|  
                     
                     
                      |  |   
                      |  |  
                           
                           
                            |  |   
                            | 
 |   
                            | ANTICHI POPOLI
                              DEL CENTRO ITALIA |   
                            | 
 |   
                            |  |   
                            | 
                                
                                  
                                    | 
                                      
                                      
| POPOLI DEL CENTRO
    ITALIA IN EPOCA PRE ROMANA |  
    | 
 
  
 ANTICHI ABITANTI DELLA SARDEGNA
 FENICI (Vedi pagine precedenti)
 SARDI
 Età  Pre-Nuragica
 La Cultura di 
Ozieri
 
 Intorno al 3500 a.C. si diffondono su tutto il territorio della 
Sardegna, nuovi valori culturali. Cambiano le abitudini dei sardi, il loro 
sentire si traduce in forme nuove ed originali.
 E' l'inizio del lungo cammino 
della Cultura di Ozieri, la prima grande cultura sarda.
 Gli scavi hanno 
restituito manufatti mai visti in Sardegna prima di quel periodo: vasi come la 
pisside e il tripode, finemente decorati con motivi incisi o impressi 
sull'argilla e spesso colorati con ocra rossa o pasta bianca. Sono manufatti 
esotici per la Sardegna del Neolitico, ma sono forme tipiche del Mediterraneo 
Orientale, delle isole Greche.
 L'origine della cultura di Ozieri è, infatti, 
orientale: queste somiglianze, questi segni culturali che si ritrovano in terre 
così lontane, dimostrano quanto frequenti dovessero essere le relazioni fra i 
popoli neolitici del Mediterraneo.
 Gli uomini della cultura di Ozieri 
vivevano nei villaggi: costruivano le loro case con un muro di pietra, alla 
base, sul quale poggiava una struttura di legno e di frasche. Ciò che rimane di 
questi antichi villaggi, le tracce delle capanne, è ancora visibile nelle 
località di San Gemiliano di Sestu, presso Cagliari e Cuccuru is Arrius, presso 
Cabras.
 La materia usata per fabbricare le punte di freccia, le lame e le 
accette era sempre la pietra, ossidiana, selce, ma gli uomini di Ozieri avevano 
imparato a lavorarla abilmente.
 Questa elevata perizia manuale, la 
raffinatezza e il gusto per la decorazione nei manufatti ceramici, ci descrivono 
comunità con un'organizzazione sociale già avanzata, nelle quali era presente 
una primitiva divisione del lavoro.
 Questi uomini che amavano gli oggetti 
raffinati e le decorazioni, hanno lasciato il segno più spettacolare della loro 
idea della vita nelle costruzioni destinate ad accogliere i morti.
 I loro 
sepolcri, disseminati un po' dovunque nell'isola, sono di tre tipi: i sepolcri 
ipogeici, quelli megalitici e le sepolture a circolo.
 Le sepolture
 Le 
domus de janas
 I sepolcri ipogeici, chiamati in sardo domus de janas ( It. 
case delle fate), sono più di mille, diffusi su tutto il territorio: si tratta 
di vere e proprie grotte artificiali scavate nella roccia, utilizzate come tombe 
collettive. Alcune hanno un unico semplice vano, altre hanno struttura complessa 
con più stanze collegate fra loro. Si trovano isolate, ma spesso sono riunite in 
necropoli come quella di S. Andrea Priu, nei dintorni di Bonorva (SS), di 
Anghelu Rujiu, presso Alghero (SS), di Pani Loriga, presso Santadi 
(CA).
 Sulle pareti interne di alcune domus de janas, gli uomini di Ozieri 
riprodussero, scolpendoli nella roccia, gli elementi architettonici delle loro 
case e gli oggetti quotidiani della loro vita: così ancora oggi sono visibili 
dettagli di tetti, barche, porte finte, banconi e letti, quasi a simboleggiare 
la profonda continuità tra la vita su questa terra e la vita oltre la morte. 
Talvolta, scolpite sulle pareti interne delle tombe, compaiono teste e corna 
taurine, oppure enigmatici cerchielli: sono i simboli del Dio Padre e della Dea 
Madre, i simboli dell'elemento maschile e di quello femminile, le due forze 
cosmiche generatrici di vita.
 I dolmen
 I sepolcri megalitici, chiamati 
dolmen (dal bretone tol=tavola + men=pietra), sono diffusi soprattutto nella 
zona centro settentrionale della Sardegna: si tratta di sepolture monumentali 
costituite da tre grosse pietre, o più, piantate verticalmente nel terreno che 
sorreggono un masso disposto orizzontalmente.
 I dolmen sono concentrati nelle 
campagne dei paesi di Arzachena, Olbia, Luras, tutti in provincia di Sassari, ma 
sono frequenti anche in altre zone: a Mores (SS) degno di nota è il dolmen "Sa 
Coveccada", molto ben conservato; a Dorgali è il dolmen di "Motorra" a pianta 
più allungata.
 I circoli
 Le tombe del tipo "a circolo" furono edificate 
solo in una ristretta area dell'isola, cioè nelle campagne di Arzachena (SS), in 
zona Li Muri..
 I "circoli" sono fatti in questo modo: un certo numero di 
pietre, fitte verticalmente nel terreno, delimitano un'area al centro della 
quale, in alcuni casi, ma non in tutti, sta una cassetta di pietra di forma 
quadrangolare.
 Secondo Giovanni Lilliu, il padre dell'archeologia sarda, il 
defunto era collocato all'interno del circolo perché le sue membra fossero 
scarnificate dall'azione degli agenti atmosferici; una volta scarnificate, le 
ossa del defunto erano deposte all'interno della cassetta collocata al centro 
del circolo.
 La presenza dei circoli nella sola area di Arzachena, aveva 
portato gli archeologi a ritenere che fossero espressione di un'altra cultura, 
diversa dalla Cultura di Ozieri, chiamata Cultura dei Circoli.
 Oggi gli 
archeologi ritengono che i circoli di Li Muri siano stati edificati da uomini di 
cultura Ozieri: non devono stupire le diversità locali all'interno di un unico 
contesto culturale anzi, sono un segno della complessità e della vitalità delle 
antiche società sarde.
 La religiosità
 
 Il ciclico alternarsi della 
vita e della morte, la nascita di una nuova vita come risultato dell'unione 
dell'elemento maschile e di quello femminile stavano alla radice della 
religiosità di quegli uomini.
 Infatti le divinità Dio-Padre e Dea-Madre erano 
diffusamente rappresentate, attraverso i simboli delle corna taurine e dei 
cerchielli, all'interno delle domus de janas, oppure, in maniera più evidente, 
attraverso i menhir (dal bretone men=pietra + hir=lungo, lett. pietra lunga).
 
 I menhir
 In sardo i menhir hanno il nome di "pedras fittas": sono 
grandi massi, alti fino a tre metri, piantati nel terreno; si trovano in diverse 
zone della Sardegna ma sono concentrati prevalentemente in Barbagia.
 La 
pietra di alcuni menhir non presenta alcun segno, nessun simbolo vi è scolpito: 
sono questi le icone del fallo maschile, uno dei due principi cosmici ; su altri 
invece gli uomini di Ozieri scolpirono i segni espliciti della Dea-Madre, le 
mammelle, simbolo femminile di fecondità e di vita.
 A Li Muri un menhir 
"femminile" con tre concavità mammellari marca, isolato, il complesso, a 
custodia dei defunti.
 A Goni (CA) nella zona di Pranu Mutteddu i menhir 
allineati in lunghe file sono inseriti in un'area ricca di Domus de Janas e di 
vestigia del Neolitico.
 Isolati o in gruppo questi rozzi monoliti sembra che 
abbiano inchiodato, alla madre-terra Sardegna, il tempo arcaico nel quale furono 
eretti.
 Gli uomini di Ozieri adoravano la Dea Madre, come i loro 
predecessori neolitici. La rappresentarono attraverso statuine di marmo e di 
argilla: le forme lineari e geometriche, rimandano alle piccole statuine delle 
isole egee, testimoniando, ancora una volta, la vicinanza culturale fra 
l'Oriente e l'Occidente del Mediterraneo.
 
 Verso il 2700 a.C. muta il 
clima socio culturale in Sardegna. Nel periodo finale della Cultura di Ozieri 
già sono evidenti i segni di questo mutamento: uomini che per secoli avevano 
decorato le loro ceramiche, perdono il gusto per l'ornato e dai loro vasi 
scompaiono le decorazioni.
 Le Culture di Abealzu e Filigosa
 
 Le 
vicende culturali dell'Eneolitico antico (2700-2500 a.C.) non sono del tutto 
definite. Due culture però, si sviluppano e lasciano un segno evidente nella 
Sardegna di quel periodo: la Cultura di Filigosa, dal nome di un località presso 
Osilo(SS) e la Cultura di Abealzu, dal nome di una località presso Macomer. La 
differenza principale fra le due Culture sta nella decorazione dalla ceramica: i 
vasi di Abealzu non presentano decorazioni a impressione o a graffiti ma solo 
semplici bozze mammellari; i vasi di Filigosa invece presentano semplici 
decorazioni sia a motivi impressi sia a graffiti.
 In questo periodo si 
intensifica la produzione di oggetti in metallo, iniziata nella fase finale del 
neolitico.
 
 Il tempio di Monte d'Accoddi
 Nel contesto delle Culture 
di Abealzu e Filigosa gli archeologi inseriscono un importante monumento di 
architettura megalitica, unico nel mondo occidentale: il tempio a terrazze di 
Monte d'Accoddi, nei dintorni di Sassari.
 E' una collina artificiale a pianta 
quadrangolare alta circa dieci metri, simile alle ziqqurath mesopotamiche: era 
probabilmente un tempio dedicato a una divinità celeste, forse al sole. 
Probabilmente, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi, i riti sacri si 
svolgevano alla sommità della costruzione, alla quale si accedeva tramite una 
rampa; di fianco alla rampa stava, ma è ben visibile ancora oggi, un grande 
altare sacrificale di pietra calcarea.
 
 Le statue-menhir
 Un'altra 
spettacolare espressione delle culture eneolitiche sono le statue-menhir 
ritrovate a Laconi(NU).
 Non sono semplici menhir: sulla pietra furono 
scolpite, spade, corna taurine, occhi; non rappresentano la divinità, ma più 
probabilmente gli eroi, i guerrieri mitici di quelle popolazioni.
 E in questo 
modo si celebrava il ricordo della loro vita leggendaria e della loro natura 
sopranaturale.
 
 La Cultura di Monte Claro
 Al 2500 a.C. risalgono i 
primi reperti che testimoniano la nascita di un'altra Cultura preistorica sarda, 
la Cultura di Monte Claro, dal nome di un colle della città di Cagliari.
 I 
vasi prodotti dagli uomini di Monte Claro hanno forma cilindrica, grandi 
dimensioni e sono decorati seppur semplicemente.
 In questo periodo vengono 
innalzate per la prima volta in Sardegna alcune muraglie megalitiche ancora oggi 
visibili, per esempio a Monte Baranta, presso Olmedo.
 Queste costruzioni 
testimonierebbero un clima di insicurezza; gli uomini della Cultura di Monte 
Claro sentivano evidentemente l'esigenza di difendersi forse da un nemico 
esterno o forse le tribù sarde entrarono per qualche motivo in conflitto fra 
loro.
 
 La Cultura del vaso campaniforme
 Verso il 2000 a.C. la 
Sardegna venne interessata dalla corrente culturale campaniforme che ebbe ampia 
diffusione in tutta l'Europa centro-occidentale.
 Lo capiamo perché anche in 
Sardegna inizia a essere fabbricato il tipico bicchiere di ceramica, con forma a 
campana che dà il nome alla cultura.
 I Protosardi continuano anche in queste 
fasi ad utilizzare le necropoli a domus de janas per le loro sepolture.
 Gli 
uomini della Cultura del vaso campaniforme erano bellicosi come testimoniano i 
caratteristici brassard ( bracciali da arciere ) ritrovati nelle tombe insieme 
alle caratteristiche collane di conchiglie.
 
 La Cultura di 
Bonnannaro
 Nel Bronzo antico (1800-1600 a.C.) nasce e si diffonde in Sardegna 
la cultura di Bonnannaro.
 I Bonnannaro sono i precursori dei nuragici, 
soprattutto nell'indole, aspra, più votata alla guerra che alla celebrazione 
della vita: le loro ceramiche, di varia foggia, sono del tutto inornate e sia 
l'impasto che le forme sono di scarsa fattura. Continua sporadicamente l'uso del 
brassard e delle collane di conchiglie sono molto rari invece gli elementi in 
metallo, anche se è stato ritrovato un ricco corredo di armi in una domus de 
janas.
 La cultura di Bonnannaro segna gli albori dell'era del Bronzo, l'era 
del popolo dei nuraghi che lascerà nell'isola l'impronta più profonda.
 Età  
Nuragica
 
 Intorno al 1600 a.C. iniziò il lungo cammino del Popolo dei 
Nuraghi.
 La Civiltà Nuragica nacque dall'incontro di genti mediterranee di 
culture diverse, sul suolo del piccolo continente sardo. Nacque in Sardegna e 
non in altro luogo e fu la Sardegna a dare una forma così inconfondibile alla 
fusione di quelle culture.
 In quel periodo una serie di mutamenti provocò 
una profonda trasformazione nelle comunità sarde, che passarono da un modo di 
vivere relativamente pacifico ad uno stile di vita molto più bellicoso. Il rame, 
fino a quel momento poco usato in Sardegna, iniziò a circolare con maggior 
frequenza e gli scavi ci restituiscono una quantità di oggetti metallici di 
natura chiaramente guerriera, come pugnali e punte di freccia.
 Il 
cambiamento fu profondo e investì molti aspetti della vita di quegli uomini: per 
questo gli archeologi hanno ipotizzato l'arrivo nell'isola di una nuova ondata 
di abitanti (probabilmente attratti dalle risorse minerarie dell'isola), i quali 
avrebbero portato nuovi modelli di vita e competenze tecniche. Anche il tipo 
fisico dei sardi subì diversi cambiamenti: numerosi resti ossei di quel periodo 
indicano la presenza di individui dalle caratteristiche somatiche di tipo più 
marcatamente indoeuropeo, mentre i resti ossei più antichi disegnano uomini di 
ceppo euroafricano.
 Muta il tipo di abitazione: vengono costruiti i primi 
edifici fortificati, i protonuraghi. Due esempi significativi di protonuraghe 
sono la capanna circolare di Sa Korona di Villagreca nel Campidano di Cagliari e 
la capanna di forma allungata di Brunku Madugui, nella zona di Gesturi 
(CA).
 
 Il nuraghe
 I primi veri nuraghi vengono costruiti intorno al 
1500 a.C.
 La parola nuraghe deriva da un'antica radice "nur" che significa 
mucchio cavo.
 
 I nuraghi sono torri tronco-coniche di pietra a base 
circolare costruite sovrapponendo grandi massi fra loro. L'interno della torre 
ha una struttura a tholos: la tholos, o falsa cupola, veniva edificata 
sovrapponendo file circolari di massi le une sulle altre, con i massi di una 
fila sporgenti leggermente verso l'interno rispetto a quelli della fila 
sottostante.
 I nuraghi stanno in piedi, alcuni da 3500 anni, grazie a una ben 
calibrata distribuzione di pesi, senza che vi sia traccia di materiale 
cementante.
 Tra i circa 7000 nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte 
sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico 
grande vano interno, alcune nicchie scavate nell'intercapedine e una scala, 
anche lei scavata nell'intercape-
 dine, che porta alla sommità della torre.
 Ci sono anche molti nuraghi più complessi formati da più torri
 raccordate 
a una torre centrale; hanno molte stanze, possono avere più di un piano e poi 
corridoi, scale e camminamenti coperti: sono le fortezze nuragiche, di arcaica 
bellezza e maestosa complessità come il nuraghe Losa presso Abbasanta (NU), il 
nuraghe Santu Antine di Torralba (SS) e il complesso Su Nuraxi di Barumini (CA) 
dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
 Praticamente tutti i nuraghi 
sono collocati o sulla sommità di una collina o ai margini di un altopiano, 
comunque in una posizione di dominio rispetto al territorio circostante. Questo 
elemento, insieme al carattere di fortezza, indica che il nuraghe era una 
costruzione fortificata a scopo di difesa.
 La società
 I nuragici avevano 
un'unità etnico culturale molto forte, però erano organizzati in tribù e le 
tribù in clan. Erano pastori erranti, anche agricoltori, ma soprattutto pastori: 
le società pastorali sono storicamente guerriere, portate allo scontro e alla 
divisione più che all'unione perché il pastore ha sempre bisogno di pascoli 
liberi per i suoi armenti e per procurarseli entra in conflitto con i suoi 
vicini. Così non dovevano essere rari gli scontri fra le diverse tribù, o 
persino fra clan.
 Un popolo di pastori dunque, organizzati in piccole 
comunità fortemente gerarchizzate, a capo delle quali stava un re-pastore, un 
capo tribù che deteneva i massimi poteri religiosi, politici e militari.
 
 I villaggi
 Il re-pastore viveva nel nuraghe, la sacra dimora 
fortezza e intorno al nuraghe sorgeva il villaggio. Le abitazioni dei sudditi 
non erano nuraghi bensì capanne a pianta circolare con alla base un muro in 
pietra a secco e una copertura a cono di legno e frasche o in pietra. Ancora 
oggi, anche se sempre di meno, i pastori costruiscono questo tipo di capanne; in 
sardo si chiamano pinnettas.
 L'esempio più eloquente di come doveva essere 
un villaggio nuragico è visibile a Barumini (CA) dove intorno alla maestosa 
reggia nuragica si sviluppa un complesso agglomerato di capanne, recinti e 
costruzioni di vario tipo.
 Queste comunità, clan e tribù, spesso in 
conflitto o comunque divise erano pur sempre unite dal medesimo sentire 
culturale, morale, religioso.
 C'erano occasioni nelle quali la profonda 
unità spirituale
 diventava anche unità politica: i santuari nuragici sono il 
segno di questa unità.
 Età  Nuragica - Religione
 I santuari
 I 
santuari, realizzati fra il 1300 a.C. e il 900 a.C., sono complessi comprendenti 
costruzioni di diverso tipo, destinate a scopi diversi: templi sacri, grandi 
rotonde per le assemblee politiche, ampli spazi recintati per gli affari e le 
contrattazioni, capanne per gli artigiani e capanne per il riposo dei convenuti. 
Tutto questo fa pensare che nei santuari si svolgessero grandi adunate nelle 
quali diverse tribù si ritrovavano insieme in occasione di eventi 
religiosi.
 Presso i santuari nuragici è usuale, oggigiorno, che ci siano 
chiese campestri, nei pressi delle quali, in occasione di feste religiose 
cattoliche, si svolgono fiere: allora, accanto ai pellegrini si trovano i 
mercanti, i venditori di bestiame, gli artigiani e un numero di venditori di 
leccornie di ogni genere; non mancano i "cantadores" e i suonatori di launeddas 
(un tipico strumento sardo) o di organetto.
 Questo accade oggi, ma non 
sembra azzardato immaginare che qualcosa di simile dovessero essere le grandi 
adunate nuragiche.
 
 I templi a pozzo
 La costruzione più importante 
del santuario era il tempio a pozzo dove si svolgevano le cerimonie legate al 
culto delle acque. I nuragici, infatti, avevano una religiosità di tipo 
naturalistico fondata sull'adorazione degli elementi della Natura, considerati 
come contenenti lo spirito divino: erano oggetto di culto le pietre, gli alberi 
e particolarmente radicato era il culto dell'acqua, piovana o sorgiva, 
considerata preziosa in una terra arida come la Sardegna.
 I templi a pozzo 
hanno una struttura composta di tre parti essenziali: il vano di ingresso, al 
livello del suolo, la scala che scende nel terreno e il vano interrato, con la 
volta a falsa cupola. Sul fondo del vano interrato, ai piedi della scala c'è la 
fonte sacra. In superficie un recinto di pietre delimita l'area sacra.
 In 
Sardegna esistono circa 40 templi a pozzo: notevoli sono quello del santuario di 
Sta. Vittoria di Serri (CA), quello del santuario di Sta. Cristina di 
Paulilatino (OR) e il pozzo sacro Su Tempiesu presso Orune (NU), che si discosta 
un po' dalla struttura classica.
 I tempietti a pianta rettangolare scoperti 
a Serra Orrios, preso Dorgali (NU), a Sos Nurattolos, presso Alà Dei Sardi (SS), 
a Cuccureddì, presso Esterzili (NU) erano sicuramente luoghi di culto, ma non 
conosciamo la divinità che vi si adorava.
 Un altro tipo di culto era quello 
in grotta: nella grotta di Su Benatzu a Santadi (CA), dove sono stati ritrovati 
numerosi ex-voto, una stalagmite fungeva da altare e poco lontano c'era il 
focolare sacrificale; probabilmente si venerava una divinità sotterranea.
 La 
Dea Madre e il Dio Toro. Oltre al culto delle acque i nuragici continuarono a 
praticare il culto della Dea Madre e del Dio Toro, potente coppia divina già 
oggetto di adorazione in età prenuragica.
 Il Dio Toro e la Dea Madre, simboli 
di fecondità, rappresentavano per i nuragici l'essenza del divenire del loro 
universo, le due forze che unendosi generano la vita.
 
 Il Culto dei 
Morti
 Le tombe dei giganti
 Il culto dei morti era essenzialmente fondato 
sulla coppia divina Dea Madre-Dio Toro e a questo sentire il popolo dei nuraghi 
diede forma nelle arcaiche e solenni architetture delle tombe monumentali: le 
tombe dei giganti.
 Questo è il nome che in Sardegna hanno i sepolcri 
collettivi monumentali del periodo nuragico e nasce dalla credenza che tombe 
tanto grandi potessero servire solo a tumulare uomini giganteschi.
 La tomba 
dei giganti ha una facciata semicircolare a forma di corna taurine, costituita 
da lastroni di pietra affiancati e confitti verticalmente nel terreno, oppure da 
un muro di grossi massi. Al centro della facciata semicircolare c'è una grande 
stele monolitica che reca, in basso, una porticina d'accesso alla tomba.
 Lungo il semicerchio, all'esterno, ci sono alcuni sedili in pietra sui quali 
dormivano i parenti dei sepolti per comunicare con i loro cari attraverso i 
sogni: era questa la pratica dell'incubazione (dal latino incubo = dormo).
 Tra le tombe dei giganti meglio conservate ricordiamo quella colossale di Li 
Muri (nella fotografia), presso Arzachena (SS) e quella di Is Concias, presso 
Quartucciu (CA).
 I nuragici comunque continuarono anche ad usare gli antichi 
tipi di sepolture come le domus de janas o le tombe a corridoio tra le quali 
degna di nota è quella di Sa Corte Noa, presso Laconi (NU).
 
