Maria Tudor (1553-1558), l'ambiente favorevole ai riformisti si trasformò ben presto in un incubo: Maria passò alla storia come la Sanguinaria per le esecuzioni senza pietà di 273 (o 288, secondo altri autori) protestanti sul rogo.
 
Nuovamente in Svizzera
O. ritornò allora in Svizzera, arrivando a Ginevra il 28 ottobre 1553, esattamente il giorno dopo il rogo di Michele Serveto. La morte di quest'ultimo fece levare moltissime voci di protesta, tra cui quelle degli antitrinitari italiani Giovanni Valentino Gentile, Matteo Gribaldi Mofa e Celio Secondo Curione, che dovettero emigrare successivamente da quella che a loro era sembrata la città della tolleranza religiosa. Anche O. decise di abbandonare Ginevra nel 1554, tuttavia rimase in Svizzera risiedendo a Chiavenna, Basilea e, nel 1555, a Zurigo.
A Zurigo O. fu chiamato per fare il pastore di una comunità di riformati di Locarno, da dove erano fuggiti in massa per motivi religiosi, ospitò, appena fuggiti dall'Italia, Francesco Betti e Jacopo Aconcio, e conobbe Isabella Bresegna (ex moglie di don Garcia Manrique, governatore di Piacenza) fuggita per motiva religiosi. Tuttavia proprio da questa città svizzera fu espulso da Johann Heinrich Bullinger nel dicembre 1563, assieme a Fausto Sozzini, per le sue idee sempre più “spirituali”, ma anche antiecclesiastiche, contro i Sacramenti, e antitrinitarie, esposte nell'opera Dialogi triginta.
In Polonia e Moravia
Passò l'inverno 1563/4 a Norimberga e nella primavera 1564 si recò in Polonia, prima a Cracovia, poi nella vicina Pinczòw, presso il gruppo formato dagli antitrinitari Giorgio Biandrata, Paolo Alciati della Motta e Giovanni Valentino Gentile. Qui dovette soffrire per la perdita di due dei suoi tre figli a causa della peste.
Tuttavia, pochi mesi dopo, nell'agosto 1564, dietro le pressioni del nunzio apostolico, cardinale Giovanni Francesco Commendone (1523-1584), il re Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (re di Polonia 1548-1572) emise l'editto di Parczòw, che stabiliva l'espulsione di tutti gli stranieri non cattolici.
L'ennesima emigrazione portò l'oramai vecchio (78 anni) e deluso riformatore a Slavkov (Austerlitz), in Moravia, presso Niccolò Paruta, in casa del quale O. morì nel febbraio 1565.
Alcuni autori hanno voluto vedere in quest'ultima residenza una tardiva conversione all'anabattismo o al hutterismo, è più probabile che si trattasse semplicemente del desiderio di trovare l'ospitalità presso un connazionale antitrinitario, dottrina alla quale egli si era già uniformato, secondo quanto riferito da Marcantonio Varotta.
 
Ochino (o Tommassini), Bernardino (1487-1565)
http://www.eresie.it/id616.htm
I primi anni
Bernardino Tommassini, detto Ochino dal nome della contrada dell'Oca, il Savonarola del Cinquecento secondo lo storico Roland Bainton, nacque a Siena nel 1487.
Nel 1503 circa entrò giovanissimo nell'ordine dei Francescani osservanti, dove divenne successivamente Provinciale, e successivamente in quello dei Cappuccini, intorno al 1534, diventandone Vicario Generale nel 1538.
Come predicatore brillante ed acclamatissimo (veniva considerato il migliore predicatore dei suoi tempi), percorse in lungo ed in largo l'Italia tra il 1534 ed il 1542: un esempio per tutti, le sue prediche a Siena ammirate da Aonio Paleario.
 
O. valdesiano
Iniziò, in questo periodo, a documentarsi sulle dottrine di Lutero e Melantone, ma l'incontro decisivo per il suo futuro di riformista, lo ebbe a Napoli, durante le famose prediche quaresimali da lui tenute nel 1536, nella chiesa del monastero di San Giovanni Maggiore, e che commossero perfino l'imperatore Carlo V (1519-1558), reduce da una spedizione a Tunisi.
A Napoli, nello stesso periodo, O. entrò nel circolo, fondato da Juan de Valdès, dove si concentrava il vertice dei riformisti italiani dell'epoca, composto, tra gli altri, da Pier Martire Vermigli, Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Giovanni Bernardino Bonifacio, Benedetto Fontanini da Mantova, Galeazzo Caracciolo, Bartolomeo Spadafora, Apollonio Merenda, Vittore Soranzo, le nobildonne Vittoria Colonna, Giulia Colonna Gonzaga e Caterina Cibo da Camerino. Dalle conversazioni con quest'ultima, O. stese nel 1539 i suoi Sette Dialoghi, un primo segnale del suo rifiuto verso la teologia cattolica. Assieme a Vittoria Colonna, O. fondò a Ferrara nel 1537 un monastero di clarisse cappuccine ed ebbe l'occasione di conoscere, sebbene solo in un secondo momento rispetto agli altri riformatori, il cardinale inglese Reginald Pole.
A Napoli egli predicò con successo ancora nel 1539 e 1540 (anno in cui si recò anche in Sicilia). Si diceva che lo stesso Valdès gli suggerisse di volta in volta il tema da svolgere: gli argomenti erano quelli cari agli evangelici, come la giustificazione sola fide e sola gratia, il valore delle opere buone, ecc. A questo periodo, nel 1540 circa, risale la conversione di O. al luteranesimo, ma mantenendo un atteggiamento molto riservato, addirittura nicodemitico, egli non attirò i sospetti della Chiesa fino all'anno dopo, quando una vigorosa predica a Venezia, contenente una appassionata difesa di Giulio della Rovere (“un predicatore del puro evangelio”, come scrisse O. successivamente in una lettera del 7 dicembre 1542, subito dopo la sua fuga, ai senatori della Serenissima), arrestato durante la Quaresima dello stesso anno, pose l'O. nel mirino dell'inquisizione di Papa Paolo III (1534-1549).
Nel 1542 gli fu proibito di predicare da parte del nunzio apostolico di Venezia: si recò quindi a Verona, dall'amico, il vescovo Gian Matteo Giberti, e qui lo raggiunse la convocazione a Roma da parte dell'Inquisizione del cardinale Gian Pietro Carafa, il futuro Papa Paolo IV (1555-1559).
 
L'esilio in Svizzera
Nell'agosto dello stesso 1542 O. si avviò alla volta di Roma, ma i due colloqui avuti lungo la strada con un morente Gasparo Contarini a Bologna  e un decisivo incontro con Vermigli a Firenze, gli fecero maturare la decisione di prendere, assieme a Vermigli stesso, la via dell'esilio in Svizzera. Dopo una breve sosta a casa della duchessa Caterina Cibo, dove gettò il saio, O. si rifugiò a cavallo, vestito da laico, dapprima a Morbegno (nella Valtellina sotto il cantone protestante dei Grigioni dal 1512), e poi a Ginevra, dove Calvino lo mise a capo della comunità dei riformatori italiani esuli. A proposito della fuga in Svizzera del Vermigli e dell'O., Marcantonio Flaminio commentò pubblicamente nell'autunno 1542 “ch'erano partiti gli apostoli d'Italia” .
La fuga di O. fece un enorme scalpore in tutta l'Italia: Carafa lo paragonò alla caduta di Lucifero. O. era infatti ammirato, addirittura venerato, dai potenti, come, sopra riportato, lo stesso imperatore Carlo V, da vescovi e da cardinali e lo shock per la sua fuga ed implicita ammissione della conversione alla Riforma fu grandissimo.
A Ginevra, nello stesso 1542, O. fece stampare le sue opere principali, dai primi volumi delle Prediche ai Sette Dialoghi al pasquillo (un tipo di satira a sfondo religioso) l'Immagine di Antechristo, e qui conobbe l'umanista savoiardo Sébastien Castellion.
All'estero risedette, e continuò a svolgere la sua attività di predicatore (per chi capiva l'italiano) dapprima a Basilea (dove venne pubblicato il suo Catechismo nel 1551) nell'agosto 1545, poi a Zurigo, nuovamente a Basilea nel 1546, poi fino al 1547 a Ginevra, per una terza volta a Basilea ed infine ad Augusta, in Germania, dove ebbe contatti con Caspar Schwenckfeld: il mistico tedesco aveva letto i suoi Sette Dialoghi, simpatizzava ed ebbe un intenso scambio epistolare con il senese. Nel 1546 O. conobbe ad un dibattito pubblico a Regensburg (Ratisbona) Francesco Stancaro, con cui condivise il rifiuto delle due nature in Cristo e a cui procurò un lavoro di docente ad Augusta.
Il tono delle prediche dell'O. in questo periodo, oltre ad una netta influenza calvinista, richiamava vagamente il pensiero di Gioacchino da Fiore: la suddivisione della storia della religione in tre periodi della legge, la prima della natura fino a Mosè, la seconda della testimonianza scritta fino a Gesù, la terza della Grazia e dell'Amore, da Gesù in avanti.
 
O. in Inghilterra
Dopo la sconfitta nel 1547 della Lega di Smalcalda, formata dai principi tedeschi luterani, ad opera dell'imperatore Carlo V nella battaglia di Muhlberg, O. si rifugiò in Inghilterra, a Londra, chiamato dall'arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer e dal Duca di Somerset Edward Seymour (1506-1552), Lord Protettore e reggente del trono del nipote, re minorenne, Edoardo VI (1547-1553).
In Inghilterra scrisse Una tragedia del Libero Arbitrio, o dialogo della preminenza ingiustamente usurpata dal vescovo di Roma dove O. ipotizzava che il vescovo di Roma era stato eletto da Lucifero e Belzebù, cioè era una manifestazione dell'Anticristo col preciso intento di rovinare il Cristianesimo.
Ma nel 1553, con l'avvento al trono d'Inghilterra della regina cattolica Maria Tudor (1553-1558), l'ambiente favorevole ai riformisti si trasformò ben presto in un incubo: Maria passò alla storia come la Sanguinaria per le esecuzioni senza pietà di 273 (o 288, secondo altri autori) protestanti sul rogo.
 
