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STORIA DELLE ERESIE - PERSONAGGI
Testi tratti dal sito: www.eresie.it di Douglas Swannie

GLI ERETICI NELLA STORIA DELLA CHIESA

Macedonio di Costantinopoli (m. ca.362) e macedonianismo o pneumatomachia



Macedonio era un presbitero di Costantinopoli, di fede ariana. Alla morte di
Eusebio di Nicomedia nel 341, la fazione ortodossa di Costantinopoli aveva
approfittato della situazione per insidiare il proprio candidato Paolo,
creando tumulti e uccidendo il comandante della guarnigione imperiale,
Ermogene. Tuttavia, a queste notizie, l'imperatore Costanzo (337-361), di
fede ariana, che si trovava ad Antiochia, tornò immediatamente a
Costantinopoli, cacciando Paolo e nominando M. come vescovo della città.
M. si allineò ben presto sulle posizioni semiariane di Basilio di Ancyra,
che suggeriva la formula homoioùsios (simile nella sostanza) come forma di
compromesso tra gli ortodossi, legati alla formula nicena homoùsios
(identico nella sostanza), e gli ariani radicali, capeggiati da Aezio di
Celesiria, favorevole alla formula anàmoios (dissimile da Dio).
Tutti i vescovi, compreso M., furono convocati da Costanzo in diversi
sinodi, tra il 357 ed il 359, a Sirmio (in Bosnia) per dirimere la
questione, ma la formula finale, accettata ed imposta da Costanzo, non fu
nessuna delle sopramenzionate, bensì la formula omea proposta da Acacio di
Cesarea, cioè hòmoios (simile a Dio). Questa conclusione finale fu definita
la "Blasfemia di Sirmio" da Sant'Ilario di Poitiers.
A quel punto, Costanzo convocò a Rimini, per i vescovi occidentali, ed a
Seleucia, per quelli orientali, due riunioni per imporre la propria
decisione, ma nel sinodo di Seleucia, nel 359, M. difese coraggiosamente la
propria posizione. Per questo, venne deposto dal concilio, a maggioranza
omea, di Costantinopoli nel 360.
M. morì ca. nel 362.


Pneumatomachia
Alla figura di M. è legata una particolare eresia chiamata pneumatomachia
(cioè ostilità allo Spirito Santo), che alcuni autori pensano essere stata
fondata da M. stesso e per questo viene denominata anche macedonianismo.
Pare invece che M., dopo la sua deposizione da vescovo, avesse contribuito
alla diffusione di questa eresia, già esistente da qualche anno, come
rielaborazione del subordinazionismo ariano: infatti gli aderenti a questo
pensiero credevano che lo Spirito Santo fosse una creatura di Dio, superiore
agli angeli, ma non certo consustanziale al Padre e al Figlio.
L'eresia fu combattuta da Atanasio di Alessandria in quattro lettere inviate
al vescovo Serapione di Thmuis e nel sinodo di Alessandria del 362.
Alla morte dell'indomabile Atanasio nel 373, la lotta contro i
pneumatomachi, capeggiati da Eleusio di Cizico, venne continuata da Didimo
il Cieco e da Basilio il Grande, il quale cercò inutilmente di convertire il
macedoniano Eustazio, vescovo di Sebaste, ma fu soprattutto la condanna al
concilio di Costantinopoli del 381 a togliere consensi ai pneumatomachi.
Tuttavia, la tentazione di rimettere in auge la subordinazione dello Spirito
Santo rimase per molto tempo, se si pensa che ancora nel XII secolo, al II
concilio Lateranense del 1139, si dovette ribadire la divinità dello Spirito
Santo.


Guyon, Jeanne-Marie Bouvier de la Mothe (detta Madame Guyon) (1648-1717)



La gioventù
La mistica Jeanne-Marie Bouvier (de la Mothe Guyon) nacque il 13 aprile 1648
a Montargis, nella provincia francese dell'Orléanais, da Claude Bouvier,
procuratore legale al tribunale di Montargis. Di costituzione fragile e
impressionabile, ella trascorse un'infanzia tribolata, cambiando spesso
scuola e sviluppando, sotto l'influenza di Marie Fouquet, duchessa di
Béthune-Charost (1640-1716), sua protettrice, un forte senso religioso
ascetico, che le fece propendere verso la decisione di entrare in convento.
Ma i genitori avevano deciso altrimenti e, all'età di 16 anni, Jeanne andò
sposa di Jacques Guyon, un ricco concittadino 22 anni più anziano di lei.
Nei 12 anni di matrimonio, G. perse due dei cinque figli e, nel 1676, il
marito stesso.


Guyon incontra Lacombe
Dopo esser diventata vedova (comunque benestante), G. affidò i figli ai
parenti e si ritirò sul lago di Ginevra, ad Annecy e a Thonon-les-Bains,
dove, nel 1681, incontrò il sacerdote barnabita, François Lacombe (o La
Combe) (1643-1715), che la influenzò verso una scelta ancora più
radicalmente mistica: G. infatti iniziò a mortificare il suo corpo con
azioni clamorose, spesso frustandosi, o portando foglie di ortica a diretto
contatto con la pelle o bevendo pozioni amarissime per rovinare
deliberatamente il gusto del poco cibo che mangiava.
Preoccupato per l'influenza negativa di certi esempi, il vescovo di Ginevra,
Jean d'Aranthon d'Alex (m. 1695) espulse Lacombe dalla diocesi e ordinò a G.
di andarsene: per cinque anni i due vagarono per il Piemonte (Torino e
Vercelli) e la Savoia (Grenoble) per propagandare le proprie idee mistiche,
finché un altro prelato, il vescovo di Grenoble, Etienne Le Camus
(1632-1707) non li espulse, a sua volta. Nel frattempo G. aveva fatto
pubblicare, proprio a Grenoble nel 1685, il suo lavoro più famoso: Moyen
court et facile de faire oraison (metodo breve e facile per pregare).
Lacombe e G. decisero quindi di recarsi a Parigi nel 1686, una scelta
decisamente infelice a causa della campagna lanciata proprio in quel periodo
dal re Luigi XIV (1654-1715) contro ogni forma di eterodossia cristiana,
quindi anche contro il quietismo e tutti i fenomeni mistici in Francia.
Lacombe fu arrestato nel 1687 e inviato alla Bastiglia, e successivamente al
castello di Lourdes (usato allora come prigione), dove morì nel 1715.


Guyon conosce Fenelon
G. fu, a sua volta, arrestata il 9 gennaio 1688 e rinchiusa in convento con
l'accusa di eresia, ma liberata l'anno dopo grazie ad un'abiura delle sue
idee e all'interessamento della sua protettrice, la Duchessa di
Béthune-Charost. Quest'ultima la introdusse nei circoli religiosi che
gravitavano intorno alla corte del re e che erano presieduti dalla moglie
morganatica di Luigi XIV, Francoise d'Aubigne, Marchesa de Maintenon
(1635-1719).
Qui G. conobbe l'abate François de Fénelon, che, rimasto affascinato dalla
spiritualità e pietà della mistica, ne divenne (sebbene con una serie di
distinguo) il discepolo, ed anche il suo difensore contro le accuse
formulate dal predicatore e vescovo di Meaux Jacques Bénigne Bossuet
(1627-1704).


Condanna e fine di Guyon
Ben presto, tuttavia, il suo linguaggio paradossale ed estremo e le sue idee
mistiche quietiste sconcertarono i suoi amici e la posero al centro di una
inchiesta ecclesiastica.
Infatti il vescovo di Chartres, Paul de Godet des Marais (1647-1709) aveva
sottoposto i lavori di G. ad una commissione riunitasi ad Issy e di cui
faceva parte Bossuet e Fénelon (diventato nel frattempo arcivescovo di
Cambrai), e che condannò nel 1694 le idee di G. con un documento contenete
34 articoli, detti per l'appunto, Articoli di Issy. Tuttavia, poco dopo,
quando Bossuet volle pubblicare un ulteriore approfondimento sui 34
articoli, Fénelon si rifiutò di firmarli e anzi alimentò la polemica,
pubblicando nel 1697 la propria rilettura in un libro denominato
Explications de Maximes des Saints (spiegazioni delle massime dei santi).
Nel frattempo il momento favorevole per G. volgeva al termine: venne
ospitata, come si direbbe oggigiorno, in libertà vigilata, a Meaux, sotto il
controllo di Bossuet, al quale consegnò la sua sottomissione scritta alla
condanna di Issy, ma poco dopo scomparve. Bossuet la fece cercare e
arrestare nel dicembre 1695 da parte della polizia, che la rinchiuse nella
Bastiglia, dove, il 23 agosto 1696, ella firmò un'ulteriore sottomissione.
G. rimase in carcere per più di sette anni e venne liberata il 21 marzo 1703
a condizione che si ritirasse nella tenuta del figlio a Blois. Qui G.
trascorse gli ultimi anni della sua vita in opere di carità, ricevendo
ospiti e ammiratori stranieri (soprattutto inglesi, olandesi e tedeschi) e
vi morì il 9 giugno 1717.


Il pensiero e le opere
Nelle sue opere G. descrisse di aver sperimentato una serie di esperienze
interiori, basate su tre momenti:
Una prima (l'unione dei poteri), della durata di otto anni, in cui lei aveva
percepito la presenza di Dio come una realtà tangibile.
Una seconda (la morte mistica), di sette anni, in cui lei era entrata in una
fase di crisi e dove aveva perso il senso della grazia di Dio.
Una terza fase (lo stato apostolico), dove era risorta a nuova vita e dove
Dio era parte integrante della sua sostanza e agiva in lei, facendole
scrivere cose notevoli senza preparazione apparente o senza riflettere.
Giunta a questo livello, G. affermava di non poter più peccare, poiché il
peccato era parte del proprio sé e lei se ne era sbarazzato (del suo sé).
Tutto ciò fu da G. descritto nelle sue opere, raccolte in ben 40 volumi, ma
molte di esse furono poste all'Indice, tra cui Règles des assocées à
l'Enfance de Jesus (regole degli associati all'Infanzia di Gesù), Les
torrents spirituels (i torrenti spirituali) o il più noto Moyen court et
facile de faire oraison (metodo breve e facile per pregare), quest'ultimo
pubblicato, come già detto, a Grenoble nel 1685, dove la mistica insegnava
che la preghiera non veniva fatta per nessun secondo fine, neppure la
salvezza, ma solo come atto di sottomissione a Dio.
Rispetto al filone principale del quietismo, rappresentato da Miguel de
Molinos, G.  respinse l'idea del mistico spagnolo che bisognava non offrire
resistenza alle tentazioni: sicuramente la vita di G. fu movimentata, ma non
si può certo dire che non sia stata più che virtuosa.
I migliori estimatori delle opere di G. sono comunque da annoverare tra i
protestanti, e non fra i cattolici: furono i calvinisti olandesi a
pubblicare l'elenco completo delle sue opere e i suoi lavori sono ancora
letti in Germania, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti, soprattutto presso i
quaccheri e i metodisti.


Bembo, cardinale Pietro (1470-1547)



I primi anni
Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio 1470, primogenito del nobiluomo e
senatore della Serenissima Repubblica Bernardo Bembo (1433-1519). Da piccolo
egli viaggiò spesso con il padre, particolarmente a Firenze: l'amore dei due
Bembo per la cultura toscana si estrinsecò nel monumento a Dante Alighieri,
fatto erigere da Bernardo a Ravenna, e nell'uso scritto e parlato del
toscano, preferito da Pietro in contrapposizione al dialetto veneziano.
Nel periodo 1492-94 B. studiò greco a Messina, presso la scuola del rinomato
filologo Costantino Lascaris (1431-1501), e qui scrisse il dialogo in latino
De Aetna, pubblicato a Venezia nel 1496 da Aldo Manunzio (1450-1515), presso
il quale egli pubblicò nel 1501-02 anche un'edizione critica delle opere di
Petrarca e di Dante. In seguito, completò i suoi studi a Padova, seguendo i
corsi di filosofia di Pietro Pomponazzi.
Dal 1497 al 1499 e, successivamente, dal 1502 al 1506, egli abitò a Ferrara,
dove iniziò la stesura della sua opera più famosa, il dialogo Gli Asolani,
che venne pubblicato nel 1505: il dialogo in tre libri, un inno all'amore
spirituale e alla bellezza divina, è ambientato nella villa di Asolo della
famosa ex regina di Cipro, Caterina Cornaro (1454-1510).
A Ferrara, inoltre, egli conobbe Ludovico Ariosto (1474-1533), ma
soprattutto ebbe una relazione amorosa (secondo alcuni autori, solo
platonica) con la famosa Lucrezia Borgia (1480-1519), della quale conservò
gelosamente un ricciolo dei suoi leggendari capelli biondi.


La carriera al servizio della Chiesa e il periodo a Padova
Nel 1506 B. si trasferì a Urbino alla corte di Guidobaldo I (1482-1508) e
poi di Francesco Maria I della Rovere (1508-1516), ma nel 1512 lasciò la
città marchigiana per accompagnare a Roma l'amico Giuliano de' Medici
(1479-1516), dove l'anno successivo il fratello di questi, Giovanni de'
Medici (1475-1521), fu eletto papa con il nome di Leone X (1513-1521). A sua
volta, Giuliano fu creato Capitano Generale delle truppe pontificie, mentre
B. divenne segretario (insieme a Jacopo Sadoleto) del papa, rimanendo così
stabilmente a Roma fino al 1521.
In questo periodo B. si innamorò di Ambrogina Faustina Della Torre, da lui
soprannominata la Morosina, e da cui ebbe tre figli, Lucilio, Torquato ed
Elena. L'influenza della Morosina sulle decisioni di B. fu elevata: infatti,
dopo la morte di Leone X nel 1521, ella riuscì a convincere B. a ritirarsi
dalla sua funzione pubblica a causa della sua salute malferma e a
trasferirsi a Padova. Qui B. formò una ricca biblioteca nella propria villa
di Treville e si circondò di un vivace circolo culturale, di cui fece parte
anche Aonio Paleario ed il filosofo benedettino Vincenzo Maggi (1498-1564),
poi convertito alla Riforma ed esule nel cantone Grigioni nel 1553.
Nel 1529 B. accettò il posto di storiografo ufficiale di Venezia e, l'anno
dopo, di bibliotecario della Libreria Nicena (poi Marciana) di Venezia. A
questo periodo risalgono le altre opere principali di B., come le Prose
della volgar lingua (1525) e le Rime (1530).


Bembo tra gli ecclesiastici spirituali
Nel 1535 morì l'adorata Morosina, e fu da questo periodo che B. si dedicò
sempre più alla carriera ecclesiastica, accostandosi in particolar modo
all'evangelismo, alle dottrine di Erasmo e al circolo degli ecclesiastici
spirituali, di coloro cioè che volevano una riforma dall'interno della
Chiesa Cattolica, formato, tra gli altri, dai cardinali Gasparo Contarini,
Giovanni Morone e Reginald Pole, dal generale dei cappuccini Bernardino
Ochino, oltre che dall'umanista Marcantonio Flaminio e dalla marchesa
Vittoria Colonna, con la quale B. ebbe una fitta corrispondenza.
Quattro anni dopo, nel 1539, il papa Paolo III (1534-1549) gli offrì il
titolo di cardinale, e due anni dopo B. fu nominato vescovo di Gubbio e, nel
1544 di Bergamo: in quest'ultima diocesi, alla sua morte,  gli subentrò
Vittore Soranzo.
Il suo impegno evangelico rimase comunque immutato: infatti nel 1541 egli
difese l'accordo di Contarini con Melantone sulla dottrina della
giustificazione.
Infine morì a 77 anni, a Roma il 18 gennaio 1547.