 
 I 
betili
 Spesso di fronte alla facciata della tomba dei giganti è presente un 
piccolo menhir, chiamato in sardo betile. I betili, simboli fallici di 
fertilità, sono simili a piccoli coni di pietra sui quali talvolta sono scolpite 
piccole mammelle oppure due occhi: i betili mammellati simboleggiano la 
copulazione della divinità maschile e di quella femminile per riaccendere la 
vita ormai spenta nei defunti; i betili con occhi rappresentano invece una 
divinità a guardia dei defunti.
 Età  Nuragica - Architettura
 In epoca 
nuragica, alla fine del Bronzo antico (1800 a.C.) compaiono i primi protonuraghi 
(o pseudonuraghi): sono strutture rozze e basse con un profilo che varia dal 
rotondo all'ellittico al rettangolare. L'interno, al piano terra, presenta uno o 
più corridoi; ai lati del orridoio si aprono alcune cellette e partono scale in 
muratura, a zig-zag, che portano al piano unico superiore dove spesso stanno i 
vani di dimora, rotondi o quadrangolari, col tetto di legno e frasche.
 I due 
esempi più celebri di questa architettura sono la capanna circolare di Sa Korona 
di Villagreca (CA), e la capanna di forma allungata di Brunku Madugui, presso 
Gesturi (CA).
 I nuraghi monotorre
 Durante il Bronzo Medio (1600 a.C.) si 
cominciano a costruire i primi veri nuraghi, monumenti che adornano le pianure e 
le sommità di tutta l'isola e costituiscono quasi il simbolo stesso della 
Sardegna.
 La parola nuraghe deriva da un'antica radice nur che vuol dire 
mucchio o cavità I nuraghi sono edifici di pietra realizzati sovrapponendo 
grandi massi, appena sbozzati, senza usare alcun fissante.
 Il modulo base del 
nuraghe è la torre tronco-conica.
 La torre ha una pianta circolare e un 
profilo che va restringendosi verso l'alto. Lo spazio interno è articolato, nel 
caso più semplice, un monovano che presenta una volta a tholos, un tipo di 
copertura simile alla cupola, noto anche ad altri popoli del Mediterraneo come i 
Micenei.
 Ricavati nella parete del vano interno sono alcuni nicchioni di 
varia forma e profondità.
 La torre è provvista anche di una scala a 
chiocciola che porta al terrazzo posto sulla sommità dell'edificio. Esistono 
anche torri con più camere collocate su piani sovrapposti.
 Questo appena 
descritto è il tipo più semplice di nuraghe, ovvero il nuraghe monotorre che è 
anche quello più frequente in Sardegna.
 Le fortezze nuragiche
 Nel Bronzo 
Recente e Finale (1300 a.C.) la forma base del nuraghe si evolve raggiungendo 
elevati livelli di complessità e imponenza: vengono costruite le fortezze 
nuragiche.
 A molte torri singole di grandi dimensioni si addossano, 
fasciandole e rinforzandole, altre torri minori in vario numero (sino a sette), 
secondo schemi architettonici colossali. Il risultato è un nuraghe polilobato, 
nel quale le strutture unite tra loro da cortine in muratura, formano una massa 
dominata al centro dalla torre maggiore (il mastio). In questo caso il nuraghe 
assume la fisionomia di una vera e propria fortezza attorno alla quale si 
sviluppa il villaggio.
 Gli esempi più noti sono quelli dello splendido 
complesso monumentale di Barumini (CA), il complesso di Genna Maria a 
Villanovaforru (CA) e quello di Santu Antine a Torralba (SS), che con i suoi 17 
m di altezza (in origine erano circa 22) è la più alta costruzione preistorica 
del Mediterraneo, escludendo i monumenti egiziani.
 La Storia
 La Sardegna 
ebbe un grandissimo sviluppo nel Neolitico, con la nascita di numerosi villaggi.
 Gli archeologi indicano, come nascita della civiltà nuragica, un periodo tra 
il 1800 ed il 1200 a.C.  Sono secoli in buona parte indecifrabili in mancanza di 
una scrittura, durante i quali i sardi si presentano come pastori nomadi e 
bellicosi. Per quanto riguarda il significato del nome dei nuraghi è 
probabilmente mucchio di pietre, che si riferisce alla struttura della 
costruzione a tronco di cono, oppure caverna nel senso di sala buia e chiusa. 
Essi avevano la funzione di torre e servivano per celebrare riti sacri.
 Nell'isola i nuraghi sono circa settemila, di cui circa cinquecento in buono 
stato di conservazione. Il più celebre è quello di Barumini, vicino a Cagliari, 
una reggia nuragica circondata da uno sterminato villaggio. Il più grande è il 
nuraghe Losa, vicino ad Abbasanta, al centro dell'isola.
 Si conosce poco di 
questa civiltà. Si sa che non conobbero un grande sviluppo sociale e subirono le 
influenze greche e fenicie. In particolare svolgevano le funzioni di 
trasportatori delle merci altrui. Erano comunque conosciuti in tutto il mondo 
classico.
 Con l'arrivo dei punici in Sardegna si ebbe la fine progressiva 
della civiltà nuragica, lasciando importanti segni della loro presenza, durata 
per quattro secoli. A Cagliari, capoluogo storico dell'isola, la necropoli di 
Tuvixeddu è la più importante del Mediterraneo. Ancora il Tempio di Anta-Sardus 
Pater, sulla strada che da Iglesias conduce a Fluminimaggiore e l'imponente 
necropoli di monte Sirai nel Sulcis, del popolo di Cartagine restano tracce 
anche a Nora.
 I Focesi, a loro volta, fondarono Olbia, ma la loro 
penetrazione in S. si arrestò dopo la battaglia combattuta nelle acque di Alalia 
(535 a. C.) contro Etruschi e Cartaginesi i quali, anche se sconfitti, 
riuscirono ad affermarsi nell'isola, specialmente i primi che estesero 
gradualmente la loro penetrazione. La stessa Roma rinunciò a commerciare 
nell'isola in base a un trattato stipulato con Cartagine nel 348 a. C.; tuttavia 
scoppiarono frequenti le rivolte degli indigeni sardi insofferenti della 
dominazione straniera. Nel 238 a. C., indebolitasi Cartagine per la sconfitta 
subita nella I guerra punica, Roma approfittò di una rivolta dei mercenari 
cartaginesi in Sardegna e occupò l'isola strappandola agli avversari. Da questo 
momento la Sardegna divenne una delle maggiori riserve di grano dello Stato 
romano. Nel 226 a. C. essa fu eretta a provincia insieme alla Corsica. I Romani 
continuarono a lungo a trattarla come una terra di conquista senza concederle, 
per tutta l'età repubblicana, nessuna città libera: numerose furono perciò le 
rivolte degli indigeni sardi e degli immigrati punici, tra cui particolarmente 
violente quella organizzata dal latifondista cartaginese Amsicora (216 a. C.) e 
quella del 178 a. C. che fu domata da Sempronio Gracco con riduzione in 
schiavitù di decine di migliaia di uomini riversati nelle campagne d'Italia. 
Alla fine del sec. II a. C. le sommosse ebbero fine, ma la resistenza a Roma 
continuò a manifestarsi nell'interno attraverso il brigantaggio. Cesare concesse 
a Cagliari (Kalaris) i diritti civili romani mentre Turris Libissonis (Porto 
Torres), Sulci e Tharros divennero colonie. Durante l'Impero la Sardegna fu 
separata dalla Corsica e amministrata come provincia imperiale: essa andò 
lentamente romanizzandosi, pur conservando caratteristiche sue proprie e, più 
tardi, altrettanto lentamente si cristianizzò.
 A Cagliari è rimasto un 
grande anfiteatro, usato ancora oggi per spettacoli e concerti, la celebre villa 
di Tigellino , al centro della città, e la grotta della vipera, ultima dimora di 
Atilia Pomptilla, che sacrificò la propria vita chiedendo agli dei di morire al 
posto del marito Cassio gravemente ammalato. Quando guarì grazie al sacrificio 
della consorte, Cassio fece edificare la tomba monumentale, ornata da due 
serpenti scolpiti sul frontone, vicino all'iscrizione dedicatoria.
 Cagliari è 
certamente il più ricco di memorie dell'epoca romana, ma la dominazione romana 
ha lasciato la sua impronta anche nella provincia di Oristano, dove troviamo le 
imponenti rovine di Tharros, città romana nata su basi puniche, e le terme di 
Traiano a Fordongianus . Anche a Porto Torres i resti romani sono numerosi e ben 
conservati. Sulla spiaggia di Santa Teresa, nella parte settentrionale della 
Gallura, sono visibili colonne romane che scivolarono sulla sabbia al momento 
del carico alla volta della capitale dell'impero.
 AUSONI 
(LAZIO)
 Popolazione di origine indoeuropea che viveva di pastorizia e di 
agricoltura. La leggenda tramanda una loro origine imparentata con gli Enotri, 
in particolare come risultato di una migrazione diretta verso il centro della 
penisola, condotta da re Ausonio . Abitavano la regione del basso Lazio e 
dividevano il loro territorio con gli Aurunci,con cui avevano le stesse origini.
 In particolare possiamo dire che la popolazione degli Ausoni è costituita da 
Aurunci abitanti dell' antica città preromana di Ausona, l'attuale città di 
Ausonia.
 
 Ausona faceva parte insieme a  Minturnae, Sinuessa, Suessa e 
Vescia, della cosiddetta "pentapoli aurunca", fulcro della confederazione degli 
Aurunci, popolo di stirpe italica di ipotizzata origine tirrenica.
 Intorno al 
IV secolo a.C. tale popolo entrò in contatto con i Romani schierandosi 
apertamente contro di essi e alleandosi con i Sanniti . Tale alleanza risultò 
fatale: le città della pentapoli vennero annientate con estrema ferocia, a tal 
punto che due di esse (Vescia e Ausona)  sono sopravvissute solo nel ricordo 
onomastico, mentre delle altre non si hanno che esigue notizie riguardanti la 
loro ubicazione. Per quanto riguarda Ausona, il desiderio degli storici di 
individuarne il sito originario è rimasto purtroppo insoddisfatto, a tal punto 
che si è messa addirittura in dubbio la reale esistenza di questa 
città.
 ERNICI
 Le loro origini sono avvolte nel mistero come quelle degli 
Etruschi poiché della loro lingua conosciamo soltanto due parole: 'buttuti' e 
'samentum'. I "buttuti" erano cantilene femminili usate durante i riti 
religiosi, il samentum era un brano di pelle di una vittima sacrificale 
indossata dal sacerdote.
 Il poeta Virgilio racconta che gli Ernici erano 
bravissimi a lanciare frecce, che andavano in guerra con il piede sinistro nudo 
e il destro coperto da un calzare chiamato "pero" e che erano tiratori 
infallibili, miravano e colpivano con precisione i bersagli, lanciando le frecce 
con il piede destro avanti e il sinistro dietro. Alcuni storici sostengono che 
provenissero dalle lontane terre dell'Asia minore, altri invece, ritengono che 
appartenessero alla grande famiglia delle popolazioni Osco-Sabelliche, fra le 
quali c'erano i Sabini, i Marsi ed altri popoli italici, tanto che lo stesso 
Festo afferma che il nome "Ernici" derivi dalla parola Herne che i Marsi usavano 
per indicare i sassi. Fra le poche notizie che gli antichi ci tramandarono 
attorno al popolo ernico vi è quella dataci da Ovidio secondo la quale presso di 
loro il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per gli ernici l'anno 
cominciava nel mese di ottobre, come per gli Spartani e per i Fenici. Tale 
affermazione avvalora la tesi dei sostenitori dell'origine semitica di molti 
popoli italiani, fra cui quello ernico. Per quanto riguarda la città di Anagni, 
spiega che Ananés in greco significa Re, pertanto Anagni doveva essere, con ogni 
probabilità, l'insediamento più importante degli Ernici. Un altro scrittore,  
sostiene che il nome "Anagnia" derivi da quello della tribù ernica Annia, che 
erercitava, rispetto alle altre, un ruolo predominante da un punto di vista 
culturale, religioso ed economico.
 Nell'età del ferro (VII secolo) andò 
ultimandosi sui monti Lepini lo stanziamento delle popolazioni del nord. Queste 
genti forti e bellicose sono note con il nome di Ernici, che in lingua sabina 
sta a significare: roccia, rupe. Verso la fine del VI secolo Alatri costituiva 
la Lega Ernica (insieme a Veroli, Ferentino e Anagni) e la sua roccaforte 
assunse un ruolo strategico fondamentale per contrastare la poderosa pressione 
dei Volsci e dei Sanniti verso nord.
 Constatata la pericolosità dei nemici 
comuni gli Ernici intorno al 485 a.C. strinsero con i Romani un'alleanza, che 
tra un tradimento e l'altro, durò cento anni. Gli Ernici in coalizione con i 
Volsci e i Latini approfittandosi della vulnerabilità di Roma impegnata a 
combattere contro gli Etruschi nel 386 a.C. gli rivoltarono contro i propri 
eserciti, ma l'impresa fu vana. Battuti si ritirarono pacificamente sulle loro 
montagne fino a quando i Romani non decisero di sottometterli definitivamente. 
Sconfitti nel 361 e persa Ferentino, scesero a patti con i vincitori, aiutandoli 
a combattere i Latini e a tenere a bada i Sanniti. Temendo per la loro 
indipendenza le città Erniche nel 306 ripresero le armi contro Roma, questa 
volta furono duramente punite: Anagni venne conquistata e costretta a subire 
senza condizioni la cittadinanza Romana (perché ritenuta la vera responsabile 
della ribellione). Alatri venne sollecitata ad accettare un compromesso che le 
avrebbe garantito la libera cittadinanza.
 Furono uno dei primi esempi di 
sterminio di massa. Furono spesso in rivolta con i Romani e parteciparono con 
forze alle guerre civile e sociale, uscendone sconfitti.
 LE GUERRE DEGLI 
ERNICI
 
 Abbiamo pochi documenti sulle prime guerre combattute dagli Ernici 
contro gli Equi, i Volsci, i Marzi e i Latini. Sappiamo, però, che all'epoca dei 
re di Roma, gli Anagnini e gli Ernici si allearono con i Romani e i Tuscolani, 
nella guerra combattuta da Roma contro Veio, al tempo del re Tullio Ostilio nel 
672 a.C. Festo, secondo notizie dateci da Varrone, racconta che il colle Oppio e 
il colle Cispio che si trovano sull'Esquilino furono chiamati così perché 
durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu 
difeso dal condottiero omonimo che capeggiava i Tuscolani e il colle Cispio fu 
difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini. Questa notizia 
non è riportata da altri storici, ma, anche qualora non fosse vera, serve a 
dimostrarci che nella tradizione c'erano rapporti di amicizia tra Ernici e 
Romani.
 Ritroviamo notizie più attendibili nei racconti di Dionisio che ci 
parla degli Ernici ai tempi di Tarquinio il Superbo (530 a.C.). Tarquinio il 
Superbo, diventato re, per estendere la potenza di Roma nel Lazio strinse 
alleanza con 47 città, sedici delle quali erano erniche. Per tenere unita questa 
alleanza, istituì delle feste religiose chiamate: "ferie latine" che si tenevano 
ogni anno sul monte Albano nel tempio di Giove Laziale (monte Cave). Quando 
Tarquinio il Superbo nel 508 a.C. dopo 22 anni di regno fu cacciato da Roma e fu 
accolto dal re degli etruschi Porsenna, chiese aiuto agli ernici perché lo 
riportassero sul trono, ma anche i romani chiesero agli ernici di mantenere fede 
all'alleanza Questi ultimi decisero di aiutare il re spodestato, ma furono 
fermati da dittatore Aulo Postumio e successivamente, nell'anno 496 a.C. furono 
battuti presso il lago Regillo da Ottavio Manilio e da Sesto Tarquinio. Dopo 
questa sconfitta gli Ernici si allearono con i Volsci per combattere nuovamente 
contro Roma, infatti in un discorso di Menenio riferito da Dionisio, gli Ernici, 
sono chiamati nemici di Roma (anno 493 a.C.). Nel 497 a.C. il territorio romano 
venne più volte invaso e devastato dagli Ernici; il senato di Roma inviò 
ambasciatori, in nome dell'antica alleanza che essi avevano con Tarquinio il 
Superbo per chiedere spiegazioni su quanto era accaduto. Gli Ernici risposero 
che l'alleanza per loro non esisteva più, in quanto era finita con la morte del 
re Tarquinio. Tale risposta suonò come una dichiarazione di guerra per la 
repubblica romana che inviò contro di loro un esercito comandato dal console 
Cajo Aquilio Tusco che riportò la vittoria. L'anno successivo, nel 486 a. C. , 
fu inviato contro gli Ernici il console Spurio Cassio Vicellino che li 
sconfisse, ne saccheggiò il territorio, li costrinse ad arrendersi e a firmare 
un'alleanza a uguali condizioni. Di questo trattato ci informano, ma in modo 
diverso, due storici: Dionisio e Tito Livio. Dionisio sostiene che gli Ernici 
non avevano perso le loro terre, mentre Tito Livio scrive che furono privati di 
due terzi del loro territorio. I romani da quel momento ebbero nel loro esercito 
ausiliari ernici e latini, in cambio aiutarono gli ernici a mandare via dalla 
città di Ferentino gli Equi e i Volsci che minacciavano di allontanarli del 
tutto dalla valle del Sacco. All'arrivo dei Galli, però, gli Ernici e i Latini 
non inviarono più soldati all' esercito romano, cercando di chiudere l'alleanza 
che li univa. I Romani richiesero ancora una volta spiegazione per questo 
rifiuto, non avendola avuta, nell'anno 362 a.C. inviarono contro gli Ernici un 
esercito guidato dal console L. Genucio ma furono sconfitti. Elessero allora un 
dittatore, Appio Claudio che, dopo una sanguinosa battaglia riuscì finalmente a 
sbaragliare gli Ernici. L'anno seguente la guerra fu portata avanti dai consoli 
C. Licinio, C. Sulpicio Petico che sconfissero di nuovo gli Ernici e 
conquistarono Ferentino. Successivamente gli Ernici vennero nuovamente attaccati 
dai consoli romani M. Fabio e M. Ambasto, quindi, con lo scopo di sottometterli 
definitivamente, Roma nell'anno 358 a.C. , spedì contro di loro il console C. 
Plauzio Proculo che li vinse di nuovo e li costrinse a firmare l'antica 
alleanza, pur conservando la loro indipendenza, infatti nell'anno 338 a. C. li 
troviamo alleati con i Romani nella guerra che questi combatterono contro i 
Latini e nell'occupazione di Preneste, la loro capitale. Quando i Romani, dopo 
aver sconfitto i Galli, nell'anno 333 a. C. dichiararono guerra ai Sanniti, gli 
Ernici inviarono dei soldati in aiuto di questi ultimi, perché temevano che Roma 
li sottomettesse completamente come aveva fatto prima con i Latini, suoi antichi 
alleati. Dopo la battaglia i Romani si accorsero che tra i prigionieri c'erano 
molti anagnini, e dopo averli uccisi, chiesero ai magistrati di Anagni se questi 
prigionieri erano corsi volontariamente in aiuto dei Sanniti o erano stati 
mandati dalle autorità della città. Gli Ernici, allora, si riunirono con i loro 
rappresentanti nel circo marittimo per decidere se dichiarare o no guerra ai 
romani, Ferentino, Alatri e Veroli non furono d'accordo mentre Anagni e tutti 
gli altri confederati furono favorevoli. Il disaccordo fra le città della 
confederazione, indebolì le loro forze nella guerra contro i Romani guidati dai 
consoli Quinto Marcio Tremulo e Cornelio Arvino. In un primo momento gli Ernici 
riuscirono ad occupare gli sbocchi e i punti strategici impedendo ai due consoli 
di scambiarsi messaggi. I Romani, allora, intimoriti, arruolarono molti giovani 
esperti di armi, formando due forti eserciti pronti ad attaccare, se ce ne fosse 
stato bisogno; ma il console Marcio Tremulo assalì gli Anagnini e le sconfisse. 
Il senato romano dopo questa vicenda decretò che tre città Erniche (Ferentino, 
Alatri e Veroli), che non avevano combattuto contro Roma, avrebbero mantenuto le 
proprie leggi e i propri magistrati, conservando l'alleanza, mentre Anagni e le 
altre città che avevano dichiarato guerra a Roma furono considerate municipi 
Romani "sine suffragio" cioè, non potevano scegliere i magistrati per 
amministrare la cosa pubblica, non potevano tenere assemblee oltre i confini del 
loro territorio, inoltre ai cittadini era vietato il matrimonio ed ogni 
relazione politica con gli abitanti delle altre città. Anagni, però, fu 
rispettata come città sacra degli Ernici in quanto le fu lasciata libertà di 
scelta nelle cose religiose. Ebbe fine così la Confederazione Ernica che in 180 
anni fu sconfitta dai Romani ben 10 volte. Le date di queste vittorie romane 
sono segnate nelle tavole di marmo poste sulle pareti della reggia al foro 
romano, di fronte al tempio di Antonino e Faustina.
 Le città degli 
Ernici:
 ALATRIUM
 Nonostante il notevole contributo di numerosi e 
competenti studiosi, l'esatta origine del nome Alatri non è stata del tutto 
chiarita. Una prima ipotesi riscontrò in esso una radice ebraica, dove Alats 
richiamava il concetto "di angusto" a precisare che la città è circondata da una 
cerchia di monti. Secondo un'altra ipotesi, risale alla primitiva lingua 
fenicia, supponendolo formato da due termini che manifestano l'azione diretta 
del dio: el-edrei, dio-braccio.
 Ancora, la radice è Baalath, termine che sta 
a indicare la principale divinità della città fenicia: Alatrum si sarebbe 
formato per contrazione della desinenza -rum, assegnata generalmente alle nuove 
popolazioni. La fonte più attendibile risulterebbe essere: di oscura etimologia, 
il primitivo nome dell'antica Aletrio, da ricostruire in una forma non lontana 
da quella in cui fu fissato in età romana, nasconde probabilmente un origine 
ernica o etrusca, o forse ernico-etrusca per contaminatio di basi: di certo si 
può dire solamente che è un nome preromano, essendo sconosciuta o quasi tale 
radice nella lingua di Roma. La forma latina del nome, universalmente accettata, 
è Aletrium: la tramanda un'epigrafe locale della prima età imperiale, nella 
quale si legge, alla quinta linea, l'espressione municipio Aletri. Ad essa 
risale l'etnico Aletrinas, -atis, attestato largamente sia nei testi letterari, 
sia nei testi epigrafici. La variante Alatrium, che forse riproduce l'antica 
pronunzia dialettale del popolo e che chiarisce il passaggio all'attuale forma 
Alatri, è documentata da Plauto e dal Liber coloniarum.
 Un'altra ipotesi 
circa l'origine del nome Alatri proviene dalla traduzione delle tavolette 
rinvenute nel 1934 presso Tell Hariri (città della Siria). Centro di un possente 
stato Mari sorgeva sul corso dell'Eufrate e gli scavi del palazzo reale di 
Zimri-Lim ci hanno restituito oltre 20.000 tavolette d'argilla le quali svelano 
ogni segreto di corte. Ebbene, una di queste tavolette riporta una lettera che 
il re di Mari (Shamsi-Adat) inviò a suo figlio (Yasmakh) informandolo di aver 
avuto notizie riguardanti l'ottimo stato delle poderose fortificazioni di 
Alatri. Quindi sarebbe esistita in Mesopotamia una città di nome Alatri i cui 
abitanti, avrebbero raggiunto i monti della ciociaria per costruirvi una 
possente acropoli.
 
 Una suggestiva ipotesi sulle origini di Alatri la 
vuole fondata da Saturno insieme ad Atina, Arpino, Ferentino ed Anagni. Le 
attuali ricerche ci lasciano intendere che la realizzazione delle prime città 
sia da attribuire a popolazioni pelasgiche provenienti dall'Asia. I molti 
reperti archeologici ci dimostrano che gli abitanti delle prime città del 
territorio di Alatri trovarono ulteriore sviluppo nell'età del bronzo.
 Verso 
la fine del VI secolo Alatri costituiva la Lega Ernica (insieme a Veroli, 
Ferentino e Anagni) e la sua roccaforte assunse un ruolo strategico fondamentale 
per contrastare la poderosa pressione dei Volsci e dei Sanniti verso 
nord.
 Temendo per la loro indipendenza le città Erniche nel 306 ripresero le 
armi contro Roma, questa volta furono duramente punite: Anagni venne conquistata 
e costretta a subire senza condizioni la cittadinanza Romana (perché ritenuta la 
vera responsabile della ribellione). Alatri venne sollecitata ad accettare un 
compromesso che le avrebbe garantito la libera cittadinanza. Fatta finalmente 
pace con Roma, Alatri conosceva un lungo periodo aureo, per nulla turbato dal 
minaccioso avvicinarsi dell'esercito di Annibale.
 Tale periodo ebbe un 
culmine nel primo quarantennio del II secolo in coincidenza con il doppio 
mandato di censore conferito a Lucio Betilieno Varo, al quale si deve l'efficace 
riorganizzazione amministrativa e urbanistica della città.
 Fin dal XI secolo 
Alatri divenne un punto di riferimento per i pontefici costretti da varie 
traversie ad allontanarsi dalla sede apostolica. Erano le conseguenze delle 
dispute per la conquista del trono di Pietro e le prime avvisaglie della lotta 
tra papi e imperatori per stabilire la supremazia dei rispettivi poteri. Fu così 
che Alatri ospitò per due mesi Urbano II, cacciato da Roma dall'antipapa 
Clemente III. Lo stesso Urbano, ricordato per l'intervento a sostegno della 
prima crociata, ritornerà ad Alatri nel novembre 
1093.
 
 ACROPOLI
 Costruzione ciclopica di epoca preromana, rappresenta 
il monumento più antico e celebrato della città. La sua ardita struttura di 
contenimento, caratterizzata da possenti muraglie in opera poligonale, racchiude 
per intero una vasta area sopraelevata (19.000 mq.) posta al centro dell'abitato 
cittadino.
 
 Oltre al paramento murario, già di per sé sorprendente per la 
grandezza dei massi impiegati e per l'elevazione raggiunta, degne di ammirazione 
sono le due porte di accesso:
 Porta Maggiore ubicata sul lato meridionale con 
architrave monolitico di straordinarie dimensioni;
 Porta Minore, assai meno 
imponente ma di uguale suggestione per la presenza all'interno di un angusto 
corridoio ascendente, perfettamente conservato.
 