Nuovamente in Svizzera
O. ritornò allora in Svizzera, arrivando a Ginevra il 28 ottobre 1553, esattamente il giorno dopo il rogo di Michele Serveto. La morte di quest'ultimo fece levare moltissime voci di protesta, tra cui quelle degli antitrinitari italiani Giovanni Valentino Gentile, Matteo Gribaldi Mofa e Celio Secondo Curione, che dovettero emigrare successivamente da quella che a loro era sembrata la città della tolleranza religiosa. Anche O. decise di abbandonare Ginevra nel 1554, tuttavia rimase in Svizzera risiedendo a Chiavenna, Basilea e, nel 1555, a Zurigo.
A Zurigo O. fu chiamato per fare il pastore di una comunità di riformati di Locarno, da dove erano fuggiti in massa per motivi religiosi, ospitò, appena fuggiti dall'Italia, Francesco Betti e Jacopo Aconcio, e conobbe Isabella Bresegna (ex moglie di don Garcia Manrique, governatore di Piacenza) fuggita per motiva religiosi. Tuttavia proprio da questa città svizzera fu espulso da Johann Heinrich Bullinger nel dicembre 1563, assieme a Fausto Sozzini, per le sue idee sempre più “spirituali”, ma anche antiecclesiastiche, contro i Sacramenti, e antitrinitarie, esposte nell'opera Dialogi triginta.
In Polonia e Moravia
Passò l'inverno 1563/4 a Norimberga e nella primavera 1564 si recò in Polonia, prima a Cracovia, poi nella vicina Pinczòw, presso il gruppo formato dagli antitrinitari Giorgio Biandrata, Paolo Alciati della Motta e Giovanni Valentino Gentile. Qui dovette soffrire per la perdita di due dei suoi tre figli a causa della peste.
Tuttavia, pochi mesi dopo, nell'agosto 1564, dietro le pressioni del nunzio apostolico, cardinale Giovanni Francesco Commendone (1523-1584), il re Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (re di Polonia 1548-1572) emise l'editto di Parczòw, che stabiliva l'espulsione di tutti gli stranieri non cattolici.
L'ennesima emigrazione portò l'oramai vecchio (78 anni) e deluso riformatore a Slavkov (Austerlitz), in Moravia, presso Niccolò Paruta, in casa del quale O. morì nel febbraio 1565.
Alcuni autori hanno voluto vedere in quest'ultima residenza una tardiva conversione all'anabattismo o al hutterismo, è più probabile che si trattasse semplicemente del desiderio di trovare l'ospitalità presso un connazionale antitrinitario, dottrina alla quale egli si era già uniformato, secondo quanto riferito da Marcantonio Varotta.
Francesco Spiera (1502-1548)
 Nato a Cittadella (PD) all’inizio del Cinquecento, avvocato di professione, intorno ai quarant’anni Spiera cominciò a interessarsi di teologia.
 Il 15 novembre 1547, insieme al nipote Girolamo Facio, fu denunciato al Tribunale dell’Inquisizione di Venezia per idee luterane. Era accusato di opinioni eterodosse riguardo al Sacramento dell’Eucaristia, al rito della messa, ai suffragi dei morti, all’intercessione dei santi, alla confessione auricolare, all’autorità del Pontefice e dei prelati, nonché al valore delle opere. Fu inoltre accusato di aver frequentato Pietro Cittadella e di aver tradotto liberamente il Pater noster.
   Il 9 dicembre 1547, la deposizione dei cinque sacerdoti firmatari della denuncia fu inviata al tribunale dal vescovo di Vicenza, e il 17 dicembre fu presentata contro i due un’ulteriore denuncia per comportamento irreligioso.
   Il 13 maggio, arrivò l’ordine di comparizione davanti al Tribunale dell’Inquisizione, e il 24 dello stesso mese, Spiera subì il primo di tre interrogatori in cui respinse ogni addebito, attribuendo le accuse fatte contro di lui alla persecuzione di “adversari et inimici”.
   Tuttavia, ammise di possedere una Bibbia, di aver visto “el benefitio de Cristo et la doctrina nova et vecchia et ... altri libri moderni”, di aver nutrito qualche dubbio sul Purgatorio, rimettendosi comunque “all’opinione che tiene la Santa madre giesia” se qualche pensiero da lui espresso non fosse stato completamente secondo i suoi insegnamenti.
   Anche nella seconda deposizione si mantenne più o meno sulla stessa linea difensiva, ma confermò di aver tradotto il Pater noster in volgare. Nella terza deposizione negò di aver tenuto un’opinione diversa da quella della Chiesa riguardo all’assoluzione sacerdotale e, poiché non aveva ancora esposto la sua difesa, il tribunale gli concesse altri otto giorni per prepararla. Dopo soltanto cinque giorni, si presentò spontaneamente, e, ammettendo di aver dubitato di diversi insegnamenti della Chiesa (eucaristia, confessione auricolare, autorità papale), chiese clemenza.
   Dalla lettura degli atti processuali non è facile comprendere fino a che punto le affermazioni rispecchino le opinioni personali di Spiera. La sua successiva dichiarazione di essersi risolto “di voler dissimulare” potrebbe spiegare la sua insistenza nel volersi rimettere in tutto all’insegnamento della Santa madre Chiesa.
   Tuttavia, altre dichiarazioni appaiono più sincere. Il fatto che la sua strategia difensiva sia consistita più che altro in un’ammissione di colpa con richiesta di clemenza, fa pensare che il desiderio di “conservare la moglie, i figliuoli, la roba e la vita” abbia pesato molto sulla sua decisione di abiurare.
   Il 26 giugno, nella cappella di S. Teodoro nella Chiesa di S. Marco, in una seduta solenne, presente il legato apostolico Giovanni Della Casa, Spiera recitò l’atto di abiura: “Voluntariamente et liberamente con il core et con la bocca confesso haver gravemente errato...”.                     Il giorno stesso ricevette l’assoluzione, ma gli furono comminate una serie di pene pecuniarie, oltre all’imposizione di “far cantar solennemente una messa ad honor et reverentia del Corpus Domini” e un’altra per i defunti.
   Il resto della vicenda di Spiera fu raccontato da Vergerio e dagli altri testimoni della sua lenta agonia.
   Mettendo a tacere la propria coscienza, il 1° luglio fece il secondo atto di abiura in chiesa a Cittadella, ma subito dopo “si sentì percosso dalla man di Dio; sentì che gli furono tolti i doni dello Spirito, la confidenza e la speranza nel Signore, e sentì un orrore e ispavento grandissimo nell’animo, una confusione e una desperazione totale...”.
   A partire da quel momento, le sue condizioni di salute si deteriorarono rapidamente. Alla ricerca di cure migliori, i familiari lo portarono a Padova, dove alloggiò per diversi mesi in casa di un parente, Giacopo Nardini.
   All’inizio di dicembre, i figli lo riportarono a Cittadella, dove morì circa venti giorni dopo (27 dicembre 1548).
      Le testimonianze pubblicate da Vergerio e altri furono scritte nella maggior parte dei casi prima del decesso di Spiera, di cui, perciò, ignoravano le precise circostanze.
   Come tanti altri, Spiera scelse di abiurare, per evitare una pena maggiore; ma ciò che rese il suo caso singolare, consacrandolo alla storia, fu la sua esperienza successiva: lo stato di prostrazione in cui cadde subito dopo la seconda abiura e il fatto che i testimoni della sua agonia, personaggi noti del mondo universitario patavino, divulgarono resoconti estremamente dettagliati del caso, dandone una rilevanza internazionale.
   Nel Cinquecento, la storia dell’agonia di Spiera ebbe una straordinaria diffusione, soprattutto a causa del suo valore di ammonimento contro la tentazione della dissimulazione.
Daniele Walker
 Adattamento da: “Pier Paolo Vergerio (1498-1565) e il «Caso Spiera» (1548)”, Studi di teologia (1998/1), n. 19, p. 7-56.
La Historia di M. Francesco Spiera

Nel brano seguente Pier Paolo Vergerio parla non solo dell’importanza generale dello “spettacolo” di Spiera, ma nache del suo ruolo strategico per la propria vicenda. (Da Studi di teologia (1998/1) n. 19, p. 35)

“Nel bel mezzo di una città di Padoa, città fiorente, città di studio, dove vi erano più di mille scolari, il Signore ha voluto dare questo spettacolo rarissimo; io lo ho veduto più di quindici volte in grande utilità e beneficio dell’anima mia e gli ho sentito dire cose stupende. ... E io per me affermo di non aver mai veduto né sentito la più spaventosa cosa, né la più fruttuosa all’anima mia. E sia benedetto il mio Signore il quale, vedendomi in travaglio e persecuzione de’ Farisei, acciò che la mia carne e sensualità non si avesse a piegare e pensar di aver a far con loro qualche accordo e impiastro e negazione in suo disonore, non solo mi accrebbe lo spirito e mi rivelò quanto sarebbe stata la felicità dell’anima mia se, sprezzate tutte le dignità, tutte le mitre e ricchezze del mondo, io fossi stato saldo a confessar la sua dottrina nella purità e nettezza che la dè esser confessata, ma non contento di avermilo fatto vedere descritto in molti luoghi delle Scritture, mi ha voluto far vedere in fatti, per isperienza quanto egli abbia a male e si corrocci quando altri va a negare quella verità che esso per rarissimo favore gli avea manifestato. Confesso in sua gloria che, essendo io con varii partiti stato invitato d’andar a Roma e dire che io laudava come vere e apostoliche tutte le sue ordinazioni, istituzioni, riti, toleranze, che facilmente la carne la quale ama gli onori del mondo e teme le infamie e i disagi mi avrebbe potuto ingannare e persuadere di andarvi e far qualche dissimulazione e accordo, se il celeste mio Padre non avesse avuto cura di me e, specialmente, se non mi avesse per sua gran carità fatto vedere e udire Francesco Spiera. … E io, consigliato dal mio Signore, fregai i piedi all’uscio scotendo loro la polvere e voltai le spalle e lasciatili nella lor rabbia e condennazione, venni via in luogo dove io posso liberamente confessare Cristo e la verità”.
 Daniele Walker
Per saperne di più
 • A. Olivieri, “Il «Catechismo» e la «Fidei et doctrinae…ratio» di Bartolomeo Fonzio, eretico veneziano del Cinquecento”, Studi veneziani 9 (1967), p. 339-452;
• A. Olivieri, “«Ortodossia» ed «eresia» in Bartolomeo Fonzio” BSSV XCI (1970), n. 128;
• E. Zille, Gli eretici a Cittadella nel Cinquecento, Cittadella 1971, p. 141-221.
•    D. Walker, “Pier Paolo Vergerio (1498-1565) e il «Caso Spiera» (1548)”, Studi di teologia (1998/1), n. 19.
Bartolomeo Fonzio (1502-1562)
 Nacque a Venezia nel 1502 e, ancora giovane, entrò nell’ordine dei frati conventuali minori.
 Si trattava di un dotto professore fornito di notevole cultura letteraria e teologica. Nel medesimo tempo, era anche un eloquente predicatore.
   Ancor prima di recarsi in Germania nel 1530 per incarico di papa Clemente VII, aveva già predicato idee luterane “all’aperto” in San Geremia a Venezia (1528).
   Nel viaggio in Germania entrò in contatto con i Riformatori, e si avvicinò alla teologia di Lutero. È considerato il responsabile della traduzione in italiano del suo Appello alla nobiltà cristiana di nazione tedesca (1520). “Un felice trapianto del discorso protestante in terra italiana, un’opera di notevolissimo livello anche letterario”, che, verso il 1534, circolava largamente a Venezia. Fonzio passò anche un periodo a Strasburgo, adoperandosi con Bucero in un tentativo di composizione con la tendenza zwingliana.
Nonostante l’ apparente moderazione, fu considerato da un teologo cattolico “un perduto luterano”, che aveva “totum Lutherum in ventre absconditum”.
   Nel 1533, tornò a Venezia nella speranza di un concilio di riforma e riconciliazione.
   Nel 1537, cominciò riunioni in casa sua, in cui si sostenevano opinioni che sapevano di eresia. Fu denunciato come luterano e, per sottrarsi all’Inquisizione e trovare una definitiva assoluzione, cercò rifugio a Roma. Il papa, saputo della sua presenza, lo fece arrestare. Riuscì a discolparsi e fu rimesso in libertà.
   Restò per un certo periodo anche all’Aquila (1537-1541), e nell’abbazia di Farfa redasse un Catechismo. Fu poi a Modena (1544), nelle Marche, a Roma (1546-47), e infine a Padova (1548).
   Nel 1551 si trasferì a Cittadella, dove insegnò come maestro di scuola per circa sette anni, servendosi della Scrittura per il suo insegnamento.
   Le accuse di eresia divennero però più frequenti con il passare del tempo, e, il 27 maggio 1558, Fonzio fu arrestato nella sua stessa scuola, a Cittadella. Fu tradotto a Venezia e messo nelle mani dell’Inquisizione.
   Nei suoi scritti furono trovati 44 capi d’accusa, e il suo processo durò quattro anni.
   Anche se Venezia intervenne con una delegazione del Senato stesso perché gli fosse risparmiata la vita, non vi fu nulla da fare. Poiché non abiurò, il 26 giugno 1562 Fonzio fu condannato quale “eretico, impenitente e pertinace... a essere degradato e poi strangolato” nel carcere, in quanto il suo cadavere doveva “venir trasportato al luogo dei dannati fra le due colonne di S. Marco… e dato alle fiamme”.
   Fonzio fu scosso da questa terribile sentenza, e per un istante parlò di sottomissione, “domandò umilmente perdono della inobedentia ed scandalo dato”, ma poi si riprese, schierandosi dalla parte “della pura verità”, e affrontò coraggiosamente il martirio.
    Siccome la Repubblica Veneta non voleva che si facesse tanto chiasso per motivo di eresia, per non suscitare sommossa tra il popolo, fu ordinato che, anziché strangolare e poi ardere pubblicamente la vittima, la si facesse annegare segretamente al Lido, di notte, con una pietra al collo.
    Nell’opera Fidei et doctrinae… ratio, che Fonzio scrisse durante la sua ultima settimana di prigionia, è esposta una concezione della fede che è tratta dalla Scrittura e dalla lettura di Agostino, di cui egli riprende la dottrina dell’elezione.
   Pur avendo assimilato i principî della Riforma protestante sulla giustificazione per fede, Fonzio sperava in un concilio capace di ritrovare l’unità della chiesa alla luce della Scrittura. Si trattava evidentemente di un desiderio che non teneva abbastanza conto della divaricazione delle posizioni.
 