Maifreda (o Manfreda o Maufreda) da Pirovano (m.1300) (guglielmita)



Maifreda da Pirovano era suora dell'ordine delle Umiliate del convento di
Biassono (vicino a Monza), quando decise di seguire le orme di Guglielma di
Boemia, una oblata (di origini boeme), cioè una laica che viveva in un
monastero, dell'abbazia cistercense di Chiaravalle (vicino a Milano), la
quale viveva secondo l'amore cristiano, i precetti apostolici e la moralità
evangelica, e intorno alla quale era cresciuta rapidamente la fama di santa
guaritrice.
Alla morte di Guglielma nel 1281 o 1282, M. fu considerata la sua erede
spirituale ed investita del titolo di Papessa. Aiutata da Andrea Saramita,
il teologo della setta, M. elaborò un vero e proprio culto della figura di
Guglielma, riempendo le chiese milanesi, come ad esempio Santa Eufemia o
Santa Maria Minore, di immagini della "santa", componendo litanie e inni
dedicati a lei, diffondendo la convinzione che Guglielma fosse stata
l'incarnazione dello Spirito Santo e perfino spargendo la voce di una sua
imminente risurrezione.
Per mascherare il culto agli occhi della Chiesa ufficiale, le immagini di
Guglielma vennero attribuite a Santa Caterina di Alessandria e la sua data
di celebrazione coincise con quella della santa, il 25 Novembre.
Tuttavia M. si spinse troppo in là, quando la domenica di Pasqua del 1300,
ella officiò, con tutti i paramenti sacri come un vero sacerdote, una
solenne messa in onore di Guglielma, dichiarata risorta come Gesù Cristo da
M. stessa.
La cosa venne denunciata e a quel punto il culto di Guglielma non fu più
oggetto di un processo di santificazione, come chiedevano i suoi seguaci, ma
divenne una inchiesta degli inquisitori domenicani Guido da Cocconato e
Ranieri da Pirovano, i quali la condannarono postuma come eretica e fecero
bruciare sul rogo le sue ossa e le sue immagini, tale e quale come, l'anno
successivo, nel 1301, sarebbe successo al culto di Armanno Pungilupo a
Ferrara.
Stessa sorte seguirono M. e il teologo Andrea Saramita, finiti sul rogo a
Milano, nella zona dell'attuale Piazza Vetra, nel 1300.



Mainardi, Agostino (1482-1563)



Agostino Mainardi, nato a Caraglio, vicino a Saluzzo, nel 1482, fece parte
di quel ordine agostiniano, da cui uscirono tanti riformati italiani del XVI
secolo, come Ambrogio Cavalli, Ortensio Lando, Andrea Ghetti da Volterra,
Giulio Della Rovere, e Giuliano Brigantino.
Dal 1516 fu nominato rettore dello studio del convento di S. Agostino a
Pavia e, dopo anni di ortodossia, M. iniziò ad essere notato per le sue idee
riformiste, soprattutto in occasione delle predicazioni tenute durante la
Quaresima del 1532 ad Asti.
Ciononostante, l'anno successivo (1533) M. venne nominato priore del
convento di Santa Mustiola a Pavia, dove strinse una profonda amicizia con
il giovane Celio Secondo Curione, che convertì alla Riforma, e con il
confratello Giulio Della Rovere.
A causa della sua facilità di eloquenza, egli fu spesso richiesto come
predicatore e, negli anni successivi, tenne una serie di prediche in tutta
la penisola. In particolare si ricordano quelle durante il suo soggiorno a
Roma nel 1538, dove entrò in polemica con Ignazio di Loyola (1491-1556),
fondatore dell'ordine dei Gesuiti; e le sue prediche a Venezia nel 1540,
dove venne sospettato di essere luterano, e a Milano nel 1541.
In quest'ultima città M. fu arrestato, assieme al confratello Niccolò da
Verona, nel giugno dello stesso 1541, su ordine del governatore spagnolo, ma
sfuggì al processo con l'esilio in Svizzera. Tuttavia mantenne contatti
epistolari con i suoi confratelli del convento di San Marco in Milano, di
cui cinque furono arrestati nel 1547, quando si scoprì il loro legame
proibito con M.
Nel cantone Grigioni, sotto la protezione della potente famiglia de Salis di
Coira, egli ricoprì il ruolo di primo pastore evangelico a Chiavenna (ai
tempi la Valtellina era parte del territorio elvetico del Cantone Grigioni),
dove contribuì alla costruzione della prima chiesa riformata della regione
e, nel 1549, accolse, a braccia aperte, Pier Paolo Vergerio, in fuga da
Capodistria, dopo la sua adesione al Protestantesimo.
Durante l'esercizio del suo pastorato, si scontrò con le idee protocristiane
e anabattiste di Camillo Renato. Nel 1548, come reazione all'avanzata delle
idee troppo estremiste di Renato (che venne poi scomunicato nel 1550), M.,
eccessivamente rigoroso, cercò di obbligare tutti i fedeli della Chiesa
riformata di Chiavenna di giurare fedeltà alla confessione di fede, che egli
si era fatto approvare dalle autorità religiose di Coira, Zurigo e Basilea.
L'azione purtroppo gli alienò l'amicizia con Francesco Negri da Bassano, con
il quale aveva avuto dei buoni rapporti fino a quel momento, e con Francesco
Stancaro, che lo accusò di troppa ortodossia, e troppo poco dialogo, in
questa diatriba sorta sull'opportunità dei sacramenti.
Nel 1548 egli diede il suo appoggio all'infruttuoso tentativo di Baldassarre
Altieri d'Aquila di convincere i riformatori di Zurigo di appoggiare
politicamente il movimento evangelico nella repubblica veneziana.
Nell'esercizio del suo pastorato M. fu sempre molto prodigo verso i profughi
(salvo poi lamentarsi con Johann Heinrich Bullinger di aver accolto
apparenti dei cristiani riformati, che poi si erano scoperti essere
anabattisti o antitrinitariani) ed attrasse anche illustri esiliati
religiosi, come ad esempio Isabella Bresegna, moglie di don Garcia Manrique,
governatore di Piacenza, la quale fuggì nel 1557 e si ritirò nella comunità
di M. a Chiavenna.
M. morì il 31 luglio 1563 a Chiavenna e come suo successore e pastore della
città fu eletto Girolamo Zanchi.
Tra le sue opere si ricordano il Trattato dell'unica et perfetta
satisfattione di Christo (1551), una presentazione delle dottrine essenziali
del protestantesimo, e l'Anatonomia della messa  del 1552.



Amsdorf, Nikolaus von (1483-1565) e anti-sinergisti



La vita
Nikolaus von Amsdorf, nato il 3 Dicembre 1483 a Torgau, in Sassonia, da una
famiglia nobile, era canonico al Convento di Ognissanti e, dal 1511,
professore di teologia a Wittenberg, dove egli aveva studiato, frequentando
comunque anche l'università di Lipsia.
Agli inizi della Riforma protestante, A. diventò amico fraterno di Martin
Lutero, di cui condivise e difese zelantemente le idee riformiste e che
accompagnò in molti suoi viaggi. Fu infatti assieme a lui e a Philipp
Melantone, che A. si recò a Lipsia, per la famosa disputa, organizzata dal
nunzio papale Carl Von Miltitz (1480-1529) dal 27 Giugno al 16 Luglio 1519,
tra il teologo Johann Eck (1486-1543) e i due amici e colleghi Andreas
Bodenstein (Carlostadio) e Martin Lutero.
Anche due anni più tardi, nel 1521, A. accompagnò Lutero alla dieta di
Worms, dove l'editto imperiale dell'8 Maggio condannò Lutero, ordinò ai
principi di catturarlo e consegnarlo all'autorità imperiale e ordinò il rogo
dei suoi scritti.
In quella occasione A. fece parte del piano architettato da Federico III,
detto il Saggio (1486-1525) e dal suo segretario Georg Burckhardt
(Spalatino), per portare Lutero al sicuro nella rocca di Wartburg, mediante
il suo finto rapimento eseguito il 4 Maggio.
A. era un ottimo teologo, ma anche un uomo dotato di senso pratico: fu lui
ad organizzare l'incontro ed il matrimonio di Lutero e Caterina di Bora nel
1525: la leggenda racconta che, quando A. chiese a Caterina chi intendesse
sposare, questa prontamente gli dichiarò la disponibilità a sposare sì
Lutero, ma che anche il fatto di convolare a nozze con lo stesso A. non le
sarebbe tutto sommato dispiaciuta!
Nel Dicembre 1536 A. fu invitato da Lutero a partecipare, assieme a Johannes
Schneider (Agricola) e Spalatino alla stesura degli articoli di Smacalda,
sollecitati dal principe elettore di Sassonia, Giovanni Federico I
(1532-1547) come risposta alla bolla papale Ad dominici gregis di Papa Paolo
III (1534-1549), e che diedero origine al trattato omonimo.
Nel 1541 il capitolo della cattedrale di Naumburg decise di nominare vescovo
il cattolico erasminiano Julius von Pflug, per impedire di mire di Giovanni
Federico I, che voleva creare una diocesi protestante. Il principe, per
tutta risposta, dichiarò nulla l'elezione e a sua volta nominò A. vescovo,
il primo vescovo della storia del Protestantesimo. L'investitura avvenne
l'anno successivo e fu officiato da Lutero in persona.
Purtroppo la guerra e la relativa sconfitta della Lega Smacaldica del 1547
fece sì che A. venisse dichiarato decaduto dall'incarico di vescovo e Pflug
fu reinstallato nel posto.
Nel 1548, A. fu tra gli artefici della fondazione della scuola superiore di
stadi classici di Jena, trasformata in università nel 1558 e considerata un
centro fondamentale per il Luteranesimo, dove A. stesso curò la
pubblicazione delle opere di Lutero, nota come edizione di Jena.
A. morì ad Eisenach il 14 Maggio 1565.


Il pensiero
A. fu sempre uno strenuo difensore dell'ortodossia del pensiero luterano e
scese spesso in campo contro altri pensatori, come Melantone, oggetto dei
suoi strali in almeno tre occasioni:
Lutero disprezzava totalmente il valore delle opere buone per ottenere la
salvezza, ma Melantone era dell'idea che le opere buone erano necessarie per
ottenere perlomeno la "felicità eterna": questa tesi fu anche sostenuta da
Georg Major (1502-1574), professore di Wittenberg, che fu denunciato da A. e
da Mattija Vlacic (Mattia Flacio Illirico). Questa posizione di A. venne
successivamente criticata nella Formula di Concordia del 1577, l'ultima
delle formule di fede luterana.
Nuovamente Melantone contestò il pensiero luterano che molte dottrine e
pratiche della Chiesa Cattolica dovevano essere combattute, mentre per lui
erano indifferenti, e quindi potevano essere anche ammesse. La controversia
fu denominata adiaforista dal latino adiaphora (cose indifferenti dal punto
di vista morale) e fu osteggiata da A.
Infine Lutero era convinto che l'uomo non poteva contribuire alla propria
salvezza, ma Melantone, in età matura, credeva che la volontà umana era
utile perlomeno per lottare contro la debolezza insita nell'uomo. Anche
questo pensiero, detto sinergistico, fu contestato da A., che capeggiò il
partito degli anti - sinergisti.


Paracelso (Bombast von Hohenheim), Theophrastus Philipp Aureolus (1493-1541)



La vita
Il celebre medico e riformatore della terapia medica (soprannominato il
Lutero della medicina) Theophrastus Philipp Aureolus Bombast von Hohenheim
nacque ad Einsiedeln, nel cantone svizzero di Schwyz, in una data non meglio
precisata compresa tra il 1490 ed il 1494: la maggior parte degli autori
propende per il 10 (o forse 11) novembre 1493, ma non c'è comunque certezza
sull'esatta data.
Il padre, Wilhelm Bombast von Hohenheim de Riett (m. 1534), era figlio
naturale di Georg Bombast von Hohenheim, Gran Maestro dell'ordine dei
cavalieri di Malta e discendente di un'antica e nobile famiglia sveva.
Tuttavia la sua nascita illegittima lo aveva costretto ad una vita di
povertà e a lavorare per mantenere la famiglia: fece il medico dapprima per
il monastero di Einsedeln, quindi, dal 1502, si trasferì con il figlio a
Villach, nella regione austriaca della Carinzia, dopo la morte della moglie,
ex sovrintendente dell'ospedale di Einsedeln.
Il piccolo P. ebbe quindi i primi rudimenti di cultura dal padre ed in
seguito studiò con due alti prelati: Eberhard Paumgartner, vescovo di Lavant
e Matthaeus Schacht, vescovo di Freising, ma il tutore che esercitò la
maggiore influenza sulla sua formazione fu certamente Johannes Trithemius
(Heidenberg) (1462-1516), abate di Sponheim, eccellente esempio
rinascimentale di studioso eclettico di Cristianesimo, filosofia ermetica e
scienze occulte (magia, astrologia, alchimia e cabala) e mentore di un altro
famoso occultista dell'epoca: Agrippa di Nettesheim.
In seguito P. si iscrisse alla Bergschule, la scuola mineraria di Hutenberg,
vicino a Villach, fondata dai famosi banchieri Fugger, dove i giovani
venivano istruiti a diventare esperti minerari in oro, stagno, mercurio,
ferro e rame. P. fece anche un apprendistato specifico presso la miniera di
Siegfried Fugger a Schwaz e poté impratichirsi sui primi rudimenti di
alchimia.
Ma, nel 1507, P. abbandonò Villach per viaggiare per cinque anni da
un'università all'altra in cerca di conoscenza e sapere: si dice abbia
frequentato gli atenei di Basilea, Tübingen, Vienna, Wittenberg, Lipsia,
Heidelberg e Colonia, ma che non fosse stato particolarmente impressionato
dalla preparazione dei professori, soprattutto considerando che, in seguito,
si era domandato come "i più nobili collegi riuscissero a sfornare così
tanti nobili asini!" Comunque all'università di Vienna egli ottenne il
baccalaureato in medicina nel 1510.
Tra il 1513 ed il 1516 P. viaggiò per motivi di studio in Italia, in
particolare a Ferrara, dove si iscrisse ai corsi di medicina, abbastanza
fuori dagli schemi tradizionalmente galenici e aristotelici, degli umanisti
Nicolò Leoniceno (1428-1524) e Giovanni Manardo (1462-1536) e dove si laureò
in medicina nel 1516, ma di questo fatto non ci sono testimonianze scritte
(purtroppo mancano gli annali universitari di quell'anno), eccetto la sua
parola. Da alcuni autori viene ipotizzato, durante il suo soggiorno in
Italia, anche un incontro tra P. e Agrippa di Nettesheim, all'epoca docente
di scienze occulte a Pavia.
Fu comunque in questo periodo che Theophrastus Bombast adottò il nome di
Paracelso, in quanto, probabilmente, intendeva significare che il suo
obiettivo era di superare il pensiero del famoso medico dell'antichità, Aulo
Cornelio Celso (I secolo d.C.).
In seguito P. lavorò come chirurgo militare durante varie guerre svolte in
Olanda, in Russia (fu catturato dai tartari, ma riuscì a fuggire in
Lituania), in Ungheria ed infine, dal 1521, al servizio della Repubblica di
Venezia, per conto della quale viaggiò nei vari possedimenti della
Serenissima, ma anche in Egitto, Arabia e Costantinopoli.
Finalmente, nel 1524, egli tornò a Villach, ma in seguito si recò, nel 1526,
a Strasburgo, dove entrò nella gilda dei chirurghi, ma non in quella, più
prestigiosa, dei medici (il che fa ipotizzare ad alcuni autori che P. non si
fosse mai laureato a Ferrara).
Nel 1527, P. fu chiamato a Basilea per curare, con successo, la gamba del
famoso editore di testi umanisti Johannes Frobenius (1460-1527). Il
risultato positivo delle sue cure gli procurarono potenti appoggi da parte
di Erasmo da Rotterdam, dello stesso Frobenius e di Johannes Ecolampadio,
pastore della Chiesa di San Martino e principale riformatore della città,
che lo fece nominare medico cittadino e docente universitario.
Tuttavia la sua presenza in città provocò malumori, invidie e perfino odio
tra i medici e i farmacisti, specialmente quando il 24 giugno 1527, quasi
imitando una simile azione dimostrativa di Martin Lutero del 1520, P. bruciò
in pubblico i testi di Abu Ali Al-Hussain Ibn Abdallah Ibn Sina (Avicenna)
(981-1037) e di Galeno (129-199) davanti all'università locale.
Nelle sue lezioni, tenute in tedesco, e non in latino, contro ogni usanza
universitaria, egli tuonò contro i metodi empirici di curare le ferite con
muschio o, peggio, letame secco, intuendo, primo fra tutti, che, una volta
scongiurato il pericolo di infezioni, fosse la stessa Natura a cicatrizzare
le ferite.
Similmente P. attaccò le assurde pratiche dei medici dell'epoca, basate su
salassi, infusi, suffumigi, prescritti senza una minima conoscenza, ma
questi suoi attacchi lo convinsero a fuggire da Basilea nottetempo, nella
primavera del 1528, soprattutto dopo due episodi: la morte del suo
protettore Frobenius e l'episodio della causa legale che aveva perso contro
il canonico Cornelius von Lichtenfels, che si era rifiutato di pagargli una
parcella: P. aggravò la sua situazione, insultando pesantemente i giudici
favorevoli al prelato.
P. si rifugiò ad Esslingen, poi a Colmar, in Alsazia, presso alcuni amici.
Da qui, P. riprese il suo eterno pellegrinare fra la Germania, Svizzera e
Austria, dove, nel 1538, si recò a Villach per trovare suo padre, salvo
scoprire che l'anziano genitore era già morto quattro anni prima.
Lo stesso P., chiamato nel 1541 dal vescovo vicario di Salisburgo, Ernst di
Wittelsbach (o di Baviera) (vescovo: 1540-1554), morì improvvisamente, a
soli 48 anni, nella città austriaca il 24 settembre dello stesso anno. Sulle
cause della sua morte le notizie sono purtroppo scarse e le ipotesi tante:
morte naturale, collasso dopo una libagione esagerata, gravemente ferito
dopo una colluttazione con sicari inviati dai suoi nemici.
Dal 1725 le sue ossa sono state riesumate e sepolte nel porticato della
chiesa di San Sebastiano a Salisburgo.