 
 Sulla sommità 
dell'Acropoli, al di sopra di un antico ierone, sorge, invece la Cattedrale di 
S. Paolo con l'attiguo Vescovado. Entrambi gli edifici, di origine 
altomedioevale, si presentano attualmente con le forme assunte nel corso del 
XVIII secolo, in seguito a consistenti ristrutturazioni. L'interno a tre navate 
con presbiterio rialzato conserva, tra l'altro, preziosi reperti cosmateschi del 
1222 e la celebre reliquia dell' ostia incarnata: una particolarità eucaristica 
divenuta miracolosamente carne umana nel lontano 1227.
 ANAGNIA
 Anagni, 
famosa fino ad oggi soprattutto per il ruolo avuto come sede papale nel Medioevo 
e legata alle vicende di Bonifacio VIII, ha ultimamente assunto una notevole 
importanza anche nel campo delle ricerche preistoriche grazie al rinvenimento di 
manufatti litici di oltre 700.000 anni fa e di resti fossili di Homo Erectus 
datati 458.000 anni, i più antichi d'Italia.
 Di estrema importanza anche il 
rinvenimento di materiale etrusco del VII secolo a.C., a testimonianza della 
penetrazione di questo popolo nella Valle del Sacco e del Liri, probabile 
itinerario seguito dagli Etruschi per gli scambi culturali con la Magna Grecia. 
All'epoca di Tarquinio il Superbo ( inizi V sec. a. C.) il sito di Anagni era 
abitato da genti erniche, probabilmente di origine marsa o sabina. I rapporti 
con la nascente potenza romana conobbero alterne vicende: dalle alleanze del V 
sec. a. C. alle guerre con Roma del 318 a. C. fino allo scioglimento della 
Confederazione Ernica imposto dai romani nel 306 a. C.
 L'impianto 
urbanistico-arcaico di Anagni, città sacra e centro politico della 
Confederazione, era limitato alla zona dell'acropoli e difeso parzialmente da 
una cinta muraria difeso interamente in epoca romana secondo la tecnica delle 
mura cosiddette " serviane" (IV-III sec. a. C.). Al II sec. a. C. risale la 
costruzione dell'emicidio degli "Arcazzi",  con tre grandi archi a tutto sesto 
sorretti da pilastri isolati dalla cinta muraria, cui si ricollegano in al rito 
mediante una pseudo-volta. Anagni fu residenza estiva dell'imperatore Marco 
Aurelio, di Commodo, di Lucio Settimo e di Caracalla. Centro della vita politica 
internazionale del Medioevo, fù a buon diritto chiamata la "La Città dei Papi" 
non solo per essere stata la patria di quattro grandi pontefici: Innocenzo III, 
Gregorio IX, Alessandro IV e Bonifacio VIII; fu infatti anche residenza 
ufficiale dei Papi che trovavano in Anagni un sicuro rifugio ed una degna sede 
del loro mandato.
 FERENTINUM
 Sul nome Ferentino dal latino "Ferentinum" 
fino ad oggi si fanno solo ipotesi, potrebbe forse derivare dalla "fertilità" 
del suolo circostante, come pure e ignorata l'origine del giglio ferentinate, 
oggi stemma del comune, forse legato per analogia al nome di "Fiorentino" poi 
Ferentino.
 La storia della sua fondazione si identifica con quelle di altri 
centri limitrofi (Alatri, Veroli, Anagni), le cui origini sono legate alla 
leggenda ed alla mitologia, non esistendo purtroppo fonti primarie per ricavarne 
elementi sicuri di conoscenza.
 Le stesse origini delle costruzioni 
"megalitiche o pelasgiche" volgarmente dette "ciclopiche", ancora oggi rimangono 
poco ben definite. Di sicuro, sono le prime testimonianze scritte di epoca 
romana, quando si documenta la presa di Ferentino allora città dei Volsci, ad 
opera dei romani (468 a.C.).
 Ferentino fu nei secoli caposaldo dei Volsci, 
successivamente fortezza degli Ernici per poi passare sotto il dominio di Roma e 
divenire sua alleata e quindi Municipio. La città conobbe in quel periodo pace e 
splendore, a fianco ed in perfetta amicizia con Roma.
 Di quel periodo oggi 
conserva monumenti insigni e la risonanza di nomi prestigiosi come quello di: 
Flavia Domitilla  (oriunda ferentinate, moglie dell'Imperatore Vespasiano), 
Traiano Adriano, Pompeo, Aulo Quintilio Prisco e altri ancora.
 Conobbe 
successivamente con il declino dell'Impero Romano, periodi molto tristi e bui, 
accompagnati da saccheggi e devastazioni ad opera dei popoli barbari, 
pestilenze, abbandono e miseria.
 Nel Medio Evo, quando dal Ducato Romano 
passò al potere temporale della Chiesa, segui per la città di Ferentino un 
periodo di ricostruzione sociale, politica ed economica. Nel XIII secolo 
legheranno il nome a Ferentino, papi, sovrani e condottieri come l'Imperatore 
Federico II e il Papa Innocenzo III, che volle Ferentino capoluogo ed importante 
Diocesi dell'allora unica provincia di Campagna e Marittima.
 
 Aree   
ARCHEOLOGICHE
 
 In Ferentino esistono resti archeologici che risalgono 
all'età preromana e romana, le mure ciclopiche sono un esempio di questo periodo 
storico.
 Le porte di Ferentino sono  dislocate lungo circa due km e mezzo di 
mura. Partendo da nord e seguendo il movimento delle lancette dell'orologio, si 
incontrano 12 porte.  L'Acropoli, divenne una fortezza inaccessibile tra il 100 
e l'80 a.C..
 Circondata da mura megalitiche, ben conservate, su cui si aprono 
porte interessantissime per antichità e struttura, tra le quali la Porta 
Sanguinaria e la Porta Casamari a doppio arco.
 La cittadina ha 
nell'Acropoli il suo monumento più importante ed anche la testimonianza della 
sua storia.
 
 Sede, in successione, del prefetto romano, del vescovo, del 
tribuno militare, del podestà, dei rettori di Campagna e Marittima. Munitissima 
nel periodo medioevale, la rocca di Ferentino (della prima età Sillana) rimane 
ancor oggi un capolavoro di ingegneria civile e un'opera d'arte di potente 
bellezza. Sulla sua spianata sorgono la Cattedrale e il Palazzo del Vescovado. 
La cattedrale, di architettura romanica, custodisce pregevoli opere dei Cosmati. 
Tra le altre bellissime chiese, citiamo S. Maria Maggiore (XIII sec.) elegante 
nelle sue forme di gotico ogivale, fondata dai monaci cistercensi.
 Tra le 
opere di epoca romana, ricordiamo il teatro, costruito probabilmente all'epoca 
di Traiano - Adriano, ed il mercato coperto, costruito in età sillana:Resti del 
mercato corperto
 
 resti del teatro
 Segnaliamo inoltre il 
particolarissimo testamento di Aulo Quintilio Prisco, sepolcro rupestre e 
rarissimo monumento epigrafico, a forma di edicola, scolpito nella viva 
roccia.
 VERULAE
 Città di origine antichissima, Veroli sorge su un colle 
nel settore sud-orientale dei Monti Ernici. Di epoca preromana sono le mura 
poligonali che, con sovrapposizioni romane e medioevali ancora oggi, cingono la 
rocca di S. Leucio, un tempo chiamata "Civitas Erecta". Furono infatti gli 
Ernici che intorno al XII a.C. fondarono l'antica Verulae in posizione 
strategica, su un'altura tra la valle del Sacco e quella del Liri.
 Anche 
Veroli, come tanti altri centri del Latium Novum, cadde sotto il dominio di 
Roma, ma rimasta ad essa sempre fedele ottenne già nel 90 a.C. la municipalità 
romana e con essa autonomia amministrativa.
 Testimonianza del periodo 
dell'alleanza con Roma sono i Fasti Verulani (I sec. d.C.), un particolare 
calendario romano marmoreo, uno dei pochi rinvenuti nel territorio dell'impero 
romano. Si tratta di una lastra di marmo situata in un cortile medioevale del 
centro storico (casa Reali) che porta scritte tutte le date delle ricorrenze 
civili e religiose, delle fiere e dei mercati come i "Carmentalia", festa in 
onore della dea Carmenta, protettrice delle partorienti, i "Lupercalia", festa 
in onore del dio Luperco, al quale si rivolgevano le donne sterili. Vi sono 
indicati solo i primi tre mesi dell'anno, dei quali fa conoscere la ripartizione 
del mese, i giorni fasti, i nefasti, quelli parzialmente favorevoli e quelli 
idonei alla convocazione dei comizi.
 
 Veroli, nel Medioevo fu inclusa nel 
ducato di Roma; divenne sede vescovile e residenza dei duchi di Campagna e 
Marittima (secolo IX). Appartenne poi allo Stato della Chiesa, che la favorì con 
privilegi e il riconoscimento delle autonomie comunali. Veroli, esercitò il 
controllo su vasti territori della zona e fu sede di importanti avvenimenti 
storici: vi soggiornò S. Benedetto e vi fondò la bella chiesa di S. Erasmo, Papa 
Alessandro III vi visse per alcuni anni e fu nella basilica di S. Erasmo che 
ricevette l'ambasciatore di Federico Barbarossa, per negoziare la pace.
 
 VOLSCI
 
 Popolazione di origine indoeuropea, di indole bellicosa, che 
viveva di pastorizia e di agricoltura nella zona, molto ricca di minerali utili 
per il ferro e rame, del fiume Liri comprendente il basso Lazio, l'alta Campania 
e il basso Molise.
 vedi  TERRITORIO
 La loro cultura ebbe caratteristiche 
osco-sabelliche. Esportarono presso i Carecini culti italici particolari, che 
tutt'ora vengono praticati nella Campania, come l'effettuare il pranzo dopo un 
rito funerario.
 Lo storico Livio nella Storia di Roma, a testimonianza 
della loro tenacia militare,  racconta che erano "ferocior ad rebellandum quam 
bellandum gens " (7, 27, 7).
 I loro centri principali erano Satricum, 
Frusino,Velitrae (Velletri), Arpinum (la città di Cicerone) e Fregellae, città 
divenute famose in seguito come colonie romane.
 Appena cacciati i Re da Roma 
(509 a.C.), Roma si trovò a dover fronteggiare le invasioni dei Volsci che 
provenivano dal Lazio meridionale.
 La data della presa di Satricum e Circeii 
è incerta, ma l'ipotesi più probabile la collocherebbe negli anni 489 - 488. 
Altre città rimangono latine: Ardea, Aricia, Norba, Signa, Setia. Dalla lista 
delle città conquistate dai Volsci manca Terracina, ma non si conosce la data 
della sua caduta in mano volsca. A questo punto non possiamo tralasciare le 
ipotesi discrepanti che sono state avanzate; se per taluni la presenza volsca 
nell'agro pontino e nella cosiddetta "zona di frizione" nei pressi dei Colli 
Albani è rintracciabile già alla fine del VI secolo, per altri, che interpretano 
in maniera più critica le fonti letterarie storiche, questa presenza precoce 
andrebbe decisamente negata.
 In favore della prima ipotesi vi sono sia dati 
archeologici (l'abbandono di alcuni centri latini e tracce di crisi nell'abitato 
di Satricum), che menzioni negli autori antichi. Le fonti letterarie ricordano 
svariati episodi di contatti violenti già in epoca regia, oltre a Livio e 
Dionisio (secondo i quali questi primi contatti sarebbero avvenuti già all'epoca 
di Anco Marcio), da un frammento di Catone (in verità non del tutto chiaro) si 
potrebbe dedurre che quando i Volsci invasero la Pianura Pontina vi trovarono 
stanziati gli "Aborigeni " (mitica popolazione che avrebbe abitato il Lazio 
prima dei Latini), mentre Strabone parla della riconquista da parte di Tarquinio 
il Superbo di Suessa Pometia, caduta in mano volsca.
 La ricchezza della 
terra dei Volsci fu oggetto di interesse per i  Sanniti    ed i Romani. Uscirono 
sconfitti nelle guerre sannitiche, parteciparono con insuccesso alle guerre 
civili e sociali, fecero parte della lega italica. Capeggiarono numerose rivolte 
contro Roma, subendo perdite di autonomia, di risorse e di deportazioni.
 La 
loro cultura scomparve in seguito ad un processo di romanizzazione.
 Coriolano 
ed i Volsci
 Protagonista della guerra con i Volsci fu il giovane Gneo 
Marcio, appartenente ad una potente famiglia patrizia; egli ottenne uno 
straordinario successo con la conquista, nel 493 a.C., della città di Corioli, e 
divenne così famoso da ricevere il nome di "CORIOLANO".
 In quello stesso 
periodo feroci lotte dividevano i patrizi dalla plebe, che reclamava nuovi 
diritti di parità con la classe nobiliare, ottenendo infine il Tribunato della 
Plebe; tuttavia, in occasione di una carestia, grave al punto che si dovette 
importare il grano dall'estero (dalla Sicilia), Coriolano propose che la 
distribuzione del grano alla plebe fosse concessa solo dopo l'abolizione del 
tribunato.
 A questa proposta la plebe insorse, e accusò Coriolano di 
sovvertire le leggi della Repubblica, cioè di essere un traditore.
 Coriolano, prevedendo una condanna, cercò rifugio presso la capitale dei 
Volsci (Anzio) e, dopo aver riorganizzato il loro esercito, partì alla conquista 
delle città latine, muovendo infine alla conquista di Roma.
 I Romani, per 
patteggiare la pace, inviarono allora consoli, generali, tutte le più alte 
cariche dello Stato, ma inutilmente. Alla fine giunsero da Roma, accompagnate 
dalle matrone romane, la madre Veturia e la moglie Volumnia; ma quando Coriolano 
corse da loro per abbracciarle, Veturia lo fermò dicendo (secondo la leggenda): 
"Prima che tu mi abbracci, vorrei sapere se sono venuta a far visita a mio 
figlio o ad un nemico della patria ". Allora Coriolano, turbato da questo gesto 
della madre, rinunciò ad attaccare e riportò i Volsci ad Anzio.
 Saremmo 
portati a giudicare Coriolano un doppio traditore, avendo prima tradito i Romani 
e poi i Volsci; nella mentalità antica il concetto di nazione era più sfumato, e 
così Coriolano venne celebrato come eroe sia dai Romani che dai Volsci, tra i 
quali visse onorato e rispettato fino alla tarda vecchiaia.
 il Territorio dei 
VOLSCI
 
 Permangono molte incertezze sia sui modi, sia sull'itinerario 
dell'occupazione volsca del Lazio meridionale. Se da una parte sembra ormai 
assodato che le loro sedi di partenza vadano individuate nell'area compresa tra 
il Fucino e l'alto Sannio, permangono forti dubbi sulla cronologia degli 
avvenimenti, in particolare se l'occupazione dell'agro pontino sia da collocarsi 
esclusivamente nel V secolo, o se già sul finire del VI i Volsci iniziassero ad 
affacciarsi a sud dei Colli Albani e nell'area costiera tra questi ultimi e 
Terracina. I dati archeologici hanno suggerito gli stretti legami delle zone 
presumibilmente occupate dai Volsci, con quelle del Fucino - valle del Sangro - 
alto Volturno (ritrovamento di anforette di tipo Alfedena, di fibule, di un 
disco - corazza proveniente dalla zona del Fucino e ritrovato ad Anagni, di una 
spada del tipo Alfedena rinvenuta a San Giorgio a Liri).
 Questi ritrovamenti 
fanno pensare ad una certa mobilità di individui non necessariamente legata alle 
transumanze stagionali. L'itinerario privilegiato per questi spostamenti è stato 
sempre considerato quello della Val Roveto, ma sono plausibili anche altri 
percorsi; attraverso la Val Comino (tramite il passo di Forca d'Acero), e quello 
che dal cassinate (attraverso la valle del Rapido), conduce direttamente al 
Sannio.
 Certamente verso la metà del V secolo (che dovrebbe corrispondere al 
momento di massima espansione della potenza volsca) occupavano una zona molto 
ampia, delimitata a nord-ovest dall'asse Anzio - Satricum - Velletri - Cori, 
cioè la linea storica "di frizione" tra Volsci e romano - latini, lungo la quale 
si svolsero le alterne fasi di una lotta caratterizzata da continui 
indietreggiamenti e riconquiste. Con ogni probabilità il controllo si estendeva 
sul territorio compreso tra questa linea e la valle dell'Amaseno (e Terracina), 
sulla Valle del Sacco - Trerus, su tutta la media Valle del Liri (compreso 
Cassino) e sulla Val Comino (probabilmente fino ad Atina).
 Le fonti 
letterarie (Livio e Dionisio) concordano nell'indicare taluni avvenimenti, 
pertanto possiamo fissare alcune date; Anzio appare volsca nel 496, Velletri 
(forse) dal 494, Corioli, Longuna e Polusca nel 493.
 RE  METABO
 Il fiume 
Amaseno è noto e celebre nella storia grazie all'immortale poema virgilliano 
(Eneide, cap. XI). Sulle sue rive ondose avviene il patetico e drammatico 
episodio di Metabo e Camilla, che si può così riassumere:
 Metabo, re dei 
Volsci, in una insurrezione popolare viene cacciato da Priverno ed è costretto 
a,fuggire e a vagare per i monti con in braccio la piccola Camilla, che ha 
perduto la madre forse nel parto o durante i moti. I suoi nemici non cessano di 
dargli la caccia.
 Un giorno, vistosi assalito, fugge cercando scampo nel 
fiume Amaseno. Lo trova però ingrossato e tumultuoso per la piena e non si 
arrischia di passarlo a nuoto con la bimba al collo. Allora prende un'estrema 
decisione: avvolge la piccina in una scorza di sughero, che lega saldamente al 
centro della sua lunga e poderosa lancia e la scaglia al di là del fiume con 
tutte le sue forze. La lancia va a piantarsi nella riva opposta, portando con sè 
a salvamento la piccola. il pa dre presto la raggiunge a nuoto e fugge via su 
per i monti, lasciando dietro di sè i suoi nemici, impotenti a inseguirlo 
oltre.
 Così scrive Virgilio: ...Metabo, il padre  di lei, fu per invidia e 
per soverchia - potenza da Priverno, antica terra, - da' suoi stessi cacciato; e 
da l'insulto, - che gli fece il suo popolo, fuggendo, - nel suo misero esiglio 
ebbe in campagna - questa sola bambina, che mutato - di Casmilla sua madre il 
nome in parte, - fu Camilla nomata. Andava il padre - con -essa in braccio per 
gli monti errando - e per le selve, e de' nemici Volsci - sempre d'incontro 
-avea l'insidie e l'armi. - Ecco un giorno assalito con la caccia - dietro, 
fuggendo, a l'Amaseno arriva. - Per pioggia questo fiume era cresciuto, - e 
rapido spumando, infino al sommo - se ne gìa delle ripe ondoso e gonfio; - tal 
che, per tema de l'amato peso - non s'arrisciando di passarlo a nuoto, - 
fermossi; e poi che a tutto ebbe pensato, - con un sùbito avviso entro una 
scorza - di selvatico sùvero rinchiuso - la pargoletta figlia. E poscia in mezzo 
- d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo - tèlo, ch'avea per avventura in mano, - 
legolla acconciamente; e l'asta e lei - con la sua destra poderosa in alto - 
librando, a l'aura si rivolse, e disse: - Alma Latonia virgo, abitatrice - de le 
selve e de' monti, io padre stesso - questa mia sfortunata figlioletta - per 
ministra ti dedico e per serva. - salvo all'altra riva si 
condusse.
 
 Camilla, diventata abile guerriera, prendera' poi parte con una 
valorosa schiera di cavalieri Volsci alla guerra contro Enea, condotta da Turno, 
re dei Rutuli, e cadra' in una mischia furiosa per mano di Arunte.
 Ora 
ammesso che il patetico episodio Virgiliano sia reale, ci si potrebbe domandare 
:
 in che punto preciso avvenne il passaggio del fiume. Nel poema non ci sono 
indicazioni chiare e sufficienti per identificarlo. E' probabile che questo 
avvenissse presso le pendici di Monte Alto, dove il luogo si sarebbe prestato 
piu' facilmente all'evasione, per la distanza ravvicinata con gli Ausoni e dei 
Lepini.
 ANTIUM
 Secondo lo storico Xenagora Anzio fu fondata da Anteo, 
figlio di Ulisse e della maga Circe, mentre un'altra leggenda del ciclo troiano 
attribuisce alla città un diverso fondatore: Ascanio, figlio di Enea. Anche se 
la scoperta di reperti archeologici risalenti all'età della pietra testimoniano 
la presenza dell'uomo fin da quella lontana epoca, certo è che le fonti storiche 
hanno accertato la fondazione della città vera e propria, chiamata Antium, 
durante la civiltà laziale, agli inizi del primo millennio a.C.
 Addossata a 
quel promontorio che interrompe il piatto scorrere della costa laziale, agli 
inizi del primo millennio a sud di Roma, dalla foce del Tevere fino al Circeo, 
Anzio deve a tale favorevole posizione la propria origine ed il proprio 
straordinario sviluppo. L'Antium latina, fiorente centro commerciale e punto di 
partenza di scorrerie piratesche in tutto il Mediterraneo, ebbe nel suo porto, 
chiamato "Caenon", la fonte della sua potenza.
 Occupata dai Volsci intorno 
all'anno 490 a.C. divenne fiera avversaria di Roma; si pose alla guida di altre 
città divenute volsche e iniziò un lungo periodo di belligeranza, caratterizzato 
da numerosi episodi tra i quali il più noto è quello del patrizio Coriolano che, 
esiliato in Anzio e divenuto comandante delle truppe volsche, giunse a  
minacciare la sicurezza di Roma.
 La lunga guerra si concluse solo nel 338 
a.C. con la distruzione della città ad opera delle legioni del console Marco 
Furio Camillo. I romani ornarono con i rostri strappati alle navi anziati la 
tribuna del Foro  da  cui  si tenevano i  comizi   e  che  da  allora  fu  detta 
"tribuna rostrata" .
 Colonia romana dal 338 a.C.  fu  partigiana di Cornelio 
Silla durante la guerra civile e per tale ragione  fu  distrutta  dalle truppe 
di Caio Mario nell' 87 a.C.
 Sul   finire  dell'età  repubblicana  Anzio  
conobbe  un periodo di vero splendore  diventando  il  luogo  di   
villeggiatura  preferito  dai  ricchi patrizi di Roma: templi, circhi e palazzi 
abbellirono la città mentre lungo la costa si edificarono le ville dei più 
importanti personaggi del tempo: Marco Tullio Cicerone, Mecenate, Caio Lucrezio 
e Cesare Augusto.
 
 
 
 
 Un braccio del Porto neroniano
 
 
 
 
 La biblioteca di Domiziano
 
 
 In età imperiale 
soggiornarono ad Anzio tutti gli imperatori: Augusto vi fu proclamato Padre 
della Patria, Caligola, che ne voleva fare la capitale dell'impero, Adriano, che 
la descriveva come uno dei luoghi più belli d'Italia ma fu Nerone, che ad  Anzio 
nacque, ad edificarvi il porto, mirabile esempio di ingegneria marittima ed ad 
abbellire la reggia e la città di marmi e statue famose oggi esposte nei più 
grandi musei del mondo, come la Fanciulla d'Anzio (Museo nazionale) il 
Gladiatore Borghese (Louvre) e l'Apollo del Belvedere (Musei Vaticani). La 
decadenza dell'impero romano fu condivisa dalla città che, soggetta alle 
invasioni ed ai saccheggi dei barbari prima e dei saraceni poi, fu abbandonata 
dalla popolazione che fondò la vicina città di Nettuno.
 
 
 VILLA  
IMPERIALE  DI  NERONE
 TEMPLI  DI  CULTO  PRECRISTIANO
 
 Teatro 
Romano
 Il teatro misura 30 m. di diametro, possiede una cavea suddivisa in 11 
cunei o settori radiali, tagliati a metà da un corridoio coperto ed ornato da 
lesene intervallate. Tre accessi, costituiti da un fornice centrale e due 
laterali assicuravano alla cavea un ottimale accesso e una razionale 
distribuzione degli spettatori nei vari settori. Mentre le gratinate sono andate 
distrutte, a stento si può riconoscere l’ubicazione della orchestra che aveva un 
diametro di circa 10m.
 La scena che chiude il semicerchio della cavea era 
articolata da quattro grossi corpi in muratura che, simmetricamente creavano 
rientranze e sporgenze, luci ed ombre. Ai piedi del palco della scena, due 
corridoi permettevano il passaggio degli attori, dei fondali, delle 
scene.
 
 Alle spalle dell'edificio che chiude la scena, erano ubicati dei 
piccoli cubicoli con volta a botte e completamente rivestiti in marmo bianco, da 
interpretarsi, vuoi per le loro proporzioni che per la loro ubicazione come i 
camerini degli attori. La facciata esterna della scena era abbellita da un 
colonnato che sorreggeva un lungo portico che sopravanzava la scena stessa. 
Tutto il restante prospetto esterno del teatro era ornato da una serie continua 
di fornici a tutto sesto sostenuti da pilastri ornati da mezze colonne. Sia i 
pilastri che le semicolonne erano state realizzate in laterizio: questa cortina 
laterizia mostra una estrema maestria nell’esecuzione, sia nella regolarità dei 
giunti che nella costante ripetizione del modulo costruttivo e, soprattutto, nel 
taglio e nella levigatura dei mattoncini che formano le semicolonne.
 I fori 
regolari di grappe, però, ci documentano che nonostante tanta precisione anche 
il prospetto esterno era rivestito di lastre di marmo. L'intera fabbrica del 
teatro, mossa dalle innumerevoli arcate e scintillanti marmi bianchi, era 
sollevata ed esaltata, per contrasto, su di un alto zoccolo di grossi 
parallelepipedi di pietra vulcanica che a guisa di podio assicurava oltre ad un 
sicuro effetto cromatico, anche un solido espediente statico.
 
 Il 
portico, costruito cioè dietro la scena, contava in origine ben 18 colonne. 
Successivamente le due ultime colonne di ogni lato furono inglobate in due 
piccoli vani riducendosi così il numero a 14. Delle colonne ancora oggi sono ben 
visibili alcune basi. Le grigie colonne, che erano state fatte con la stessa 
pietra vulcanica del basso podio, che rimanevano di fronte, probabilmente non 
erano stuccate come succedeva spesso nel mondo antico si operava con materiale 
poco pregiato, proprio per accentuare in questo caso l’effetto cromatico di cui 
abbiamo accennato prima. Se furono stuccate invece, quasi sicuramente furono 
dipinte a finto marmo scuro, simile alla pietra grigia dello zoccolo su cui 
poggiava l'intera fabbrica e lo stesso portico. Questo porticato sappiamo che 
era esplicitamente destinato a riparare gli spettatori in caso di pioggia 
repentina o per offrire loro un luogo ombreggiato durante i calori estivi, o 
comunque luogo di passaggio e di conversazione. Attraverso lo studio delle 
murature data la costruzione dell’edificio alla metà del primo secolo d.C. 
mentre gli ambienti aggiunti ed alcuni piccoli rifacimenti noi possiamo datarli 
tra la fine del I sec. o al massimo del primo decennio del II sec. d.C. Le 
dimensioni piuttosto ridotte e la ricchezza dei marmi ne fanno un teatro forse 
poco popolare, ma destinato dalla famiglia imperiale giulio-claudia che lo fece 
costruire per quella società elegante e raffinata che affollava, soprattutto nei 
mesi estivi, la città di Antium.
 ANXUR - TERRACINA
 Grazie alla posizione 
strategica situata su uno sperone roccioso, attirò le popolazioni dei Tirreni 
(Ausoni e Aurunci) (1000 a.C.), ceppo di origine indoeuropea che si stabilirono 
in questa zona dopo un vagabondare attraverso l’Italia. Essi si organizzarono 
per villaggi, sparsi sulle colline, per resistere alle incursioni esterne Erano 
strutture fortificate, realizzate con pietra e situate in posizioni dominanti.
 Il primo vero e proprio agglomerato urbano si creò sotto la dominazione 
etrusca (700-600 a.C.) e da questi probabilmente ereditò il nome attuale: prima 
TARRAKINA , poi TARRACINAE, TARRICINA, ed infine TERRACINA .
 Con la 
decadenza etrusca, conquistata dai Volsci nel V° secolo a.C., la città si chiamò 
ANXUR .
 