Gian Battista Frizzoni pastore pietista nei Grigioni
Una nuova pubblicazione racconta la storia di Gian Battista Frizzoni. Una storia di fede, costellata di episodi controversi, raccolta da tre autori che hanno elaborato la vita e le opere di questo pastore engadinese vissuto tra il 1727 e il 1800.



Daniele Papacella, studente di storia, membro della Società storica poschiavina, Zurigo (da "Voce Evangelica")
“È un uomo buono - dicevano alcuni testimoni del tempo - e la sua condotta lo dimostra. La sua fede è profonda e vera”. Altri ritenevano invece che la sua predicazione portasse “disordine e invidie” all'interno delle comunità. Attraverso le testimonianze raccolte nel volume si scopre una vita particolare, fatta di stenti e passioni, di sconfitte e successi, sempre nel nome della fede.
Gian Battista Frizzoni, nato nel villaggio engadinese di Celerina, fu un pastore che concentrò le sue forze nella predicazione e nella missione evangelizzatrice. La sua biografia, che potrebbe apparire di scarso interesse, si rivela del tutto appassionante. Frizzoni venne in contatto, da giovane, con ambienti del Pietismo tedesco. Questa esperienza lo impressionò profondamente e lo spinse a diffondere il seme pietista anche nelle valli grigioni, dapprima in Bregaglia e poi in Engadina.
Il Pietismo proponeva un'esperienza di fede diversa da quella promossa dall'ortodossia protestante del '700. Al centro stava l'esperienza personale della passione di Cristo, un risveglio interiore che permetteva la rinascita della fede. Le testimonianze del tempo ne danno un'interessantissima immagine: gli ambasciatori del movimento, che trovava in Svizzera e nella Germania meridionale un gran numero di adepti, i cosiddetti “Herrnhuter”, riportavano nei loro rapporti le osservazioni raccolte durante i loro viaggi. Da questi risulta che la casa del pastore engadinese Frizzoni era tappa fissa delle loro missioni. Da questi racconti sappiamo che la domenica, quando Frizzoni parlava dal pulpito, l'uditorio era catturato dalla forza del messaggio, e molti, addirittura, dopo il culto, volevano che egli parlasse ancora, che li rendesse partecipi della forza del messaggio evangelico.
Nacquero, da questo risveglio evangelico, dei circoli biblici domestici, una forma nuova di raduno nel nome del Signore. Se prima infatti la parola era appannaggio del pastore, il quale trasmetteva ai fedeli la propria lettura dei testi sacri, ora, seguendo i dettami del pietismo, ciascuno era chiamato ad appropriarsi del messaggio biblico e questo avveniva nei salotti privati, nella case della gente e non nel clima ufficiale della chiesa. Chiaramente un taglio così importante con la tradizione non poteva non suscitare delle reazioni. Così Frizzoni dovette abbandonare Bondo, la sua prima comunità, per le reazioni che la sua predicazione aveva suscitato e anche in Engadina non ebbe vita facile, pur avendo un gran numero di seguaci, fedeli e appassionati.
La biografia dedicata a questo importante esponente del Pietismo grigione è stata curata da tre pastori. Gion Gaudenz-Ganzoni si occupa della vita, della formazione e della famiglia; Holger Finze-Michaelsen inserisce il suo operato nel contesto del Pietismo europeo e approfondisce messaggio e indirizzi teologici di Frizzoni, seguendo le tappe della predicazione, le amicizie e le sue numerose pubblicazioni; Hans-Peter Schreich-Stuppan invece delinea quell'aspetto dell'opera di Frizzoni che ha maggiormente lasciato traccia nella vita delle comunità grigioni: il canto. L'apporto musicale di Frizzoni si inserisce nel fertile campo della musica sacra protestante, sia romancia che tedesca. Un impegno che ebbe una sua espressione anche nelle valli grigionitaliane.
Il libro convince sia per l'attenta lettura delle numerose fonti, sia per la passione con cui il materiale è stato assemblato. La voce dei testimoni rivive nelle pagine del libro e la fede dei protagonisti è delineata sullo sfondo delle passioni politiche del tempo e la sincera ricerca di risposte alle domande della vita. Un'opera importante per chi si interessa alla storia dei Grigioni, come anche per chi cerca nella storia della fede una testimonianza ancora viva.
Holger Finze-Michaelsen (a cura di), Gian Battista Frizzoni (1727-1800) Ein Engadiner Pfarrer und Liederdichter im Zeitalter des Pietismus, Verlag Bündner Monatsblatt, Coira 1999.
Mattia Flacio Illirico
Filologo, teologo, riformatore istriano, storico della Chiesa (1520-1575)
PRESENTAZIONE IPERTESTUALE
Avversari ed amici dicono di lui...
L'uomo che salvò la Riforma di Lutero dai compromessi, dagli opportunismi e dalle furbizie degli avversari.
"Uno dei più grandi eruditi del suo tempo" (Adolf Herte).
"La storia offre all'umanità non molte figure d'uguale numero di carati" (Radikale Theologie).
"Il mostro più abominevole che il mondo abbia mai prodotto" (H. M. Feret, Catholicisme, II. 1949).
 
"Un uomo di cui il mondo non era degno", citando Eb. 11:28 , Bartholomaius Pica (in Bohl, Reformation in Österreich 1902, p. 106) and Gottlob von Polenz (Französischen Calvinismus, 1857).
 
"La vipera illirica" - Filippo Melantone (Corpus Reformatorum VII, col. 532)
 
"Uno dei principali servitori di Dio" -Johannes Wigand.
"Raramente, nella storia dell'umanità, al di fuori di un manicomio, ci fu un uomo la cui vita era così tanto controllata da convinzioni oscure e folli" - James Brodrik, S.J. (nella sua biografia, Petrus Canisus, 1953)
"Mit seinem existentiellen, in Anfechtungen gereiften Verständnis von Theologie knüpfte Flacius unmittelbar an Luther an" - Thomas Kaufmann (Reformatoren, 1998).
"...sapeva d'andare a cena con il diavolo" Jacob Andreae
 
"Un uomo di cui il mondo non era degno" Gottlob von Polenz (Französischen Calvinismus, 1857).

Nel 1547 l'imperatore Carlo V vince la sua guerra contro i tedeschi e comincia ad "insegnare loro lo spagnolo". Seguito da preti per riconsacrare le chiese, le sue truppe iniziano con ferocia a trasformare il Sacro Romano Impero in una universale monarchia asburgica. La Riforma di Lutero è consegnata alla storia.
Poi, inaspettatamente, principi ribelli invertono il verdetto politico della guerra, e la Riforma è salvata. Merito di questo, è talvolta accordato al leader della rivolta, l'Elettore Maurizio di Sassonia. "Si deve ringraziare quasi esclusivamente lui per il riconoscimento pubblico del Protestantesimo nell'impero" (Wilhelm Maurenbrecher). Maurizio, però, conosciuto come "il Giuda di Meissen" era un principe rinascimentale molto opportunista, per nulla imbarazzato dalle persuasioni religiose. Soppesando le realtà politiche, aveva concluso che la minaccia dal governo imperiale era meno pericolosa che le minacce di sedizione dei recalcitranti luterani sassoni. Incitando quest'insoddisfazione, e quindi facendo muovere Maurizio, però, era un giovane croato, Mattia Flacio, "totalmente fuoco e fiamme". "Se l'opera di Lutero fu salvata in quei giorni", scrive Gustavo Kawerau, "fu in modo particolare dovuto a Flacio".
(O. K. Olson, "Matthias Flacius and the Survival of Luther's Reform", Harassowitz Verlag, Wiesbaden 2002, in Kommission, p. 15).
Mattia Flacius Illyricus
 
Michelangelo e Giovanni Florio
ed il loro contributo
alla lingua, cultura e letteratura inglese
Michelangelo Florio (conosciuto pure come Michelagnolo Fiorentino, autore dell’Apologia), nacque da famiglia ebraica di Firenze, poi convertitasi al Cattolicesimo. Divenne poi egli stesso frate francescano, conosciuto, dai suoi fratelli come Fra Paolo Antonio. Orfano all’età di circa 10 anni, fu educato in Trentino (Venezia tridentina).
Uomo di grande istruzione ed eloquenza, sembra che avesse avuto una spiritualità piuttosto instabile. Convertitosi alla fede riformata, per le sue prediche radicali fu considerato con sospetto e arrestato nel 1548. Dopo 27 mesi di prigione a Roma riesce a scappare, è poi perseguitato e fugge presso chiese evangeliche italiane che lo appoggiano (soprattutto a Venezia ed a Napoli), ricevendone un’istruzione teologica evangelica. In quel contesto conosce Pietro Martire Vermigli ed altri riformatori italiani di rilievo. Viaggia molto, visitando la Spagna, l’Austria, la Danimarca e la Grecia.