Il pensiero medico filosofico
Il giudizio dei posteri delle capacità di P. come medico sono variabili a
causa del suo approccio molto singolare verso la medicina, di cui egli
rifiutò il pensiero ufficiale aristotelico e galenico del tempo,
rivolgendosi di più verso un concetto neo-platonico, ispirato da Marsilio
Ficino (1433-1499).
Infatti il complesso mondo medico-filosofico di P. non poteva non tenere
conto che l'uomo era parte dell'universo e che le sue malattie erano solo
una parte della sua vita. Per poter conoscere quindi questo mondo, P. si
dedicò allo studio della Cabala cristiana, leggendo le opere di Johannes
Reuchlin, e allo studio dell'alchimia, ma fece anche tesoro delle sue
esperienze pratiche di medicina e di chimica farmaceutica.
Da tutto ciò, egli sviluppò una complessa cosmogonia, il cui principio era
l'yliaster o hyaster, [da hýle (materia) e astrum (astro)], una forma di
materia cosmica, popolata di entità, come ens astrorum (influenze cosmiche),
ens veneni (sostanze tossiche), ens naturale et spirituale (difetti fisici o
mentali) ed ens deale (malattie inviate dalla Provvidenza).
Eppure le sue intuizioni mediche rimasero insuperate per secoli, come l'uso
rivoluzionario dei composti di mercurio, al posto del guaiaco, per
combattere la sifilide (per questo, il suo studio in otto volumi
sull'argomento fu messo all'Indice per anni), l'impiego di minerali contro
la gotta, la descrizione ed eziologia esatta della silicosi, il valore
curativo delle acque minerali, l'uso di tinture di erboristeria e di metodi
omeopatici ante litteram.


Il pensiero religioso
Benché P. si mantenesse, almeno ufficialmente, cattolico per tutta la sua
vita, egli tese verso un concetto di illuminazione interna, cara ai mistici
di tutte le correnti cristiane. I misteri di Dio nella creazione del mondo
potevano, secondo P., essere utilizzati dal mago veramente pio. Era inoltre
un millenarista e credeva inoltre nel miglioramento dell'uomo e
nell'incremento della conoscenza, attraverso l'aiuto divino e la riscoperta
della pietra filosofale, cosicché il mondo avrebbe potuto prepararsi per il
Regno dei Santi dei Mille Anni (la cosiddetta quarta monarchia). Simili
convinzioni le espresse il suo seguace Heinrich Khunrath.


Le opere
La maggior parte delle sue opere furono da lui dettate al pupillo preferito
Johannes Oporinus (1507-1568) e pubblicate dopo la sua morte. Esse
comprendono:
Archidoxae medicinae libri (1524), sull'alchimia.
Drei bücher von den Franzosen [Tre (diventati poi otto) libri sulla malattia
francese (sifilide)] (1528).
Practica Theophrasti Paracelsi (1529), il primo libro pubblicato.
Das buch Paragranum (1529), sulla scienza magica.
Opus paramirum (1531), sull'uso magico e per scopi medici di erbe medicinali
e farmaci.
Der grossen Wundartznei (Il grande libro della chirurgia)(1536), la sua
opera più famosa.
Prognosticatio eximii doctoris Theophrasti Paracelsi (1536), contenente una
serie di 32 profezie.


Mandei (o Cristiani di San Giovanni) (II° secolo)



Setta di origine gnostica tuttora presente in poche unità (circa 20.000),
che vivono nello Shatt al' Arab, alla confluenza del Tigri e dell'Eufrate,
tra l'Iraq e l'Iran, e nella città irachena di Nasiriya.
Il loro nome Mandayê deriva dalla parola mandaica Manda (conoscenza o gnosi)
e sono detti anche Cristiani di San Giovanni.


La storia
È, per l'appunto, questa supposta adesione al Cristianesimo dei primi secoli
a dividere gli studiosi tra coloro che vedono una certa continuità con il
Cristianesimo; coloro che rifiutano ogni apparentamento, facendo risalire le
origini ad una gnosi precristiana e infine coloro che propendono per un
certo sincretismo tra elementi cristiani, giudei e manichei.
La loro origine sembra, infatti, alquanto misteriosa: forse setta
tradizionale della Mesopotamia, o, come detto, gnostici precristiani, oppure
setta fondata da Giovanni Battista in persona (o perlomeno dagli Esseni) o,
infine, derivati dalla setta dei Nazorei, fuggita da Gerusalemme, dopo la
sua distruzione nel 70 AD.
È invece storicamente accertato che con l'arrivo dei Mussulmani in
Mesopotamia nel 636, i Mandei furono inizialmente lasciati in pace, in
quanto identificati come i misteriosi Sabei, citati dal Corano, ma poi, per
poter sopravvivere, dovettero emigrare nella zona paludosa della Mesopotamia
meridionale, dove vivono oggigiorno nonostante le persecuzioni di Saddam
Hussein e la guerra del Golfo.


La dottrina e i testi
Dai testi sacri dei Mandei: Il Tesoro (Ginza Iamina) o grande Libro, Il
libro di Giovanni Battista (Drashia d-Yahia) ed il libro canonico delle
preghiere, si ricava che i Mandei credono in una dottrina dualistica: la
contrapposizione, cioè, tra un dio supremo del Mondo del Bene e della Luce
(Haiyê Qadmayê), circondato da angeli (uthrê), tra cui si nota Manda
d-Haiyê, Gnosi di Vita, e il mondo delle Male e delle tenebre, abitato da
demoni, tra i quali spicca Ruha, lo spirito malvagio.
Dell'ambiente giudeo-cristiano, i Mandei hanno adottato la figura di Adamo,
la celebrazione della Domenica, ma soprattutto il battesimo (masbuta), che
effettuano nelle acque del fiume Tigri o di altri fiumi della zona, che
comunque loro chiamano sempre Giordano (Yardna).
Inoltre, come è intuibile, tengono in grande considerazione la figura
storica di Giovanni Battista (in mandaico Iuhana Masbana), mentre, come
spesso accade con altre sette gnostiche, tendono a separare il Gesù terreno
(Ishu Mshiha), da loro considerato un millantatore e smascherato dall'angelo
Anosh Uthrà, dal Cristo spirituale, il sopramenzionato Manda d-Haiyê,
battezzato la prima volta da Iuhana Masbana nel Giordano.
Questo battesimo rituale, per tripla immersione, tuttora praticato, serve a
purificare il battezzato dai peccati commessi ed ad entrare in contatto con
il mondo della Luce.


Manelfi, Pietro (ca. 1519-dopo 1552)



Pietro Manelfi (detto anche Pietro della Marca) nacque nel 1519 circa a San
Vito di Senigallia, nelle Marche. Fattosi sacerdote, M. fu però convertito
dapprima al luteranesimo e poi, nel 1540, all'anabattismo da Tiziano (capo
storico dell'anabattismo veneto, di cui si conosce solo il nome di
battesimo, da non confondere con il valdesiano Lorenzo Tizzano) e da Fra
Hieronimo Spinazzola. Fu ribattezzato a Ferrara e compì in seguito
un'intensa attività di proselitismo come ministro anabattista in Triveneto,
Lombardia, Emilia, Romagna, Toscana e Istria, diventando uomo di punta
dell'organizzazione anabattista veneta.
Nel Settembre 1550, M. partecipò ad un vero e proprio concilio anabattista a
Venezia, dove egli annotò le conclusioni finali alquanto radicali per
l'epoca: negazione della natura divina di Cristo, degli angeli,
dell'inferno, ma soprattutto un rifiuto del concetto cattolico di
giustificazione mediante le opere, ma anche di quello protestante di
giustificazione per fede, il tutto sostituito da una imperscrutabilità
divina.
Tuttavia, dopo anni di militanza anabattista, il 17 ottobre 1551 M. si
presentò spontaneamente all'inquisitore di Bologna, il domenicano Leandro
Alberti (o de Albertis) (1479-ca.1552), avendo preso la decisione di
abiurare e di denunciare tutti gli anabattisti e luterani da lui conosciuti.
L'occasione per l'Inquisizione era quanto mai ghiotta per assestare un colpo
mortale all'organizzazione anabattista italiana: M. venne trasferito a Roma
e durante gli interrogatori (riprodotti nel libro I costituiti di don Pietro
Manelfi di Carlo Ginzburg) del novembre 1551 fornì tali e tante notizie da
scatenare una repressione senza pari dell'anabattismo e dell'evangelismo
italiano, i cui pesanti effetti si sentirono per anni.
Inquisiti, vittime o esiliati famosi, in seguito alle sue rivelazioni,
furono, tra gli altri, Giulio Gherlandi, Francesco Della Sega, Antonio
Rizzetto, Bartolomeo Panciatichi, Pier Paolo Vergerio, Ludovico Manna e
Niccolò Buccella.
Esaurito il suo compito di delazione, M. letteralmente scomparve dalla scena
religiosa italiano (si ignora infatti dove e quando sia morto), non prima
comunque che l'Inquisizione gli assegnasse, nel maggio 1552, uno stipendio
mensile di cinque ducati d'oro, per i servizi resi.


Maifreda (o Manfreda o Maufreda) da Pirovano (m.1300) (guglielmita)



Maifreda da Pirovano era suora dell'ordine delle Umiliate del convento di
Biassono (vicino a Monza), quando decise di seguire le orme di Guglielma di
Boemia, una oblata (di origini boeme), cioè una laica che viveva in un
monastero, dell'abbazia cistercense di Chiaravalle (vicino a Milano), la
quale viveva secondo l'amore cristiano, i precetti apostolici e la moralità
evangelica, e intorno alla quale era cresciuta rapidamente la fama di santa
guaritrice.
Alla morte di Guglielma nel 1281 o 1282, M. fu considerata la sua erede
spirituale ed investita del titolo di Papessa. Aiutata da Andrea Saramita,
il teologo della setta, M. elaborò un vero e proprio culto della figura di
Guglielma, riempendo le chiese milanesi, come ad esempio Santa Eufemia o
Santa Maria Minore, di immagini della "santa", componendo litanie e inni
dedicati a lei, diffondendo la convinzione che Guglielma fosse stata
l'incarnazione dello Spirito Santo e perfino spargendo la voce di una sua
imminente risurrezione.
Per mascherare il culto agli occhi della Chiesa ufficiale, le immagini di
Guglielma vennero attribuite a Santa Caterina di Alessandria e la sua data
di celebrazione coincise con quella della santa, il 25 Novembre.
Tuttavia M. si spinse troppo in là, quando la domenica di Pasqua del 1300,
ella officiò, con tutti i paramenti sacri come un vero sacerdote, una
solenne messa in onore di Guglielma, dichiarata risorta come Gesù Cristo da
M. stessa.
La cosa venne denunciata e a quel punto il culto di Guglielma non fu più
oggetto di un processo di santificazione, come chiedevano i suoi seguaci, ma
divenne una inchiesta degli inquisitori domenicani Guido da Cocconato e
Ranieri da Pirovano, i quali la condannarono postuma come eretica e fecero
bruciare sul rogo le sue ossa e le sue immagini, tale e quale come, l'anno
successivo, nel 1301, sarebbe successo al culto di Armanno Pungilupo a
Ferrara.
Stessa sorte seguirono M. e il teologo Andrea Saramita, finiti sul rogo a
Milano, nella zona dell'attuale Piazza Vetra, nel 1300.



Mani (216-277) e manicheismo



La vita
Mani nacque, secondo la tradizione, il 25 Aprile 216 nel villaggio di
Mardinu, vicino a Seleucia (Ctesiphon) sul fiume Tigri in Babilonia.
Man, il cui significato in aramaico è "l'illustre", era probabilmente un
titolo onorifico, piuttosto che un nome proprio. Il suo vero nome è
sconosciuto, anche se alcune fonti riportano Shuraik.
La famiglia era di origini nobili persiane ed il padre, Fâtâk (o Pattak)
Bâbâk era nato ad Ectabana, mentre per il nome della madre, anche essa di
origini nobili, le varie fonti riportano Mes, Utâchîm, Marmarjam e Karossa.
Poco dopo la nascita di M., il padre abbandonò la madre e, portando il
piccolo con sé, si ritirò in una comunità religiosa di elcasaiti o, secondo
altre fonti, di encratiti o di mandei.
All'età di 12 anni, M. ebbe una visione: fu visitato da un angelo di nome
El-Tawan (o Al-Tawn), suo gemello nell'aspetto e nel nome (infatti el tawan
significa letteralmente il gemello).
El-Tawan lo istruì sulla sua missione sulla terra, ma gli disse anche di
pazientare per almeno 12 anni, prima di rivelarsi al mondo. E infatti, dopo
una seconda visita di El-Tawan, M., all'età di 24 anni, si recò in Persia ed
iniziò a predicare il giorno della incoronazione dell'imperatore persiano
Shapur I, il 20 Marzo 242 (data sacra per i Manichei), proclamandosi
"l'apostolo del vero Dio".
Ben presto M. entrò in conflitto con i Magi, i sacerdoti del Zoroastrismo,
religione di stato della Persia a quei tempi, e fu esiliato.
Tuttavia, questo evento sfortunato risultò essere vincente per la diffusione
del manicheismo nel mondo: infatti  durante i suoi viaggi in Turkmenistan,
India e Cina, M. predicò e fece molti adepti e discepoli, fondando ovunque
comunità manichee. In Cina fu molto popolare e conosciuto dai taoisti come
"Moni Jiao".
Dopo molto anni, tornò in Persia, dove poté predicare sotto la protezione
dell'imperatrice Nadhira e del principe Peroz, fratello dell'imperatore.
Nonostante ciò, fu imprigionato in seguito alle congiure dei suoi mortali
nemici, la casta dei Magi, e liberato solo dopo la morte dell'imperatore nel
274.
Salì allora al trono il figlio di Shapur, Ormuzd I, che era sì favorevole a
M., ma che regnò solo per 1 anno.
Il successore, Bahram I, sobillato dai soliti Magi, fece imprigionare e
torturare M. per 30 giorni, al termine dei quali egli morì o crocefisso o
frustato a morte o soffocato dalle sue stesse catene (le fonti non
concordano sulle cause della morte).
Dopo la morte, M. fu decapitato e la sua testa esposta su una picca vicina
alle porte della città. Sembra che anche il suo corpo fosse stato impagliato
ed esposto al pubblico ludibrio.
La data tradizionalmente accettata per la sua morte è il 3 Marzo 277.