 I Volsci dettero, oltre al nome, la struttura della città. 
Furono i più accaniti oppositori dell’espansione romana a Sud del Tevere.
 Dopo aspre guerre, i Romani conquistarono tutta la Pianura Pontina fino a 
Terracina (Anxur) nel 406 a.C. Ma dovettero passare altre tragedie e ribellioni 
prima che si stendesse la efficiente "pax romana" e nel 329 a. C. divenne una 
colonia marittima di diritto romano.
 Nel 312 a.C. il Censore Appio Claudio 
conduce attraverso Terracina una via (l’Appia) che doveva collegare Roma con 
Capua e in seguito essere prolungata fino a Brindisi.
 Sono ancora visibili i 
resti della costruzione dell’Appia Antica in opera quadrata, tratti di basolato 
nero, qualche metro di antico marciapiede e resti di tombe.
 Dovrebbero 
risalire a quest’epoca le più antiche e imponenti strutture murarie in "opus 
poligonali" di Monticchio e Salissano.
 
 L’epoca di Silla (I° secolo 
a.C.) coincide con uno sviluppo notevole della vita cittadina e Terracina 
raggiunge il suo massimo splendore edilizio (come mostrano le testimonianze 
archeologiche).
 In questo periodo cambia la fisionomia urbanistica del 
centro alto: l’impianto del Foro Emiliano, i terrazzamenti sostruttivi a livelli 
graduali decrescenti verso la città bassa e l’impianto del Foro Severiano, in 
pianura.
 Di Traiano (40 a. C.) risultano la sistemazione del porto e il 
taglio di Pisco Montano, che doveva cambiare il percorso dell’Appia, aggirando 
il monte anziché scavalcarlo come aveva voluto Appio Claudio.
 Con la 
modifica del tracciato dell’Appia e la costruzione del porto, Terracina 
raggiunse il massimo sviluppo urbanistico e demografico.
 
 
 La caduta 
dell’Impero Romano d’Occidente, (476) segnò la decadenza di Roma e di Terracina.
 
 TEMPIO DI GIOVE ANXUR
 Sull'alto del Monte S. Angelo , l'antico mons 
Neptunius, a più che 200 metri sul mare, sorse -forse sin dal IV secolo a. C.- 
un tempio a Juppiter Anxurus, o Giove fanciullo.
 Il tempio che oggi 
conosciamo è quello in opera incerta, dell'età di Silla: alla quale età si 
attribuisce anche la fortificazione dell'acropoli ultima della città. Volendosi 
far vedere il tempio non solo dal mare aperto, ma dalla stessa spiaggia, fu 
alzata sul ciglio del monte, su una fronte di sessanta metri rivolta a 
sud-ovest,
 
 una imponente terrazza di sostruzione, con dodici poderose 
arcate, impostate su massicci pilastri e comunicanti fra loro per mezzo di 
aperture centinate, praticate nei muri radiali.
 Contro la parete di fondo 
della cella è un basamento per la statua di Giove Anxur.
 All'esterno del 
tempio, sul fianco orientale è l'oracolo: una specie di basamento quadrilatero 
attorno a una eminenza della roccia, nel centro del quale basamento, in alto, è 
un foro comunicante con una caverna accessibile ai soli ministri del tempio, e 
da cui i sacerdoti potevano emettere le risposte oracolari ai quesiti dei 
fedeli. Innanzi e a sud-est del pronao del tempio sarebbe l'ara per i 
sacrifici.
 
 A levante del grande tempio è il cosiddetto Piccolo tempio, 
che verisimilmente era adibito a uso civile. Analogo è il sistema di sostruzione 
ad archi impostati su pilastri: questi archi erano in origine 9; ai due estremi 
erano due avancorpi con cisterne. La muratura ad elementi poco meno che informi 
e legati da malta assai abbondante fa pensare ad un'età di costruzione alquanto 
anteriore a quella del grande tempio. Più che un'opera incerta noi abbiamo qui 
una struttura più affine all'opera cementizia.
 ARPINUM
 Le origini di 
Arpino si perdono nella notte dei tempi. Narra la leggenda che essa sarebbe 
stata fondata dal dio Saturno, protettore delle messi, così come altri centri 
della Ciociaria (Alatri, Ferentino, Atina, Anagni). I suoi primi abitatori 
furono identificati con i mitici Pelasgi, la popolazione preellenica alla quale 
la tradizione attribuisce la realizzazione del gigantesco sistema fortificato 
delle "mura ciclopiche", dette per questo "pelasgiche", ancora oggi visibile in 
località Civitavecchia e in numerosi punti dell'abitato cittadino. In realtà, i 
primi ad insediarsi nella zona furono i Volsci, la cui presenza è documentata 
sin dal VII sec. a.C. Conquistata dai Sanniti nel IV sec. a.C., passò dopo breve 
tempo sotto il dominio di Roma, con la qualifica di civitas sine suffragio. La 
città divenne così il centro di irradiazione della civiltà romana nella Valle 
del Liri. Nel 188 a.C. ottenne a pieno titolo il diritto alla cittadinanza 
romana, diventando civitas cum suffragio, grazie anche al contributo in termini 
di uomini che Arpino dette a Roma nella guerra contro Annibale. Durante il 
consolato di Caio Mario l'Ager Arpinas (il territorio del municipium arpinate) 
si estendeva dal villaggio di Ceretae Marianae, l'odierna Casamari, fino ad 
Arce. Con l'età imperiale la città conobbe un periodo di declino
 Storia e 
leggenda s'intrecciano nelle vicende di Arpinum, ma ancor più in quelle della 
Civitas Vetus, l'Acropoli. Piccolo centro di umanità secolare, raccolta entro 
una barriera di mura megalitiche essa irradia ancora, per il turista che la 
raggiunge, suggestioni e testimonianze di una vita arcaica. Civitavecchia fu, 
probabilmente, il nucleo originario del primitivo insediamento volsco (popolo 
del VII-VI sec. a.C.), fondato per necessità di difesa su un luogo alto e 
dirupato e poi circondato da possenti mura.
 Infatti altri popoli italici, 
quali i Marsi e i Sanniti ne premevano e minacciavano la sicurezza e i beni. La 
grandiosità di queste mura, che si trovano pure in altri paesi dei Volsci 
(Atina, Aquinum, Sora, Signia, Arcis) e degli Ernici (Alatrium), ha suggerito 
alla fantasia popolare il nome di mura pelasgiche (in ricordo dei preellenici, 
mitici Pelasgi) o ciclopiche (i giganti omerici).
 
 E', però, più giusto 
chiamare questo tipo di mura "poligonali" proprio per la forma che presentano 
gli enormi massi, sovrapposti l'un l'altro senza alcun legame di malta.
 Le 
mura poligonali di Arpino si dipartono da Civitavecchia all'altezza di 627 metri 
e scendono giù per il declivio fino ad abbracciare e chiudere la città 
nell'altra minore altura (Civita Falconara). Esse non hanno fondazioni e sono 
costituite da enormi monoliti di puddinga, materiale i cui banchi sono in 
vicinanza del sito arcaico. La muraglia, in origine, si estendeva per 3 km, ma 
oggi ne rimangono circa 1,5 km ed in alcuni punti si presenta inglobata nelle 
case. Restaurata nell'età sannitica, poi romana e medioevale con l'aggiunta di 
torri e di porte, dimostra una serie ininterrotta di vicende storiche.
 La 
datazione delle mura di Civitavecchia ha creato un dibattito fra gli 
studiosi:Tito Livio (IV, 57,7) ci dà notizie di rocche ciclopiche volsche 
esistenti già nel 408 a.C.. Si rileva la possibilità delle influenze greche sul 
territorio, dovute agli scambi commerciali e culturali attraverso le vie 
fluviali che dalla Campania portavano al massiccio della Meta, ricco di 
minerali. Certamente l'arco a sesto acuto, porta arcaica d'ingresso 
all'Acropoli, rievoca in maniera determinante gli archi di Tirinto e 
Micene.
 Questo prodigioso monumento è alto 4,20 metri ed è formato da blocchi 
sovrapposti che si restringono verso la cima, tagliati obliquamente sul lato 
interno. Nel XVI secolo fu chiuso in un bastione semicircolare, ora per metà 
demolito.
 FREGELLAE
 
 Colonia di diritto latino, Fregellae fu fondata 
dai Romani sulla riva sinistra del fiume Liri nel 328 a.C., con lo stesso nome 
di un centro abitato della locale popolazione del Volsci, distrutto qualche anno 
prima dai Sanniti, la cui arx è individuabile sulla cima della collina che 
ospita la moderna Rocca d’Arce (fig.1-2). La spinta espansionistica romana verso 
sud, già iniziata nel 334 a.C. con la fondazione di Cales nella pianura tra 
Teanum e Capua, si concretizzò nella valle del Liri con questa provocatoria 
deduzione coloniale.
 Rocca d'Arce - Tratto di muro in opera poligonale
 (fig. 1)
 
 
 Dopo una breve riconquista sannitica, conseguente alla 
sconfitta romana delle Forche Caudine (316 a.C.), la città fu rifondata nel 
313/312 a.C. assieme all’altra colonia di Interamna Lirenas, determinando così 
un più stretto controllo sulla valle del Liri e su una nuova direttrice di 
traffico, la via Latina. Questa arteria stradale univa anticamente Roma con il 
santuario federale di Iuppiter Latiaris sui Colli Albani e, in occasione della 
rifondazione di Fregellae e della deduzione di Interamna Lirenas, fu prolungata 
sino a Capua dopo avere collegato anche le due nuove colonie. Questa arteria 
stradale univa anticamente Roma con il santuario federale di Iuppiter Latiaris 
sui Colli Albani e, in occasione della rifondazione di Fregellae e della 
deduzione di Interamna Lirenas, fu prolungata sino a Capua dopo avere collegato 
anche le due nuove colonie.
 
 
 Rocca d'Arce
 Tratto di muro in 
opera poligonale (fig. 2)
 
 Numerosi sono gli episodi storici che narrano 
dell’importanza assunta dalla città con il passare dei decenni, come la 
richiesta avanzata da duecento nobili ostaggi cartaginesi i quali, all’indomani 
della battaglia di Zama (202 a.C.), ottennero dal Senato romano il permesso di 
abitare a Fregellae.
 L’importanza della colonia nonché la sua posizione 
leader sul resto delle colonie latine è dimostrata da altri notevoli episodi 
citati dalle fonti storiche, come il ruolo di portavoce delle colonie rimaste 
fedeli a Roma in occasione della guerra annibalica, o l’esistenza di uno 
squadrone scelto di cavalleria (turma fregellana), formato da quaranta 
aristocratici fregellani con funzione di guardia del corpo dei consoli, 
distintosi per valore in almeno due importanti episodi bellici.
 Il fenomeno 
sociale più riguardevole per la città nel corso della sua breve storia è 
rappresentato dal gran numero di immigrati provenienti dalle regioni 
circostanti, richiamati dalla florida situazione economica della città. Tale 
flusso migratorio, generalmente continuo, in alcuni casi presentò le 
caratteristiche di un vero e proprio esodo: secondo Livio nel solo anno 177 a.C. 
ben quattromila famiglie di Sanniti e di Peligni si erano trasferite a 
Fregellae. Ne derivò una massiccia “deromanizzazione” della città che può 
reputarsi, in parte, causa della sua distruzione. Infatti, durante il periodo 
della crisi graccana Fregellae fu sempre in prima linea nella rivendicazione 
della cittadinanza romana, che avrebbe permesso alle migliaia di immigrati una 
più facile integrazione nel nuovo tessuto economico e sociale, beneficiando 
della distribuzione gratuita delle terre demaniali, riservata ai soli cittadini 
romani. Il rifiuto di un’ulteriore proposta di legge presentata nel 125 a.C. al 
Senato romano da Marco Fulvio Flacco, console di parte popolare, tesa a 
concedere la cittadinanza romana ai Latini e agli Italici, scatenò a Fregellae 
una violenta rivolta contro Roma, presto soffocata da un esercito comandato dal 
pretore Lucio Opimio.
 La città fu distrutta e l’area urbana, sottoposta alla 
pratica religiosa della devotio, fu quasi completamente abbandonata; da allora 
non ebbe più continuità di vita. I cittadini di Fregellae furono deportati a 
Roma, dove vennero processati. Dopo la distruzione di Fregellae, ai superstiti 
di parte filo-romana fu concesso di ricostruire la città, ma non più sullo 
stesso sito, a causa dell’interdizione derivata dalla pratica della devotio, né 
fu possibile imporle lo stesso nome. Fu dunque ricostruita nel 124 a.C. poco più 
a sud, in un’ansa del fiume Liri subito dopo la confluenza con il Sacco 
(l’antico Trerus), nel territorio dell’attuale comune di San Giovanni Incarico 
in località “La Civita”. Qui è anche localizzabile il sito del porto fluviale di 
Fregellae e forse anche quello di un Foro pecuario. Il nome del nuovo 
insediamento fu modificato in Fabrateria Nova, per distinguerla dalla Vetus, 
identificabile probabilmente con la moderna Ceccano.
 
 Scavi recenti e 
prospezioni aeree hanno messo in evidenza il reticolo viario regolare della 
nuova Fabrateria; la città non sembra comunque occupare una superficie molto 
estesa. Sinora, il monumento cittadino di maggior consistenza venuto alla luce è 
l’anfiteatro (fig. 3) che, pur non offrendo dimensioni di rilievo (m 70 x 57), 
appare sproporzionato rispetto alla modesta estensione dell’abitato.
 San 
Giovanni Incarico, località La Civita
 Resti dell'anfiteatro di Fabrateria 
Nova. ( fig. 3)
 
 Era provvisto di due entrate poste lungo l’asse maggiore 
e, a giudicare dall’esiguo spessore dei muri di base, doveva presentare 
gradinate in legno.  Contestualmente allo sviluppo di Fabrateria Nova, assumeva 
una certa consistenza urbana il centro abitato di Fregellanum, prossimo al sito 
di Fregellae, sorto a ridosso di un ponte sul Liri che permetteva alla via 
Latina di collegare Fregellae con Frusino (Frosinone). Posto dagli antichi 
itinerari a quattordici miglia da quest’ultimo centro, Fregellanum è sicuramente 
da identificarsi con la moderna Ceprano. Nell’ambito del centro storico di 
questa città, è visibile una gran quantità di materiale archeologico di 
reimpiego proveniente dalla vicina Fregellae; ciò conferma la testimonianza di 
viaggiatori ottocenteschi, i quali descrivono il largo uso che gli abitanti di 
Ceprano facevano delle pietre squadrate che si procuravano direttamente dai 
resti dell’antica città. Si ha notizia certa dell’esistenza del ponte romano di 
Ceprano, che era posto poco più a valle dell’attuale, da un’epigrafe del tempo 
di Antonino Pio che ne documentava alcuni lavori di 
restauro.
 
 
 Monumenti
 Dei diversi santuari individuati nell’area sia 
urbana che extraurbana, il più studiato è quello dedicato al dio della medicina, 
Esculapio. Situato appena fuori città, fu costruito su un sito precedentemente 
utilizzato per il culto della dea Salus, di tradizione locale e risalente agli 
anni di fondazione della colonia. Il santuario di Esculapio, realizzato 
probabilmente subito dopo il 189 a.C., era formato da un complesso a terrazze di 
singolare effetto scenografico.
 
 
 Ricostruzione ideale del 
Santuario di Esculapio
 
 La zona più importante del santuario era 
formata da un porticato a tre bracci di stile dorico, al centro del quale si 
ergeva il tempio su di un podio in opera cementizia. La centralità del tempio, 
la sua elevazione e la visione frontale che in questo modo veniva enfatizzata, 
denotano la persistenza di modelli architettonici di tradizione locale, mentre 
la presenza dei terrazzamenti e del porticato è indice dell’importazione e 
dell’assimilazione di concetti architettonici ellenistici, i cui modelli sono da 
ricercare nei complessi cultuali di Cos, Rodi e Delos. Davanti al santuario era 
forse stata ricavata una cavea teatrale, sull’esempio dei coevi santuari laziali 
di Giunone a Gabii e di Ercole Vincitore a Tivoli.
 Dalla ricostruzione 
grafica del complesso cultuale proposta, si evidenzia l’esistenza di un corpo 
centrale al cui lato lungo si addossava un pronao con relativa scalinata. Tale 
pianta, “a cella trasversale”, trova riscontro in pochi templi di area laziale e 
romana ed è da considerarsi come un retaggio di antichi culti italici dei quali 
la pianta a cella trasversale costituiva un elemento simbolico 
fondamentale.
 MINTURNAE
 
 Minturnae e' uno dei centri piu' antichi del 
Basso Lazio, situato alla foce del fiume Garigliano, al confine tra il Lazio e 
la Campania, sulla riva destra. Il suo nome si fa risalire a Minothauros, dio 
cretese, e quindi il primo nucleo potrebbe essere ricondotto alla dominazione 
dei Greci sul Mediterraneo e sull'Italia Meriodionale.
 
 
 Insieme alle 
citta' di Ausona, Sinuessa (oggi Mondragone), Suessa (oggi Sessa Aurunca) e 
Vescia, faceva parte della cosiddetta Pentapoli Aurunca, fulcro della 
confederazione degli Aurunci (o Ausoni), discendenti dei Tirreni, un popolo di 
stirpe italica.
 
 
 
 
 Intorno al IV sec. a.C. questo popolo 
entro' a contatto con i Romani, schierandosi apertamente contro di essi e 
alleandosi con i Sanniti. Le conseguenze furono disastrose: la Pentapoli venne 
letteralmente annientata nel 314 a.C. (Livio, IX, 25 "Deletaque Ausonum Gens"), 
tanto che di Ausona e di Vescia non e' rimasto che il ricordo del nome e delle 
altre solo esigue notizie. Nel 312 a.C. la costruzione della Via Appia, che 
collega Roma con Capua, interessa anche il sito di Minturnae diventandone il 
Decumano Massimo, e la citta' diviene colonia romana nel 295 a.C.   Inizia cosi' 
un nuovo periodo di prosperita', che raggiunge l'apice nel I^ secolo d.C.
 
 Di questo periodo restano e sono visibili l'acquedotto (I secolo), il 
teatro (eta' augustea), il foro con i suoi templi (eta' repubblicana e 
imperiale), le mura e l'anfiteatro.
 
 Teatro romano - interno
 Ancora 
oggi passeggiando per i resti silenziosi dell'antica Appia che attraversa 
Minturnae, osservando i resti delle botteghe, dei bagni e dei vicoli, si ha 
l'impressione di rivivere l'atmosfera Romana, risentendo il vociare degli 
antichi abitanti e il frastuono dei carri.
 
 Nell'ambulacro del teatro e' 
oggi allestito un Antiquarium dove sono esposti bellissimi reperti: marmi, 
ceramiche e statue dal I secolo a.C. al II secolo d.C.
 
 Teatro romano - 
esterno
 Minturnae segue quindi, con le dovute proporzioni, la fortuna e la 
storia di Roma, e cosi' quando quest'ultima decade, anche la sua colonia rivive 
tempi bui, fino a quando nel 590 viene devastata dai Longobardi.  Gli abitanti 
abbandonano definitivamente la citta', si rifugiano nelle vicine alture fondando 
la citta' di Traetto (oggi Minturno), e Minturnae subisce l'oltraggio di vedere 
depredati i propri marmi e colonne, a favore delle nuove costruzioni.  Il 
pontefice Gregorio Magno, abolisce il vescovato di Minturnae aggregandolo a 
quello della vicina Formia.
 NORBA
 Norba, la città di pietra, appena un 
chilometro fuori dell'abitato di Norma, in contrada Civita.
 La leggenda la 
vuole fondata da Ercole, come altre città della Provincia. La sua origine può 
ricondursi al IV sec. a.C. Dapprima ostile a Roma si impegnò con altri popoli 
Ernici e Volsci, a ripristinare il regno di Tarquinio il Superbo. Sconfitta dai 
Romani al lago Regillo lasciò, con gli alleati, nelle loro mani oltre 10.000 
prigionieri. In seguito si alleò segretamente a Roma e nel 494 a.C. sventò una 
spedizione contro essa organizzata dai Volsci. Per questo le furono restituirti 
i prigionieri della battaglia del Regillo e fu inserita nella lega Latina 
divenendo colonia militare romana.
 Nel 329 a.C. fu saccheggiata dai Volsci 
pipernesi condotti dal cittadino di Fondi Vitruvio Vacca, ribellatosi alla 
dominazione romana. Questa figura si richiama al mito volsco di Camilla 
impersona un po' lo spirito d'indipendenza italica di questa zona, sulla quale 
si incentrò a lungo la resistenza volsca alla penetrazione romana. Fu anzi 
Priverno che fornì armi e uomini a Vitruvio Vacca quando operò il tentativo di 
allontanare da queste zone Roma, nel 329 a.C..
 Vitruvio Vacca, un ricco 
cittadino di Fondi vissuto a lungo nella Capitale, forse stanco di sentirsi un 
cittadino di colonia, tornato a Fondi cominciò a profondere denaro per 
convincere i suoi concittadini e le popolazioni volsche, specialmente quelle 
dell'interno, a ribellarsi a Roma. Priverno, che meno delle altre tollerava la 
presenza romana, aderì con entusiasmo al disegno di Vacca e formato un 
agguerrito esercito, iniziò una sistematica aggressione alle posizioni degli 
invasori romani, accompagnandola con azioni che oggi chiameremmo di guerriglia. 
Furono devastate Sezze, Cori e Norma, fedeli a Roma e si registrarono episodi di 
estrema crudeltà nell'un campo e nell'altro. I Romani reagirono all'insurrezione 
e dopo essersi riorganizzati, bloccarono l'esercito di V. Vacca in Priverno che, 
alla fine si arrese. Vacca pagò con la vita, nel 328, il suo tentativo. Da 
questa data inizia praticamente il declino vero e proprio della preminenza 
italica.
 Proprio da Roma venne poi distrutta per mano di Emilio Lepido 
nell'89 a.C., come punizione per aver parteggiato per Mario contro 
Silla.
 Della città non rimasero che rovine fumanti, mai più riedificate. Del 
vecchio tessuto urbanistico restano ben visibili solo i grandi blocchi 
poligonali; ma l'aerofotografia ha rivelato l'intero tracciato esterno delle 
mura e la trama urbanistica estremamente interessante.
 Norba mostra le sue 
poderose mura difensive, lunghe 2.262 metri ed alcune costruzioni seminterrate e 
identificate in un tempio a Giunone Licina, due arces, una delle quali con un 
tempio a Diana e la seconda con altri due templi. Inoltre sono pressoché integri 
la bellissima Porta Maggiore e il bastione detto La Loggia, modellato alla 
perfezione con blocchi squadrati e sovrapposti a secco.
 
 Sul lato opposto 
della città è la Porta Segnina, meno imponente. Norma ha una storia medievale 
condizionata dai due centri urbani limitrofi più importanti, Ninfa e Sermoneta. 
Nel 1298 Benedetto Caetani,papa Bonifacio VIII, ne procurò l'acquisto a Roffredo 
e Pietro Caetani, investendo quest'ultimo dei privilegi feudali nel 1303. 
Confiscato ai Caetani da papa Alessandro VI alla fine del XV sec.,per essere 
donato insieme a Ninfa, Cisterna, Bassiano, Sermonaeta e altri comuni a Rodrigo 
Borgia, figlio di Lucrezia,tornò ai Caetani che lo vendettero nel 1619 ai 
Borghese.
 PRIVERNUM
 Non sono note le origini di Priverno che si confondano 
con quelle degli altri insediamenti del periodo protostorico laziale.
 Rare 
testimonianze referibili all'età del Bronzo suggeriscono varie ipotesi, ma , in 
sostanza, Priverno entra nella Storia solo durante il periodo dell'espansione 
romana nel Lazio: allora appare come potente centro Volsco, conquistato da Roma 
sul finire del IV secolo a.C. con la conseguente distruzione dell'abitato. Di 
questi avvenimenti ci informa Tito Livio, mentre, Virgilio, in una visione 
poetica del tutto anacronistica, fa rivivere i fatti attraverso la bella 
immagine di Camilla.
 Non è stato ancora scoperto il sito della città Volsco, 
mentre è noto quello della colonia Romana di Privernum. Durante il II secolo 
a.C. questa sorse nella Valle dell'Amaseno, pure di Virgiliana memoria, in una 
posizione di controllo delle comunicazioni stradali fra la zona costiera Tirreno 
e la valle del sacco. I reperti archeologici di Privernum ( Tiberio e Claudio 
dei musei Vaticani; i busti di Alessandro e di Germanico dei musei Capitolini; i 
mosaici policromi attualmente depositati presso il Museo Nazionale delle Terme, 
ecc.) lasciano immaginare una cittadina ricca ed evoluta nel periodo che va 
dalla Repubblica al primo secolo dell'impero. Si ignorano le cause precise che 
provocarono la scomparsa di Privernum, ma alcune circostanze particolari 
lasciano supporre che la città fu distrutta durante la seconda metà del secolo 
nono, quando era, da tempo, sede vescovile, in una delle tremende incursione 
saracene.
 E' tradizione assai diffusa, e anche plausibile, che in 
quell'occasione il popolo di Privernum si rifugiò sulle colline circostanti la 
valle dell'Amaseno, dando origine ai diversi paesi che tuttora vi si affacciano, 
tra i quali l'attuale Priverno.
 