Nel Novembre 1550 arrivò come rifugiato a Londra (dopo aver lasciato Venezia in settembre). Probabilmente il suo contatto a Londra era Bernardino Ochino (1487-1564). L’Inghilterra era allora un punto di riferimento per tutti coloro che, a causa della loro fede riformata, avevano di che temere per la loro vita. Sotto il regno di Edoardo VI i profughi vi trovarono accoglienza.

Diventa amico di Thomas Cranmer ed è appoggiato da William Cecil. Diventa pastore della Chiesa riformata di lingua italiana di Londra, una delle diverse comunità straniere. Un rigido Regolamento vi era stato introdotto sotto la guida del polacco Jan Laski. Pare che il Florio predicasse veementi sermoni anti-papisti che riuscivano a scandalizzare non pochi, in linea con il suo stile oratorio molto appassionato, per il quale era pure molto criticato. Una caratteristica della comunità era che il pastore doveva sottomettersi ad una stretta disciplina. Florio riceveva dalle autorità reali uno stipendio di 20 sterline.

Lavorò in casa di William Cecil, futuro segretario di gabinetto della principessa Elizabeth e fu cappellano di Lady Jane Grey , insegnandole pure l’italiano. Con la svolta del 1553 Maria la Sanguinaria assunse il potere. Lady Jane sarebbe stata decapitata un anno dopo. Più tardi Florio, in un suo libretto, avrebbe descritto con quale calma la sua giovane allieva – diciassettenne - era andata incontro alla morte.
La sua onorabilità fu anche compromessa soprattutto a causa di una relazione irregolare con una donna inglese colta e benestante (forse conosciuta in casa del Cecil).. Sembra che si sia potuto salvare da un processo solo dichiarandosi disposto al matri-monio. Da questa relazione nacque Giovanni (John) Florio. Questa storia lo portò in conflitto con il Regolamento della comunità londinese. Nel 1553 Bullinger scriveva che un predicatore sospeso dal suo incarico aveva criticato i riti della comunità dei rifugiati .

Si interessò ad Oxford (forse in rapporto con Pietro Martire Vermigli) ed udì le dispute di Nicholas Ridley con i papisti. Di questo scrisse pure nel libro dove parla della vicenda di Lady Jane.

Nel 1555 dopo che Maria la sanguinaria accede al trono (e che causò il martirio di Cranmer, Latimer e Ridley ad Oxford), insieme ad altri rifugiati, fugge dall’Inghilterra, soggiorna brevemente a Strasburgo e poi si reca, con la sua famiglia a Soglio, in Bregaglia, protetti dai Grigioni (insieme a John, di due anni, e la sua madre inglese). E’ chiamato a svolgervi il ministero di pastore probabilmente da Federico Von Salis, che lo conosce e lo apprezza.. Sarà il secondo pastore riformato di Soglio dopo la Riforma, succedendo a Michele Lattanzio, di Bergamo, già ivi rifugiato.

E’ a Soglio che Michelangelo insegna al figlio non solo la sua fede riformata, ma pure latino, francese, greco, insieme all’italiano ed all’inglese. Dalle opere posteriori di Giovanni Florio risulta come la loro vita in quel villaggio fosse frugale, ma feconda, provvista di libri, musica, buone maniere, e dove si coltivava la conoscenza delle lingue. E’ pure a Soglio che Giovanni vede il padre scrivere sermoni e libri, e dove im-para l’amore per le lettere, cosa che poi trasmetterà alla cultura inglese.
La nuova attività a Soglio era senza dubbio accompagnata da alcune difficoltà. Florio aveva il compito di ammaestrare nella fede una popolazione che soltanto da poco tempo si era decisa per la Riforma. Al tempo stesso si trovava a dover fronteggiare la potente famiglia Salis, che avrebbe fatto volentieri a meno del passaggio “alla nuova fede”.
Sotto l’aspetto teologico era considerato di spirito inquieto. Michelangelo Florio sarebbe venuto meno alla sua indole se avesse trovato la pace a Soglio. Accanto alla sua attività di predicatore si impegnò in discussioni teologiche che andarono molto al di là dell’orizzonte di una comunità di montagna. Tre anni dopo il suo arrivo (1557) apparve la sua Apologia, risposta polemica agli attacchi di un suo ex-confratello francescano Bernardino Spada. In essa difende le sue idee riformatrici e si esprime su terni come la vera e la falsa chiesa, il problema della messa, la presenza di Cristo nel sacramento del la Cena del Signore, il primato di Pietro e l’autorità dei Concili. E poi ché era stato attaccato dallo Spada sul piano personale, parla pure della sua vita e delle sue personali esperienze.
In oltre creò alla Chiesa retica non pochi problemi, perché simpatizzava più o meno apertamente con la corrente dei Sociniani (Fausto Sozzini) che stava dando ulteriori problemi alla Chiesa riformata di Chiavenna. Il Florio, per esempio, era del parere che fosse inammissibile affermare che Cristo avesse espiato sulla croce i peccati degli uomini mediante un sacrificio perfetto. I peccati dell’umanità erano stati piuttosto vinti per il fatto che Dio, nel la sua grazia, aveva dichiarato e accettato la morte di Cristo come un sacrificio espiatorio sufficiente. Di conseguenza non poteva considerare anche la Santa Cena nient’altro che come un richiamo esteriore alla grazia di Dio.

Nel 1561 fu convocato di fronte al Sinodo della Chiesa Retica per rendere conto delle sue idee antitrinitarie, come pure per il fatto che egli si opponesse ad avere una confessione di fede obbligatoria, firmata sia dai pastori che dai membri di chiesa. Ancor prima che esso si fosse riunito, Florio e i suoi amici fecero un tentativo di tirare dalla propria parte il Ministerio di Zurigo. Il 24 maggio 1561 una delegazione portò una lista di 26 questioni sulle quali si desiderava avere l’opinione dei pastori zurighesi. Lo scopo di tali questioni era evidente: esse erano in fondo nient’ altro che una perorazione per una maggiore libertà. «Deve la Confessione decisa da una comunità essere accettata da tutti senza riserve?» (1). «Deve essere scomunicato chiunque sia irretito in errore sulla dottrina della Trinità, il cui mistero non può essere compreso neppure dagli angeli, anche se esso sia irreprensibile sotto ogni altro punto di vista, se conduce una vita lodevole e incon-tra amorevolmente i poveri?» (20). I postulanti non ebbero successo. Il Ministerio zurighese li rimpro-verò in una dettagliata lettera . Il Sinodo, che si riunì a Coira dieci giorni più tardi, si presentava in partenza per loro sotto un cattivo auspicio. Florio presentò le sue richieste con la nota veemenza . I membri del suo gruppo si trincerarono dapprima dietro l’argomentazione che essi avevano già sottoscritto la Confessione retica e che, quindi, non c’era alcun bisogno di avere un’altra Confessione.
Ma poi, quando uno dei suoi compagni, Lodovico Fieri, sostenne delle opinioni chiaramente eretiche, il dibattito si spostò sulle questioni teologiche. Florio e Turriano furono costretti a ritirare le ioro dottrine erronee. Lodovico Fieri fu escluso dal ministerio. Le discussioni erano tuttavia ben lungi dall’essere terminate e si infiammarono nuovamente al principio degli anni settanta. Infatti, anche se Florio e Turriano aveva-no accettato la censura del Sinodo, essi rimanevano — almeno nel segreto — fermi nelle loro convin-zioni. La contiguità del Florio al movimento spiritualista si nota anche nel solo fatto che amici di Bernardino Ochino, dopo la sua espulsione da Zurigo, cercarono di sondare se Florio o Turriano sarebbero stati di sposti ad accogliere in Bregaglia il fuggiasco. Ma la lettera fu sequestrata e quindi egli non poté rispondere. L’Ochino si recò a Mähren passando per Basilea, Francoforte e Norimberga. Nell’epidemia di peste morirono tre dei suoi bambini ed egli stesso morì nel 1564 in estrema miseria. Alcuni anni più tardi il Sinodo trattò nuovamente la questione (1572). Turriano, arnico del Florio, Camillo Sozzini e Niccolò Camulio vennero espulsi dal Ministerio. Florio stesso a quel tempo era probabilmente già deceduto.

I legami con l’Inghilterra si mantennero. Nel 1563 dedicò una sua opera (l’Apologia) alla regina Elisabetta I e per ricordarle che era stato il suo tutore italiano.

Nel 1563 mandò suo figlio Giovanni, che conosceva molto bene l’italiano, l’inglese, il francese ed il latino, all’università di Tubinga in Germania. Non pare che Giovanni visitasse o vivesse mai in Italia. Suo padre l’aveva ammonito che non era possibile vivere nelle città italiane “senza dimenticare Dio”.

Ebbe altri figli. Morì dopo il 1566 probabilmente a Soglio.

 
Giovanni (John) Florio
seguito di: Michelangelo e Giovanni Florio ed il loro contributo alla lingua, cultura e letteratura inglese

Arrivato in Inghilterra nel 1575, dopo aver ricevuto istruzione universitaria a Tubinga, diventa insegnante di lingue straniere a Londra, vicino allo Strand (abitazioni in Upper Thames Street, chiamate Worcester Place). Dedica una sua opera al conte di Leicester, il cui padre, il Duca di Northumberland, aveva conosciuto suo padre ed era appassionato alla cultura italiana. Difatti, Michelangelo aveva dedicato il suo catechismo al Duca. Il padre di Giovanni, con i suoi numerosi contatti con l’aristocrazia, aveva così preparato in Inghilterra il terreno al figlio.

Nel 1576 John Florio vive ad Oxford e svolge la funzione di tutore del figlio del vescovo di Durham.

Giovanni si fa conoscere come un uomo molto colto ed interessante. Parla chiaramente inglese senza accento straniero (aveva solo due anni quando lasciò Londra).

Nel 1578 scrive il suo primo libro (First Fruits) in inglese sui proverbi italiani. In esso parla di come i genitori dovrebbero insegnare ai loro figli molte lingue. Si lamenta del fatto che gli inglesi non sappiano parlare altre lingue. Le raccolte di dialoghi First Fruits (1578) e Second Fruits (1591) furono certo conosciute da Shakespeare che ne riporta diversi.

La sua prima opera manifesta autentici sentimenti religiosi puritani. Yates suggerisce che questo fosse un segno della tendenza “sociniana” del padre che, in quei tempi, si mascherava come estremo puritanismo. Yates parla del “First Fruits” come un manuale di morale, con idee in parte derivanti da Guevara e Guicciardini. Florio, così, si afferma ben presto nei circoli intellettuali di Sidney-Leicester.

Florio valuta molto la castità cristiana – rilevandone i vantaggi: fama, sapienza, continenza, salute e rispetto. In questo, forse, si vuole distanziare dagli errori del padre a Londra.

Nel 1581 si iscrive al Magdalen College insieme al poeta ed intellettuale Samuel Daniel. Frequenta questo college, di tendenza puritana, con una borsa di studio. Ancora oggi, in questo college, è attiva una Florio Society.