La dottrina
La complessissima dottrina di M., un sincretismo tra Cristianesimo,
Buddismo, Mazdeismo e Gnosticismo, era basata sul principio dualista del
confronto tra il Bene ed il Male, tema caro alle sette gnostiche,
soprattutto quella di Valentino, i cui adepti confluirono, nei secoli
successivi, nel Manicheismo.
La cosmogonia manichea si fondava, quindi, sulla contrapposizione tra:
Il regno del Bene, comandato da Dio, cioè Padre di Grandezza (megethos), il
quale si manifestava attraverso quattro persone (tetraposopon): Tempo, Luce,
Forza, e Bontà. All'infuori di Dio, esistevano i Suoi cinque tabernacoli o
eoni: Intelligenza, Ragione, Pensiero, Riflessione e Volontà oppure, secondo
altri testi, Longanimità, Conoscenza, Ragione, Discrezione e Comprensione.
Il Suo regno si espandeva in tutte le direzioni e l'unica limitazione era il
regno del Male.
Il regno del Male, comandato dal Principe delle Tenebre, i cui eoni erano
Fiato pestilente, Vento ardente, Oscurità, Nebbia e Fuoco distruggente
oppure Pozzi avvelenati, Colonne di fumo, Profondità abissali, Paludi fetide
e Pilastri di fuoco. Il Principe, inoltre, si manifestava sotto forma di
un'incarnazione, Satana, un mostro metà pesce, metà uccello, con quattro
zampe e testa di leone.
In seguito ad una catastrofe primordiale, il regno delle Tenebre aveva
invaso quello del Bene, gettando nel panico gli eoni: il Padre aveva deciso
allora di creare una prima emanazione, la Madre di Vita, che, a sua volta,
creò il Primo Uomo (protanthropos).
Anche il Primo Uomo aveva i suoi cinque elementi da opporre a quelli del
Male: Aria pura, Vento rinfrescante, Luce brillante, Acque che donano la
vita e Fuoco riscaldante, ma fu ugualmente sopraffatto dal Principe delle
Tenebre. Sconfitto, il Primo Uomo invocò il Padre, che creò la seconda
emanazione, lo Spirito di Vita, con le sue cinque personalità: Ornamento di
splendore, Re dell'onore, Luce, Re della gloria e Supporto, i quali
discesero nel reame delle tenebre e salvarono il Primo Uomo dal suo degrado.
Il Padre, allora, creò la Sua terza emanazione, il Messaggero, che emanò a
sua volta dodici vergini: Maestà, Saggezza, Vittoria, Persuasione, Purezza,
Verità, Fede, Pazienza, Rettitudine, Bontà, Giustizia e Luce. Questo
Messaggero dimorava nel Sole e le vergini gli ruotavano intorno: una chiara
allegoria dello zodiaco.
Dalla lotta tra il Messaggero e i figli delle tenebre nacquero due bambini,
Adamo ed Eva, che avevano intrappolati in se i germi della luce. Le potenze
del Bene mandarono allora il Salvatore o il Gesù celeste (M. rifiutava il
concetto di Gesù terreno), personificazione della Luce cosmica, il quale
risvegliò Adamo e gli fece vedere il Regno del Bene ed assaggiare i frutti
dell'albero della vita. Adamo pianse e maledisse il suo destino: da allora,
secondo M., l'uomo doveva cercare di purificarsi, dominando i desideri
carnali per poter elevarsi al Regno del Bene.


Organizzazione e rituali
I manichei erano divisi in pochi "Perfetti", molto assomiglianti ai monaci
buddisti e molti "Uditori" o catecumeni.
I "Perfetti" non potevano avere alcuna proprietà, mangiare carne o bere
vino, avere rapporti sessuali, svolgere qualsiasi attività lavorativa,
praticare la magia o altri religioni.
Erano tenuti a rispettare i tre sigilli (signacula), e cioè:
Il sigillo della bocca, che proibiva parole impure e cibi impuri, come la
carne o il vino. Solo la verdura e la frutta erano permessi.
Il sigillo delle mani, che proibiva qualsiasi lavoro manuale, anche la
raccolta della frutta.
Il sigillo del seno, che proibiva i pensieri malvagi ed il matrimonio, nel
senso della procreazione. I manichei pensavano, infatti, che era male
continuare la propagazione della razza umana, perché ciò significava un
continuo imprigionamento della Luce nella materia.
Gli "Uditori" erano invece tenuti al rispetto dei dieci Comandamenti di M.,
che condannavano l'idolatria, la menzogna, l'avarizia, l'uccisione, la
fornicazione, il furto, l'inganno, la magia, l'ipocrisia e l'indifferenza
religiosa. Inoltre essi dovevano badare al mantenimento dei Perfetti,
pregare quattro volte al giorno e digiunare in giorni ben precisi. Potevano,
comunque, sperare nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, per
rinascere "Perfetti".
Gli unici sacramenti previsti erano il battesimo e il consolamentum, o
consolazione, una specie di imposizione delle mani.


I manichei
Nonostante le violente persecuzioni degli imperatori persiani e romani
(Valentiniano nel 372, Teodosio nel 382, Giustino e Giustiniano nel VI
secolo emisero decreti contro la setta), il Manicheismo si diffuse in vaste
parti del mondo: ad est della Persia diversi popoli della Cina occidentale
(la regione dello Xinjiang dove si crede la setta sia sopravvissuta fino al
XVII secolo), India e Tibet si convertirono: addirittura gli Uigùri, tribù
del Turkmenistan, adottarono, nel 763, il Manicheismo come religione di
stato fino al XV secolo.
Ad ovest e sud della Persia, il Manicheismo si diffuse in Siria, Egitto e
Nord Africa, dove l'esponente più famoso fu Fausto di Milevi, ma soprattutto
dove Sant'Agostino (353-430) aderì alla setta per ben nove anni prima di
convertirsi al Cristianesimo e combattere successivamente, in maniera
feroce, la sua antica religione.
La punta massima della diffusione del M. avvenne verso la fine del IV
secolo, dopo del quale la setta iniziò lentamente a declinare anche sotto
l'attacco sistematico del Cristianesimo ad ovest e dell'Islamismo a sud ed
est. Come già detto, si mantenne per lungo tempo solo in alcune zone
dell'Asia centrale.
Tuttavia, sebbene non sia ancora stata dimostrata la connessione, il M.
indubbiamente influenzò tutta una serie di eresie dualiste dei secoli
successivi, come i Pauliciani, i Bogomili, e i Catari. Questi ultimi, nel
Medioevo, venivano chiamati "Manichei" dai Cristiani.


I testi
Sebbene nulla sia arrivato a noi integralmente, dai frammenti si capisce che
la produzione letteraria manichea fu particolarmente copiosa. Si conoscono:
Shapurakan, escatologia manichea in tre capitoli, dedicata al principe
Peroz.
Il libro dei misteri
Il libro dei Giganti
Il libro dei precetti per gli uditori
Il libro del dono della vita
Il libro della pragmatica
Il Vangelo
Altri testi vari, attribuiti direttamente a M. stesso o agli autori di
ispirazione manichea, come l'ignoto scrittore del pezzo letterario, l'Inno
della Perla.

Manna, Ludovico (Fra Angelo da Messina o Ludovico Messina) (attivo
1530-1555)



Tra i più noti riformati della Sicilia si ricorda il messinese Ludovico
Manna, entrato a far parte dell'ordine dei domenicani con il nome di Fra
Angelo da Messina, ma che in seguito, influenzato da colloqui avuti, nel
periodo 1537-1540, con Benedetto Fontanini da Mantova, l'autore del famoso
Beneficio di Cristo, aveva abbandonato la tonaca per trasferirsi a Napoli,
in casa di un amico anabattista, il mercante Tobia Citarella.
Tuttavia, poco dopo lo troviamo frequentatore dei circoli culturali di Juan
de Valdés, intorno al 1540, assieme a Pier Martire Vermigli, Marcantonio
Flaminio, Giovanni Bernardino Bonifacio e a Pietro Carnesecchi, di cui
divenne grande amico.
Infatti, nel 1543 visse a Venezia, presso la casa dell'amico Carnesecchi e
in seguito, raccomandato proprio dal protonotario apostolico fiorentino,
divenne collaboratore dell'arcivescovo di Otranto, Pietro Antonio di Capua,
ma venne da questi licenziato per opinioni eretiche.
A questo punto M. si trasferì in Toscana, a Pisa, vivendo in casa del
mercante Bernardo Ricasoli e approfittando del trasporto di mercanzie verso
Firenze, riuscì a farvi introdurre le Prediche di Bernardino Ochino e le
Cento e dieci divine considerationi di Valdés.
Ma, di lì a poco, cambiò nuovamente credo religioso: abbandonò infatti il
valdesismo, per allinearsi al calvinismo, di cui fu un membro molto attivo
per la sua diffusione in Toscana: infatti fece anche tradurre da Ludovico
Domenichi in italiano (con il titolo di Nicomediana) il libello satirico
Excuse à messieurs les Nicodémites di Calvino.
Entro il 1550 M. era oramai perfettamente inserito nell'ambiente protestante
di Firenze, insieme al letterato Pier Vettori (1499-1585), Bartolomeo
Panciatichi, Aonio Paleario, Pier Francesco Riccio, il sempre presente amico
Pietro Carnesecchi e Marcantonio Flaminio.
Ma nel 1551 scoppiò la bomba delle rivelazioni del pentito Pietro Manelfi e
M., uno dei principali accusati, per sfuggire all'arresto, dovette
espatriare rapidamente nel 1552 a Ginevra come esule.
Qui egli divenne catechista della Chiesa degli Italiani gestita dal pastore
Celso Martinengo e nel 1555 fu raggiunto in esilio dal poeta siciliano
Giulio Cesare Pascali (1527-ca. 1601).
Dopo questa data non si hanno più tracce di lui, ma si suppone che fosse
emigrato da un'altra parte, perché in un censimento dell'epoca, non risultò
tra gli abitanti di Ginevra.


Mantz (o Manz), Felix (ca.1500-1527)



Felix Mantz, uno dei fondatori del movimento anabattista, nacque a Zurigo
nel 1500 ca. da buona famiglia: suo padre, Johann, era parte del clero
cittadino (probabilmente un canonico secolare).
M., come il suo futuro compagno di fede Conrad Grebel, fu mandato a studiare
a Parigi, dove approfondì la conoscenza del latino, greco e ebraico e al suo
ritorno dall'estero, M. entrò a far parte dei circoli umanistici che
gravitavano intorno a Zwingli.
Tuttavia, già nel Gennaio 1523, Grebel, M. ed altri, come Wilhelm Reublin,
Hans Brötli e Simon Stumpf, cominciarono a contestare la linea riformista di
Zwingli. In particolare la materia del contendere era la superiorità della
Sacra Scrittura, propugnata da Grebel e compagni, rispetto all'autorità
dello stato, voluto da Zwingli, che lavorava per ottenere il consenso
unanime del corpus christianum, inteso come l'unità dei fedeli.
Da quel punto in avanti, M. seguì il destino di Grebel, quando partecipò il
26-28 Ottobre 1523, al dibattito pubblico, durante il quale avvenne lo
scontro tra Grebel e Zwingli a proposito dell'abolizione della Messa o
quando, nel 1524, essi scrissero una lettera a Thomas Müntzer per chiedere
un confronto sulle rispettive posizioni radicali.
In seguito alla polemica sul battesimo degli infanti, che portò alla disputa
pubblica il 10 e 17 Gennaio 1525  e la (scontata) condanna del gruppo di
Grebel, fu proprio M., sfidando il divieto delle autorità cittadine, ad
ospitare in casa sua il 21 Gennaio 1525 i 15 anabattisti che presero la
decisione di procedere al proprio ribattesimo.
Nella comunità dei "Fratelli in Cristo", che si formò poco dopo a Zollikon,
un villaggio a otto chilometri da Zurigo, M.fu uno dei più attivi,
ribattezzando diversi nuovi adepti, ma il 30 Gennaio, egli fu arrestato
assieme all'ex sacerdote Jörg Blaurock, e tenuto in prigione fino al 7
Ottobre. Appena fu rilasciato si mise subito nei guai, partecipando già il
giorno successivo alla protesta della comunità di Grüningen, un distretto
vicino a Zurigo, dove lo scontento popolare fu fomentato proprio dai capi
anabattisti Blaurock, Grebel, e M. stesso.
I primi due furono arrestati quello stesso 8 Ottobre e inviati a Zurigo,
mentre M. riuscì a fuggire in un primo momento per poi essere catturato il
31 Ottobre.
Dopo qualche giorno, tra il 6 e l'8 Novembre 1525, si tenne a Zurigo
un'ulteriore disputa tra gli anabattisti e Zwingli, che, scontento per
l'ostinata posizione degli avversari, li fece condannare dal Consiglio, il
18 Novembre, a rimanere in carcere.
Il 5 e 6 Marzo 1526, dopo quattro mesi di duro carcere, il Consiglio cercò
di fiaccare la resistenza degli arrestati (i tre sopramenzionati più altri
14 compagni) condannandoli al carcere a pane e acqua, finché essi non
avessero ritrattato, ma 15 giorni dopo, approfittando di una clamorosa
distrazione, gli anabattisti riuscirono ad evadere.
Tra il momento della sua fuga e la sua nuova cattura, M. trascorse il
periodo errando per la Svizzera e battezzando nuovi adepti, finché le
autorità di Zurigo lo catturarono il 3 Dicembre 1526, assieme a Blaurock in
una foresta vicino a Grüningen.
M. venne condannato a morte per annegamento in accordo con la tremenda frase
di Zwingli: Qui iterum mergit, mergatur (Chi ha immerso nuovamente, cioè
ribattezzato, sia immerso, cioè annegato!).
Il 5 Gennaio 1527 M., il primo martire anabattista di una lunga e tragica
serie, venne condotto dalla prigione della torre di Wellemberg in Zurigo su
una barca in mezzo al fiume Limmat, e lì gettato in acqua con le mani
legate.