 Parco Archeologico
 
 A soli dieci 
minuti dal centro storico di Priverno, è l'area attualmente scavata 
territorialmente assegnabile all'antica città romana di Privernum.
 
 I 
resti principali oggi fruibili e sui quali si sta incentrando l'attività di 
scavo, sono senz'altro quelli delle due ricche Dumus di impianto repubblicano, 
con strutture ben conservate sia delle aree abitate che di quelle dedicate ai 
giardini ed alle terme. Da queste abitazioni, certo appartenenti ai ceti 
dirigenti della città romana, provengono ricche pavimentazioni musive ed 
esposte, con appropriati apparati didattici al Museo di Priverno.
 
 Fra 
queste, dalla casa più piccola, una eccezionale soglia policroma raffigurante un 
gioco di pigmei in ambiente egiziano (il tipo di pavimento, rarissimo, è detto 
appunto nilotico) e dalla Domus maggiore un emblema (ovvero il riquadro centrale 
di una pavimentazione) figurato policromo.
 
 
 Interessante risulta 
inoltre il rimaneggiamento architettonico dell'assetto originale nel passaggio 
tra repubblica ed impero.
 
 
 SATRICUM
 Antica città dei Volsci, 
ritenuta area sacra ed importante. Gran parte di queste città non furono fondate 
dai Volsci ma preesistevano alla loro invasione, ed erano colonie latine o 
latino-etrusche. Tito Livio narra anche della conquista romana di Satricum, i 
cui ruderi si trovano presso B.go Montello.
 Fu contesa tra i Sanniti ed i 
Romani, fino a cadere sotto questi ultimi.
 SETIA
 (Sezze) La leggenda vuole 
il mitico Ercole fondatore della città.
 Questi infatti soggiogata la Spagna 
venne in Italia per prosciugare una palude ed edificare città: Hercules devicta 
Hispania in Italiam immigravit, desiccatisque palutibus urbes quam plurimas 
condidit.
 E che tale palude fosse quella Pontina si deduce dal fatto che 
Ercole compì tale impresa subito dopo avere sconfitto i Lestrigoni, popolo del 
basso Lazio.
 E dalle setole del leone Nemeo (setis Nemeaei leonis) con le 
quali l'Eroe era fiero coprirsi si vuole derivato il nome di Setia.
 In onore 
di tale superbo fondatore i Setini eressero un maestoso tempio e vollero che il 
simbolo della città fosse per sempre il bianco leone rampante, da Ercole ucciso, 
recante tra gli artigli una cornucopia ricolma dei beni della terra e 
incorniciato dalla scritta: Setia plena bonis gerit albi signa leonis  (Sezze 
piena di beni porta le insegne del bianco leone).
 Ma questa è appunto la 
leggenda, in effetti la storia della vera origine di Setia (calcolata nel V 
secolo a.C.) è ancora motivo di dibattito tra chi la vuole Volsca per la sua 
ubicazione geografica e chi la vuole avamposto latino.
 Questa seconda ipotesi 
sembra in verità più attendibile avendo la città capeggiato nel 340 a.C. la 
rivolta delle città latine confederate, rivolta
 soffocata da Roma nella 
battaglia di Trifano.
 Ricordiamo che già nel lontano 490 a.C. Setia fu 
assalita dall'esercito volsco comandato dal patrizio romano ribelle Coriolano 
nella guerra che questi aveva scatenato contro la patria.
 Ricordiamo pure che 
in latino il vocabolo "setius"  è un avverbio che significa "diversamente"; 
Setia era quindi una città diversa, ma diversa da chi se non dalle città volsche 
che in pratica la  circondavano.
 Assoggettata da Roma, come tutte le città 
limitrofe, e divenuta colonia romana nel 382 a.C., Setia fu un importante centro 
urbano grazie alla sua posizione strategica e commerciale a ridosso della via 
pedemontana e della via Appia, le strade che collegavano la capitale al 
meridione.
 A causa della vicinanza di Roma la città seguì di questa le 
alterne vicende, un esempio su tutti: nella guerra tra Mario e Silla i Setini si 
schierarono con il primo e vennero duramente puniti dal vincitore Silla con 
incendi e saccheggi.
 Per le sue fortificazioni e per la sua posizione isolata 
Setia fu scelta per custodire i prigionieri di guerra e da qui partì nel 198 
a.C. (come narra Livio) la rivolta degli schiavi che minacciò la grandezza di 
Roma.
 Nel periodo imperiale Setia era famosa per le sue ville e per i suoi 
vini lodati da Marziale, Giovenale e Cicerone.
 SIGNIA
 Insediamenti 
saltuari sono presenti nel territorio di Segni fin dai tempi più remoti, 
addirittura risalenti all'età del bronzo. La vera storia di Segni inizia però in 
epoca protoromana, tempi in cui Segni assurse a grande importanza in virtù anche 
della sua posizione strategica sulla Valle del fiume Sacco, quindi sulla 
direttrice che mette in contatto l'alto Lazio con il basso Lazio e la 
Campania.
 Nel VI° sec. a.C. (precisamente nel 513 a.C.) Tarquinio il Superbo, 
uno dei sette Re di Roma, inviò a Segni dei coloni e una guarnigione armata per 
proteggere, per via terra, le vie di accesso alla città di Roma. Proprio per 
questi fatti, suffragati anche da ritrovamenti archeologici, si dice che Segni 
fu fondata da Tarquinio il Superbo.
 Successivamente (495 a.C.) Sesto 
Tarquinio deduce a Segni una seconda colonia.
 In entrambi i casi, come 
consuetudine di quei tempi, una buona dose di coloni romani viene ad insediarsi 
nel territorio di Segni.
 Ma Segni, sin dai primordi, fu una città-stato 
autonoma fino al 340 a.C. quando venne conquistata dai Romani che ben presto le 
concessero la dignità di Municipio, godendo così di relativa indipendenza, ma 
con obblighi di alleanza con la stessa Roma.
 Infatti nel 493 a.C. i Segnini 
furono uno dei popoli sottoscrittori del Foedus Cassianum, patto di alleanza 
stipulato tra le città latine e Roma, dopo il termine della battaglia che i 
Romani avevano intrattenuto con popoli che si erano ribellati durante il secondo 
consolato di Spurio Cassio.
 In questi tempi Segni era dunque una città tanto 
fiorente che, unica in tutto il Lazio, coniava monete d'argento con la scritta 
SEIC e addestrava milizie proprie con le quali offriva aiuto a Roma (A tal 
proposito sembra che il nome "Segni" derivi proprio dal SEIC suddetto, indicante 
il cinghiale, animale sacro per gli antichi abitanti di Segni, anche se altri lo 
fanno derivare dalle insegne di Tarquinio il Superbo - SEIGNIA, in latino- o 
dalla statua del dio Mercurio -Signinum-, presente nel recto delle monete di 
Segni, oppure ancora segno (seignom) distintivo di Segni che, sola fra tante 
città latine, coniava moneta) .
 Signia è governata da quattro pretori, due 
per la legislazione e due per il governo effettivo. E' alleata fedele di Roma, 
particolarmente nei momenti più difficili, e per questo viene scelta come luogo 
di confino dei prigionieri punici durante la guerra contro Annibale di 
Cartagine. Durante la battaglia fra Mario il giovane e Silla, i segnini 
parteggiarono per il primo: alla sua sconfitta (nella battaglia di Sacriporto, 
vicino Piombinara) i segnini ricevettero una cruda rappresaglia da parte di 
Silla.
 Si arriva così all'89 a.C. (guerra marsica), anno in cui Segni 
acquisì la condizione di Municipio ed il diritto di fregiarsi della sigla 
S.P.Q.S. (Senatus PopulusQue Signinus).
 Durante l'era repubblicana ed il 
successivo periodo imperiale, a Signia viene costruito il foro, i templi al dio 
Ercole, alla Bona Dea, vengono innalzati monumenti a varie divinità ed 
all'imperatore Marco Aurelio Antonino (detto Caracalla) e vengono costruite 
numerose, e lussuose, ville nel circondario.
 In epoca molto posteriore Segni 
subì i gravi disagi conseguenti alla guerra greco-gotica che portò un periodo di 
recessione economico-sociale.
 Tra la fine del sec. VI e l'inizio del 
successivo nacque a Segni Vitaliano, Papa dal 657 al 672. Questi cercò un 
riavvicinamento con l'Impero Bizantino e con la Chiesa di Costantinopoli, inviò 
missionari in Inghilterra e diffuse il canto Gregoriano.
 In epoca bizantina 
Segni ebbe una ripresa economico-sociale.
 Monumenti
 E' la volsca Signia, 
ed è ancora cinta da mura ciclopiche (sec. VI a. C. ) ben conservate, nelle 
quali si aprono alcune porte.
 
 Porta Saracena
 
 Notevoli i resti 
delle mura, con la c.d. Porta Saracena, larga in alto m. 1,40 e alla base m. 3, 
di forma ogivale con architrave monolitico.
 Oltre la Porta Saracena sono 
presenti altre porte minori, già descritte dai numerosi archeologi che 
periodicamente hanno fatto studi su Segni:
 La "Portelletta", subito sotto il 
curvone di Pianillo;
 Una porta nel tratto intermedio fra la Saracena e la 
Portelletta;
 Una piccola porta, senza architrave, subito sotto la pineta di 
Pianillo;
 La "Porta Santa", subito sotto S.Pietro, dalla caratteristica 
arcata ogivale;
 La "Porta Foca";
 La porta in corrispondenza del Ponte 
Scarabeo;
 La porta del Lucino.
 Altri monumenti degni di nota 
sono:
 Sull'Acropoli i resti di un tempio del III-II sec. a.C. (parzialmente 
inglobati nella chiesa di S.Pietro (sec. XIII), che occupa la cella centrale 
dell'antico tempio),
 
 Cisterna Romana
 e la Cisterna Romana, 
anticamente utilizzata per il recupero dell'acqua piovana per uso umano, in 
mattoni di tufo cementati con l' "Opus Signinum" (tipo particolare di calce, 
caratteristica del luogo, famosa nel tempo antico perchè molto resistente ed 
impermeabile all'acqua);
 nel centro storico la Cattedrale, con la facciata 
neoclassica progettata dal Valadier.
 VELITRAE
 ORIGINI
 L’origine di 
Velletri, così come quello di molte altre città la cui storia "si perde, 
nell’oscurità dei tempi, è incerta per cui, in mancanza di testimonianze certe 
ed univoche, si è cercato di ricostruirla attraverso "fonti" rilevatosi 
successivamente inattendibili e "congetture" che non hanno retto neanche al 
primo riscontro. Nessuno degli antichi storici parlano della fondazione di 
Velletri, né di quella delle altre città del Lazio; essi si limitano a 
ricordarle indirettamente, nelle narrazioni delle gesta romane.
 C’è chi 
ritiene che Velletri sia stata fondata dai Volsci, di cui ne divenne la capitale 
e chi sostiene invece che la nostra città nacque etrusca intorno al 700 a.C., 
tanto per citare due tesi del tutto contrastanti quanto puntigliosamente 
difese.
 I Volsci erano un popolo forte e guerriero che verso il VI sec. a.C. 
vennero a stabilirsi sui monti Lepini occupando quella vasta zona di territorio 
che si estendeva da Segni sino a Sora e Cassino attraverso la valle del Sacco e 
da Sezze e Priverno sino a Terracina, Fondi e Formia, attraverso le Paludi 
pontine. Più che i fertili campi della Campagna veliterna deve essere stata 
l’invidiabile posizione strategica della città ad indurli ad occupare 
Velletri.
 A riprova di ciò Svetonio, ne Le vite dei dodici Cesari, riferisce 
che a Velletri si trovava un tempio di Marte, nume tutelare della gente volsca. 
Questo tempio era in grande rinomanza presso tutta la nazione, la quale vi 
conveniva a sacrificare per la pubblica prosperità e a prendere i presagi. Il 
che diede motivo ai poeti di chiamare Velletri Urbs inclyta Martis, celebre 
città di Marte.
 Gli Etruschi, invece, provenivano dall’Etruria da dove si 
spinsero verso il Sud per barattare i loro utensili in metallo con quelli di 
altre civiltà e lungo il percorso di questa lenta ma costante marcia ad ogni 
tappa ponevano la base di una città in cui si soffermavano per qualche tempo. 
Possiamo quindi ricostruire l’itinerario del loro avvicinamento al mondo greco 
dalle città da essi fondate: Veio a nord del luogo dove qualche secolo dopo 
sarebbe sorta Roma, Tivoli su una altura lontana dagli acquitrini paludosi e 
malarici, Tusculum, l’attuale Frascati, Praeneste ossia Palestrina, Cori sino a 
Capua dove vennero in contatto con i Greci ivi stanziati.
 
 MUNICIPIUM 
ROMANUM
 Con la nascita di Roma la città di Velletri, volsca o etrusca che 
fosse, dopo aver resistito per circa due secoli alle forti pressioni 
espansionistiche veniva conquistata dai romani.
 Velletri fu una civitas 
opulenta, come lo attestano le sue mura preromanee, le artistiche terrecotte 
volsche, preziosi tesori del VI sec. a.C., conservati nel museo di Napoli e in 
quello della nostra città. Fiera del suo Senato, della sua forza e della sua 
autorità, resistette lungamente contro la prepotenza accentratrice di Roma; e 
quando, domata da Furio Camillo, le dovette cedere il passo, essa divenne il più 
apprezzato Municipium Romanum.
 Per la tenace resistenza opposta le sue 
fortificazioni vennero rase al suolo ed i suoi cittadini portati a forza a Roma 
al di là del Tevere (ossia nell’attuale quartiere di Trastevere) ripopolandosi 
la città con coloni per la coltivazione di quelle fertili terre che l’Urbs tanto 
aveva desiderato possedere per l’invidiabile posizione strategica della nostra 
città.
 
 Pur ultima dopo gli Equi, gli Enrici e gli Aurunci, quindi, anche 
a Velletri nel 338 a.C. alla fine di una guerra che Livio definì "eterna" e 
Cicerone "gravissima", veniva soggiogata da Roma e finiva così il regno dei 
Volsci con il leggendario re Metabo e sua figlia Camilla di cui ci ha lasciato 
memoria Virgilio nell’Eneide.
 Le prime ostitilà sorsero sotto il re Anco 
Marzio; conquistata dal console Aulo Virginio, ricevette una colonia romana nel 
493 a.C. e un’altra nel 404; poco dopo la Guerra Gallica passò ad una aperta 
rivolta contro Roma e venne infine sconfitta sulle sponde dell’Astura nel 338 
a.C. Divenne, pertanto, come abbiamo appena ricordato prima una colonia e subito 
dopo il più apprezzato Municipium Romanum concorrendo con il valore ed il sangue 
dei suoi figli alle vittorie su Pirro e su Annibale.
 Era inevitabile, però, 
che il dominio romano imponesse a Velitrae e ai suoi abitanti la sua religione, 
i suoi costumi e la sua lingua facendo a poco a poco perdere memorie di tutto 
quello che rimaneva della passata civiltà. Anche se Strabone scrisse: "Quando il 
popolo dei Volsci venne assorbito dai Romani, rimase presso questi la loro 
lingua, tanto che si rappresentavano in Roma commedie in lingua volsca.
 
 LATINI
 
 L'antico Lazio (Latium Vetus) aveva approssimativamente per 
confini il Tirreno dalla foce del Tevere ad Anzio e alle alture di Terracina a 
Sud, i monti Prenestini e Lepini ad oriente ed il Tevere a Nord.
 Nell'età 
neolitica (2000 a.C.) questo territorio fu occupato da quelle tribù di Italici 
che lo abitavano più tardi, nei tempi storici, col nome di Latini, i Prisci 
Latini, vigorosa popolazione di pastori e di agricoltori, meravigliosamente 
tenace nel mettere a coltura la zona dei colli laziali e quella pianeggiante 
acquitrinosa, ricoprendo a poco a poco il paese di villaggi. Più tardi col nome 
di Lazio si indicò tutta la regione compresa fra l'Etruria, la Sabina, il Sannio 
e la Campania.
 Così Plinio indica il Lazio originario col nome di Lalium 
antiquum o vetus, e distingue nettamente da esso le parti successivamente 
aggiunte, in particolare il territorio del Liri, col nome di Latium adiectum .
 I Latini, date le condizioni del suolo e la necessità di lavori gravosi che 
richiedevano unità di sforzi e cooperazione di molteplici energie, si riuniranno 
in villaggi per utilizzare le loro forze collettive e per ragioni di difesa, in 
quella pianura aperta da ogni parte ad assalti, a rapine, a saccheggi e di 
fronte ai montanari che potevano scendere a razziare dai monti vicini della 
Sabina. Da tali condizioni derivarono certamente i forti ordinamenti militari 
che si diedero i Latini, sempre pronti a lasciare l'aratro, a interrompere i 
lavori del campo per impugnare le armi, come ce li rappresenta la leggenda di 
Cincinnato .
 La comunanza di lingua, di usanze, di civiltà, di pratiche 
religiose portava i villaggi laziali a stringere fra loro non tanto leghe 
politiche quanto federazioni religiose, per cui si riunivano in alcune feste sui 
sacrari laziali a compiere i loro sacrifici. A parte la leggenda secondo cui, 
morto Enea, che sarebbe sbarcato a Lavinium (altro centro latino, patria degli 
Dei Penati ) il figlio Ascanio avrebbe fondato Albalonga, è certo che tra i 
Colli Albani (monte Cavo) si trovava il centro religioso più rinomato, dove era 
venerato il dio supremo della stirpe, Iuppiter Latiaris.
 Sul Monte Cavo, 
sotto la direzione di Albalonga, in mezzo al recinto sacro, sull'ara dedicata a 
Giove (Aquae Ferentinae ) nella festa annua delle Feriae Latinae  si sacrificava 
un toro bianco e una parte delle carni del sacrificio era distribuita ai 
rappresentanti di tutti gli staterelli che partecipavano alla lega sacra. Una 
lista conservataci da Plinio, corrispondente a un momento arcaicissimo, ci fa 
conoscere i nomi di trentun comunità latine federate, di cui quasi una metà ci 
restano ignoti; gli altri sono: Albani, Accienses, Aefulani, Abolani, Bolani, 
Bubentani, Carventani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses, 
Latinienses, Laurentes, Longulani, Manati, Macrales, Mucienses, Numintenses, 
Octulani, Olliculani, Pedani, Poletaurini, Papiri, Polluscini, Rutuli, Sanates, 
Sasolenses, Sisolenses, Tolirienses, Titienses, Vitellienses, Vimitellari, 
Vetulani .
 Altre fonti fanno ascendere il loro numero a quarantasette, 
compresa Roma, sicchè possiamo farci una idea della condizione topografica del 
Lazio antico. Roma era destinata a succedere ad Albalonga nella direzione della 
lega.
 Un altro centro latino importante è la città di Tusculum,  che la 
tradizione vuole che sia stata fondata intorno al 900 a.C. da Telegono, figlio 
di Ulisse e di Circe. Fu resa potente dalla Lega Sacrale Albana, prima di cadere 
sotto il predominio romano.
 La derivazione del nome conferma l'antichità 
della combattiva città latina. Tusculum, secondo Festo, è in relazione con gli 
Etruschi, anche se nella zona non si sono tuttavia trovate tracce di cultura 
etrusca. E' invece documentato l'influsso delle antiche pratiche religiose 
greche. Giove era comunque la divinità più venerata, come dimostrano i ruderi 
del tempio sull'arce, e di due simulacri del dio scoperti nei pressi. Sullo 
stesso spiazzo dell'Acropoli sorgeva anche il tempio ai Dioscuri, Castore e 
Polluce, distrutto nel medioevo.
 Tusculum fu sconfitta da Roma al Lago 
Regillo intorno al 500 a.C. quando al comando dei Latini era il dittatore 
Tuscolano Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio il Superbo. Dopo molti anni, 
venne sotratta alla tribù Papiria.
 Roma soppresse tutte le magistrature 
militari e giurisdizionali della città latina e vi lasciò solo quelle incaricate 
della polizia e del mercato, ossia gli edili. Ben presto Tusculum cominciò a 
destare l'interesse dei ceti più rappresentativi ed autorevoli del popolo romano 
(la Mamilia, la Porcia, la Fulvia, la Fonteia e la Corumcaria). Molti nobili vi 
possedevano lussuose ville data l'amenità del luogo e l'abbondanza dell'acqua, 
tra cui si ricorda una villa di Tiberio e di Cicerone.
 I Latini stipularono 
con Roma un trattato di pace, il Foedus Cassianum (493 a.C.), un’ alleanza 
difensiva e offensiva. Insieme, infatti, Latini e Romani riuscirono a 
assicurarsi il controllo del Lazio, vincendo Equi e Volsci.
 Altri centri 
latini importanti sono: Aricia, che vide la sconfitta degli Etruschi di Porsenna 
ad opera dei Latini e dei Cumani; Lavinium , dove sbarcò Enea e luogo erede 
della mitica Laurentum, centro religioso famosissimo della tribù dei Laurentes; 
Horta (Orte); Tibur (Tivoli); Lanuvium e Velitrae, centri collinari posti nelle 
vicinanze del Nemus Dianae (Nemi); Ardea, capitale dei Rutuli; Antium e 
Satricum, centri marittimi; Circeii e Tarracina; Cora (Cori), Norba (Norma) e 
Signia (Segni) al confine con gli Ernici.
 Vi sono poi insediamenti 
pre-latini: Collatia (Castelverde); Gabii, luogo sacro; Praeneste (Palestrina), 
nota per le sue tombe; Nomentum, Fidenae, Ficulea (sulla via Nomentana), 
Bovillae, Aefula, Pometia, Tellanae, Caenina, Corniculum, Medullia, Ameriola, 
Ficana, Anagnia, Setia (Sezze) .
 Dopo il 340 a.C. il vecchio trattato di 
pace fu sostituito con alleanze bilaterali tra Roma e singole comunità. Roma 
consolidò il suo controllo sul Lazio e la maggior parte delle città latine fu 
incorporata nello stato romano: Tuscolo, Ariccia e Castri Moenium (Marino)  
divennero Municipi.  L’antico Latium era collegato con Roma attraverso la Via 
Castrimeniense e la Via Albana. Nel 312 a.C., sul tracciato della via Albana, fu 
iniziata la costruzione della Via Appia, che garantiva un comodo e rapido 
collegamento da Roma fino a Brindisi.
 ROMA  e  le  LEGGENDE
 Numerose 
sono le leggende che legano Roma con i Latini.
 Una prima leggenda si 
richiama al mito degli Oriazi e Curiazi, secondo la quale l'esito della guerra 
tra i due popoli venne deciso dal duello tra sei gemelli (tre per parte) che 
rappresentavano i due popoli. Alla fine vinsero gli Oriazi: dopo un duello solo 
un Orazi sopravvisse contro tre Curiazi. Il primo però tramite uno stratagemma, 
iniziò a correre, e ad uno ad uno uccise i tre gemelli. Così Roma ottenne 
l'indipendenza dai Latini.
 ENEA, leggendario eroe, figlio del troiano 
Anchise e della dea Venere, fuggì dalla città di Troia in fiamme dopo che venne 
occupata dagli Achei. Dopo varie peregrinazioni giunse via mare nel Lazio come 
gli era stato predetto dalle divinità. Qui, sconfitto Turno, re dei Rutuli, 
tribù latina, sposò la figlia del re, Lavinia, e divenne il progenitore della 
famiglia Giulia, cui appartenevano Cesare, Augusto ed altri imperatori 
successivi. Il figlio di Enea, Iulo, infatti fondò Albalonga, città d'origine 
dei due gemelli Romolo e Remo.
 La leggenda tramanda che il dio Marte aveva 
posseduto con la forza Rea Silvia, in un bosco sacro dove era andata a prendere 
dell'acqua; con la forza, perché come vestale aveva l'obbligo di rimanere 
vergine. Nacquero dei gemelli, Romolo e Remo, che il re di Albalonga Amulio, che 
aveva spodestato il fratello Numitore, padre di Rea Silvia, ordinò di uccidere. 
Ma i servi ebbero pietà dei bambini, li misero in una cesta e li abbandonarono 
alla corrente del fiume Tevere. Il fiume in piena trascinò la cesta fino a una 
grotta collocata alla base del Palatino, detta Lupercale perché sacra a Marte e 
a Fauno Luperco. Qui i gemelli furono allattati da una lupa e poi allevati dal 
pastore Faustolo e da sua moglie, Acca Larenzia, nella loro capanna situata 
sulla sommità del Palatino, nella zona del colle chiamata Cermalo (o Germano, 
che significa "gemello").
 Dopo un'adolescenza libera, e un po' selvaggia, una 
volta diventati grandi e venuti a conoscenza delle loro origini, i gemelli 
andarono ad Albalonga, uccisero re Amulio e rimisero sul trono il nonno 
Numitore. Numitore diede loro il premesso di fondare una città, e subito i due 
cominciarono a litigare sul luogo dove costruirla: Romolo preferiva il Palatino, 
Remo l'Aventino. Alla fine Romolo ebbe la meglio e scelse il Palatino dove 
costruì le mura della città: Roma.
 Remo però scavalcò le mura con lo scopo 
di annullarne l'inviolabilità. E sulle mura Romolo l'uccise. Tale leggenda è 
stata redatta dai romani che volevano dare una sacralità alla loro stirpe e 
quale idea migliore che discendere da Enea, l'eroe troiano.
 Ancora una 
leggenda: i Dioscuri, personaggi legati al mondo della mitologia antica, erano 
due fratelli gemelli di nome Castore e Polluce, figli di Zeus. Il loro culto è 
originario della Grecia, ma si diffuse rapidamente anche in Italia. I due 
fratelli erano intervenuti in aiuto di Roma durante la battaglia del lago 
Regillo contro la Lega Latina, nel 496 a.c. In ricordo di questo avvenimento 
venne edificato un tempio, a loro dedicato, nel Foro Romano.
 Le città 
latine:
 ALBA POMPEIA
 