Si pensa che sposò la sorella del Daniel. Ha una figlia, Joanna, battezzata ad Oxford e vice vicino al Worcester College. Insegna lingue europee ad Oxford, in particolare l’italiano. Conosce Philip Sidney, Conte di Leicester, e Walsingham, capo del servizio segreto inglese.

Nel 1580 traduce per Edward Bray, sceriffo di Oxford, il “Ramusio”.

Nel 1582 scrive un altro libro sui proverbi italiani, e lo dedica all’amico Philip Sidney, come pure scrive un’operetta per Sir Edward Dyer.

Dal 1582 in poi è traduttore per l’ambasciata francese di Londra e, con la sua famiglia, vive nella Shoe Lane di Londra. Insegna italiano ed altre lingue alla brillante figlia dell’ambasciatore francese Michel de Nauvissière , sin dall’età di quattro anni. Accompagnava l’ambasciatore nelle udienze con la regina Elisabetta.

In questa ambasciata Florio viveva accanto al filosofo italiano Giordano Bruno , poi martire a Roma delle sue idee. L’amicizia con Giordano Bruno lo influenza nell’includere nel suo dizionario italiano-inglese, anche termini napoletani. In una copia di un libro del Bruno a Napoli, sono stati trovati manoscritti che descrivono una serata passata a Londra con il Florio. Pare che in questa serata essi dovessero incontrare Sir Philip Sidney, Sir Fulke Greville (da loro chiamato “Fulko”) e con due professori di Oxford. Bruno non parlava inglese, così si avvaleva della traduzione del Florio. In questo incontro, incentrato sulla fantascienza (!) Bruno sosteneva che l’antica concezione greca dell’universo fosse errata e che la terra non è che uno fra tanti mondi, e che gli altri pianeti dovessero essere pure abitati. Immaginava un universo infinito. Pare che Sidney e Greville fossero molto interessati a queste idee. Florio evidentemente conosceva il protestante Sidney (lo “spirito angelico” degli elisabettiani, che tradusse i Salmi in versi inglesi). Florio, così conosceva ed incontrava Walsingham, Raleigh, Sidney, Spencer (dal quale pare abbia “rubato” la moglie Rosa, o Rosaline), come pure il poeta Samuel Daniel (che pure probabilmente agiva come spia a Parigi.

Nel 1583 egli, sorprendentemente, viene reclutato fra le spie del Walsingham al servizio segreto inglese, e mette a rischio la sua vita nell’ambasciata francese, intercettando messaggi di Maria, regina di Scozia, ai cattolici francesi. Pare che anche il poeta Christopher Marlowe servisse, allo stesso modo, come spia inglese.

Florio sembra così diventare a Londra una “pietra di paragone” intellettuale. Insegna stilistica letteraria ed introduce l’uso dei proverbi scrivendo, appunto, un libro di proverbi, alcuni dei quali appaiono nelle opere del Shakespeare. Florio sembra essere determinante nell’affermazione del famoso stile “eufuistico” pre-shakespeariano che, di fatto, è il primo stile altamente drammatico del teatro elisabettiano. Lyly, autore del “Euphues” (il drammaturgo) era suo allievo e così era l’amico più intimo del Sidney (della stessa città di Shakespeare), Sir Fulke Greville .

Sembra che Florio conoscesse un po’ tutti e che fosse pure ben accolto in molti ambienti facendo una buona impressione. La vita pulita, istruzione, talenti e carattere del Florio riescono così a ristabilire la reputazione a Londra della loro famiglia, dopo che il padre Michelangelo era stato licenziato dal suo ruolo di pastore nella comunità riformata italiana di Londra.

Vi sono evidenze che Florio chiamasse sé stesso “L’Eliotropo” o “il girasole”, dato che troviamo questo fiore nel suo stemma. Le descrizioni che troviamo del suo carattere lo rappresentano come pedante ma cortese. L’espressione “Love’s Labours Lost” è una frase che appare prima nelle sue opere e poi nei sonetti del Shakespeare. Il suo stile letterario è descrittivo, elegante e molto vivace.

Appare nel Calendario del pastore, di Edmund Spenser come amante di Rosalinda e sotto lo pseudonimo di Melacas (risoluto), un carattere seducente ed immorale. Melacas John Florio (il risoluto John Florio) era il modo in cui lo stesso Florio sempre si firmava in tutte le sue lettere. Florio definiva sé stesso pure come un “italiano anglificato”, o meglio “angelificato” (giocando sulle parole).

Dal 1590 al 1598 è segretario del Barone di Southampton, patrono dello Shakespeare e scrive un primo dizionario italiano-inglese “A Worlde of Wordes” (1598), in seguito ampliato (1611).

Nel 1603 traduce liberamente in inglese i saggi di Montaigne.

Diventa insegnante di italiano per la regina Anna ed il principe di Galles. Frequenta la corte inglese insieme a Shakespeare . Apparentemente è Florio che insegna a Shakespeare l’italiano, tanto da parlarlo poi fluentemente. Diventano molto probabilmente amici e sembra che ci sia un riferimento al Florio nella sua poesia “Phaeton”. Descrive il suo “dolce amico” Florio come “fiori” e “frutti” (in onore dell’opera di quest’ultimo “First Fruits”, segni della primavera e dell’estate (che Shakespeare spesso amava descrivere nei Sonetti. Essa parla di come l’Inghilterra fosse priva di frutti della grazia e dello stile letterario, prima che Florio intervenisse. Termina con i versi: “Such fruits, such flowers of morality Were never before brought out of Italy” (Tali frutti, come i fiori della moralità, non furono mai portati prima dall’Italia).

Si sposa nel 1617 con Rose “Spider”, che ama teneramente. Il suo stesso testamento è una lettera d’amore per lei. Diventa maggiormente religioso in età avanzata.

Obiettivo del Florio era dare alla lingua inglese eleganza e raffinatezza, forti ambizioni linguistiche.

Dà il nome al Golfo di S. Lorenzo in Canada traducendolo erroneamente da un libro del famoso navigatore Sir Richard Hakluyt . Nella prefazione a questo libro Florio incoraggia la colonizzazione dell’America – quasi prima di chiunque altro – per diffondere l’influenza della lingua inglese, che egli amava.