Haller, Berthold (1492-1536)



Berthold Haller nacque nel 1492 nella regione tedesca del Würtemberg. In
gioventù studiò teologia e fu compagno di studi e amico del riformatore
Philipp Melantone.
Completati i suoi studi di teologia, nel 1518, H. si recò a Berna, dapprima
come insegnante, poi come predicatore e riformatore: nel 1521 fu nominato
pastore della Cattedrale.
La sua adesione convinta alla Riforma risale al 1525, quando egli cessò di
dire Messa, ed si attivò per la diffusione del protestantesimo, assieme ad
altri compagni di fede, come l'ex francescano Sebastian Meyer, l'ex monaco
Franz Kolb (1465-1535) ed il pittore Niclaus Manuel (Deutsch) (1484-1530).
Le attività di proselitismo di H. lo portarono spesso in pericolo di vita e
la cosa non mancava di turbare il cauto e timido predicatore, il quale
doveva essere ogni tanto rincuorato dall'amico Ulrich Zwingli.
Per esempio, non privo di pericoli fu la trasferta di H. e di Johannes
Ecolampadio, che difesero coraggiosamente le posizioni riformiste nel
dibattito di Baden (nel cantone Aargau, una roccaforte cattolica)
organizzato dai cantoni cattolici (Uri, Schwyz e Unterwalden) nel 1526 con
l'invito al noto teologo cattolico Johann Eck (1486-1543), proprio quello
della disputa di Lipsia del 1519 con Carlostadio e Lutero. Era stato
invitato, in realtà, Zwingli, ma questi, temendo per la propria incolumità,
decise di non presenziare di persona. Ovviamente ambedue le parti
proclamarono la propria vittoria alla fine del dibattito.
Al suo rientro a Berna, H. dovette subire una reazione anti-riforma,
scaturita dalle conseguenze della Guerra dei Contadini del 1525, che portò
all'espulsione di Meyer e a pesanti intimidazioni contro H., revocate nel
1527, quando le elezioni portarono i riformisti al potere.
Nel Giugno 1528 si tenne nella stessa città i cosiddetti Colloqui di Berna,
da alcuni autori definiti la reazione protestante a Baden: il clima non
proprio favorevole ai cattolici portò ad una serie di rifiuti alla
partecipazione da parte dei cantoni, degli ecclesiastici e dei più noti
teologi cattolici, come ad esempio Eck. Quindi di fronte ad una massiccia e
qualificata partecipazione protestante (Zwingli, H., Ecolampadio, Kolb,
Capito e Bucero), i cattolici contrapposero una delegazione non di grande
rilievo.
I riformatori ottennero quindi una scontata vittoria e H. in persona fu
incaricato di redigere le seguenti dieci tesi o conclusioni adottate dalla
chiesa di Berna come confessione di fede:
La Chiesa Cristiana, il cui capo è Cristo, nasce dalla Parola di Dio, e
tiene fede solo ad essa.
La Chiesa Cristiana non fa leggi senza la Parola di Dio. Le tradizioni sono
vincolanti se fondate sulla Parola di Dio.
Cristo è l'unica saggezza, rettitudine, soddisfazione e redenzione per i
peccati del mondo. Quindi neghiamo Cristo quando confessiamo un altro modo
di salvezza.
La presenza essenziale e corporale del sangue e corpo di Cristo
(nell'Eucaristia) non è dimostrabile attraverso le Sacre Scritture.
L'attuale forma della Messa, in cui Cristo viene offerto a Dio Padre per i
peccati dei vivi e dei morti è contrario alle Scritture, una blasfemia
contro il santissimo sacrificio, passione e morte di Cristo, ed un abominio
davanti a Dio.
Poiché solo Cristo è morto per noi, solo Lui deve essere adorato come
difensore e mediatore tra Dio Padre e i credenti. Perciò è contrario alla
Parola di Dio proporre e invocare alti mediatori.
Le Scritture non fanno menzione di un purgatorio dopo questa vita. Perciò
tutte le messe e altre funzioni per i morti sono inutili.
L'adorazione di immagini è contraria alle Scritture. Perciò le immagini
devono essere abolite quando diventano fonte di adorazione.
Nelle Scritture il matrimonio non è proibito ad alcuna classe di uomini, ma
la fornicazione e la lascivia sono proibite a tutti.
Poiché, secondo le Scritture, un fornicatore manifesto deve essere
scomunicato, ne consegue che la lascivia e il celibato impuro sono più
perniciosi al clero che a qualsiasi altra classe di uomini.


Queste tesi del 1528 e una liturgia protestante furono il maggiore successo
dell'attività riformatrice di H., che morì a Berna nel 1536.



Marcello di Ancyra (m. ca. 374) e criptosabellianismo



Marcello era il vescovo di Ancyra (la moderna Ankara) in Asia Minore. Al
concilio di Nicea del 325, fu un fiero oppositore dell'arianesimo e
sostenitore della formula ortodossa approvata per la natura di Cristo, e
cioè homooùsion (consustanziale, cioè della stessa sostanza del Padre e
generato, e non creato).
Tuttavia, nel suo fervore antiariano, M. fece l'errore opposto, cioè di
scivolare nel monarchianismo modalista di Sabellio, anzi, secondo i suoi
antagonisti ariani, in un cripto-sabellianismo.
In particolare M. scrisse un libro contro l'esponente ariano Asterio di
Cappadocia, sostenendo che, nell'ambito dell'unità di Dio Padre, il Figlio
(Logos) era emerso come potenza (dynamis) esternata in occasione della
creazione e diventato persona solamente durante l'incarnazione in Gesù
Cristo, mentre lo Spirito Santo era emerso durante la Pentecoste. Alla fine
di tutti i tempi ed esaurita la loro funzione, queste due entità sarebbero
stati riassorbiti da Dio Padre, del quale, quindi, sarebbe stata restaurata
la piena unità.
M. fu quindi per gli ortodossi un imbarazzante alleato per le sue idee,
tuttavia a parole si dichiarò in linea con il credo niceno e quindi, in quei
tempi in cui a Papa Giulio I (337-352) e a Atanasio di Alessandria mancavano
validi sostenitori della causa antiariana, non si andò troppo per il
sottile.
Nel 336, durante il concilio, a forte ispirazione ariana, a Costantinopoli,
presieduto da Eusebio di Nicomedia, M. fu condannato per sabellianismo e
dichiarato decaduto dalla sua sede vescovile e al suo posto venne eletto
Basilio di Ancyra.
Tuttavia, alla morte dell'imperatore Costantino (337) M. ritornò alla sua
sede, da dove, però fu nuovamente espulso nel 339.
Allora, M. si decise di scrivere al papa Giulio I, che nel 340 lo riabilitò,
dichiarandolo ortodosso, ma non si sa se successivamente M. abbia potuto
coprire il suo ruolo almeno prima del 343. In quel anno fu, infatti,
convocato dall'imperatore Costanzo II (337-361, figlio di Costantino) il
concilio di Sardica (l'odierna Sofia in Bulgaria), dove, tra l'altro, fu
chiesto vanamente da parte degli ariani l'espulsione di M. Alla risposta
negativa del concilio, gli ariani abbandonarono il concilio, che quindi, a
maggioranza ortodossa, ratificò il reintegro di M. nella sua sede.
Pare comunque che M., nel frattempo condannato nel 344 dal sinodo "ariano"
di Antiochia, avesse avuto parecchi problemi nel rientrare ad Ancyra, a
causa dell'opposizione della popolazione, favorevole a Basilio.
Infine M. fu deposto dal vescovo Macedonio di Costantinopoli e
definitivamente sostituito da Basilio nel 353.
M. morì ca. nel 374, ma solo nel 381 il concilio di Costantinopoli si
pronunciò contro lui e i suoi insegnamenti. In particolare il verso del
credo niceno "e il suo regno non avrà fine.." fu appositamente aggiunto per
combattere l'idea di M. di un Figlio non eterno.


Clareno da Cingoli, Angelo (ca. 1245-1337) e i clareni



La vita
Angelo Clareno nacque nel 1245 circa a Fossombrone (Pesaro), benché molti
testi lo considerano originario di Cingoli (Macerata), da cui il suo nome.
Nel 1262 egli entrò nell'ordine dei francescani e si dedicò per qualche anno
all'insegnamento della teologia, ma successivamente decise di aderire al
corrente degli spirituali, i quali osservavano alla lettera la Regola ed il
Testamento del Santo. Essi inoltre aderivano entusiasticamente alle idee e
teorie del mistico calabrese Gioacchino da Fiore, arrivando ad identificare
la sua "Chiesa Spirituale" (Ecclesia Spiritualis), con lo stesso ordine
francescano.
Per aver aderito o professato queste idee, C. fu imprigionato dal 1280 al
1289: solo nel 1294 la situazione degli spirituali migliorò, quando essi
furono sottratti al controllo dei conventuali, l'ala moderata dei
francescani, da Papa (San) Celestino V (1294), ma il periodo di fortuna durò
pochissimo: già Papa Bonifacio VIII (1294-1303) tolse ogni loro privilegio.
Nel 1299 C. si rifugiò in Grecia per sottrarsi all'Inquisizione: rientrò
solo nel 1307 divenendo il capo degli spirituali della sua zona di origine,
le Marche e l'Umbria, precedentemente coordinati dal 1274 da Liberato da
Macerata. I suoi seguaci furono successivamente denominati clareni in onore
del loro capo.
Nel 1311 egli fu convocato da Papa Clemente V (1305-1314) per una attenta
valutazione della sua ortodossia e dal Papa stesso fu scagionato da ogni
accusa.
Tuttavia, poco dopo, durante la sede vacante (1314-1316), in una cerimonia,
seguita da una grandissima folla, in memoria della figura di Pietro di
Giovanni Olivi, C. si contraddistinse per aver incitato alla ribellione gli
spirituali di Narbona (nella Francia meridionale) contro i conventuali e in
ciò ebbe un grande appoggio dalla popolazione locale.
Ma questa grande popolarità non gli impedì di essere scomunicato, assieme
agli spirituali, nel 1317 dal successore di Clemente, Papa Giovanni XXII
(1316-1334), il grande nemico del movimento e per gli spirituali la perfetta
impersonificazione  dell'Anticristo.
Dal 1318, dopo questa scomunica papale, C. fondò l'ordine dei fraticelli (o
fratelli della vita povera) organizzato come un ordine francescano
indipendente e contestò la legittimità dell'autorità papale di Giovanni
XXII. I fraticelli si diffusero nelle Marche, Umbria, Lazio, Campania e
Basilicata.
Il Papa reagì facendo bruciare sul rogo 4 fraticelli a Marsiglia nel 1318,
ma non riuscì mai a mettere le mani su C., che, come Michele da Cesena,
preferì cercarsi appoggi nella fazione ghibellina di Ludovico il Bavaro
durante la sua conquista di Roma del 1328.
Il Papa emise due ordini di arresto a suo carico nel 1331 e nel 1334, ma il
capo dei fraticelli morì, libero e in odore di santità, il 15 Giugno 1337
nell'eremitaggio di Santa Maria dell'Aspro, vicino a Marsico Vetere
(Potenza) tre anni dopo la morte del Papa stesso, avvenuta nel 1334.


Le opere
Uomo di grande cultura, nonostante le malignità di Giovanni XXII ("eretico
demente"), C. scrisse una Chronica septem tribulationum Ordinis Minoris, a
proposito delle vicissitudini degli spirituali, un commento alla regola
dell'ordine (Declaratio regulae Minorum), diverse traduzioni dal greco di
testi del monachesimo orientale e diverse lettere.


Marcione (ca. 85- ca. 160)



La vita
Marcione era figlio del vescovo di Sinope della provincia del Ponto, nato,
secondo la maggior parte degli autori, nel 85 ca. (ma secondo altri nel 100
o addiritura nel 110).
In età adulta diventò alquanto benestante, facendo l'armatore e, grazie alla
sua vita di castità e ascetismo, fu nominato vescovo.
Tuttavia fu scomunicato dal suo stesso padre, probabilmente per le sue idee
religiose, rimanendo priva di ogni fondamento una versione piccante,
riportata da Epifanio, di un'infatuazione di M. per una giovane vergine.
Nel 140, M. si recò a Roma, giungendo nel periodo di sede vacante tra Papa
Igino (136-140) e Papa Pio I (140-155), e cercando di entrare nella comunità
cristiana locale, anche per mezzo di generosi elargizioni: donò, infatti,
l'enorme cifra di 200.000 sesterzi, denaro che però gli fu restituito quando
si concretizzò il suo definitivo strappo dalla Chiesa Cattolica.
Egli, infatti, diede luogo al primo scisma nella storia del Cristianesimo
nel 144: la sua chiesa dei marcioniti organizzata e strutturata, ebbe il suo
massimo splendore durante il papato di Aniceto (155-166), e continuò, con
una certa risonanza, fino al VI secolo, soprattutto nella parte orientale
dell'impero.
M. ebbe, in seguito, molti allievi degni di nota, tra i quali spiccò Apelle
e morì, probabilmente, nel 160.


La dottrina
Dal punto di vista dottrinale, M., oppositore del mondo giudaico, negò
l'importanza per i cristiani del Vecchio Testamento e propugnò il concetto
dualista di due Dei, il Dio del Vecchio Testamento (che peraltro egli
totalmente rigettava), vendicativo e terribile Demiurgo creatore del mondo,
e il Dio del Nuovo Testamento, descritto dal Cristo come buono e
misericordioso e che aveva mandato Suo Figlio per riscattare il genere
umano.
Inoltre M. riteneva che tutta la materia fosse male e seguì la dottrina del
Docetismo, in cui il corpo di Cristo era del tutto immateriale in contrasto
con i Cattolici, che credevano nella totale incarnazione del Cristo.
In ciò M. si avvicinò alle posizioni del gnostico Cerdo, sebbene, d'altra
parte, M. non si possa definire totalmente un gnostico, in quanto la
salvezza per lui non derivava dalla gnosi, ma dalla grazia.


I testi canonici per i marcioniti
Per M., gli unici testi canonici accettati furono 10 delle lettere di
S.Paolo (escludendo le pastorali) e una forma abbreviata del Vangelo di Luca
(mancante di parti come, ad esempio la nascita di Gesù).


Marco (maestro gnostico) ( ½ II secolo)



Marco era un maestro gnostico della scuola di Valentino ed attivo nella
Gallia meridionale, e si autoproclamò profeta e mago.
Secondo Sant'Ireneo (ca. 140-200), M. frequentava le signore ricche e nobili
dell'alta società, con il pretesto di farle partecipi della sua grazia, ma
con il principale scopo di sedurle.
Sempre secondo Ireneo ed anche Epifanio, M., inoltre, eseguiva una complessa
cerimonia di trasformazione di un miscuglio di vino ed acqua in un liquido
di colore porpora, che diceva essere il sangue della grazia. Analogamente ad
altri gruppi gnostici, la miscela probabilmente conteneva minuscole quantità
di sperma o sangue mestruale, intesi come l'essenza dei generi umani.
Detta cerimonia venne condannata dalla maggioranza dei gnostici e aborrita
dai giudeo-cristiani, per la legge ebraica di divieto di consumo di sangue.


Marco di Lombardia  (1° vescovo cataro in Italia) (XII secolo)



Secondo Anselmo di Alessandria (Tractatus de hereticis), Marco, un becchino
lombardo, fu il primo italiano convertito alla fede catara da un non meglio
precisato "notaio francese", giunto a Concorezzo (vicino a Monza). Detto
notaio introdusse M. al dualismo moderato (della Chiesa di Bulgaria) e l'ex
becchino, in seguito ordinato diacono, diffuse il catarismo in Lombardia,
Veneto e Toscana.
Tuttavia fu decisivo per Marco il successivo incontro con Niceta, il vescovo
bogomilo della Chiesa di Dragovitza (in Bosnia), che lo convinse ad
allinearsi sulle posizioni dualistiche assolute e lo nominò vescovo di tutti
i catari d'Italia.
Questo potere di Niceta fa sì che, secondo alcuni autori, egli si possa
considerare un vero papa cataro, anche se la terminologia pare alquanto
impropria e sicuramente non usata dai catari stessi.
Nel 1167 M. e Niceta si recarono ad un concilio cataro a Saint Felix de
Lauragais (o de Caramon), vicino a Tolosa, dove furono poste le basi per una
chiesa catara, vera e propria alternativa a quella Cristiana Cattolica,
organizzando 4 diocesi nel sud della Francia (Agen, Albi, Carcassonne e
Tolosa) con altrettanti vescovi e la Chiesa d'Italia con a capo Marco
stesso.
L'unità della chiesa catara italiana fu però molto effimera: già sotto il
successore di M., Giovanni Giudeo, il catarismo italiano si spezzò in due
tronconi, che poi formarono le sei chiese autonome (Concorezzo, Desenzano,
Bagnolo San Vito, Vicenza, Firenze e Spoleto), attive fino alla totale
repressione dell'eresia.