 La luminosa immagine che il Theatrum Sabuadiae 
offre della città di Alba, così come appariva verso la metà del Seicento, 
fornisce una testimonianza preziosa dell’assetto urbano che si era andato 
delineando nel corso dei secoli e che si è conservato sostanzialmente integro. 
Nel triangolo formato dalla confluenza del torrente Cherasca nel fiume Tanaro, 
ai piedi delle colline che si sviluppano verso Sud - Est dando vita al 
territorio della Bassa Langa, l’antico impianto urbano di Alba vi appare infatti 
chiaramente delineato dal sistema medioevale di mura di difesa. Se su questa 
immagine seicentesca se ne sovrapponesse un’altra dei nostri giorni, si 
osserverebbe che gli elementi non coincidenti sono veramente pochi. Ancora oggi 
il centro storico di Alba appare delimitato entro un tracciato a forma di 
esagono irregolare e con gli angoli smussati. I lati di questo grande esagono, 
che seguono appunto il tracciato delle mura medioevali, sono oggi costituiti da 
una serie di corsi - Giacomo Matteotti, Nino Bixio, Michele Coppino e Fratelli 
Bandiera - in gran parte alberati, che formano una sorta di “anello verde” 
attorno al nucleo centrale della città. All’interno di questa area, dove si 
trovano i monumenti più antichi e più importanti di Alba, è ancora possibile 
individuare le tracce dell’organizzazione urbanistica romana, con i due assi 
viari perpendicolari principali costituiti dalle attuali via Vittorio Emanuele 
II - via Vernazza e corso Cavour - via Vida. Città antica, Alba, lo rivela la 
struttura ancora medioevale del suo centro storico e dei suoi portici. Lo palesa 
la suggestione delle sue numerose torri e case - torri, elementi superstiti di 
un sistema urbano di potere delle grandi famiglie, un sistema che in passato 
poteva contare su un numero incredibile di alte e potenti strutture di difesa. E 
non è forse un caso che Alba sia anche detta la “Città dalle cento torri”. 
Tuttavia, la storia di Alba è ben più antica di quella che oggi appare dalle 
presenze medioevali. I primi insediamenti umani nel suo territorio risalgono 
sicuramente alla preistoria, come testimoniano i numerosi reperti archeologici 
rinvenuti in epoche diverse in varie zone dell’area urbana, e soprattutto in 
Borgo Piave e sulla sponda sinistra del Cherasca a breve distanza dalla 
confluenza del torrente nel Tanaro. Una grande quantità di materiale 
archeologico - e di particolare interesse è il gruppo di circa 500 “accette” in 
pietra - in una stratificazione che si estende dall’età neolitica all’età del 
ferro. Il primo abitato venne probabilmente fondato da tribù dei Liguri 
Stazielli e già sul finire del V secolo a.C. aveva visto l’invasione di Galli. I 
Romani lo conquistarono con le loro legioni nel 100 a.C. e, pochi anni dopo, 
eretta in municipium e ottenuta la cittadinanza romana, la città si chiamò Alba 
Pompeia, in onore del console Gneo Pompeo Strabone che, nell’89 a.C., era stato 
promotore della relativa legge, venne ascritta alla tribù Camilia e inserita 
nella IX Regione. All’interno del vastissimo Impero Romano, Alba e i suoi 
abitanti ebbero un ruolo certamente non secondario se si tiene presente che la 
città fu patria di un Imperatore, Publio Elvio Pertinace. Agli albori del 
cristianesimo, già verso la metà del III secolo, Alba e il suo territorio 
registrano le missioni di apostolato e conversione dei pagani di San Dalmazzo e 
San Frontiniano, mentre la città divenne sede vescovile sicuramente a partire 
dal IV secolo. Eletta a Contea in epoca carolingia, Alba vide le devastazioni di 
bande di “saraceni” nel IX secolo, mentre due secoli dopo si costituì in libero 
Comune, spesso in lotta con altri potenti vicini e, in particolare, con Asti. In 
breve, i secoli successivi registrano la sottomissione a Carlo d’Angiò (1259), 
il passaggio ai Marchesi del Monferrato (1283), ai Visconti (1347) e quindi ai 
Gonzaga sino al 1631 quando, con il trattato di Cherasco, Alba e il suo 
territorio passarono ai Savoia seguendone le vicende storiche. Di particolare 
rilievo storico e civile è da ricordare, all’interno della lotta di resistenza 
al nazi - fascismo - e, ad Alba, venne conferita la medaglia d’oro al Valor 
Militare -, la proclamazione della “Libera Repubblica di Alba” durata dal 10 
ottobre al 2 novembre 1944. Torri e case - torri, campanili, chiese, edifici 
pubblici e privati edificati a partire dal medioevo e sino al periodo liberty, 
caratterizzano l’area del centro storico di Alba, dove si concentra anche la 
vita civile e sociale degli albesi. Con alcune vie e piazze privilegiate, come 
via Vittorio Emanuele II che gli albesi preferiscono chiamare con l’antica 
denominazione di “via Maestra”, ricca di edifici medioevali e rinascimentali, di 
chiese, di esercizi commerciali, bar e negozi eleganti e raffinati. E, ancora, 
corso Cavour, con le sue presenze storico - artistiche, i portici antichi e la 
forte memoria complessiva di suggestivi ambienti 
medioevali.
 ANTEMNAE
 
 Antemnae era un'antica città del Lazio la cui 
storia si lega ad episodi leggendari, come il fatto che fosse stata già 
conquistata da Romolo e che alcuni episodi la legano al famoso ratto delle 
Sabine. Dell'antico sito laziale non ci rimane nulla, ma sappiamo che il 
toponimo deriva, secondo Varrone, dalla sua posizione posta davanti all'Aniene 
(ante amnem = davanti al fiume).
 Nel 1878 fu costruito il Forte 
distruggendo un antico abitato del latius vetus. Durante i lavori furono 
scoperti numerosi reperti databili dal VII al V sec. a.C.
 ANTIUM
 Secondo 
lo storico Xenagora Anzio fu fondata da Anteo, figlio di Ulisse e della maga 
Circe, mentre un'altra leggenda del ciclo troiano attribuisce alla città un 
diverso fondatore: Ascanio, figlio di Enea. Anche se la scoperta di reperti 
archeologici risalenti all'età della pietra testimoniano la presenza dell'uomo 
fin da quella lontana epoca, certo è che le fonti storiche hanno accertato la 
fondazione della città vera e propria, chiamata Antium, durante la civiltà 
laziale, agli inizi del primo millennio a.C.
 Addossata a quel promontorio che 
interrompe il piatto scorrere della costa laziale, agli inizi del primo 
millennio a sud di Roma, dalla foce del Tevere fino al Circeo, Anzio deve a tale 
favorevole posizione la propria origine ed il proprio straordinario sviluppo. 
L'Antium latina, fiorente centro commerciale e punto di partenza di scorrerie 
piratesche in tutto il Mediterraneo, ebbe nel suo porto, chiamato "Caenon", la 
fonte della sua potenza.
 Occupata dai Volsci intorno all'anno 490 a.C. 
divenne fiera avversaria di Roma; si pose alla guida di altre città divenute 
volsche e iniziò un lungo periodo di belligeranza, caratterizzato da numerosi 
episodi tra i quali il più noto è quello del patrizio Coriolano che, esiliato in 
Anzio e divenuto comandante delle truppe volsche, giunse a  minacciare la 
sicurezza di Roma.
 La lunga guerra si concluse solo nel 338 a.C. con la 
distruzione della città ad opera delle legioni del console Marco Furio Camillo. 
I romani ornarono con i rostri strappati alle navi anziati la tribuna del Foro  
da  cui  si tenevano i  comizi   e  che  da  allora  fu  detta "tribuna 
rostrata" .
 Colonia romana dal 338 a.C.  fu  partigiana di Cornelio Silla 
durante la guerra civile e per tale ragione  fu  distrutta  dalle truppe di Caio 
Mario nell' 87 a.C.
 Sul   finire  dell'età  repubblicana  Anzio  conobbe  un 
periodo di vero splendore  diventando  il  luogo  di   villeggiatura  preferito  
dai  ricchi patrizi di Roma: templi, circhi e palazzi abbellirono la città 
mentre lungo la costa si edificarono le ville dei più importanti personaggi del 
tempo: Marco Tullio Cicerone, Mecenate, Caio Lucrezio e Cesare Augusto.
 
 
 
 
 Un braccio del Porto neroniano
 
 
 
 
 La 
biblioteca di Domiziano
 
 
 In età imperiale soggiornarono ad Anzio tutti 
gli imperatori: Augusto vi fu proclamato Padre della Patria, Caligola, che ne 
voleva fare la capitale dell'impero, Adriano, che la descriveva come uno dei 
luoghi più belli d'Italia ma fu Nerone, che ad  Anzio nacque, ad edificarvi il 
porto, mirabile esempio di ingegneria marittima ed ad abbellire la reggia e la 
città di marmi e statue famose oggi esposte nei più grandi musei del mondo, come 
la Fanciulla d'Anzio (Museo nazionale) il Gladiatore Borghese (Louvre) e 
l'Apollo del Belvedere (Musei Vaticani). La decadenza dell'impero romano fu 
condivisa dalla città che, soggetta alle invasioni ed ai saccheggi dei barbari 
prima e dei saraceni poi, fu abbandonata dalla popolazione che fondò la vicina 
città di Nettuno.
 
 
 VILLA  IMPERIALE  DI  NERONE
 TEMPLI  DI  
CULTO  PRECRISTIANO
 
 Teatro Romano
 Il teatro misura 30 m. di diametro, 
possiede una cavea suddivisa in 11 cunei o settori radiali, tagliati a metà da 
un corridoio coperto ed ornato da lesene intervallate. Tre accessi, costituiti 
da un fornice centrale e due laterali assicuravano alla cavea un ottimale 
accesso e una razionale distribuzione degli spettatori nei vari settori. Mentre 
le gratinate sono andate distrutte, a stento si può riconoscere l’ubicazione 
della orchestra che aveva un diametro di circa 10m.
 La scena che chiude il 
semicerchio della cavea era articolata da quattro grossi corpi in muratura che, 
simmetricamente creavano rientranze e sporgenze, luci ed ombre. Ai piedi del 
palco della scena, due corridoi permettevano il passaggio degli attori, dei 
fondali, delle scene.
 
 Alle spalle dell'edificio che chiude la scena, 
erano ubicati dei piccoli cubicoli con volta a botte e completamente rivestiti 
in marmo bianco, da interpretarsi, vuoi per le loro proporzioni che per la loro 
ubicazione come i camerini degli attori. La facciata esterna della scena era 
abbellita da un colonnato che sorreggeva un lungo portico che sopravanzava la 
scena stessa. Tutto il restante prospetto esterno del teatro era ornato da una 
serie continua di fornici a tutto sesto sostenuti da pilastri ornati da mezze 
colonne. Sia i pilastri che le semicolonne erano state realizzate in laterizio: 
questa cortina laterizia mostra una estrema maestria nell’esecuzione, sia nella 
regolarità dei giunti che nella costante ripetizione del modulo costruttivo e, 
soprattutto, nel taglio e nella levigatura dei mattoncini che formano le 
semicolonne.
 I fori regolari di grappe, però, ci documentano che nonostante 
tanta precisione anche il prospetto esterno era rivestito di lastre di marmo. 
L'intera fabbrica del teatro, mossa dalle innumerevoli arcate e scintillanti 
marmi bianchi, era sollevata ed esaltata, per contrasto, su di un alto zoccolo 
di grossi parallelepipedi di pietra vulcanica che a guisa di podio assicurava 
oltre ad un sicuro effetto cromatico, anche un solido espediente 
statico.
 
 Il portico, costruito cioè dietro la scena, contava in origine 
ben 18 colonne. Successivamente le due ultime colonne di ogni lato furono 
inglobate in due piccoli vani riducendosi così il numero a 14. Delle colonne 
ancora oggi sono ben visibili alcune basi. Le grigie colonne, che erano state 
fatte con la stessa pietra vulcanica del basso podio, che rimanevano di fronte, 
probabilmente non erano stuccate come succedeva spesso nel mondo antico si 
operava con materiale poco pregiato, proprio per accentuare in questo caso 
l’effetto cromatico di cui abbiamo accennato prima. Se furono stuccate invece, 
quasi sicuramente furono dipinte a finto marmo scuro, simile alla pietra grigia 
dello zoccolo su cui poggiava l'intera fabbrica e lo stesso portico. Questo 
porticato sappiamo che era esplicitamente destinato a riparare gli spettatori in 
caso di pioggia repentina o per offrire loro un luogo ombreggiato durante i 
calori estivi, o comunque luogo di passaggio e di conversazione. Attraverso lo 
studio delle murature data la costruzione dell’edificio alla metà del primo 
secolo d.C. mentre gli ambienti aggiunti ed alcuni piccoli rifacimenti noi 
possiamo datarli tra la fine del I sec. o al massimo del primo decennio del II 
sec. d.C. Le dimensioni piuttosto ridotte e la ricchezza dei marmi ne fanno un 
teatro forse poco popolare, ma destinato dalla famiglia imperiale giulio-claudia 
che lo fece costruire per quella società elegante e raffinata che affollava, 
soprattutto nei mesi estivi, la città di Antium.
 ANXUR - TERRACINA
 Grazie 
alla posizione strategica situata su uno sperone roccioso, attirò le popolazioni 
dei Tirreni (Ausoni e Aurunci) (1000 a.C.), ceppo di origine indoeuropea che si 
stabilirono in questa zona dopo un vagabondare attraverso l’Italia. Essi si 
organizzarono per villaggi, sparsi sulle colline, per resistere alle incursioni 
esterne Erano strutture fortificate, realizzate con pietra e situate in 
posizioni dominanti.
 Il primo vero e proprio agglomerato urbano si creò 
sotto la dominazione etrusca (700-600 a.C.) e da questi probabilmente ereditò il 
nome attuale: prima TARRAKINA , poi TARRACINAE, TARRICINA, ed infine TERRACINA .
 Con la decadenza etrusca, conquistata dai Volsci nel V° secolo a.C., la 
città si chiamò ANXUR .
 
 I Volsci dettero, oltre al nome, la struttura 
della città. Furono i più accaniti oppositori dell’espansione romana a Sud del 
Tevere.
 Dopo aspre guerre, i Romani conquistarono tutta la Pianura Pontina 
fino a Terracina (Anxur) nel 406 a.C. Ma dovettero passare altre tragedie e 
ribellioni prima che si stendesse la efficiente "pax romana" e nel 329 a. C. 
divenne una colonia marittima di diritto romano.
 Nel 312 a.C. il Censore 
Appio Claudio conduce attraverso Terracina una via (l’Appia) che doveva 
collegare Roma con Capua e in seguito essere prolungata fino a Brindisi.
 Sono ancora visibili i resti della costruzione dell’Appia Antica in opera 
quadrata, tratti di basolato nero, qualche metro di antico marciapiede e resti 
di tombe.
 Dovrebbero risalire a quest’epoca le più antiche e imponenti 
strutture murarie in "opus poligonali" di Monticchio e Salissano.
 
 L’epoca di Silla (I° secolo a.C.) coincide con uno sviluppo notevole 
della vita cittadina e Terracina raggiunge il suo massimo splendore edilizio 
(come mostrano le testimonianze archeologiche).
 In questo periodo cambia la 
fisionomia urbanistica del centro alto: l’impianto del Foro Emiliano, i 
terrazzamenti sostruttivi a livelli graduali decrescenti verso la città bassa e 
l’impianto del Foro Severiano, in pianura.
 Di Traiano (40 a. C.) risultano 
la sistemazione del porto e il taglio di Pisco Montano, che doveva cambiare il 
percorso dell’Appia, aggirando il monte anziché scavalcarlo come aveva voluto 
Appio Claudio.
 Con la modifica del tracciato dell’Appia e la costruzione 
del porto, Terracina raggiunse il massimo sviluppo urbanistico e demografico.
 
 
 La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, (476) segnò la decadenza 
di Roma e di Terracina.
 
 TEMPIO DI GIOVE ANXUR
 Sull'alto del Monte S. 
Angelo , l'antico mons Neptunius, a più che 200 metri sul mare, sorse -forse sin 
dal IV secolo a. C.- un tempio a Juppiter Anxurus, o Giove fanciullo.
 Il 
tempio che oggi conosciamo è quello in opera incerta, dell'età di Silla: alla 
quale età si attribuisce anche la fortificazione dell'acropoli ultima della 
città. Volendosi far vedere il tempio non solo dal mare aperto, ma dalla stessa 
spiaggia, fu alzata sul ciglio del monte, su una fronte di sessanta metri 
rivolta a sud-ovest,
 
 una imponente terrazza di sostruzione, con dodici 
poderose arcate, impostate su massicci pilastri e comunicanti fra loro per mezzo 
di aperture centinate, praticate nei muri radiali.
 Contro la parete di fondo 
della cella è un basamento per la statua di Giove Anxur.
 All'esterno del 
tempio, sul fianco orientale è l'oracolo: una specie di basamento quadrilatero 
attorno a una eminenza della roccia, nel centro del quale basamento, in alto, è 
un foro comunicante con una caverna accessibile ai soli ministri del tempio, e 
da cui i sacerdoti potevano emettere le risposte oracolari ai quesiti dei 
fedeli. Innanzi e a sud-est del pronao del tempio sarebbe l'ara per i 
sacrifici.
 
 A levante del grande tempio è il cosiddetto Piccolo tempio, 
che verisimilmente era adibito a uso civile. Analogo è il sistema di sostruzione 
ad archi impostati su pilastri: questi archi erano in origine 9; ai due estremi 
erano due avancorpi con cisterne. La muratura ad elementi poco meno che informi 
e legati da malta assai abbondante fa pensare ad un'età di costruzione alquanto 
anteriore a quella del grande tempio. Più che un'opera incerta noi abbiamo qui 
una struttura più affine all'opera cementizia.
 ARDEA
 
 L’origine 
dell’antica città di Ardea è anche narrata da alcuni famosissimi miti.
 La 
più nota è la leggenda di Danae che, chiusa in una cassa con il figlioletto 
Perseo da suo padre Acrisio, approdò sulle coste laziali. Acrisio aveva 
interrogato un oracolo per sapere se mai avesse potuto avere un figlio maschio. 
Quello gli annunciò che non lui, ma sua figlia Danae avrebbe avuto un bambino: 
Perseo e che pero proprio da quest’ultimo egli sarebbe stato ucciso.
 Per 
evitare che la profezia si avverasse, Acrisio fece costruire una camera di 
bronzo sotterranea dove rinchiuse sua figlia, tenendola ben custodita. Ma 
proprio lì la raggiunse Giove che la sedusse penetrando sotto forma di pioggia 
d’oro da una fenditura del tetto.
 Quando nacque Perseo Acrisio non volle 
credere che egli avesse origine divina e mise sua figlia con il neonato in una 
cassa che affidò alle onde del mare. Secondo la mitologia romana Danae e suo 
figlio, giunti sulle coste del Lazio, finirono nelle reti di alcuni pescatori e 
furono portati da re Pilumno. Questi la sposò ed insieme fondarono la città di 
Ardea. Turno, re dei Rutuli, sarebbe stato il discendente di questa 
stirpe.
 Un’altra leggenda ardeatina è quella così narrata da Ovidio nel XIV° 
Libro delle Metamorfosi, nella quale l’airone (simbolo di Ardea) rinasce dalle 
ceneri della città bruciata dai Troiani vincitori dopo il duello tra Enea e 
Turno.
 Secondo Dionigi di Alicarnasso, infine, la fondazione di Ardea sarebbe 
da attribuire all’eroe Ardeias, figlio di Ulisse e Circe, dal quale avrebbe 
anche preso nome la città.
 Il territorio Ardeatino, ricco di corsi d'acqua, 
sorgenti (anche minerali), boschi, macchie e foreste di alberi giganteschi, 
offrì all'uomo primitivo un ambiente favorevole alla vita e alla sopravvivenza. 
Una grossa amigdala (strumento di selce a forma di madorla), conservata nel 
Museo Civico di Albano, testimonia la presenza dell'uomo ad Ardea sin dalla 
penultima glaciazione, oltre 100.000 anni fa. Dopo l'estinzione dei 
"neanderthaliani", avvenuta circa 35000 anni fa, scarse tracce si sono trovate 
relative all'età mesolitica e neolitica (homo sapiens). Sono invece molte le 
testimonianze dell'età eneolitica (2500-1700 a.c.) quando l'uomo, oltre la 
pietra, cominciò a lavorare il primo metallo: il rame. Nel territorio Ardeatino 
le genti eneolitiche erano organizzate in piccoli gruppi seminomadi.
 
 
 
 I Rutuli
 
 Gli antichi ricollegavano l'origine etnica dei 
Rutuli con il popolo Etrusco: Rutulus (che significa rosso) è un nome etrusco e 
Turno, il mitico re di Ardea, era reso in greco con Tyrrenos. Per l'affinità 
della loro lingua con quella parlata a nord del tevere, furono anch'essi 
ritenuti Tirreni, vale a dire Etruschi.
 Massimo Pallottino, invece, 
considera i Rutuli un popolo di stirpe latina e attribuisce il particolare 
legame con gli Etruschi alla forte influenza etrusca in quest'area del Lazio 
antico, anche perché la pianura costiera dove si trova Ardea, chiusa a sud dai 
monti e dalle paludi, si apriva invece a nord verso le distese pianeggianti 
dell'etruria meridionale marittima. Nell'XI secolo a.c., gli insediamenti sul 
territorio erano formati da villaggi sui pianori, poco distanti l'uno dagli 
altri. I villaggi erano composti da piccoli gruppi di capanne, a pianta ovale o 
circolare, con una struttura di pali di legno, tetto di paglia e pareti di rami 
o canne ricoperte da un intonaco di argilla. La posizione geografica di Ardea, 
tra la valle del Tevere e quella dell'Astura, a metà strada tra Ostia e Anzio, 
consentì ai Rutuli di controllare le vie del traffico e di inserirsi nella fitta 
rete di scambi commerciali e culturali che avvenivano tra l'Etruria e la 
Campania, tra la costa e l'entroterra laziale. Sempre sul litorale Ardeatino gli 
antichi ricordano l'esistenza del celebre Afrodisium (un santuario cosmopolita 
dedicato a Venere) come uno dei più grandi empori commerciali della costa 
laziale, punto di contatto tra il mondo greco e il mondo latino.
 Ardea 
diventa il centro sociale, politico e religioso che comunica direttamente con il 
mare mediante l’ultimo tratto dei due corsi d’acqua che delimitano i pianori 
tufacei sui quali sorge. Ha uno scalo marittimo (Castrum Invii), legato ai più 
antichi commerci delle coste laziali, che la pone al centro della via di 
comunicazione tra il mondo etrusco e quello greco.
 
 La società urbana dei 
Rutuli
 
 Questa situazione rese possibile, ad Ardea, un processo di grandi 
trasformazioni economiche, sociali e culturali che culminerà, nel VII secolo 
a.c. con la formazione della città e con la definitiva organizzazione della 
società urbana. L'aumento demografico della popolazione ardeatina incrementò 
l'ulteriore sviluppo del commercio, dell'artigianato locale e dell'agricoltura 
con il dissodamento e la bonifica dei terreni incolti. Si fabbricano asce, armi 
(tra cui le famose spade ardeatine di grande perfezione tecnica, oggetti di 
ornamento personale come fibule, anelli, braccialetti, collane). Nella 
lavorazione della ceramica viene usato il tornio per una produzione non più solo 
familiare. Il processo di urbanizzazione ha fatto di Ardea uno degli esempi più 
noti e citati di città arcaica per la sua posizione strategica, il suo impianto 
urbanistico, il suo imponente sistema di triplici fortificazioni.
 Nel VI-V 
secolo, Ardea aveva una superficie urbana di 40 ettari, un territorio di 198,5 
Kmq (quattro volte quello attuale), una popolazione complessiva presunta di 
oltre 8000 abitanti. La grandiosità dei templi arcaici e degli altri monumenti 
pubblici dell'Acropoli e della Civitavecchia sono la manifestazione della 
"fortuna" di Ardea come centro politico, economico e religioso dei Rutuli: "il 
popolo che in quella età e in quella regione era il più potente per le sue 
ricchezze".
 