Muore nel 1625 a Fullham. Lascia nel testamento innumerevoli libri al conte di Pembroke ed dei gioielli dati alla regina Anna dal Duca Ferdinando di Bologna, come gesto di riconoscenza per la protezione ottenuta, come pure una pensione per la sua vedova, da William Herbert , il “giovanotto” dei sonetti di Shakespeare.
Michelangelo Florio:
tra Italia, Inghilterra e Val Bregaglia
di Lukas Vischer
Da “Il Protestantesimo di lingua italiana nella Svizzera”, Figure e movimenti tra cinquecento ed ottocento, a cura di E. campi, e G. La Torre, Claudiana, Torino, 2000.
I.
«... e d’indi partitomi, chiamato da questi Signori Grigioni, arrivai qui a 27 del detto mese»[1].
Con l’indicazione «qui» si intende Soglio o, come dice il Florio, Soy. Con la sua piccola famiglia — la moglie e il figlio Giovanni — aveva compiuto un lungo viaggio. Dopo la morte del re Edoardo VI d’Inghilterra (1537-1553) dovette ancora una volta decidere di fuggire. Soggiornò brevemente a Strasburgo e di lì fu chiamato come pastore a Soglio.
Il villaggio era da poco passato alla Riforma[2]. Nell’alta Val Bregaglia si erano già fatte strada le idee riformate. Bartolomeo Maturo, un ex monaco domenicano di Crernona, già dagli anni ‘30 svolgeva attività di predicatore a Vicosoprano. Ma la vera svolta avvenne con Pier Paolo Vergerio, che il 6 maggio 1551, con una veemente predica antiromana, scatenò un movimento che portò alla distruzione delta chiesa di San Gaudenzio. Il segnale era dato. Soglio era rimasto fino ad allora fedele alla «vecchia fede». II parroco della chiesa di San Lorenzo, Prer Duric, era già da tempo bersaglio di feroci critiche da parte della popolazione. Nel corso dell’anno 1552 la situazione si acuì.
Il 2 gennaio 1553 Pier Paolo Vergerio poteva scrivere a Zurigo: «In Bregaglia vi è un luogo denominato Soglio, dove dimorano numero si influenti papisti. Ma Dio è stato più potente di loro, poiché otto giorni fa la messa è stata abolita, per merito di gente di poco conto, se valutata secondo le misure di questo mondo»[3]. Che cosa era accaduto? La «gente di poco conto» responsabile dell’introduzione della Riforma, erano evidentemente le donne di Soglio. Per non dover sopportare più a lungo il prete, avevano preteso un cambiamento radicale. Una riunione, dominata dalla gioventù del villaggio, il giorno di Natale del 1552 decise di porre in atto i provvedimenti richiesti[4].
La famiglia Salis, che esercitava un grosso potere a Soglio e in molte altre località, restava ancora dubbiosa. Prima della riunione decisiva, era stato chiesto il loro parere. Essi risposero che, per quanto concerneva le loro proprie persone, essi non desideravano alcun cambiamento, ma che non volevano immischiarsi in questioni di fede e di coscienza. Per molti anni il partito pro-Roma guardò con speranza alla famiglia Salis. Ancora nel 1571 Battista (1521-1596) e Giosuè Salis furono insigniti dai Papa del titolo di Cavalieri della legione d’oro. Una tale situazione contraddittoria non poteva però durare per sempre. Battista aderì alla Riforma e suo figlio Giovanni Battista (1569- 1628) fu più tardi uno dei capi del partito riformato nelle Tre Leghe. In tutto questo può aver avuto un ruolo il fatto che Battista era genero di Federico Salis, il riformatore di Samedan[5].
Il primo pastore eletto a Soglio fu Lattanzio Michele, un rifugiato di Bergamo. Quando morì, due soli anni più tardi, fu fatto appello a Michelangelo Florio. Fra i Signori Grigioni che avevano preso quest’iniziativa, Federico von Salis era stato probabilmente colui che aveva dato il maggiore impulso.
II.
Chi era Michelangelo Florio? Qualche notizia su di lui la troviamo nell’Apologia che egli scrisse due anni dopo il suo arrivo a Soglio per difendersi dalle accuse che il frate francescano Bernardino Spada gli aveva rivolto in uno scritto polemico[6]. Era venuto al mondo forse a Firenze, più probabilmente a Lucca o a Siena, da una famiglia ebraica. Ma già i suoi genitori si erano fatti battezzare. Come molti altri italiani divenuti poi riformatori, era appartenuto ad un Ordine. Corne Bernardino Ochino, era divenuto francescano e rimase membro di quell’Ordine per molti anni con il nome di Paolo Antonio. A poco a poco si svilupparono in lui delle convinzioni riformate e, a partire dal 1541, cominciò a parlarne apertamente nelle sue prediche in diverse città. Dapprima la sua attività venne tollerata ma nel 1548 fu arrestato e trascorse 27 mesi in una prigione romana. Riuscì a sfuggire ai l’esecuzione della condanna a morte solo grazie alla fuga. «Il 6 maggio 1550, all’alba — racconta nell’Apologia — fuggii da Roma e mi recai, dopo aver deposto il saio francescano, a Napoli. Pie persone cristiane mi fornirono del necessario». Di qui passò da una città all’altra finché giunse a Lione, quindi a Parigi e infine a Londra.
L’Inghilterra era allora un punto di riferimento per tutti coloro che, a causa della loro fede riformata, avevano di che temere per la loro vita. Sotto il regno di Edoardo VI i profughi vi trovarono accoglienza. Prima de! Florio, dall’Italia erano già arrivati Bernardino Ochino (1487-1564) e Pietro Martire Vermigli (1500-1563). A Londra si era costituita una vera e propria chiesa dei rifugiati, comprendente più comunità linguistiche. Un rigido Regolamento vi era stato introdotto sotto la guida del polacco Jan Laski[7]. Una caratteristica della comunità era che il pastore doveva sottomettersi ad una stretta disciplina. Florio fu predicatore della comunità di lingua italiana, ricevendo dalle autorità reali uno stipendio di 20 sterline. Ma la sua attività nella comunità fu accompagnata da turbolenze. La passione e la veemenza polemica delle sue prediche, ben comprensibili dopo 27 mesi di prigione, andavano per molti troppo lontano. La sua onorabilità fu anche compromessa soprattutto a causa di una relazione irregolare con una donna. Sembra che si sia potuto salvare da un processo solo dichiarandosi disposto al matrimonio. Da questa relazione nacque Giovanni Florio. Questa storia lo portò in conflitto con il Regolamento della comunità londinese. Nel 1553 Bullinger scriveva che un predicatore sospeso dal suo incarico aveva criticato i riti della comunità dei rifugiati[8]. L’attività di Florio non si limitava a quella di predicatore; egli da va anche lezioni di lingue. Evidentemente aveva uno straordinario dono per le lingue, che lo portô ad avere contatti con la famiglia reale. Ne sono testimonianza due brevi trattati di regole grammaticali per l’insegnamento della lingua italiana[9]. Uno è dedicato a Lady Jane Grey (1537-1554), una pronipote di Enrico VIII, della quale parleremo ancora più avanti. Florio era evidentemente il suo maestro e aveva contribuito alle sue conoscenze linguistiche apprezzate da molti. Non è addirittura escluso che Florio abbia insegnato l’italiano anche alla futura regina Elisabetta I.
La morte di Edoardo VI avvenuta il 6 luglio 1553 e gli eventi che ne seguirono ebbero come conseguenza che Florio dovette abbandonare Londra. John Dudley, duca di Northumberiand, aveva convinto il giovane re — aveva solo sedici anni quando morì — a non trasmette re la corona a Mary, la figlia maggiore di Enrico VIII, ma di designare invece alla successione Lady Jane Grey. La proposta era audace. Lady Jane era pronipote di Enrico VIII e non poteva quindi avanzare nessuna valida pretesa al trono. Era allora solo quasi una giovinetta, dotata e amata, ma era chiaro già d’allora che non avrebbe potuto essere altro che uno strumento nelle mani del duca di Northumberland. Tuttavia il suggerimento sembrò aver successo. Il re diede il suo assenso e Lady Jane, subito dopo la morte di lui, venne proclamata regina. Ma Mary non era disposta ad accettare tale situazione. Le riuscì di raccogliere una sufficiente forza militare per strappare a proprio favore il potere. Il duca e i suoi stretti adepti furono giustiziati nella torre. Lady Jane fu arrestata, ma dapprima trattata bene. Lo scopo di Mary era di riportare l’Inghilterra sotto l’obbedienza del papa. Pensava in un primo tempo di poter contare su un ritorno volontario da parte del la popolazione. Quando all’inizio dell’anno successivo, però, fu scoperto un tentativo di colpo di stato, instaurò una repressione sistematica. Uno dei primi provvedimenti fu l’esecuzione della giovane Lady Jane, il 12 febbraio del 1554[10].
Per i rifugiati iniziò la dispersione. Florio fuggi nel marzo del 1554. Ai momento della morte della sua allieva egli si trovava ancora a Londra ed aveva seguito da vicino gli avvenimenti che la riguardavano. Alcuni anni più tardi, quando era già pastore a Soglio, volle erigere un monumento alla sua memoria, narrando in un libretto la sua vita e la sua morte. Ne mise in rilievo soprattutto il coraggio, sostenuto da una salda fede. Com’è anche testimoniato da altre fonti, Lady Jane aveva accolto la sua condanna a morte con incredibile tranquillità[11].
III.
La nuova attività a Soglio era senza dubbio accompagnata da alcune difficoltà. Florio aveva il compito di ammaestrare nella fede una popolazione che soltanto da poco tempo si era decisa per la Riforma. Al tempo stesso si trovava a dover fronteggiare la potente famiglia Salis, che avrebbe fatto volentieri a meno del passaggio “alla nuova fede”.
Sul suo lavoro a Soglio non si sa quasi nulla. Rimase fedele alla comunità fino alla morte. Sono conservati alcuni documenti degli anni ‘60, dai quali risulta che esercitava anche la carica di pubblico notaio. Quando, dopo la morte di Maria la Sanguinaria (1558) divenne regina Elisabetta I, egli probabilmente concepì l’idea di ritornare a Londra. Non potà attuarla. Ma fece tutto il possibile per aprire a suo figlio Giovanni una carriera nel mondo lontano. Lo inviò - decenne - a Tubinga affinché ricevesse colà un’istruzione. Più tardi Giovanni si stabilì in Inghilterra. Lî, sotto il regno di Elisabetta I, ebbe un ruolo importante negli ambienti intellettuali come traduttore e letterato.
Michelangelo Florio sarebbe venuto meno alla sua indole se avesse trovato la pace a Soglio. Accanto alla sua attività di predicatore si impegnò in discussioni teologiche che andarono molto al di là dell’orizzonte di una comunità di montagna. Tre anni dopo il suo arrivo (1557) apparve la sua Apologia, risposta polemica agli attacchi di un suo ex-confratello francescano Bernardino Spada. In essa difende le sue idee riformatrici e si esprime su terni come la vera e la falsa chiesa, il problema della messa, la presenza di Cristo nel sacramento del la Cena del Signore, il primato di Pietro e l’autorità dei Concili. E poi ché era stato attaccato dallo Spada sul piano personale, parla pure della sua vita e delle sue personali esperienze.
Ma presto fu coinvolto in controversie teologiche. Nella comunità di Chiavenna si erano radunati dei rifugiati italiani. Molti trascorsero in quella cittadina solo qualche breve periodo e si avviarono poi verso nuove mete. Molti portarono con sé le proprie convinzioni teologiche ed era quasi inevitabile che si giungesse a discussioni teologiche, che potevano a volte giungere a dei veri e propri conflitti. La spiritualità dei profughi italiani era segnata dalle esperienze vissute con la chiesa romana in Italia. La critica ad una istituzione strapotente li portava ad affermare che la vera fede era una realtà spirituale e a rifiutare ogni fiducia negli aspetti esteriori, fossero dogmi, sacramenti o istituzioni. Questa tendenza ad una spiritualità interiorizzata e critica nei confronti dell’istituzione poteva prendere differenti forme. Il dibattito poteva concentrarsi su! dogma della Trinità. Poteva ruotare attorno al significato dei sacramenti o della edificazione della chiesa, soprattutto sull’esercizio della disciplina ecclesiastica. In ogni caso, la comprensione con le chiese riformate che gli esuli trovavano al «nord», era tutt’altro che ovvia. Era logico che sorgessero delle tensioni. Gli «italiani» furono considerati corne «fomentatori di discordie» da parte delle chiese che si erano via via strutturate teologica mente ed istituzionalmente e molti rifugiati sentirono il governo de! le chiese riformate del nord come una nuova forma di repressione.
A Chiavenna e nelle chiese delle Tre Leghe avevano già prima avuto luogo discussioni di carattere dottrinale. Negli anni quaranta un siciliano, Camillo Renato (morto dopo il 1570) aveva già fatto parlare di sé. Era giunto a Chiavenna nel 1542 e, dopo un periodo in cui si era inteso bene con il predicatore del posto Agostino Mainardo, sorse fra loro una disputa sul significato dei sacramenti. Il Renato contestava che la grazia Dio potesse essere in qualche modo mediata attraverso «azioni sacre». La Cena del Signore era, ai suoi occhi, soltanto un pasto in memoria. Dietro questa affermazione c’era la concezione che la salvezza veniva mediata direttamente dalla potenza dello Spirito Santo. Lo Spirito era sia la sorgente che la forza operante della nuova nascita. Camillo stesso si attribuì il nomignolo di Renato. La disputa a Chiavenna terminò nel 1550 con la decisione del Sinodo grigione di escludere Camillo Renato dal ministero pastorale. La sua influenza in Chiavenna e dintorni non era tuttavia interrotta[12].
La disputa scoppiò nuovamente alla fine degli anni cinquanta e questa volta Florio ne fu uno dei protagonisti. Fra coloro che condividevano le sue idee c’erano anche Girolamo Turriano, predicatore a Piuro, e Pietro Leone a Chiavenna. Anche se essi non si identificava no con Camillo Renato o con i fratelli di Lelio Sozzini, che allora diffondevano le loro idee a Chiavenna, condividevano tuttavia opinioni che andavano in quella direzione. Il Florio, per esempio, era del parere che fosse inammissibile affermare che Cristo avesse espiato sulla croce i peccati degli uomini mediante un sacrificio perfetto. I peccati dell’umanità erano stati piuttosto vinti per il fatto che Dio, nel la sua grazia, aveva dichiarato e accettato la morte di Cristo come un sacrificio espiatorio sufficiente. Di conseguenza non poteva considerare anche la Santa Cena nient’altro che come un richiamo esteriore alla grazia di Dio.
Dal tempo di Camillo Renato i fronti si erano ulteriormente irrigiditi. Nel 1553 a Ginevra era stato giustiziato Michele Serveto. Tutto ciò che sapeva di antitrinitario, d’ora in avanti verrà guardato con crescente diffidenza.
Agostino Mainardo, ancora predicatore a Chiavenna, fece il tentativo di escludere la possibilità di ulteriori deviazioni, presentando nel l’assemblea del 2 gennaio 1561 una confessione di fede che avrebbe dovuto essere sottoscritta da tutti i membri della comunità. Chi si fosse rifiutato di farlo, sarebbe stato escluso dagli uffici ecclesiastici, dal diritto di voto e dalla Santa Cena. Il Mainardo pretendeva che anche i predicatori della contea di Chiavenna e della Valtellina apponessero la loro firma[13].
Tale pretesa, sostenuta con molta ostinazione dal vecchio predicatore, incontrò una decisa opposizione. Florio fu tra i portaparola dell’opposizione. Il dibattito coinvolse cerchie cosi vaste di persone, che si dovette portarlo davanti al Sinodo. Ancor prima che esso si fosse riunito, Florio e i suoi amici fecero un tentativo di tirare dalla propria parte il Ministerio di Zurigo. Il 24 maggio 1561 una delegazione portò una lista di 26 questioni sulle quali si desiderava avere l’opinione dei pastori zurighesi. Lo scopo di tali questioni era evidente: esse erano in fondo nient’ altro che una perorazione per una maggiore libertà. «Deve la Confessione decisa da una comunità essere accettata da tutti senza riserve?» (1). «Deve essere scomunicato chiunque sia irretito in errore sulla dottrina della Trinità, il cui mistero non può essere compreso neppure dagli angeli, anche se esso sia irreprensibile sotto ogni altro punto di vista, se conduce una vita lodevole e incontra amorevolmente i poveri?» (20).
I postulanti non ebbero successo. Il Ministerio zurighese li rimproverò in una dettagliata lettera[14]. Il Sinodo, che si riunì a Coira dieci giorni più tardi, si presentava in partenza per loro sotto un cattivo auspicio. Florio presentò le sue richieste con la nota veemenza[15]. I membri del suo gruppo si trincerarono dapprima dietro l’argomentazione che essi avevano già sottoscritto la Confessione retica e che, quindi, non c’era alcun bisogno di avere un’altra Confessione. Ma poi, quando uno dei suoi compagni, Lodovico Fieri, sostenne delle opinioni chiaramente eretiche, il dibattito si spostò sulle questioni teologiche. Florio e Turriano furono costretti a ritirare le ioro dottrine erronee. Lodovico Fieri fu escluso dal ministerio.
Le discussioni erano tuttavia ben lungi dall’essere terminate e si infiammarono nuovamente al principio degli anni settanta. Infatti, anche se Florio e Turriano avevano accettato la censura del Sinodo, essi rimanevano — almeno nel segreto — fermi nelle loro convinzioni. La contiguità del Florio al movimento spiritualista si nota anche nel solo fatto che amici di Bernardino Ochino, dopo la sua espulsione da Zurigo, cercarono di sondare se Florio o Turriano sarebbero stati di sposti ad accogliere in Bregaglia il fuggiasco. Ma la lettera fu sequestrata e quindi egli non poté rispondere. L’Ochino si recò a Mähren passando per Basilea, Francoforte e Norimberga. Nell’epidemia di peste morirono tre dei suoi bambini ed egli stesso morì nel 1564 in estrema miseria. Alcuni anni più tardi il Sinodo trattò nuovamente la questione (1572). Turriano, arnico del Florio, Camillo Sozzini e Niccolò Camulio vennero espulsi dal Ministerio. Florio stesso a quel tempo era probabilmente già deceduto.
Florio non si occupô solo di Teologia. Nel 1563 fu pubblicata una sua traduzione italiana de! grande Compendio di Metallurgia, di Giorgio Agricola[16]. Dedicò il volume nientemeno che alla regina Elisabetta I, un segno di quanto ci tenesse a mantenere un buon rapporto con l’Inghilterra, sia per sé che — soprattutto — per i suoi discendenti.
Non sappiamo esattamente quando sia morto, ma, visto che al Sinodo del 1572 si parla di lui come uno che è già deceduto, la sua morte deve essere precedente a quella data.
IV.
Che cosa apprendiamo da questa biografia? Vorrei formulare tre osservazioni:
La Riforma in Italia è cresciuta chiaramente su radici diverse da quelle dei Paesi del nord. I rifugiati che arrivavano dall’Italia non potevano quindi essere senz’altro compresi e integrati. La Riforma consisteva evidentemente in una quantità di movimenti e di correnti. Cosa significa ciò per la nostra comprensione attuale della Riforma?
La controversia sorse soprattutto sulla questione della confessione di fede. Questo problema non ha più trovato pace nelle chiese riformate della Svizzera. Si ripresentò soprattutto nel XVIII e XIX secolo. Oggi viviamo in una chiesa che non ha un legarne confessionale esplicito. Come giudichiamo noi oggi, in retrospettiva, le discussioni di quel tempo? Come viene assicurata nelle chiese la predicazione del puro evangelo?
Flono era venuto a Soglio come straniero, dopo aver trascorso anni molto movimentati. Quale rapporto poteva esserci fra queste sue esperienze e il mondo che trovò a Soglio? Qui la Riforma era stata il risultato di un movimento popolare. L’intera popolazione aveva deciso di aderire alla nuova fede. Da una parte stava dunque l’esperienza personale del profugo, dall’altra le esigenze della gente di un villaggio. Da una parte c’era la persona colta che si occupava di problemi intellettuali (si pensi alle sue traduzioni); dall’altra parte, dei contadini di montagna, per i quali la Riforma non era stata solo un evento spirituale, ma anche un fatto politico. Come potevano questi due diversi punti di partenza trovare un terreno d’incontro? Già in quei primi anni si creò un modello di relazione fra il pastore e la comunità che si sarebbe poi più volte ripetuto: un pastore che viveva in un mondo spirituale e intellettuale diverso da quello della popolazione. In quale misura l’immagine del pastore, fin dagli inizi della chiesa riformata, è stata determinata da questa contrapposizione? E fino a qual punto ha contribuito al processo d’intellettualizzazione della vita spirituale ed ecclesiastica?
(Traduzione italiana di G. Bogo)
 