Marguerite La Porète (beghina)(m.1310)



Marguerite La Porète fu una beghina mistica con sospette simpatie verso i
Fratelli del Libero Spirito.
M. nacque nella regione di Hainaut (oggigiorno in Belgio, ma allora parte
del Sacro Romano Impero) e tra il 1296 ed il 1306 scrisse il suo famoso
libro Le miroir des simples âmes (lo specchio delle anime semplici), che
ebbe una vastissima diffusione all'epoca in ben quattro traduzioni,
influenzò il mistico Meister Eckhart, e fu inizialmente attribuito a Santa
Margherita d'Ungheria (1242-1270).
Tuttavia nel 1306 si risalì a M. come vera autrice del libro: la beghina fu
accusata di eresia ed il suo libro fu bruciato in sua presenza. M. se la
cavò, a sua volta, con la condanna al silenzio delle sue idee.
Tuttavia M., essendo stata trovata relapsa, cioè recidiva nel 1308, fu
nuovamente accusata di eresia e portata a Parigi per essere processata dal
vescovo di Cambrai, Philip de Marigny.
Qui, il 1 Giugno 1310, in Place de Grève, M. fu bruciata sul rogo e le
testimonianze riferirono di un suo notevole coraggio e dignità davanti al
patibolo.


Lo specchio delle anime semplici
Il libro di M., il cui titolo completo era Le miroir des simples ames
anienties et qui seulement demourent en vouloir et desir d'amour, fu scritto
in volgare, inframmezzato da espressioni popolari, in forma di dialogo tra
l'Amore, la Ragione e l'Anima e narra della crescita dello spirito nel suo
desiderio di unione con Dio attraverso sette stadi successivi.
In diversi passaggi M. espresse pericolose opinioni, come il concetto che
un'anima, annichilita dall'amore per il Creatore, può e deve garantire alla
natura tutto ciò che desidera e in questo si avvicinò alle convinzioni dei
Fratelli del Libero Spirito, i quali, essendo convinti di essere pervasi
dallo Spirito Santo, ritenevano di essere talmente perfetti da poter
commettere qualsiasi atto senza correre il rischio di peccare, secondo il
detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15).



Maria d'Oignies (beghina)(ca. 1177-1213)



Maria d'Oignies, beghina e mistica, nacque a Liegi nel 1177 ca. da famiglia
benestante.
All'età di 14 anni si sposò, ma in seguito decise con il marito di dedicarsi
ad una vita apostolica di castità e carità, lavorando in un lebbrosario.
All'età di 30 anni, nel 1207, si ritirò in una comunità di conversi, ossia
di suore e fratelli laici, coordinata da un gruppo di preti, fra cui Jacques
de Vitry (1160-1240), futuro Cardinale di Acri (in Palestina) e protettore
del movimento delle beghine. M. ebbe molto influenza spirituale su Jacques,
che ne scrisse la biografia e che la aiutò la fondare la sua comunità
autosufficiente di beghine e begardi.
Nonostante le accuse di eresia che sarebbero state mosse al movimento negli
anni successivi, M. fu sempre molto ortodossa nelle sue convinzioni, tant'è
che appoggiò con entusiasmo la Crociata contro i catari del 1209.
Nel 1212 si racconta che M. avesse ricevuto le stimmate, ben 12 anni prima
di San Francesco.
M. morì nel 1213 all'età di 36 anni e per sua fortuna non dovette assistere
alla crescente persecuzione contro il "suo" movimento delle beghine, passato
da congregazione cattolica ortodossa a setta eretica, in un arco di tempo di
circa 100 anni, dal 1215 (ordine di scioglimento nel IV Concilio Laterano)
al 1312 (condanna del movimento come eretico nel Concilio di Vienne).


Sozzini (o Socini, Sozini, Sozzino, Socino o Socinus), Fausto Paolo
(1539-1604) e Socinianesimo in Polonia



I primi anni
Il famoso teologo antitrinitario Fausto Paolo Sozzini (o Socini: per le
altre varianti del cognome, vedere il titolo), nome umanistico Faustus
Socinus,  nacque il 5 dicembre 1539 a Siena, primogenito del giurista
Alessandro Sozzini (1509-1541) [a sua volta primogenito del giureconsulto
Mariano Sozzini il giovane (1482-1556)] e di Agnese Petrucci, discendente di
Pandolfo Petrucci (1452-1512), governatore di Siena dal 1487 al 1512.
Il piccolo Fausto, dopo la nascita della sorella Fillide (1540-1568), rimase
nel 1541 orfano del padre, e dopo poco anche della madre. Egli fu allevato
nella famiglia paterna senza un'educazione regolare, con un interesse più
per le lettere che per la giurisprudenza (gli studi tradizionali della
famiglia Sozzini), sotto lo stimolo culturale di suo zio Celso, professore
di diritto a Bologna, e proprio in questa città Celso trasportò nel 1554
l'Accademia senese dei Sizienti, di cui S., pare, abbia fatto parte.
E' sicuro invece la sua adesione, nel 1557, all'Accademia senese degli
Intronati, dove egli entrò con il nome di Frastagliato, sempre al seguito
dello zio Celso, che aveva assunto il nome di Sonnacchioso. Le riunioni
degli Intronati, votati alle discussioni sulla letteratura, lingua e
religione furono per S. senz'altro più interessanti di quelle dei Sizienti,
dedicati solo ad argomenti giuridici. Comunque, per sua fortuna, non dovette
affidarsi ad un titolo di studi per vivere, perché, nel 1556, alla morte del
nonno Mariano, S. poté disporre (per più di trent'anni) di una certa
sicurezza economica, quando ricevette in eredità un quarto dei beni di
famiglia.


Lo sviluppo del pensiero religioso di S.
I primi interessi religiosi eterodossi di S. gli furono trasmessi dallo zio
Lelio, che, benché esule dal 1547 in Svizzera per motivi religiosi, ebbe la
possibilità di rivisitare Siena e parlare col nipote nel 1552.
Nel 1558 S. fu coinvolto nel processo per eresia a carico degli zii Celso e
Camillo, segno di un graduale schieramento a favore delle scelte protestanti
dei famigliari. Nel 1561 egli lasciò Siena per recarsi a Lione ufficialmente
per impratichirsi nell'arte mercantile, ma nella città francese egli spese
due anni della sua vita soprattutto ad approfondire le sue conoscenze
religiose e a mantenere i contatti con lo zio Lelio, che abitava a Zurigo.
Avvertito della morte di quest'ultimo, avvenuto il 14 maggio 1562, da parte
del mercante Antonio Mario Besozzi (m. 1567), S. accorse a Zurigo per
raccogliere gli scritti di Lelio, che poi usò per meditare e sviluppare la
dottrina del pensiero sociniano: già nell'aprile 1563, rielaborando concetti
di Lelio, S. aveva composto un commento all'incipit del Vangelo di San
Giovanni, dal titolo Explicatio primae partis primi capiti Evangelii
Johannis, dove però, rispetto allo zio, S. diede più forza al carattere
spirituale di Cristo.
In seguito S. si stabilì per un breve periodo a Basilea (sebbene il suo nome
fosse anche citato nell'elenco degli iscritti alla Chiesa degli Italiani a
Ginevra), dove conobbe Celio Secondo Curione, amico dello zio Lelio. S. si
recò anche a Zurigo, dove fu tuttavia coinvolto nell'espulsione, per le sue
idee antitrinitarie, antiecclesiastiche e contro i Sacramenti, di Bernardino
Ochino (da S. conosciuto nella città svizzera) da parte del riformatore
Johann Heinrich Bullinger nel dicembre 1563.
A questo punto S., nonostante fosse già abbastanza compromesso con la
Riforma, prese la sconcertante decisione di ritornare in Toscana. Sulla
strada di ritorno, passò per Chiavenna, dove fece visita all'amico e maestro
Ludovico Castelvetro.


Il periodo fiorentino (1563-1574)
Effettivamente non è del tutto chiaro perché S. decidesse di rientrare in
Italia, visto che poi, per la sua stessa incolumità, dovette poi osservare
una prassi fortemente nicodemitica: infatti per i successivi 11 anni (dal
1563 al 1574) si tenne per sé le sue intime elucubrazioni religiose.
S. si trasferì a Firenze ed entrò come segretario al servizio di Isabella
de' Medici(1542-1576), figlia del granduca Cosimo I de' Medici (duca di
Firenze: 1537-1569 e granduca di Toscana: 1569-1574), e del marito Paolo
Giordano Orsini (1537-1585), accompagnando la sua protettrice a Roma nel
1571 e componendo poemi e sonetti, di cui i più ispirati furono quelli
composto in onore della sorella Fillide, morta nel 1568 e di Ludovico
Castelvetro, morto il 21 febbraio 1571, in cui S. dichiarò che il modenese
gli aveva chiaramente mostrato la via da seguire: l'esilio (in terra
protestante) e la palese professione di fede.
Nel frattempo (1568) fu stampato, sotto lo pseudonimo del gesuita Domenico
Lopez, il suo scritto teologico De Sacrae Scripturae Autoritate, che,
applicando i metodi della filologia moderna, introdotti da Lorenzo Valla,
ribadiva l'autorità della Sacra Scrittura e l'eccellenza della religione
cristiana. L'uso di uno pseudonimo fu probabilmente frutto di un accordo
segreto con Cosimo I: il granduca avrebbe accordato la sua protezione, a
patto che S. non pubblicasse i suoi scritti con il proprio nome. L'accordo
proseguì anche con il successore di Cosimo, Francesco Maria (1574-1587) e
garantì il regolare afflusso di proventi verso il paese estero, dove S.
aveva, in volta in volta, stabilito la propria residenza.
Nonostante la dichiarazione in occasione della morte di Castelvetro e la
pubblicazione del De Sacrae Scripturae Autoritate, S. prese la decisione di
abbandonare per sempre l'Italia solo dopo la morte del Granduca Cosimo I de'
Medici, avvenuta nell'aprile 1574. Del resto, due anni dopo, nel giugno
1576, avvenne una tragedia che avrebbe rinforzato la sua decisione: la sua
protettrice, Isabella de' Medici, fu strangolata dal gelosissimo marito, che
aveva saputo dell'esistenza di un amante della moglie [sebbene avesse lui
stesso come amante Vittoria Colonna Accoramboni (1557-1585)]. Quindi nulla
poté il nuovo granduca, Francesco Maria, fratello di Isabella, per
convincere il senese a recedere dalla sua decisione. Tra l'altro, la scelta
di S. era dettata dalla necessità di vivere in un ambiente, che gli
permettesse di sviluppare con serenità e sicurezza i suoi studi sulle
Scritture.


S. in Svizzera
Nella seconda metà del 1574, quindi, S. emigrò in Svizzera, a Basilea, dove
i capi religiosi erano i tolleranti riformatori Theodore Zwinger (1533-1588)
e Basilio Amerbach (1533-1591): per quest'ultimo lo zio Lelio aveva scritto
una lettera di presentazione nel lontano 1547, quando lo svizzero aveva
espresso il desiderio di recarsi in Italia per completare i suoi studi di
giurisprudenza. A Basilea S. risedette per circa quattro anni, studiando le
Sacre Scritture e soprattutto il problema della redenzione, sul quale
argomento scrisse due trattati: la sua opera principale De Jesu Christo
Servatore (Gesù Cristo salvatore), finita nel 1578, pubblicata parzialmente
(ma senza il suo consenso) nel 1583 e interamente in Cracovia nel 1594, e il
trattato De statu primi hominis ante lapsum (Sulla condizione del primo uomo
prima della Caduta), sempre scritta nel 1578, ma pubblicata postuma nel
1610.
Il primo trattato, nato dalle discussioni con i riformatori Gerolamo
Marliano, Giovanni Battista Rota (pastore della Chiesa italiana a Ginevra),
Manfredi Balbani e Jacques Couët du Vivier (1547-1608), esponeva l'idea di
S. a riguardo della redenzione: il punto principale della dottrina
protestante della giustificazione per fede non era il sacrificio di Cristo
compiuto per espiare i nostri peccati, bensì la rivelazione divina
attraverso l'esempio della vita di Cristo, vero salvatore e redentore degli
uomini.
Il secondo trattato, invece, si inserì nella polemica in atto tra S. e
Francesco Pucci, il pensatore utopistico che rigettava il concetto di
peccato originale: secondo Pucci, l'uomo è immortale e si danna solo quando,
razionalmente, devia dalla legge divina. Per S., che si confrontò con Pucci
nel 1577 a Basilea in un incontro organizzato da Francesco Betti, l'uomo,
essere mortale, si deve invece conquistare l'immortalità con la fede attiva.


S. in Transilvania
Una copia del manoscritto del De Jesu Christo Servatore giunse fino in
Transilvania e attirò l'attenzione del riformatore antitrinitario e medico
Giorgio Biandrata, che invitò S. a recarsi a Kolozsvàr (oggi Cluj in
Romania) nel novembre 1578, per polemizzare con Ferenc Dàvid, il quale aveva
aderito alla fazione degli antitrinitariani non-adoranti, coloro i quali
negavano il ruolo di guida per i fedeli verso la salvezza del Cristo e
rifiutavano, conseguentemente, ogni forma di adorazione di Gesù Cristo. A
loro si contrapponevano gli antitrinitariani adoranti, che ponevano la
figura di Cristo come riferimento per la salvezza degli uomini. Da qui si
comprende l'interesse di Biandrata verso il trattato di S., che considerava
Gesù Cristo colui il cui compito era di rivelare Dio agli uomini, i quali
potevano così raggiungere la salvezza, seguendo il Suo esempio.
L'inattesa conclusione della discussione avvenne nel giugno 1579, quando, su
denuncia di Biandrata, Dàvid fu fatto arrestare in giugno e imprigionare
nella fortezza di Déva dove morì il 15 novembre dello stesso anno.