 Ardea contro Roma
 
 Tito Livio racconta che, per 
impadronirsi del territorio e delle ricchezze dei Rutuli, i Romani attaccarono 
Ardea durante il regno di Tarquinio il Superbo. I Rutuli respinsero l'assalto 
dei Romani e, dopo la caduta della monarchia a Roma, con la cacciata di 
Tarquinio, la guerra si concluse con un trattato di pace. Per rinforzare la 
città e difenderla dai Volsci, nel 442 a.c., una colonia di Latini si insedia ad 
Ardea. Nel IV secolo a.c., sempre secondo Tito Livio, la città venne assediata 
dai Galli, che nel frattempo avevano occupato Roma. Dopo aver sconfitto i Galli 
sotto le mura della città, i Rutuli, guidati da Furio Camillo, liberano Roma 
dall'occupazione Gallica. Nel secondo trattato romano-cartaginese del 348 a.c., 
Ardea è nominata tra le città alleate dei Romani. Nel III secolo a.c., durante 
la seconda guerra punica, Ardea era una delle dodici colonie che rifiutarono ai 
Romani gli aiuti militari. In età imperiale una nuova colonizzazione si insediò 
ad Ardea in conseguenza delle vicende storiche ed economiche dell'Impero 
Romano.
 Venne costruita dai Rutuli la rete di cunicolo che attraversa 
praticamente tutta Ardea, questo per aumentare la superficie coltivabile, questa 
rete aveva lo scopo di incanalare le acque degli scoli superficiali per 
scaricarle nelle valli sottostanti e inoltre venne utilizzata come camminamenti 
militari per sorprendere alle spalle i nemici o per andare ad attingere acqua 
durante i lunghi assedi.
 
 I Monumenti
 
 Il Tempio 
dell'Acropoli
 
 Il tempio arcaico dell'Acropoli, per la sua posizione 
eminente e le sue dimensioni gigantesche (mt. 33,40 x 21,70) è stato considerato 
da alcuni archeologi come quello dedicato a Giunone Regina. Le numerose 
terrecotte architettoniche che decoravano il tempio, attestano la vita 
ininterrotta del santuario per oltre 600 anni a partire dal VI secolo a.c. 
L'altro tempio dell'Acropoli, costruito in età ellenistica, si trova nell'area 
dove attualmente c'è la chiesa di S. Pietro.
 
 Il Tempio della 
Civitavecchia, la Basilica ed il Foro Ardeatino
 
 Nella Civitavecchia (in 
località Casalinaccio) si conservano i resti di un altro tempio del VI secolo 
a.c., in connessione con una basilica del I secolo a.c.. Gli scavi del tempio, 
avvenuti negli anni trenta, riportarono alla luce il podio del santuario (alto 
mt. 1,80) costituito da tre filari di blocchi di tufo mondanati poggianti 
direttamente sulla roccia. La basilica, una delle più antiche in Italia, venne 
costruita intorno al 100 a.c. per accogliere la gran massa di gente che si 
recava al tempio.
 
 Area Sacra del Colle della Noce
 
 L'individuazione 
dell'area sacra del Colle della Noce, non è stata una scoperta casuale, ma il 
risultato di studi e ricerche sistematiche per redigere la carta archeologica di 
Ardea.
 L'arco di vita del tempio va dal VI alla prima metà del I sec. a.C.; 
era diviso in otto parti: il pronao o parte anteriore (pars antica) con otto 
colonne su due file; la parte posteriore (pars postica), formata da una cella 
centrale e due laterali, sembra fosse destinata ad accogliere i simulacri delle 
divinità . Costruito con mattoni, aveva un'intelaiatura a legno e delle colonne 
lignee per sorreggere le coperture a debole pendenza con gronde assai sporgenti; 
era riccamente ornato con lastre di terracotta a colori vivaci (generalmente 
tre: rosso, nero e bianco avorio) e con elementi decorativi che evidenziano la 
stessa matrice d'origine dei materiali fittili negli altri due templi 
ardeatini.
 Sotto il piano di calpestio del tempio, al centro del perimetro, 
sono emerse delle tracce di fori di pali e canalette di scolo per l'acqua, 
appartenenti a fondi di due capanne dell'età del ferro.
 Una delle capanne, 
sorgeva sul punto più elevato, esattamente al centro della collinetta del Colle 
della Noce, con l'ingresso rivolto ad est. Il santuario presenta lo stesso 
orientamento delle due capanne e queste, ne costituiscono l'asse geometrico, 
essendo poste esattamente al centro dell'edificio. Si sono rinvenute, infine, 
numerose tracce attribuibili ad almeno altre quattro capanne.
 La vita del 
tempio è testimoniata dallo studio dei reperti ritrovati all'interno dei cavi di 
fondazione ed in un ambiente ipogeo affiancato allo stesso: deposito di 
materiale decorativo e fittile in disuso.
 I ritrovamenti hanno permesso così 
l'individuazione dei secoli di vita del tempio, ma non quella cronologica dei 
vari rifacimenti ed ampliamenti.
 ARICIA
 La fondazione della città, 
avvenuta secondo la tradizione per opera di Archiloco Siculo, risale a ben 14 
secoli a.C. Secondo quanto testimoniano i numerosissimi resti, la città era 
posta all'interno della conca craterica della Valle Ariccia. Questa comunità fu 
tra i protagonisti più attivi, prima della Lega Albana, poi di quella Latina.
 
 Porta RomanaIn seguito l'insediamento si spostò sui colli sovrastanti e 
s'inserì nella vita romana ottenendo la piena municipalità. Per certo fu da 
questo periodo che si stabilì quello stretto rapporto tra l'insediamento e la 
Via Appia, che ha costituito uno degli elementi determinanti in tutte le vicende 
successive della città.
 
 In proposito è significativa la sua funzione di 
prima stazione di posta lungo la Via Appia, a partire da Roma. In età imperiale, 
venne costituendosi, al di qua ed al di là dell'Appia, una grande città, ricca 
di templi, terme, fori ed edifici pubblici, il cui territorio, esteso fino al 
Tempio di Diana Nemorense, sulle rive del Lago di Nemi, si riempì di sontuose 
ville, delle quali ancora oggi esistono numerosi resti (ricordiamo la villa di 
Vitellio). La decadenza di Ariccia cominciò con le invasioni barbariche, e fu 
facilitata dalla stessa posizione della città, la quale, trovandosi sopra una 
grande via militare, fu esposta prima alle scorrerie dei Goti, poi a quelle dei 
Vandali, ed infine a quelle dei Saraceni, che nell'827 la distrussero. Gli 
abitanti superstiti trovarono rifugio sul colle dove era posta l’'Acropoli 
dell'antica città romana e vi formarono una nuova comunità. Le prime notizie del 
Castrum o Castellanum Ariciensis riferiscono che nel 990 era dominio di Guido, 
"dux" della potente Famiglia Tuscolana.
 
 Villa di Vitellio
 
 La 
Battaglia di Ariccia
 Venticinque secoli fa: Iniziata la battaglia, gli 
Etruschi si erano lanciati all'attacco con tanta foga, che sbaragliarono col 
solo urto gli Aricini: le coorti cumane opponendo l'astuzia alla violenza, 
ripiegarono un poco, e quando i nemici le ebbero superate, operata una 
conversione li assalirono, sbandati com'erano, alle spalle. Così, presi in 
mezzo, gli Etruschi già quasi vincitori furono sbaragliati ... (Tito Livio - 
Storia di Roma).
 Questo è quanto è giunto fino a noi della storica battaglia 
del 506 a.C., in cui gli Aricini, alleati dei Cumani, affrontarono e vinsero gli 
Etruschi capeggiati da Arunte figlio di Porsenna.
 
 Gli studiosi hanno 
analizzato la caduta di Tarquinio il Superbo (510 a.C e quindi del dominio dei 
re etruschi su Roma), che causò la discesa di Porsenna e di suo figlio Arunte, 
che muoverà col suo esercito contro Aricia, città a capo della Lega Latina. 
Hanno discusso della politica del cumano Aristodemo (filo-popolare e 
anti-oligarchica) ed ha ipotizzato che tali idee politiche da Cuma siano 
penetrate a Roma, dando vita a quella grande rivoluzione culturale che fu la 
Repubblica romana: i fatti di Ariccia vanno letti in chiave simbolica; la 
sconfitta degli etruschi rappresenta l'allontanarsi dal mondo romano del modello 
etrusco (legato alla monarchia) e l'adozione di quello greco che proponeva una 
politica nuova e democratica. Infatti Roma fu influenzata nelle espressioni 
artistiche e religiose con l'entrata di divinità come Libero e Libera, cui 
furono dedicati dei templi sull'Aventino.
 A seguito degli scavi in corso 
presso il tempio di Diana aricina a Nemi, si è sviluppata un'ipotesi in base 
alla quale esistevano due centri, uno politico ed uno religioso, che esistevano 
ad Ariccia: quello politico era presso il bosco e la sorgente Ferentina ai piedi 
di Monte Savello, località in cui si riuniva la Lega Latina.
 Quello 
religioso era il lucus dedicato a Diana nemorense nel bosco sacro. Quello presso 
Monte Savello era legato a Turno Erdonio, che vi morì affogato (probabile 
sacrificio rituale di purificazione, legato alla costruzione dell'emissario del 
lago albano).
 BOVILLAE
 Bovillae è un territorio che si colloca fra Roma e 
i Castelli romani lungo la direttrice Appia. L'Appia da Porta Capena raggiungeva 
" Bovillae " (Frattocchie), località d'epoca romana, crocevia fra la Appia 
("Regina Viarum") e la via delle transumanze.
 Molte sono le testimonianze che 
ricordano quel periodo, fra le altre un lungo tratto dell'Appia stessa, 
costeggiata com'era dai numerosi mausolei che in epoca medievale furono 
utilizzati come basi per costruirvi le torri d'avvistamento, oltre che gli archi 
dell'antico circo cittadino e tanti altri reperti. Di Bovillae si dice fosse 
originaria la Gens Julia da cui discendeva l'Imperatore Augusto.
 Qualche 
decennio più tardi leggenda e storia si intrecciano ancora su un altro 
personaggio: Coriolano il quale avrebbe saccheggiato Bovillae. Stavolta sono i 
popoli immigrati dall'entroterra, Equi e Volsci, ad aggredire Latini e Romani. 
Coriolano guida questi contro Roma, salva per il momento ma obbligata a vari 
decenni di lotte per respingerli e per occuparne le sedi. Circostanza che, tra 
l'altro, dà corpo alla espansione romana e alla sua egemonia segnata dalla 
costruzione dell'Appia nel 312 a.C. Segue la crisi socio-economica del III 
secolo che genera le guerre civili e sociali. Gli scontri tra Mario, filoitalico 
e Silla, che rappresenta gli interessi del Senato romano, hanno per teatro tutto 
il territorio tra Palestrina ed il mare. Silla, vincente, impone una presenza 
militare, rafforzata dalla colonizzazione. Nasce Castrimoenium, l'oppidum, sul 
quale si svilupperà Marino, e viene rifondata, come colonia Bovillae. E' questo 
centro ad avere, dopo l'uccisione di Clodio, nel 52 a.C., il suo apogeo nell'età 
augustea e nel primo impero, allorché il Foro e i principali monumenti, Teatro, 
Santuari vengono ridisegnati a fianco dell'Appia, mentre tutto attorno sorgono 
ville patrizie tra le più importanti del contesto albano.
 Archi del Circo 
dell'antica Bovillae
 Si tratta di 3 archi in blocchi di peperino che 
costituiscono l'ingresso dei carceres (ossia i locali da cui uscivano le bighe) 
che in origine dovevano essere dodici. Probabilmente fu costruito da Tiberio 
quando promosse i giochi per onorare la memoria di Augusto e delle gens Julia, 
originarie appunto di Bovillae. Il Circo poteva contenere circa 10.000 
spettatori.
 CABUM
 Intorno all’ "Arx aesulana", altura sacra dove si levava 
il collegio dei "sacerdoti cabensi", in quella posizione splendida occupata 
dall’attuale fortezza, nacquero i primi insediamenti umani della futura città di 
Rocca di Papa.
 L’Arx aesulana rappresentava l’emblema e la potenza della 
città di Cabum, che si estendeva per i Campi d’Annibale ad Est dell’acropoli. Da 
Cabum prese, poi, nome il monte Albano, identificato successivamente come Monte 
Cavo.
 Sul Monte Cavo si stagliava maestoso il tempio di Iuppiter Latiaris 
dove convenivano i Latini, gli Equi e i Volsci per pregare e rendere gli auspici 
al Giove e per festeggiare l’alleanza raggiunta tra le città. Dell’antico 
santuario posto sulla vetta di Mons Albanus nulla è più visibile, tranne alcune 
file di grandi blocchi squadrati di pietra sperone che ne delimitavano il 
perimetro, oltretutto alloggiati attualmente fuori posto.
 La "Via Sacra" o 
"Via Trionfale" nasce in relazione alla presenza di un luogo di culto risalente 
ad epoca arcaica, come attestano le fonti letterarie antiche (Floro, tra gli 
altri, ricorda come Ascanio, figlio di Enea, dopo aver fondato Alba Longa, 
radunò un’assemblea di latini su Mons Albanus per celebrare dei sacrifici in 
onore a Giove), confermate dal ritrovamento di frammenti di ceramica arcaica in 
quest’area. Per le popolazioni latine Mons Albanus era la montagna sacra per 
eccellenza, dimora di Giove, il padre di tutti gli dei, denominato col suo 
appellativo locale di Iuppiter Latiaris. Nel suo santuario si celebravano ogni 
anno le feriae latinae, momento cruciale d’incontro tra tutte le città latine 
confederate, durante le quali era sacrificato un toro dalle bianche carni, poi 
distribuito ai vari rappresentanti della "nazione" latina come simbolo di 
amicizia e fratellanza. Si trattava, quindi, di un culto di carattere federale, 
perché serviva a rinsaldare i vincoli religiosi, politici ed economici che 
univano le antiche popolazioni latine, e il cui momento di maggior prestigio 
coincide con il periodo precedente all’affermazione della supremazia di Roma. 
Sul Monte Albano erano soliti anche recarsi i condottieri vittoriosi dopo le 
imprese militari per raccogliere gli onori tributati tramite "il piccolo 
trionfo" e "l’ovazione". I condottieri, gli eroi e i benemeriti della Patria, 
raggiungevano il tempio di Giove Laziale percorrendo la Via Sacra che si dipana, 
conservata ancora in ottimo stato, dall’antica via Appia inerpicandosi verso il 
Monte.
 Sotto il regno del re Tarquinio il Superbo il tempio conobbe il 
maggior sfarzo perché il sovrano aveva intuito l’importanza della religione e la 
usava per rafforzare l’accordo politico sottoscritto da 47 città di provenienza 
diversa. La città di Cabum, però, subì la sorte delle altre città latine e dopo 
la battaglia combattuta presso il fiume Stura perse ogni potere tanto che di 
essa rimase solo l’Arx aesulana, conservata quasi integra fino al 4° secolo 
d.C.. Nei secoli successivi all’antica Arx venne dato il nome di "Rocca de Monte 
gavo" e di "Castrum de Montis albani".
 A ulteriore suggello della supremazia 
di Roma sulle popolazioni latine viene fondato nel 507 a.C. circa il tempio di 
Iuppiter Capitolinus sul Campidoglio, che tende a sostituire quello di Mons 
Albanus; di conseguenza, mentre il tempio di Giove a Roma serviva a celebrare il 
trionfo di un condottiero, quello di Mons Albanus era normalmente riservato alle 
ovationes, concesse a chi era riuscito a vincere il nemico più con l’arte della 
diplomazia che con le armi, oppure a chi era stato negato il trionfo sul 
Campidoglio.
 COLLATIA
 
 Collatia, antica città di remote origine 
etrusche già scomparsa ai tempi della Roma imperiale, è individuata a Lunghezza. 
Se la loro teoria è esatta, nel sottosuolo del castello di Lunghezza vi 
sarebbero ancora custoditi i luoghi in cui si svolsero avvenimenti che 
precedettero la cacciata dei Tarquini da Roma da parte di Bruno Collatino, fiero 
guerriero e signore della cittadella, marito amoroso della dolce Lucrezia che si 
uccise dopo essere stata oltraggiata " dal vile Sextius ", figlio del Superbo. 
Su queste rovine della memoria inizia l'evoluzione che, come una macchina del 
tempo, ci porterà fino ai nostri giorni. Ed ecco allora nel primo secolo d.C. ci 
ritroviamo in una sontuosa villa romana contemporanea alla villa dell'Imperatore 
Adriano i cui ruderi, ancora ben conservati, sono appena a quindici chilometri 
da Lunghezza.
 Le notizie più antiche dell'impianto medievale risalgono al 
752 quando Tedone, monaco di San Salvatore in Sabina, vendette alla Badia di 
Farfa, per venti libbre d'argento il " Casalem qui dicitur Longitia ". 
Lentamente la Badia si trasformò in monastero fortificato e abitato da monaci 
Benedettini che lavoravano la terra ( circa 28.000 ettari ) per conto 
dell'Abbazia di S.Paolo.
 
 CORA
 Gli scrittori latini, pur formulando 
opinioni diverse nei dettagli, ammettono anche per Cori, come per le altre città 
latine e quindi Roma, una fondazione troiana.
 Virgilio nell'Eneide considera 
Cori una delle città fondate dai re di Alba Longa. Secondo Plinio fu Dardano, 
capostipite dei Troiani, il fondatore di Cori; successivamente la città sarebbe 
stata restaurata da Corace di Argo che gli diede anche il nome.
 Queste tesi 
finora definite con sufficienza "leggende", hanno acquistato recentemente 
tutt'altra dignità, dopo che recenti scoperte archeologiche hanno messo in luce 
i rapporti dell'antica civiltà laziale con la cultura cretese e la teoria che 
nel latino si debbano riscontrare tracce linguistiche micenee. La prima notizia 
storica dell'esistenza della città di Cori ci viene da Catone il Censore, il 
quale asserisce che Cori alla fine del VI sec. a.C. faceva parte dei Prisci 
Latini.
 Era questa una lega a carattere politico-religioso, che 
periodicamente si riuniva nel santuario di Diana Nemorense nei pressi di 
Ariccia. Inserita in questa lega anche Cori combattè la battaglia del lago 
Regillo, con la quale si voleva ostacolare la nascente potenza romana.
 Fu 
probabilmente una imminente minaccia volsca a indurre Romani e Latini ad 
allearsi, stipulando il foedus cassianum.
 I Volsci cominciarono ad invadere 
la regione pontina intorno al 500 a.C.; Sembra che almeno in un primo momento 
Cori resistette ai Volsci; successivamente, in base ad un passo di Livio, che 
attesterebbe la deduzione a Cori di una colonia latina, si ipotizza che la città 
alleatasi con i Volsci, combattè contro Roma.
 
 Scomparsa la minaccia 
volsca, i Romani, sedata l'ennesima rivolta dei Latini, durante la quale però 
Cori era rimasta fedele a Roma, ne sciolsero la lega. Non sono molto chiari i 
caratteri del riordinamento politico amministrativo imposto da Roma; l'esistenza 
di una moneta di argento coniata a Cori in questo periodo ne attesta una 
relativa indipendenza.
 Municipio (secondo Livio) dal 211 a.C., alla fine 
della guerra sociale, con l'estensione della cittadinanza romana a tutte le 
genti italiche, Cori fu inserita nella TRIBUS PAPIRIA.
 Relativamente alla 
guerra sociale, Lucano riferisce che Cori era schierata dalla parte di Silla e 
per questo fu devastata da Mario. Le numerose ricostruzioni datate agli inizi 
del I sec. a.C. vengono messe in relazione a questa guerra e attribuite a Silla. 
Quando, con la costituzione di Augusto l'Italia venne divisa in regioni e 
prefetture, Cori si trovò sotto la giurisdizione del Praefectus Urbis. Caduto 
l'impero romano, durante il periodo delle invasioni barbariche la città decadde 
come la maggior parte dei centri italiani. Non esistono elementi certi per 
stabilire se Cori fu completamente abbandonata oppure subì soltanto una 
diminuzione della popolazione.
 
 IL TEMPIO DI ERCOLE
 A Cori Monte m 
398, sul vertice del colle, sorge il Tempio di Ercole, eretto al tempo di Silla 
(89-80 a.C.); ne rimane l’atrio tetrastilo con otto colonne doriche, sorreggenti 
la trabeazione e il frontone. L’iscrizione sull’architrave della porta ricorda i 
nomi dei due magistrati che ne curarono la costruzione. Epico esempio di 
architettura italica. Dal piazzale antistante si gode uno dei panorama 
emozionanti sulla pianura Pontina, il Mar Tirreno e il Monte Circeo.
 
 IL 
TEMPIO DI CASTORE E POLLUCE
 E’ situato all’estremità orientale della vasta 
zona (odierna via delle Colonne) che ospitava il Foro. Ciò che attualmente è 
visibile del tempio risale agli inizi del I secolo a.C.: consiste in una parte 
di podio, sulla quale poggiano due delle sei colonne originarie, in stile 
corinzio, recanti ancora tracce dello stucco che le rivestiva. Parti di una 
terza colonna, appartenente al lato destro, si vedono inserite nel muro di una 
casa privata. Sull’architrave, un elemento del quale poggia ancora sulle due 
colonne, un’iscrizione dedica il Tempio a Castore e Polluce e ricorda i nomi dei 
due magistrati che ne curarono la realizzazione utilizzando denaro proveniente 
dal tesoro del tempio.
 Il tempio rappresenta la ristrutturazione di un 
edificio più antico, databile solo approssimativamente tra la fine del IV e gli 
inizi del II secolo a.C.. Si conservano alcune fondazioni della parte posteriore 
del tempio, suddivisa in tre ambienti perpendicolari alla facciata. Si 
conservano anche dei lacunari in travertino, alcuni nell’attuale recinto, altri 
nel Chiostro e nella Chiesa di Sant’Oliva.
 CORBIUM
 
 Dalla antica 
cittadina latina Corbium, dal 258 a.c. sotto dominio romano, discende l'attuale 
Rocca Priora.
 Posta a cavallo della Valle del Sacco e della Valle Latina, in 
posizione elevata, nel corso dei secoli seguì sempre le sorti del popolo romano 
e spesso ne fece le spese nelle situazione più pesanti. Coinvolta nelle guerre 
italiche tra romani e popoli vicini, venne ripetutamente conquistata in fasi 
alterne da Equi e Romani fino ad essere rasa al suolo da questi ultimi che la 
consideravano città traditrice.
 La celebre battaglia del lago Regillo, 
ricorrente nelle ricostruzioni storiche di quasi tutte le cittadine dei 
Castelli, ebbe origine da un episodio ben preciso: l'attacco delle popolazioni 
latine al Castello di Corbio con la susseguente distruzione del presidio posto 
dai Romani a guardia della città. Nel 298 fu nuovamente occupata dagli Equi e 
ripresa, con una nuova battaglia, dal romano Quinzio Cincinnato. Nel 299 gli 
Equi attaccarono il presidio romano distruggendolo ed occupando la città. Il 
console romano Orazio Pulvillo sconfisse quindi in battaglia gli Equi e 
sospettando un tradimento da parte di Corbio ne distrussero le case e le mura 
dalle fondamenta. Nel 309 Volsci e Equi furono nuovamente sconfitti dai Romani 
presso Corbione, che nel frattempo era stata ricostruita;
 arriviamo fino al 
secolo XI in cui la zona passò sotto il possedimento dei Conti di Tuscolo da cui 
venne ceduta agli Annibaldi. La popolazione aumentò con l'ingresso di parte 
degli abitanti di Tuscolo, distrutta nel 1191 e nello stesso anno appare per la 
prima volta il nome di "Rocham Periuram" come appellativo della 
cittadina.
 CRUSTUMERIUM
 
 Nella zona del Parco della Marcigliana fu 
scoperto il sito di Crustumerium, una della città più antiche del Lazio 
protostorico. Ancora oggi le sue origini non sono del tutto chiare perché 
secondo Servio fu dedotta dal popolo dei Siculi, mentre altri sostennero che fu 
fondata da Alba Longa (Diodoro e Dioniso), dai Sabini (Plutarco) o dai Latini. 
Secondo la tradizione leggendaria, del poema virgiliano, Crustumerium rientrava 
tra le cinque città dedite alla costruzione delle armi che dovranno essere usate 
dalle popolazioni dell'Italia centrale per combattere Enea: "Sulle incudini 
cinque grandi città foggiano dardi, la forte Aténa, la superba Tivoli, 
Crustumerio, Ardea e la turrita Antemna." (Eneide,VII, 629-631).
 Infine la 
città entrò in conflitto anche con Romolo e sembra che fu conquistata da 
quest'ultimo. Gli eventi successivi, storicamente più attendibili, ci attestano 
che la zona del Crustuminus Ager (Agro di Crustumerio) fu annessa nel 499 o nel 
495 a.C. e ciò determinò che le tribù salirono a 17 o a 21 dopo la creazione 
della nuova tribù Clustumina. Gli scavi condotti negli anni Ottanta di questo 
secolo attestarono che i più antichi reperti di Crustumerium risalivano all'età 
del bronzo e alla prima età del ferro. Presso questa città, inoltre, furono 
ritrovati dei vasi particolarmente interessanti per forma e tinte 
cromatiche.
 La città occupava un' altura vasta circa 60 ettari a nord di 
Roma, dominante il tracciato della Salaria e la vasta pianura delimitata dalle 
anse del Tevere; un percorso viario proveniente dall'opposta riva del fiume - 
occupata dagli Etruschi - raggiungeva la città mediante una rampa intagliata 
artificialmente e, attraversatala, discendeva sull'opposto versante 
sudorientale, dirigendosi verso i centri di Gabii e Praeneste.
 Ben poco si 
può dire della struttura interna dell'abitato non essendo stati ancora 
effettuati scavi di ampia estensione; appare possibile un ruolo di nucleo 
originario, e una successiva funzione di acropoli, del poggio della Torretta (in 
prossimità del Casale della Marcigliana Vecchia), avanzato verso la piana del 
Tevere.
 I dati di scavo permettono di ipotizzare che questi muri 
costituiscano una sorta di sistema di terrazzamento con probabili funzioni 
difensive, realizzato forse nel VI sec. a.C. Tutti i muri sono costruiti a secco 
con blocchi squadrati di tufi diversi, anche di grandi dimensioni; soltanto tra 
i muri lasciati in vista lo scavo è stato approfondito mettendo in luce 7 filari 
di uno dei due muri; si è potuto così appurare che originariamente 
l'intercapedine tra i muri era vuota e che il riempimento visibile oggi è 
costituito dal crollo dei muri stessi e dagli strati di terra successivi 
all'abbandono.
 