 




[1] Apologia di M. Michel Agnolo Fiorentino, ne la quale si tratta de la vera e falsa chiesa. de l’essere, e qualità de la messa, de la vera presenza di Christo, de la Cena, del Papato. e primato di S. Piero. de Concilij & autorità loro: scritto a un heretico. Chamogasko 1557. p. 78. Una breve presentazione della vita del Florio si trova in F.A. Yate, John Florio, The life of an Italian in Shakespeare’s England, Cambridge University Press. l934, pp. 1-26.
[2] Una presentazione della Riforma si trova. fra altri, in: E. Camenisch, Storia della Riforma e controriforma nelle valli meridionali del Canton Grigioni, Sarnedan,  Engadin Press, 1950
[3] E. CAMENISCH, Storia della Riforma. p. 56.
[4] Una tradizione afferma che l’assemblea si sia tenuta al Plan Luder, un prato presso Soglio. Il nome significherebbe «prato di Lutero» e sarebbe stato dato a quella località in ricordo dell’avvenimento. Abbiamo fondati motivi per dubitarne. Nell’archivio di Soglio si trova un contratto di acquisto dell’anno 1558 (N. 177). quindi pochi anni dopo l’avvenimento, nel quale viene citato Ludeer, senza alcun riferimento a Lutero. Un successivo contratto di acquisto di cinque anni dopo concerne la vendita di terreno a Ludeer alla chiesa di San Lorenzo. E verosimile che la tradizione si sia creata a un certo momento dei secoli successivi.
 
[5] Così si legge sulla lapide funeraria nella chiesa di Soglio.
[6] Si veda nota 1.
[7] Vedasi L. Vischer, Das Amz der Aeltesten in der reformierten Kirche heute, Bern, Evang. Arbeitsstelle Oekumene Schweiz, 1992, p. 69 ss.
[8] F.A. Yates, John Florio, p. 7.
[9] MICHEL AGNOLO FLORIO, Regole et Institutioni della Lingua Thoscana, s.d., British Museurn MSS 3011.
[10] Vedasi J.D. MACKIE, The Early Tudors (1485-1558), Oxford History of England, Oxford, Clarendon, 1962 (repr.), pp. 522 ss.
[11] Historia de la vita e de la morte de l’Illustriss. Signora Giovanna Graia, Riccardo Pittore, Venetia 1607. Come autore viene esplicitamente nominato M. Michelangelo Florio fiorentino, già predicatore famoso del Sant’Evangelo in più città d’Italia et in Londra. Il manoscritto è rimasto evidentemente a lungo inedito.
[12] Vedasi F. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier, 2 voll., Heidelberg, s.t., 1839, 1844, vol. 2, p. 93 ss.
[13] F. TRECHSEL, Die protestantischen Antitrinitarier, vol. 2, p. 126 ss.
[14] 14 Le questioni e le risposte di Zurigo si trovano in F. TRECHSEL, op. cit., vol. 2, p. 417 ss.
[15] “Iam Michael magna cum vehementia sua perorarat”, vedasi Bullingers Korrespondenz mit dem Graubündnern, a cura di T. Schiess, II, Basel, Geering, 1906, p. 303.
[16] Opera di Giorgio Agricola de l’arte de metalli... Aggiugnesi il libro del medesimo autore de gl’Animali di sotto terra... tradotti in lingua Toscana da Michelangelo Florio Fiorentino ... in Basilea per Hieronimus Froben ... MDLXIII. La dedica alla regina Elisabetta recita: «E perché io so benissirno, o Serenissima e Religiosissima Regina. che non meno, infino da la sua giovenil etade, la V.M.S. s’è ingegnata d’intendere, e parlare questa mia lingua, di quello che fatto s’habbia la Greca, la Francese, & la Latina, per meglio potere se stessa, senza la rnezzauita d’interpreti con pericolo d’essere ingannata, intendere & ascoltare le nazioni diverse...».
Scipione Lentolo, testimone della fede evangelica nell'Italia controriformata

Emanuele Fiume

Scipione Lentolo (1525-1599).
"Quotidie laborans evangelii causa"