S. in Polonia
S. non prese comunque parte attiva alla tragedia umana di Dàvid, perché, già
nel maggio 1579, si era trasferito in Polonia, presso i Fratelli Polacchi,
l'ecclesia minor di fede antitrinitaria (o unitariana) che aveva mantenuto
le caratteristiche ariane (in particolare il concetto che Cristo era
pre-esistito alla creazione del mondo e quindi era giusto adorarlo) e
anabattiste, datale da Pietro Gonesio: fu soprattutto l'arrivo di S. che
contribuì ad uniformare la dottrina sui principi proposti dal senese.
S. pose la sua residenza a Cracovia, sebbene il centro di riferimento per
l'unitarismo polacco fosse la vicina cittadina di Raków, dove era stato
fondato un seminario di studi antitrinitari nel 1569 e dove, tra il 1603 ed
il 1605, sarebbe stato redatto il catechismo ufficiale della setta.
Curiosamente S. non fece ufficialmente parte della Chiesa antitrinitariana
di Cracovia, se non in tarda età, a causa del suo rifiuto di farsi
ribattezzare (l'influenza anabattista era ancora molto forte sugli
antitrinitariani polacchi) da parte del pastore Szymon Ronemberg.
Qui, però, riprese la polemica tra adoranti ed alcuni esponenti
non-adoranti, come Giacomo Paleologo, Jànos Sommer (1540-1574), e Andrea
Dudith Sbardellati: comunque, oltre alla solita diatriba se fosse giusto o
meno adorare Gesù Cristo, con il suo De Jesu Christi filii Dei natura sive
essentia, S. attaccò i non-adoranti come giudaizzanti, che volevano, tra
l'altro, santificare il sabato, secondo un uso sabbatariano, che si sarebbe
espanso in Inghilterra, portatovi proprio dagli antitrinitariani profughi
dalla Polonia.
Inoltre un altro punto di frizione con S. fu l'obbligo morale, secondo
Paleologo, del cristiano nella difesa, anche prendendo le armi, del paese
che offriva la sua ospitalità. S. era in totale disaccordo con questa tesi:
per l'antitrinitariano senese, il cristiano, secondo l'interpretazione del
Nuovo Testamento, non poteva versare il sangue di altri cristiani.
I toni della polemica furono così accesi che il medico Marcello
Squarcialupi, amico di Biandrata, nel 1581 scrisse una lettera a S. per
richiamarlo ad abbassare i toni della polemica, che danneggiava l'immagine
degli esuli italiani.
Comunque, a parte questo episodio, S. mantenne sempre buone relazioni
sociali con diversi esuli italiani in Polonia, soprattutto con Niccolò
Buccella, che diventò suo amico fraterno e che nominò S. come uno dei suoi
eredi, e con Prospero Provana, che lo ospitò spesso in sua casa.
Nel marzo 1583, temendo rappresaglie da parte del fronte cattolico polacco,
S. decise di andare ad abitare nel villaggio di Pawlikowice (oggigiorno
Roznów, sudest di Cracovia), ospite del nobile polacco Krzysztof Morsztyn, e
ne sposò la figlia Elizabeth nel 1586. L'anno dopo nacque l'unica figlia di
S., Agnese (1587-1654), ma, nello stesso anno morì la moglie. Il 1587 fu
anche l'anno della morte del suo protettore in patria, Francesco Maria de'
Medici, e, nonostante S. mantenesse apparentemente dei buoni rapporti con il
nuovo granduca, Ferdinando I (1587-1609), l'Inquisizione a Siena gli
sequestrò i beni, con l'accusa di eresia. Tuttavia la perdita di introiti
dalla madrepatria fu parzialmente compensata dalla possibilità di pubblicare
con il proprio nome le sue opere, poiché, come si è detto precedentemente,
l'anonimato era la conditio sine qua non imposta prima da Cosimo I, poi da
Francesco Maria de' Medici perché S. potesse continuare a ricevere i
proventi delle sue proprietà di famiglia.
Nel 1588 S. riuscì nell'impresa di unire tutte le fazioni antitrinitariane
al sinodo di Brest (Brzesc, in Lituania) e, in suo onore, da questo momento
gli antitrinitariani si denomineranno sociniani. Oltretutto la crescente
popolarità presso la nobiltà polacca e l'autorevolezza dei suoi interventi
fecero sì che nel 1596 S. fosse nominato capo della Chiesa sociniana
polacca.
Tuttavia la conseguenza fu che egli dovette fronteggiare una violenta
reazione, anche di piazza, dei cattolici: nel 1591 il suo punto d'incontro a
Cracovia fu devastato dalla folla, ma soprattutto, nel 1598, gli studenti
universitari, sobillati dai gesuiti, fecero irruzione nella sua casa di
Cracovia, mentre giaceva a letto ammalato: S. stesso fu malmenato e portato
davanti al municipio, dove vennero bruciati i suoi scritti e i suoi libri.
Richiesto di abiurare, rifiutò e fu quindi trascinato via per essere
annegato nel fiume Vistola, e solo il tempestivo intervento di un professore
universitario, Martin Wadowit, gli salvò la vita.
Temendo quindi per altri attacchi di fanatici, S. si trasferì da Cracovia a
Luslawice, un villaggio a nord di Tarnów, a 30 km. da Cracovia, ospite di
Abraham Blonski, e qui iniziò, senza poterla finire, la stesura della bozza
di un catechismo antitrinitariano, la Christianae religionis brevissima
institutio, per interrogationes et responsiones, quam catechismus vulgo
vocant, che fu la base del catechismo ufficiale, redatto, dopo la sua morte,
dal fedele discepolo Piotr Stoinski junior (m. 1605), assieme a Valentinus
Smalcius (1572-1622), Hieronymus Moskorzowski (m. 1625) ed altri, in polacco
nel 1605.
Il testo fu poi tradotto in tedesco nel 1608, in latino nel 1609, ed in
inglese, a cura di John Biddle, nel 1652 con il titolo di The Racovian
Catechisme (Catechismo di Raków), nome con il quale oggi è conosciuto nel
mondo anglosassone unitariano.
S., ormai vecchio e sofferente per ripetute coliche e calcoli renali, morì a
Luslawice il 4 marzo 1604. Dapprima sulla sua tomba fu posta la scritta Chi
semina virtù, raccoglie la fama, e vera fama supera la morte, ma nel 1936 i
suoi resti furono posti in un mausoleo, dove sulla sua tomba vennero scritte
queste significative parole: Crolli la superba Babilonia: Lutero ne
distrusse i tetti, Calvino le mura, Socini le fondamenta.


Il pensiero religioso
Secondo Marian Hillar, il nocciolo delle dottrine sociniane si riassumano in
dieci punti:
Antitrinitarismo, o negazione del concetto tradizionale della Trinità.
Unitarianismo, o negazione della pre-esistenza di Gesù.
Il concetto della redenzione attraverso atti morali.
Il dualismo radicale: Dio e l'uomo sono radicalmente differenti.
Il primo uomo, Adamo, era mortale prima della Caduta.
Il concetto della religione come pratica di principi etici, per esempio la
convinzione che gli insegnamenti morali di Cristo, tipo il Sermone della
Montagna, devono essere praticati.
La convinzione che l'uomo è capace di sviluppare la volontà di seguire
Cristo e così ottenere la salvezza.
L'opposizione al misticismo, che richieda qualche speciale illuminazione per
conoscere la verità religiosa.
La convinzione che la ragione dell'uomo è sufficiente per capire e
interpretare le Scritture.
La posizione empirica che tutte le nostre conoscenze derivano
dall'esperienza dei sensi.
Il pensiero di S., fortemente razionale, accettava un solo Dio, mentre Gesù
Cristo era semplicemente un uomo crocefisso, il cui compito era di rivelare
Dio agli uomini, permettendo loro di raggiungere così la salvezza, seguendo
il Suo esempio. Per lui la Sacra Scrittura, redatta da uomini, non era
indenne da errori, e l'uomo doveva basarsi sulla propria etica per osservare
i comandamenti e non era quindi necessaria la grazia divina. Egli, inoltre,
negava l'esistenza dell'inferno, il peccato originale, la necessità dei
sacramenti, la predestinazione, e, rispetto ai Fratelli Polacchi, rifiutava
il secondo battesimo.


La fine del socinianesimo in Polonia
Pochi anni dopo, nel 1610, sotto il regno di Sigismondo Augusto III
(1587-1632), la potente organizzazione gesuita sbarcò in Polonia decretando
il rapido declino degli antitrinitariani (o unitariani) in Polonia: il 6
novembre 1611 fu bruciato sul rogo a Varsavia l'unitariano Jan Tyskiewicz,
un agiato cittadino di Bielsk, per essersi rifiutato di giurare sulla
Trinità e nel 1638 fu chiuso il seminario di Raków.
Il colpo finale per l'unitarismo in Polonia fu comunque, durante il regno di
Giovanni Casimiro (1648-1668), il bando di espulsione per tutti gli
unitariani polacchi, deciso nel 1658 e diventato esecutivo il 10 luglio
1660, che li costrinse o ad uniformarsi al cattolicesimo o ad emigrare in
altri paesi europei (in Olanda, dove la maggior parte si trasferì aderendo
alla Chiesa Arminiana dei rimostranti, in Germania, e in Transilvania, dove
però essi non aderirono alla Chiesa Unitariana Transilvana, ma formarono una
chiesa autonoma a Kolozsvàr estinguendosi nel 1793). Nel 1668 fu introdotta
la legge, che prevedeva la pena di morte per i cattolici battezzati, che si
fossero convertiti al protestantesimo.
L'ultima sacca di resistenza unitariana in Polonia si estinse nel 1811 e
solo nel 1921 furono riaccettate le congregazioni unitariane nella nazione
rinata dopo secoli di dominazione straniera. Ma la successiva occupazione
nazista nel 1939 e l'instaurazione del comunismo ha fatto sì che
l'unitarianismo polacco potesse incominciare a muovere nuovamente qualche
timido passo solamente dopo la caduta del muro di Berlino, negli anni '90
del XX secolo. L'attuale Chiesa unitariana in Polonia comprende solo qualche
centinaio di fedeli.
Per lo sviluppo del socinianesimo in altri paesi, vedi unitarianismo.


Renata di Francia, duchessa di Ferrara (1510-1575)



I primi anni
Figlia secondogenita di Luigi XII di Francia (1498-1515) e di Anna di
Bretagna, cognata-cugina di Francesco I di Francia (1515-1547), Renata
(Renée) nacque a Blois, in Francia, il 25 ottobre 1510. Rimasta orfana a
soli 5 anni, R. fu accolta alla corte del cognato Francesco I e della moglie
Claudia, sorella di R.
In quegli anni, si fece sentire in Francia l'attività riformatrice della
Chiesa cattolica locale da parte del vescovo Guillaume Briçonnet, del
riformatore Guillaume Farel , e del loro maestro Jacques Le Fèvre, attività
che, pur dall'interno della Chiesa e accettandone la gerarchia, ebbe
comunque applicazione pratica nell'esperimento, durato solo fino al 1546,
della chiesa riformata a Meaux.
Le Fèvre, il famoso umanista noto anche con il nome latinizzato di Jacobus
Faber Stapulensis,  autore nel 1512 del Commentari in epistoles Sancti
Pauli, nonostante le persecuzioni contro i riformati, rimase comunque
intoccabile sotto la protezione personale del re di Francia, Francesco I e
dell'influente sorella Margherita di Angoulême e divenne inoltre insegnante
di R., alla quale trasmise il concetto del primato della Sacra Scrittura
sugli insegnamenti della Chiesa, e della salvezza sola fide.
Dopo essere stata promessa in sposa, nell'ordine, al famoso condottiero
Gastone di Foix (1484-1512), a Carlo d'Austria (il futuro imperatore Carlo
V: 1519-1566), all'arciduca d'Austria Ferdinando I (1521-1564), ad Enrico
VIII d'Inghilterra ed al principe elettore Gioacchino II di Brandeburgo
(1535-1571), R. andò finalmente in sposa al futuro Duca Ercole II d'Este
(1543-1559) il 28 giugno 1528.


Renata a Ferrara
R. dunque, accompagnata dalla fedelissima governante Michelle de Saubise
anch'essa salda nella fede riformata, dovette lasciare, a malincuore, la
Francia per recarsi a Ferrara, dove iniziò a creare un punto di sicuro
riferimento per tutti i protestanti italiani dell'epoca. Infatti la duchessa
accolse e protesse molti perseguitati religiosi a corte, tra cui si
ricordano Ambrogio Cavalli, Giulio Della Rovere, Celio Secondo Curione,
Andrea Ghetti da Volterra, Fulvio Pellegrino Morato, Francesco Porto
(1511-1581), il prete anabattista Antonio Pagano, il poeta francese Clément
Marot (1496-1544), fino a Giovanni Calvino in persona, che nel 1536 si recò
a Ferrara, sotto lo pseudonimo di Carlo d'Espeville, dopo aver appena
pubblicato a Basilea l'opera base della sua dottrina, la Christianae
religionis institutio. R. inoltre aiutò diversi riformisti in difficoltà,
come nel 1542, quando fece uscire da prigione Camillo Renato.
Dal 1551 circa, o forse già da prima, R faceva celebrare regolarmente la
funzione religiosa protestante della Cena del Signore, alla quale partecipò
una volta Isabella Bresegna (moglie di don Garcia Manrique, governatore di
Piacenza), già in contatto con i circoli valdesiani  a Napoli, e convertita
successivamente alla Riforma.


Il caso di Fanino Fanini
Il casus belli tra R. ed il marito, sempre più spiazzato dalle prese di
posizione religiose della duchessa, scoppiò nel 1550, in occasione del
processo e della condanna del fornaio riformato di Faenza, Fanino Fanini. Il
processo si era concluso il 25 settembre 1549 con la condanna al rogo di
Fanini, tuttavia il duca fu notevolmente recalcitrante nel far eseguire la
sentenza, anche per una inusitata corsa alla solidarietà e ai tentativi di
far liberare il fornaio faentino da parte di illustri personaggi dell'epoca,
come il famoso capitano di ventura Camillo Orsini (1491-1559), la nuora
Lavinia Franciotti della Rovere Orsini e Olimpia Morato (figlia di Fulvio
Pellegrino): le ultime due, probabilmente sollecitate dalla duchessa,
cercarono di intercedere presso il duca nella primavera 1550 e visitarono il
prigioniero in carcere per portargli l'elemosina della duchessa.
Perfino R. in persona cercò di intervenire presso il marito, ma, dopo
l'elezione del nuovo papa, Giulio III (1550-1555) nel febbraio 1550, il duca
fu fatto oggetto di pressioni e ricatti da parte del famigerato inquisitore
cardinale Giovanni Pietro Carafa, poi Papa Paolo IV (1555-1559): Carafa
minacciò che se Ercole non avesse acconsentito all'esecuzione di Fanini (che
fu infatti giustiziato mediante impiccagione, seguita dal rogo, a Ferrara il
22 agosto 1550), l'Inquisitore Generale avrebbe aperto un procedimento
contro la duchessa stessa.


La conversione forzata di Renata
Tuttavia fu R. stessa, oramai ben radicata nel suo credo riformato, a
offrire il fianco alle critiche, quando, dopo 12 anni di esenzione dal
partecipare alla messa cattolica, nel marzo 1554 R. si oppose con fermezza a
che le figlie partecipassero alla celebrazione della Pasqua. Ercole II era
sempre più furibondo per questa ostinazione della moglie, oltretutto
amplificata dalle pressioni messe in atto dai Gesuiti, comandati dal rettore
del Collegio di Roma, Jean Pelletier, e si vide obbligato a far chiamare
dalla Francia il noto teologo, capo dell'Inquisizione francese e priore dei
domenicani, Matthieu Ory.
La contromossa di R. di chiamare il teologo riformato e pastore della Chiesa
calvinista di Parigi, François Morel, inviato da Calvino, esasperò
ulteriormente il duca, che nel settembre 1554 relegò la moglie nel palazzo
di San Francesco, che successivamente avrebbe preso il nome di Palazzo della
Duchessa, e minacciò di rinchiudere per sempre le figlie in convento, se R.
non avesse accettato di ubbidire ai precetti della Chiesa Cattolica. Obtorto
collo, R. dovette accettare, anche se l'ambasciatore di Firenze alla corte
estense osservò acutamente che la fede professata da R. era nella Chiesa
Cattolica, in senso lato, e non certo nella gerarchia romana.
Un ulteriore tentativo di Calvino di mandare Ambrogio Cavalli per contattare
la duchessa naufragò: Cavalli fu arrestato, processato e, due anni dopo,
impiccato e arso sul rogo a Roma il 15 giugno 1556.
Tuttavia Ercole II, non fidandosi totalmente della "conversione" della
moglie, la tenne segregata nel palazzo ducale fino alla sua (di lui) morte,
avvenuta nel 1559.


Il ritorno in Francia
Visto il perdurare dell'ostilità nei suoi confronti anche da parte del
figlio e nuovo duca Alfonso II (1559-1597), Renata lasciò Ferrara nel 1560
per trasferirsi nel suo castello di Montargis in Francia.
Durante il suo viaggio verso la Francia, R. si fermò a Savigliano il 7
ottobre 1560 per cercare di perorare, inutilmente, la causa dei valdesi
presso il duca di Savoia, Emanuele Filiberto (1559-1580).
Giunta a Montargis, R. continuò da qui a proteggere la causa calvinista,
accogliendo nel novembre 1567 i riformatori profughi lucchesi, come Michele
Burlamacchi e Pompeo Diodati.
Tuttavia, anche a Montargis, R. dovette subire angherie da parte delle
fazioni cattoliche francesi, e nel 1562 il suo castello fu perfino posto
sotto assedio da parte delle truppe di suo genero, Francesco, duca di Guisa
(1550-1563).
R. morì a Montargis il 13 giugno 1575.