Claudiana editrice, Torino, "Società di Studi valdesi" 19, pp. 256 + 8 di ill. f.t. ,Euro 19,50, cod. 88-7016-465
Un uomo "che si affatica quotidianamente per la causa dell'evangelo" , un pastore riformato nel contesto della storia religiosa italiana del XVI secolo , una vita di impegno ardente e profondo per la fede evangelica
Un ricco e documentato studio sulla figura affascinante e complessa di Lentolo: frate carmelitano, predicatore evangelico nella penisola italiana, carcerato dell'Inquisizione romana, studente a Ginevra presso Calvino, pastore, polemista e storico nelle Valli valdesi durante le persecuzioni della metà del XVI secolo nonché pastore riformato in Valchiavenna.
La vita, il pensiero storico, teologico e politico di Lentolo nel contesto della storia religiosa italiana del XVI secolo.  Quello di Fiume è uno studio biografico — incentrato su fonti archivistiche — sulla figura di Scipione Lentolo, la cui vita impegnata ed errabonda sembra racchiudere le esperienze archetipiche della Riforma in Italia. Nato a Napoli nel 1525, Lentolo fu infatti frate carmelitano, quindi predicatore evangelico nella penisola italiana, carcerato dell’inquisizione romana, studente a Ginevra presso Calvino, pastore, polemista e storico nelle Valli valdesi durante le persecuzioni della metà del XVI secolo e, infine, pastore riformato in Valchiavenna. Prendendo quale chiave ermeneutica la teologia riformata del tempo, Fiume si sforza di comprenderne la figura, il pensiero storico, teologico e politico nel contesto della storia religiosa italiana del XVI secolo e della rete di rapporti, soprattutto epistolari, del protestantesimo internazionale in cui Lentolo era pienamente inserito. Ne emerge il ritratto di uomo che, senza dubbio, “si è affaticato quotidianamente per la causa dell’evangelo.
Emanuele Fiume, nato nel 1969 a Trieste, ha conseguito il dottorato di ricerca all'Università di Zurigo nel 2002 con una tesi su Lentolo. È attualmente pastore evangelico a Felonica Po e Ferrara.
INTRODUZIONE
Scipione Lentolo è un personaggio particolare della storia religiosa italiana del XVI secolo perché racchiude nella sua biografia le esperienze archetipiche della Riforma in Italia. Fu frate carmelitano, poi predicatore evangelico nella penisola italiana, carcerato dell’Inquisizione romana, studente a Ginevra presso Calvino, pastore, polemista e storico nelle Valli valdesi durante le persecuzioni che sfociarono nella prima guerra di religione in Piemonte, e infine pastore riformato in Valchiavenna. Tuttavia, non facendo egli parte di quella schiera di dissidenti religiosi classificabili come «eretici» (refrattari cioè tanto alla rigidità dogmatica ginevrina quanto a quella romana), su cui la ricerca storica italiana si è concentrata nella seconda metà del XX secolo pur essendo numerica mente più modesta rispetto agli italiani divenuti evangelici, Scipione Lentolo non figura se non in accenni o, tutt’al più, in profili biografici in completi e tutto sommato modesti.
La prima indagine sulla biografia di Lentolo è dovuta alla penna di Teofilo Gay, che scopri il manoscritto bernese della Historia delle grandi e crudeli persecutioni. Nell’introduzione a un’opera del Nostro contro i nicodemiti, inserita nell’Historia e pubblicata separatamente dal Gay con il titolo Sofismi mondani questi traccia una modesta biografia del napoletano, utilizzando comunque le scarsissime fonti documentarie a sua disposizione. Assai impreciso è pure il profilo biografico dovuto a Paola Buzzoni, che comunque è mossa da interessi meramente linguistici. Delio Cantimori ne tratta solamente per quanto riguarda l’azione antieretica nei territori soggetti ai Grigioni, definendolo apoditticamente «...il duro Scipione Lentulo, napoletano di patria, valdese di origine, ostilissimo agli eretici, contro i quali aveva già proceduto rigorosamente a Monte presso Sondrio, dove da ultimo era predicatore» In questo modo — fatte salve alcune eccezioni tra cui è doveroso citare l’opera postuma di Conradin Bonorand — la personalità del napoletano sembrava comporsi di due frammenti: polemista e storico della guerra di religione nel le Valli valdesi (1560-61); implacabile oppositore dell’eterodossia in Val tellina e Valchiavenna. Come si avrà modo di evincere da questa ricerca, il profilo biografico e teologico di Lentolo è in realtà assai più ricco e sfaccettato.
Il nostro lavoro vuole offrire un profilo biografico del Nostro utilizzando le fonti giacenti nelle biblioteche e negli archivi e collocandolo nel suo tempo. Archivi svizzeri, italiani, vaticani e inglesi custodiscono documenti ancora largamente inediti e, per una certa parte, non ancora utilizzati dagli storici. La nostra indagine si è concentrata sulla ricerca archivistica alla caccia degli scritti del napoletano e di notizie che lo riguardano, assaporando il fascino particolare della ricerca documentaria e il rapporto umanamente intensissimo che questa è in grado di comunica re allo studioso che vi si appassiona. Tuttavia l’utilizzo, per quanto preciso, di documenti non costituisce di per sé una garanzia di correttezza dell’indagine storica. L’interpretazione e la contestualizzazione dei documenti non è affatto una parte secondaria della ricerca storica. Trattandosi di una ricerca su un pastore riformato del XVI secolo, per di più con notevoli interessi nei campi della storia e della politica, abbiamo considerato la teologia riformata del suo tempo (non limitata alla dogmatica stricto sensu, ma con le abituali attualizzazioni anche in altri campi del sapere e dell’agire) quale chiave ermeneutica della nostra ricerca. La fede evangelica ha costituito il fondamento della vita impegnata ed errabonda del napoletano e le Scritture ne sono state l’unica sua misura per pensare la chiesa, la società e la vita. Abbiamo cercato di comprendere quella fede per comprendere la sua intera e complessa vicenda umana e per illuminare i documenti storici con la luce ideale sotto la quale il Nostro li ha redatti o letti. In questa operazione ermeneutica ci auguriamo di essere riusciti a non proporre né tanto meno a imporre un punto di vista confessionale e partigiano, anzi al contrario di avere interpretato i fatti storici e biografici in un confronto esplicativo e allo stesso tempo dialettico e critico con gli ideali di fede che li hanno così fortemente ispirati.
La collocazione della ricerca biografica nella storiografia contemporanea è ancora oggetto di discussione nel mondo scientifico. La riduzione dell’ampiezza della ricerca e la parzialità dal punto di vista (necessariamente vicino o addirittura coincidente a quello dell’oggetto biografico) sono le principali critiche che vengono mosse per ridimensionare il valore della ricerca biografica nell’ambito della disciplina storica. Tre scopi hanno determinato la nostra scelta di lavoro. Innanzitutto l’ambizioso progetto di comprendere il personaggio entro il contesto storico. Poi abbia mo cercato di comprendere motivi e intenzioni che hanno prodotto determinate scelte. Terzo, abbiamo cercato di affrontare la dimensione umana di chi ha vissuto i grandi ideali religiosi e politici del XVI secolo, senza ridurli a mero fenomeno soggettivo, ma allo stesso modo evitando di circoscriverli in un’oggettività assoluta e disincarnata che non renderebbe onore alla loro profonda incidenza sulla dimensione umana della storia.
In una sua lettera, Lentolo dichiara che è necessario affaticarsi ogni giorno per preservare la chiesa incontaminata dall’eresia. Ampliando la prima parte di questo concetto (che nel contesto specifico è riferito alla lotta contro l’eterodossia presente a Chiavenna) e specchiandolo nella vita del napoletano prendendoci la licenza di una modesta parafrasi, possiamo definire il Nostro come “quotidie laborans evangelii causa”: un uomo che si è affaticato quotidianamente a motivo dell’Evangelo. Questa fatica quotidiana, spesa in contesti diversi come la diaspora italiana, le Valli valdesi e la Valchiavenna, caratterizza un impegno ardente e profondo nei confronti della propria vocazione (interpretata nei campi pastorale, apologetico, storico e politico), seppure sovente limitato dalla salute malferma. Anche la sua prolificità di scrittore, che include pure la sua modestia di traduttore di altrui opere, sta a dimostrare che si è trattato di un uomo “quotidie laborans evangelii causa”.
Come ogni identità umana, anche il profilo di Scipione Lentolo è costituito da rapporti con altre personalità e altre idee del suo tempo. Un nostro particolare sforzo è stato fatto per mettere in evidenza la rete di rapporti, soprattutto epistolari, del protestantesimo internazionale in cui il napoletano era pienamente inserito. Tali rapporti rivelano nel Nostro una multiforme ricchezza di aspetti, pari soltanto alla diversità di situazioni in cui egli si adoperò quotidianamente e con fatica per una chiesa e per una società che riconoscessero nella parola di Dio il loro unico fondamento e la loro unica guida. Questi sono i criteri che abbiamo seguito nell’indagine e nella riflessione che hanno prodotto questo lavoro.
Desideriamo inoltre ringraziare tutti coloro che hanno profuso aiuti, consigli ospitalità e contributi, tutti necessari affinché questo lavoro ve desse la luce. Intendiamo ringraziare in particolare: il Consiglio ecclesiastico della Chiesa evangelica riformata del Canton Zurigo; la Chiesa evangelica di lingua italiana del Canton Zurigo e diaspora; l’ing. Gianni Enrico Rostan; l’Istituto per la storia della Riforma svizzera di Zurigo, in particolare i sigg. Reiner Heinrich e Kurt Jakob Rietschi; la Dr. Paola de Paola, la Prof. Dr. Susanna Peyronel Rambal di; il Prof. Dr. Pierroberto Scaramella; il Past. Fadri Ratti; il Past. E. Matthias Rüsch; il sig. Jacques Picot; il Dr. Mark Taplin; il Dr. Daniele Tron; la Dr. Mariella Tagliero; il Dr. Marco di Pasquale; il sig. Franco Palaia; la sig.ra Alice Sausele; il Dr. Pierluigi Vassallo; la Dr. Cathe rine Chiavia.
E. Fiume, Felonica (Mn), 6 aprile 2001
INDICE DELL’OPERA
Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Parte prima
Gli inizi e il ministero nelle valli valdesi (1525-1566)
I. Da Napoli a Ginevra
1. L’infanzia, la formazione e la conversione
2. L’attività riformatrice, la detenzione e la fuga
 Il. Le valli valdesi. Situazione della Chiesa Riformata
1. Arrivo di Lentolo alle Valli
2. La penetrazione della riforma nelle Valli
3. La pianura tra evangelizzazione e nicodemismo
III. La campagna del Signore della Trinità
1. Cateau-Cambrésis e le Chiese Riformate del Piemonte
2. Gli editti e i missionari
3. Primi fatti d’arme e trattative
4. Le dispute del Chiabazzo
5. I preparativi alla campagna e la scelta di resistere
6. Battaglie, trattative ed echi internazionali
IV. La convenzione di Cavour: dalla firma all’ottemperanza (1561-1565)
1. La firma della Convenzione
2. La vita religiosa e civile dei Riformati delle Valli
3. L’inasprimento della situazione nel 1565 e l’espulsione di Lentolo
Parte seconda
Il ministero a Chiavenna (1567-1599)
I. Le Chiese Riformate nei territori soggetti alla Rezia e il ministero a Monte di Sondrio
1. L’introduzione e il rafforzamento della Riforma nelle valli soggette ai Grigioni
2. Il ministero di Lentolo a Monte di Sondrio
II. La Chiesa Riformata di Chiavenna all’arrivo di Lentolo
1. Gli inizi e il rafforzamento della Riforma a Chiavenna
2. Zanchi e la frattura della Chiesa
3. L’arrivo di Lentolo a Chiavenna
III. La lotta contro l’eresia, l’editto delle Tre Leghe e il colloquio pastorale di Chiavenna
1. Gli inizi dell’eresia a Chiavenna
2. L’inizio dell’azione antieretica di Lentolo e l ‘editto delle Tre Leghe
3. L’opposizione all’editto e la polemica con Bartolomeo Silvio
4. Dal Sinodo di Coira al colloquio di Chiavenna
IV. Rapporti epistolari con le chiese di Coira, di Zurigo e di Basilea
1. I rapporti personali tra Lentolo e i suoi corrispondenti
2. Il contenuto teologico della corrispondenza
3. Il contenuto politico della corrispondenza    
V. L’attività pastorale nel tentativo di consolidamento e di vigilanza
1. Il consolidamento della Chiesa di Chiavenna
2. Gli interrogativi teologici e pratici     
3. I contrasti sinodali e la definitiva sconfitta dell’eterodossia a Chiavenna
VI. La pressione della Controriforma
1. Tra Coira e Milano: la chiesa cattolica romana nei territori soggetti
2. La scuola pubblica di Sondrio
3. 1 rapimenti e i sequestri
4. Le dispute teologiche
VII. Le difficoltà degli ultimi anni e la morte
1. Gli ospiti stranieri e gli ultimi contatti
2. La solitudine, la malattia e la morte
Parte terza
Il pensiero storico, teologico e politico
I. L’opera storica di Lentolo nella genesi della storiografia valdese
II. La disputa del Chiabazzo con il Possevino: da Angrogna all ‘Europa
III. Il pensiero polìtico
IV. Il pensiero teologico
V. I componimenti poetici