Marpeck, Pilgram (ca. 1495-1556)



La vita
Pilgram Marpeck, nato nel 1495 ca. a Rattenberg, in Tirolo, da un'importante
famiglia del luogo, frequentò le scuole locali, diventando un valente
ingegnere minerario e, come imprenditore, si occupò del trasporto del rame
dalle miniere di Kitzbühel.
Nel 1525 M.divenne anche giudice delle miniere stesse, ma tre anni dopo, nel
Gennaio 1528, fu rimosso dall'incarico e in Aprile espulso dalla cittadina
con la moglie Anna e la famiglia. La decisione era probabilmente derivata
dalla benevolenza da lui mostrata come magistrato nei confronti dei minatori
anabattisti, nonostante la campagna di repressione del 1527-1528 lanciata da
Ferdinando d'Asburgo(1503-1564, futuro imperatore 1553-1564): del resto lo
stesso M. era stato convertito alla nuova dottrina dai predicatori Leonhard
Schiemer e Hans Schlaffer, ambedue decapitati all'inizio del 1528.
M. si recò quindi dapprima ad Augsburg (Augusta), e successivamente (Ottobre
1528) a Strasburgo, dove divenne un membro attivo della comunità
anabattista, ma anche una persona molto apprezzata per le sue doti
professionali.
Infatti M. svolse la professione di ingegnere dapprima a Steintal vicino a
Schirmeck, nell'Alsazia occidentale, poi a Strasburgo stessa, dove costruì
un sistema di opere fluviali, permettendo l'agevole trasporto del legname ed
un più razionale sfruttamento di questa fonte di ricchezza per la città.
Furono proprio questi meriti che crearono una certa iniziale tolleranza per
le attività religiose di M., tuttavia col passare dei mesi egli divenne
sempre più polemico e critico nei confronti delle autorità religiose della
città, ed in particolare del loro capo Martin Butzer (Bucero).
Un primo scontro si ebbe alla fine del 1531, quando Bucero fece arrestare M.
con l'accusa di opporsi al battesimo dei bambini, ma i buoni offici del più
tollerante riformatore Wolfgang Capito (1478-1541) permisero il suo
rilascio. Poco dopo fu M. stesso ad attaccare Bucero e a chiedere un
dibattito pubblico, rifiutato dalle autorità cittadine a favore di una
discussione privata svolta il 9 Dicembre 1531 davanti ai membri del
Consiglio.
La posizione di M., riassunta nel suo scritto Confessione di fede, fu
condannata dal Consiglio, che gli intimò di cambiare i suoi principi
religiosi o di lasciare la città. M. preferì la seconda versione e con la
famiglia se ne andò da Strasburgo nel Gennaio 1532, non senza aver tentato
di convincere inutilmente le autorità di cessare le persecuzioni nei
confronti degli anabattisti.
Tra il 1532 ed il 1544 M. vagò predicando nel cantone Grigioni, in Tirolo ed
in Moravia e solo alla fine del 1544 egli si stabilì definitivamente ad
Ausgburg (Augusta), dove dal Maggio 1545 venne impiegato dalle autorità
cittadine come ingegnere.
M. morì tranquillamente nel suo letto (cosa rara ai tempi per un
anabattista!) ad Augusta nel Dicembre 1556.


Il pensiero religioso
Il pensiero di M. fu fedele alla linea evangelica e missionaria
dell'anabattismo, ispirandosi all'opera di Hans Hut, e prendendo le distanze
sia dal millenarismo rivoluzionario di Melchior Hoffmann, la cui forma più
estrema sfociò nell'episodio di Münster del 1535, che dallo spiritualismo
esasperato di Caspar von Schwenckfeld.
Il valore dato da M. dal sacramento del battesimo era quello di un nuovo
patto o di un'accettazione del fedele nella comunità dei cristiani, previo
riconoscimento dei propri peccati.
Per quanto riguarda il ruolo pubblico dei cristiani, la polemica fu
scatenata anche dal sesto articolo di Schleitheim, scritto nel 1527 da
Michael Sattler, che era contrario al coinvolgimento dei cristiani in ruoli
ufficiali, come giudici o militari.
M. pensava invece che i veri cristiani potevano svolgere mansioni pubbliche
a patto di non agire in contraddizione con la legge dell'amore, altrimenti,
in caso di conflitto, essi dovevano preferire di comportarsi secondo le
leggi del Regno di Dio.


Penry, John (1559-1593)



Il congregazionalista John Penry nacque nel 1559 nella regione gallese del
Breconshire.
Il Galles in quel periodo era una zona molto depressa anche dal punto di
vista religioso: era per esempio fortemente carente di buoni predicatori, il
cui numero, secondo un'inchiesta avviata dal vescovo Meyrick di Bangor nel
1560, era perfino inferiore a quello delle concubine mantenute dal clero
locale! Inoltre, benché la traduzione della Bibbia in gallese fosse stata
già pronta nel 1563, si dovette attendere fino al 1588 che qualcuno si desse
la briga di darla alle stampe e distribuirla.
P., che aveva studiato sia a Cambridge (collegio Peterhouse) che ad Oxford
(collegio St. Alban's Hall), fu fortemente critico nei confronti delle
responsabilità della Chiesa Anglicana per questa penosa situazione in Galles
e nel 1587 scrisse Aequity of a humble supplication (giustizia di una umile
supplica), dove richiedeva l'aumento della presenza di predicatori di lingua
gallese in Galles, il ritorno in patria di quelli che si erano trasferiti in
Inghilterra, l'impiego di predicatori laici, la fine dell'assenteismo
clericale.
Tuttavia l'arcivescovo di Canterbury, John Whitgift (ca. 1530-1604), uomo
notoriamente non molto democratico, lo fece mettere sotto accusa e
imprigionare per un mese: il risultato fu che P. uscì da prigione più
anti-episcopale che mai.
Nel 1588-89 circolarono in Inghilterra dei trattati satirici (Marprelate
Tracts), dal contenuto violento e spesso scurrile, che mettevano alla
berlina l'episcopato inglese e Whitgift, come suo capo supremo,
soprannominato "Papa meschino" (petty pope). Erano di chiara ispirazione
puritana e l'autore si era nascosto sotto lo pseudonimo di Martin
Marprelate, ma molti indizi facevano pensare che l'ideatore fosse proprio
P., tant'è che quando venne arrestato lo stampatore dei trattati John
Hodgkins, P. pensò bene nel 1589 di riparare in Scozia.
Così come Robert Browne nel 1584, anche P. non si convertì al
presbiterianesimo scozzese, anzi tornato in Inghilterra, a Londra, nel
settembre 1592, entrò a far parte di una congregazione di separatisti o
indipendenti, il cui pastore era Francis Johnson (1562-1618), un puritano
presbiteriano convertito al congregazionalismo da Henry Barrow e John
Greenwood, mentre quest'ultimi erano in prigione.
Purtroppo per P. e Johnson, essi non poterono rimanere liberi per molto: in
dicembre 1592 Johnson e in marzo 1593 P. furono arrestati, ma mentre Johnson
se la cavò con quattro anni di galera, P., identificato dal vendicativo
Whitgift come uno dei responsabili dei Marprelate Tracts, fu condannato a
morte e impiccato il 29 maggio 1593.


Marsilio da Padova (ca.1270- ca.1342)



La vita
Marsilio da Padova, medico e teologo, nacque nel 1270 ca. a Padova, presso
la cui università egli studiò medicina, laureandosi, tuttavia, a Parigi e
come maestro nella facoltà delle arti. Dal 1313 M. divenne rettore della
stessa università francese.
Nel 1324 scrisse, assieme a Jean de Jandun, il celebre libro Defensor pacis,
una appassionata difesa della supremazia dell'Impero sulla Chiesa, la quale,
secondo gli autori, non doveva occuparsi di faccende secolari, come le
punizioni ed esecuzioni di eretici, ma soltanto di conversioni o punizioni
spirituali.
Questo libro mise nei guai i due autori presso Papa Giovanni XXII
(1316-1334), il cui concetto del potere papale era quanto di più distante si
potesse immaginare dalle tesi espresse nel Defensor pacis.
Infatti nel 1327 M. e Jean furono scomunicati dal papa (che li definì: duos
perditionis filios et maledictionis alumnos): tuttavia essi erano già
riusciti a fuggire nel 1326 presso l'imperatore Ludovico IV il Bavaro, e lo
seguirono nella sua calata in Italia del 1327. Vennero raggiunti a Pisa nel
1328 da altri due celebri perseguitati dal papa: il generale dei Francescani
Michele di Cesena e il famoso filosofo della Scuola Scolastica Guglielmo di
Ockham.
M. seguì l'imperatore al suo rientro a Monaco di Baviera, dove rimase fino
alla sua morte nel 1342 ca. Nell'anno della sua morte scrisse anche un
Defensor minor, riprendendo la polemica innescata dal primo libro.


Defensor pacis
Il famoso trattato di M. e Jean de Jandun propugnava l'idea di uno stato
laico moderno.
La facoltà di emettere leggi era nelle mani dei cittadini, che potevano
delegare i poteri esecutivi ad un persona, che li esercitava in nome del
bene comune.
Secondo un concetto molto congregazionista, la comunità dei cittadini,
inoltre, poteva nominare i parroci e controllare i preti nell'esercizio
delle loro funzioni.
La Chiesa, invece, non poteva avere alcun potere coercitivo e non doveva
avere un capo con più poteri di altri, come San Pietro non ne aveva avuti
più degli altri apostoli.
Il papa infatti non aveva nessun primato di origine divina e poteva avere
solo la facoltà di convocare un concilio ecumenico, ed attenersi alle
decisioni prese in questa sede.
Nelle relazioni tra il papa e l'imperatore, quest'ultimo, come delegato dai
cittadini, aveva il potere sul primo e sul concilio, mentre il papa non
l'aveva su nessuno, a meno che non fosse autorizzato dall'imperatore stesso.
In ultima istanza, il ruolo della Chiesa e del papa era l'annuncio del Regno
Celeste e dovevano dare il buon esempio, vivendo in povertà seguendo
l'esempio di Gesù e gli Apostoli.

Martinengo, famiglia (XVI secolo)



Prolifica e ramificata famiglia di nobili bresciani del XVI secolo aderenti
alla Riforma e protettori di pensatori ortodossi perseguitati, come Publio
Francesco Spinola che fu ospite della famiglia stessa nel 1560.
Di questa famiglia si ricordano:


1) Martinengo, Ulisse (ca. 1545-1570)
Il conte Ulisse Martinengo, nato a Brescia nel 1545 circa, quartogenito di
Alessandro Martinengo da Barco, signore di Urago (anch'egli interessato alle
dottrine protestanti), e di Laura Gavardo, era scappato per motivi di fede a
Ginevra, dove si era formato sotto la guida di Théodore di Bèze.
Successivamente frequentò la chiesa italiana di Anversa, in Belgio, finché
non emigrò in Valtellina con la madre vedova, Laura Gavardo, che aveva nel
frattempo aderito anch'essa al calvinismo.
In Valtellina, U. abitò in vari luoghi: a Chiavenna, Piuro, Sondrio, ma
soprattutto a Morbegno, dove divenne pastore protestante a fino alla sua
morte, sopravvenuta nel 1570: al suo posto subentrò Scipione Calandrini.


2) Martinengo, Massimiliano Celso (1515-1557)
Probabilmente il più famoso aderente bresciano alla Riforma fu il conte
Massimiliano Celso Martinengo (da alcune fonti erroneamente citato come
fratello di Ulisse), nato appunto a Brescia nel 1515 e diventato un canonico
regolare lateranense, con il nome di Don Celso, presso la chiesa di
Sant'Afra a Brescia.
Nel 1541 M. fu chiamato dal confratello Pier Martire Vermigli a Lucca per
insegnare greco al convento di San Frediano: i suoi colleghi furono Paolo
Lasize, insegnante di latino ed Emmanuele Tremellio (ca.1510-1580),
insegnante di ebraico. Poco dopo, essi furono raggiunti da Girolamo Zanchi,
che era stato nominato predicatore dell'ordine dei Canonici Regolari
Lateranensi: Zanchi, docente di teologia, diventò amico di M. e di Celio
Secondo Curione, precettore della famiglia lucchese Arnolfini.
Sia M. che Zanchi furono convertiti da Vermigli alla religione evangelica,
ma nel 1542 Vermigli fuggì a Ginevra per sottrarsi alle spire
dell'Inquisizione.
Partito il suo referente, M. fu nominato priore di San Frediano, dove rimase
per quasi dieci anni, riuscendo a mantenere un prudente atteggiamento
nicodemitico, fino al 1551, quando, accusato da Girolamo Muzio (1490-1576)
di aver predicato la giustificazione sola fide, decise anch'egli di seguire
le orme dell'antico maestro, prendendo cioè la via dell'esilio con
l'intenzione di recarsi in Inghilterra.
Dapprima si recò a Tirano, in Valtellina, dove però dovette assistere
impotente all'espulsione degli evangelici. In seguito M. andò a Ginevra: qui
si sposò con l'inglese Jane Stafford e accettò l'offerta di Calvino e di
Galeazzo Caracciolo di diventare il pastore della Chiesa degli Italiani in
esilio, punto di riferimento per i riformati italiani in fuga, come l'amico
Zanchi, che lo raggiunse nell'ottobre dello stesso 1551, o Ludovico Manna,
che fu suo catechista dal 1552.
A Ginevra M. rimase fino alla sua morte nel 1557, in seguito alla quale
venne sostituito da Lattanzio Ragnoni (1509-1559).
Dal punto di vista dogmatico, benché avesse avuto delle iniziali simpatie
per le idee anabattiste e antitrinitarie soprattutto durante il suo breve
periodo nella Valtellina, a Ginevra si conformò al credo riformista.
Tuttavia proprio quelle sue prime conoscenze gli permisero di inquadrare
personaggi, come Giorgio Biandrata e Lelio Sozzini, denunciando prontamente
le loro idee potenzialmente pericolose al suo protettore, il riformatore di
Zurigo Heinrich Bullinger.


3) Martinengo Cesaresco, Fortunato (attivo 1532-1547)
Il conte Fortunato Martinengo Cesaresco, che sposò nel 1542 la contessa
Livia d'Arco, fece parte del gruppo degli erasminiani, raccoltisi intorno ad
Aonio Paleario a Padova nel periodo 1532-1536.
Ebbe l'occasione inoltre di conoscere famosi riformati, come Pier Paolo
Vergerio in occasione di una visita nel dicembre 1545 a Brescia del vescovo
di Capodistria, che F. ospitò a casa sua, e Giulia Gonzaga nel 1547.
Di Fortunato è celebre un presunto ritratto eseguito da Moretto da Brescia
(ca. 1498-1554) nel 1542 e conservato alla National Gallery di Londra.


4) Martinengo, Lucillo (condannato 1569)
Il sacerdote benedettino Lucillo Martinengo, fratello (anche se le fonti di
araldica non confermano tale parentela) dei conti Claudio e Camillo
Martinengo, fu inquisito a Brescia nel 1568 come sospetto aderente alla
setta di Giorgio Siculo. Benché il tribunale dell'Inquisizione di Ferrara lo
condannasse per eresia, non poté comunque arrestarlo, perché Brescia era
sotto il governo della Repubblica di Venezia, che non ammetteva estradizioni
per simili motivi. Del caso si interessò perfino l'arcivescovo di Milano,
San Carlo Borromeo (1538-1584), che escogitò vari stratagemmi per assicurare
il prete eretico alla giustizia ecclesiastica.
Infine L. fu arrestato e processato nel convento di San Procolo a Bologna,
sebbene grazie all'influenza della propria famiglia e alle generose cauzioni
da essa versate, ottenne un trattamento di favore.
La sentenza fu quella del carcere perpetuo da scontare nel convento
benedettino di Cesena, ma dai documenti appare che già nel 1571 gli era
stata attenuata la pena.