 Questa imponente struttura, costituita di muri paralleli, 
doveva essere rinforzata da muri perpendicolari di collegamento, non ancora 
rinvenuti.
 FICULEA
 Antica città della Sabina situata nei pressi di Roma 
sulla via Nomentana.
 FIDENAE
 
 La città di Fidene sorse, in base alle 
testimonianze archeologiche, nel sec. XI a.C, sul colle di Villa Spada, in una 
posizione strategica in quanto poteva controllare le vie commerciali con i 
Sabini, quelle tra l'Etruria e l'Italia meridionale, nonché i traffici fluviali 
che avvenivano lungo il Tevere. Prima della nascita di Roma la città era 
fiorente per la fertilità del territorio (la zona era ricca di tufi di origine 
vulcanica, ma anche facilmente irrigabile per la vicinanza al Tevere e ai vari 
fossi) ma anche per le intense attività commerciali che erano favorite dalla sua 
posizione strategica. La città era cinta da mura e nell'ambito del suo 
territorio di influenza rientrava anche la zona di Montesacro.
 Il contrasto 
tra Roma e Fidene durò per 400 anni, se vogliamo considerare anche la tradizione 
leggendaria relativa al periodo monarchico. I Romani attaccarono più volte la 
città con Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio e con i Tarquini al fine di 
imporre il predominio romano in una zona che costituiva un punto nevralgico dal 
punto di vista economico-strategico. In particolare con la presa di Cenina 
(ponte Mammolo. Lungo la via Tiburtina), del territorio di Ficulea (tra la 
Nomentana e il Grande raccordo Anulare), di Crusterium (nel settore N-E della 
Salaria) e con le assegnazioni di territori dell'agro di Fidene ai clienti della 
gens Claudia, - nonché con la battaglia sul fiume Cremera - si era cercato, di 
isolare e accerchiare la città di Fidene da Veio e dalle importanti vie di 
comunicazione fluviali (Tevere) e terrestri (Via Salaria).
 Per contrastare 
i Romani la città di Fidene si era alleata con l'etrusca Veio, ma nel 474 a 
seguito dell'armistizio quarantennale tra Roma e Veio la città di Fidene era 
stata occupata da una guarnigione romana. Nel 438 il pericolo per Roma fu grande 
perché i Fidenati dopo aver cacciato la guarnigione romana avevano stipulato una 
coalizione con Veieti e Falisci al fine di formare un esercito in comune per 
contrastare la potenza romana in ascesa. Con queste truppe, infatti, si erano 
spinti fin sotto le mura di Roma.
 I Romani, tuttavia, non erano rimasti 
inoperosi: nel 438 venne inviato contro Veio il console A.C. Cosso. Il generale 
romano dopo aver battuto l'esercito etrusco issò la testa del re di Veio 
(Tolumnio) su una lancia e i combattenti veienti e fidenati visto ciò si diedero 
alla fuga. Nell'anno successivo i nuovi consoli, Malungineuse e Crasso, 
depredarono l'agro di Fidene ed entrarono nel territorio di Falerii. Di li a 
poco, però, la città di Fidene fu conquistata, saccheggiata e data alle fiamme 
dai romani (436-435 a.C.). La città divenne un "municipium" di Roma e parte 
degli abitanti cadde in schiavitù. Per ricostruire le mura ed alcuni edifici che 
erano stati distrutti dopo l'incendio gallico, i Romani fecero affluire da 
Fidene una grossa quantit¦ di pietre di tufo. Con la caduta di Fidene l'Urbe 
riuscì a porsi in una posizione favorevole nella lotta contro 
Veio.
 GABII
 
 L'antica città latina di Gabii è localizzata sul ciglio 
meridionale del cratere di Castiglione, a 20 chilometri circa da Roma, lungo il 
tracciato della Via Prenestina, (in origine denominata Via Gabina). La città si 
sviluppò probabilmente secondo un processo evolutivo analogo a quello di 
numerosi altri centri laziali, ovvero dall'organizzazione secondo uno schema 
"urbano" di più nuclei abitati, dislocati nel settore sud-orientale del Cratere 
di Castiglione.
 
 
 In età arcaica Gabii raggiunse il massimo splendore, 
a sostanziale conferma di queste fonti si sono recentemente effettuati 
importanti rinvenimenti archeologici: i resti della cinta muraria in opera 
quadrata di blocchi di tufo dell'Aniene, un Santuario extra urbano nella valle 
del Fosso di San Giuliano, altre aree sacre interne all'antica città.
 In 
questo periodo Gabii, racchiusa entro una cinta fortificata - il cui andamento è 
perfettamente ricostruibile in base alla traccia rilevabile nelle fotografie 
aeree ed ai rinvenimenti effettuati nel corso dei lavori agricoli - ed estesa 
per circa 300 ettari, raggiunse una potenza ed uno splendore non più eguagliati, 
come si ricava dalla circostanza che in questo momento fu sancito con Roma il 
"foedus gabinus", uno dei più antichi esempi di trattati di alleanza della 
storia romana, scritto su di uno scudo di pelle bovina, conservato nel tempio di 
Semo Sanco sul Quirinale.
 I rapporti fra Gabii e Roma vissero fasi alterne, 
sicuramente lo sviluppo e l'accresciuta importanza di quest'ultima determinarono 
momenti di crisi e di guerra aperta. Nel VI sec. a.C. comunque è da considerare 
Gabii soggetta all'egemonia di Roma. Con il periodo medio-repubblicano inizia 
una crisi inarrestabile del centro di Gabii, fenomeno che successivamente avrà 
un andamento ancor più accentuato. Nel corso del III sec. a.C. l'agro gabino, 
forse la città stessa, furono devastate dal passaggio di Annibale, proveniente 
da Tuscolo e diretto verso Roma.
 
 
 Sempre in questo secolo è forse da 
collocare l'inizio dello sfruttamento sistematico delle cave di "lapis gabinus", 
una sorta di peperino utilizzata in larga scala in numerosi edifici pubblici e 
privati.
 Dal punto di vista urbanistico, nel corso dell'età repubblicana, due 
sembrano i fatti di maggior rilevanza: la nuova sistemazione che venne data, 
ancora nel III sec. a.C., all'intero tracciato della Via Prenestina e la 
completa ristrutturazione del Santuario di Giunone Gabina, ricostruito intorno 
alla metà del II sec. a.C. in forme monumentali e secondo schemi propri 
dell'architettura di apparato più complessa e sontuosa dell'epoca.
 Le fonti 
classiche presentano la città di Gabii, nei primi anni dell'età imperiale, alla 
stregua di un villaggio pressoché abbandonato, una sorta di semplice stazione 
lungo il tracciato della Via Prenestina.
 Degne di interesse a tal proposito 
sembrano essere le fonti che si riferiscono alla presenza in Gabii di importanti 
acque salutari, cui fece ricorso lo stesso Augusto ed in relazione alle quali si 
deve presupporre l'esistenza di complessi termali abbastanza frequentati.
 Ad 
età Adrianea è possibile far risalire una serie di importanti interventi a 
carattere urbanistico nell'area della città: la sistemazione di una grande 
piazza porticata, su cui si aprivano una serie di edifici pubblici, prospiciente 
la Via Prenestina, riportata in luce nel 1792, nel corso degli scavi condotti 
dal Visconti per conto del Principe Borghese e di Sir Gavin Hamilton. Sempre ad 
Adriano è da attribuire la costruzione di un acquedotto destinato ad alimentare 
la città.
 
 La prosecuzione della vita nell'antico centro è testimoniata 
dall'esistenza della Diocesi Gabina, la quale presupponeva un nucleo abitato 
necessariamente di una certa entità. Alla Diocesi è forse da ricollegare la 
Chiesa di San Primo, edificata su resti di costruzioni romane, e dedicata al 
martire che la tradizione agiografica vuole ucciso presso il Ponte di Nona e 
gettato nel "lacus Buranus", ovvero il lago di Castiglione. Le favorevoli 
condizioni antropiche del luogo, determinarono lo sviluppo, anche in età 
medioevale, di un centro abitato, un "castrum" che, secondo schemi consueti si 
arroccò sull'altura più eminente del Cratere di Castiglione, dotandosi di una 
cinta fortificata e di una torre di avvistamento e di segnalazione, ancor oggi 
visibile.
 LABICUM
 Insieme con Tuscolum, Labicum prese le armi contro i 
romani dopo la caduta della Monarchia e quindi si alleò nel 415 a.C. con gli 
Equi contro Roma. Nel 414 (come ci riferisce lo storico Tito Livio nella sua "Ab 
Urbe condita"), Labicum fu presa e distrutta dal dittatore Q. Servilio Prisco.
 L'antica Labicum sorgeva dove oggi si trova il comune di 
Montecompatri. Tuttavia è storicamente provato che, dopo la suddetta sconfitta 
del 414 a.C., i Labicani furono costretti a rifugiarsi presso la stazione "Ad 
Quintanas", dove oggi (su territorio colonnese) sorge la torre della Pasolina. 
Per questo motivo, uniti i due nomi, gli abitanti di quella zona vennero 
chiamati "Labicani Quintanenses", per distinguerli dai semplici Labicani che 
abitavano, come detto, l'odierna Montecompatri.
 Labico Quintanense 
fu sede episcopale fin dal IV secolo e i documenti storici dimostrano che rimase 
tale fino al 1111. Poi, dopo tanti secoli di illustre storia, il Labicum 
Quintanense decadde per varie cause: guerre civili, scorrerie dei Normanni e 
Saraceni, presenza del feudatario, le investiture, ma soprattutto perché fu 
sovrastato dalla presenza della vicina Tuscolo, al punto che la diocesi 
Tuscolana assorbì quella di Labico.
 LANUVIUM
 
 Lanuvio, che fino al 1914 
mantenne il nome medioevale di Civita Lavinia, è tra gli insediamenti più 
antichi dei Castelli Romani. Assieme ad Ariccia e Velletri è infatti tra quei 
pochi centri che dopo quasi tremila anni occupano ancora esattamente lo stesso 
luogo sul quale furono fondati. La cittadina vanta la nascita di importanti 
personaggi, quali l'imperatore romano Antonino Pio, il condottiero Marcantonio 
Colonna, vincitore della battaglia di Lepanto
 Il ritrovamento a Nord del 
paese di suppellettili preistoriche attesta che esso era abitato già nell'età 
del ferro, mentre la costruzione di una poderosa cinta di mura, della quale 
ancora oggi sono visibili cospicui avanzi, risalirebbe al V secolo a. C.
 L'antica Lanuvium dalla forma irregolarmente ellissoidale era attraversata 
da una via mediana che si sviluppava da nordest a sudovest seguendo il profilo 
del colle, secondo un percorso che la presenza di poligoni di basalte, accertata 
in più tratti ed in periodi diversi, consente di ricostruire.
 
 Essa aveva 
origine a sud della città con la porta meridionale che si apriva sulla via di 
Astura (ancora riconoscibile negli anni trenta dal taglio praticato nello strato 
di tufo per aprirla) e risaliva per un tratto di 25 metri lungo il ciglio 
sinistro della moderna via delle Grazie. Piegando poi leggermente verso est, la 
strada attraversava la via di Borgo San Giovanni per raggiungere il Largo Tempio 
di Ercole e la poderosa costruzione in grandi blocchi di peperino che sorregge 
la terrazza dove nel secolo XI si sviluppò il centro medievale
 Il nome di 
Lanuvio appare ben presto negli annali di Roma, e così sappiamo che nel 341 a.C. 
prese parte alla sollevazione delle città latine contro Roma e con queste fu 
sconfitta dai Romani nei pressi di Astura. I vincitori tuttavia riservarono alla 
città un trattamento di grande favore, mantenendo in vigore gli antichi 
ordinamenti municipali e lasciando che il culto maggiore di Lanuvio divenisse 
anche patrimonio dei Romani stessi. Durante il periodo dell'Impero Romano la 
parte di territorio a nord, attreversato dalla via Appia, venne occupato da 
ville sontuose che spesso avevano ospiti illustri, tra cui anche Cicerone.
 Si 
trattava del santuario di Giunone Sospita, luogo sacro famosissimo non solo nel 
Lazio antico, ma nell'intera area mediterranea. Durante il periodo romano, fino 
alla caduta dell'Impero d'occidente, le fortune della città furono praticamente 
legate a questo santuario, nel quale accaddero prodigi strepitosi, narrati da 
Livio, Cicerone, Giulio Ossequiente ed altri autori classici.
 Durante le 
guerre civili, avendo Lanuvio parteggiato per Silla, fu occupata da Mario e 
ridotta a colonia militare, ma seppe rialzarsi e raggiungere il massimo 
splendore all'epoca degli Antonini. E proprio nella villa imperiale lanuvina 
ebbero i natali gli imperatori Antonino Pio e Commodo, mentre Marco Aurelio, 
nato altrove, vi passò certamente lunghi soggiorni.
 Molte notizie preziose 
relative alla storia antica di Lanuvio ci provengono dall'epigrafia, e meritano 
particolare attenzione due epigrafi di notevole importanza. La prima, meglio 
nota come  "legge del Collegio di Diana ed Antinoo ", rinvenuta a Lanuvio nel 
1816 ed oggi conservata presso il Museo Nazionale Romano, ci ha tramandato lo 
statuto di una singolare associazione popolare, che garantiva ai propri 
associati un funerale decoroso. Da essa apprendiamo tra l'altro, che già 
nell'antichità si produceva a Lanuvio un ottimo vino, del quale l'odierno D.O.C. 
'Colli Lanuvini' è un degnissimo erede.
 La seconda iscrizione, rinvenuta nel 
1962 nella cittadina siciliana di Centuripe, ci ha tramandato il ricordo del 
gemellaggio tra Lanuvio e la cittadina siciliana, celebrato attorno al secondo 
secolo a.C., rinnovato solennemente nel 1974. Se delle epoche più remote ci sono 
noti anche diversi particolari, molto meno sappiamo di Lanuvio nell'alto 
medioevo.
 È probabile che la decadenza s'iniziasse nell'anno 391 d.C. con la 
promulgazione della legge di Valentiniano e Teodosio, che decretava la chiusura 
di tutti i templi pagani. Diverse memorie cristiane dei secoli IV e VI sembrano 
tuttavia dimostrare che il sito non fu mai completamente abbandonato all'epoca 
delle invasioni barbariche, ipotesi altresì confortata dall'ascrizione ai secoli 
V e VI delle tracce della primitiva chiesa collegiata descritta nei verbali 
delle visite pastorali dei secoli XVI e XVII.
 Tempio di Giunone Sospita
 Si 
trovava sull'acropoli di Lanuvio ed era costituita da una serie di strutture 
monumentali.
 I resti del Tempio, venuti allo luce dagli scavi di inizio 
secolo, si trovano oggi all'interno dell'Istituto Salesiano. Il Tempio è di tipo 
tuscanico con alae. Vi si sono distinte almeno tre fasi edilizie.
 La 
seconda fase costruttiva è del periodo Medio-Repubblicano (IV-III a.C.) e deve 
essere messo in relazione con la sconfitta della lega latina (quindi di Lanuvio) 
del 338 a.C., e con l'inizio dello cogestione romano del culto (a tale epoca è 
attribuita lo testa del secondo simulacro dello Giunone Sospita). La datazione 
della terza fase ancora è incerta: si ritiene che essa vada fatto risalire alla 
metà del I sec. a.C.. e messa in relazione alla famiglia Murena (lanuvina), ed 
in particolare a quel L. Licinius Murena che nel 62 a.C. rivestì il consolato. A 
tale epoca risalirebbero anche i resti principali del secondo complesso 
edilizio, visibile nella Villa Sforza di proprietà comunale, che consistono in 
un portico ad arcate con semicolonne doriche, in opera mista, e concamerazione 
ad esso adiacenti.
 Tali volte mostravano nello faccia superiore evidenti 
tracce di mosaico, chiaro indizio che tali edifici constavano almeno di due 
piani. In fondo al portico c'è una porticina, da dove si dipartono una serie di 
cunicoli che alcuni identificano con la grotta dove era custodito il serpente 
sacro a Giunone Sospita. Infatti sappiamo sia da Properzio (IV. 8, 3-14) che da 
Eliano (Perì zoon, XI, l6) che nel Santuario ogni anno all'approssimarsi della 
primavera si svolgeva una cerimonia. Alcune fanciulle dovevano porgere delle 
focacce ad un grosso serpente che si trovava all'interno di un antro. Se 
l'animale accettava il cibo offertogli dalla fanciulla (indizio di verginità di 
quest'ultima), si prospettavano raccolti fecondi; in caso contrario, la 
fanciulla (rivelatasi impura), veniva sacrificata per scongiurare la carestia. 
Un'ipotesi da tener presente è che questo antro potrebbe essere localizzato, in 
base o dati toponomastici, in località Stragonello. Stragonello deriverebbe da 
Dragone: non a caso nelle fonti antiche sopra menzionate si parla di "draco" e 
di "dracon". Nella parte opposta rispetto al portico si trovano i resti di un 
grosso pilone in opera quadrata di peperino, pertinenti probabilmente ad un arco 
di ingresso che immetteva nell'Acropoli. Vicino a tale pilone furono rinvenuti 
alla fine del secolo scorso i resti di un gruppo marmoreo di statue equestri con 
lorica, oggi conservate al British Museum ed al Museo di Leeds, ad eccezione di 
un torso che si trova invece al Museo Civico lanuvino.
 Coarelli ritiene che 
il gruppo lanuvino si rifaccia ad un gruppo bronzeo da attribuire o Lisippo, 
rappresentante Alessandro e i cavalieri caduti nello battaglia del Granico. 
L'opera si trovava fino alla metà del II sec. a.C. nel Santuario di Dion in 
Macedonia, da dove Scipione Metello Macedonico la trasferì a Roma, dopo la 
conquista della stessa Mocedonia. E' probabile, secondo lo studioso, che la 
copia in marmo e la ricostruzione di tutto il Santuario siano da attribuire a 
quel L. Licino Murena console nel 62 a.C. e che fu vittorioso insieme a Lucullo 
in Oriente contro Mitridate, in prossimità del Granico. L'opera dovrebbe quindi 
raffigurare al posto di Alessandro Magno Licinio Murena o Lucullo, ed al posto 
dei generali macedoni gli ufficiali romani; ed essere letta come una "imitotio 
Alexondri".
 Sappiamo anche da testimonianze epigrafiche (C.I.L. XIV n.2088), 
di un intervento di restauro da parte di Adriano, dovuto allo stato di 
disastrosa rovina in cui versava la struttura nel I sec. d.C. (Plin. N. H. XXXV, 
17), il che potrebbe anche far supporre, distaccandosi in questo dal Coarelli, 
che tutto il complesso, compreso il portico, non vada attribuito al I sec. a.C., 
ma ad età Antonina.
 LAURENTUM
 
 Città latina posta lungo il litorale 
romano, caduta presto nell'orbita romana, dopo la fondazione di Ostia da parte 
di Tullo Ostilio.
 La città è rimasta famosa per la villa di Plinio, di cui 
oggi rimangono le rovine.
 Si ricorda l'antica via Severiana, fatta costruire 
nel terzo secolo d.C. da Settimio Severo, i cui basoli sono stati utilizzati 
dalla famiglia Chigi per selciare il sentiero tra la loro villa di
 residenza 
ed il mare.
 Il problema della identificazione dei resti della villa che sorge 
nella località, detta "della Palombara", con la residenza estiva nel Laurentino 
di Plinio il Giovane è rimasto ancora insoluto. Da recenti studi sembra emergere 
evidente l'identificazione della villa di cui  Plinio parla nella sua epistola 
all'amico Gallo, con quella che si trova a Castel Porziano (la cosiddetta Villa 
Magna);
 ciò comunque non ne sminuisce né l'importanza ne la bellezza e 
l'imponenza della costruzione, poiché rappresenta un tipo di villa di soggiorno 
marittimo propria di questo territorio in età imperiale. Del resto da una serie 
di ricerche archeologiche compiute da Lanciani risulta che la zona costiera era 
ricca di ville (ben otto) e anche di un vicus (Vicus 
Augustanus).
 
 
 (Plastico della Villa di Plinio dove è ben evidente al 
centro la fontana mistilinea.)
 
 
 Il quadriportico è dotato di un doppio 
giro di colonne che sorreggono un tetto a doppio spiovente.
 L'arco che oggi 
si può notare in laterizio risale agli anni '30, in corrispondenza di questo 
arco c'è l'ingresso ad una sala (il triclinio) pavimentata con un mosaico a 
tessere bianche su fondo nero.
 Altra zona molto interessante è la zona 
termale, posta ad una quota più alta rispetto al peristilio e costruita 
successivamente in opera laterizia; una delle sale di accesso
 è ornata dal 
mosaico con scene marine, molto simili a quelle delle Terme di Nettuno a Ostia 
Antica.
 
 LAVINIUM
 
 Il territorio tra Lavinio ed il Tevere era 
occupato dalla tribù latina dei Laurentes, i cittadini di Lavinio sono perciò 
detti Laurentes Lavinates, come gli abitanti della vicina Ardea Ardeates Rutuli. 
Secondo la leggenda la città fu fondata da Enea, giunto sulle coste del Lazio 
dopo la caduta di Troia (1183 a.C. secondo la cronologia tradizionale) ed 
avrebbe preso nome da Lavinia, figlia di Latino, re degli Aborigeni e sposa 
dell'eroe.
 A Lavinio sarebbe stato ucciso Tito Tazio, mentre sacrificava ai 
Penati e nel 509 (a Roma: fine della monarchia, dedica del tempio di Giove 
Capitolino) vi si sarebbe ritirato Tarquinio Collatino.
 Le 13 Are
 La 
città figura tra i centri inclusi nel trattato del 509 tra Roma e Cartagine. Nel 
VI e V sec. fece parte della lega Latina. Santuario federale della Lega, del 
pari ai santuari di Giove Laziare sul Monte Albano, di Diana presso Aricia e di 
Diana sull'Aventino, fu certamente il santuario di Venere (Aphrodision) nel 
territorio di Lavinio, ricordato da Strabone (V, 232) come comune a tutti i 
Latini. La città è poi ricordata in relazione alle vicende belliche tra Volsci e 
Latini, si dice infatti presa da Coriolano.
 Nel 338, a conclusione della 
guerra latina che segnò la sconfitta e la fine della lega ed il definitivo 
predorninio di Roma nel Lazio, strinse un patto (foedus) con Roma, rinnovato 
annualmente.
 In discussione il carattere politico o religioso dello stesso e 
se Lavinio, a seguito della guerra, fosse incorporata nello stato romano o 
divenisse municipium foederatum.
 Incerta, anche cronologicamente, la notizia 
di devastazioni subite ad opera dei Sanniti. Per l'età imperiale disponiamo 
soprattutto di testimonianze epigrafiche.
 Da ricordare la visita di Marco 
Aurelio nel 176 d.C. e provvedimenti di Costantino.
 L'importanza della città 
è legata, anche nella tradizione antica, al suo carattere di centro religioso 
(Religiosa civitas la definisce ancora Simmarco, Ep. I,71, nel IV sec. d.C.) e 
secondariamente al ruolo nella leggenda troiana delle origini di Roma. Per 
questo motivo Lavinio assunse un ruolo unico nella religione ufficiale di Roma 
stessa, come appare sia dal sacrificio che i supremi magistrati romani vi 
compivano ai Penati e a Vesta quando assumevano e deponevano la carica, sia 
dalla credenza che i Penati di Lavinio fossero i Penati di Roma e che fossero 
gli stessi Penati di Troia portati da Enea.
 Oltre ai culti di Venere 
(santuario comune a tutti Latini) dei Penati e di Vesta sono attestati i culti 
di Athena Iliàs, Indiges, Giuturna, Liber, Anna Perenna.
 Gli stretti rapporti 
con Roma (molti culti di Lavinio sono culti ufficiali dello Stato romano; 
medesimi culti Sol Indiges, Penati, Vesta, Giuturna, Castori presenti a Roma e 
Lavinio) e le influenze greche ( Presenza accanto a divinità indigene di 
divinità mutuate dal mondo greco: Castori, Vesta, Cerere, Athena Iliàs) sono 
aspetti fondamentali della religione arcaica di Lavinio e costituiscono un 
elemento di particolare interesse per gli studiosi, le implicazioni, come per la 
leggenda della fondazione, trascendono infatti l'ambito 
lavinate.
 MINTURNAE
 
 Minturnae e' uno dei centri piu' antichi del Basso 
Lazio, situato alla foce del fiume Garigliano, al confine tra il Lazio e la 
Campania, sulla riva destra. Il suo nome si fa risalire a Minothauros, dio 
cretese, e quindi il primo nucleo potrebbe essere ricondotto alla dominazione 
dei Greci sul Mediterraneo e sull'Italia Meriodionale.
 
 
 Insieme alle 
citta' di Ausona, Sinuessa (oggi Mondragone), Suessa (oggi Sessa Aurunca) e 
Vescia, faceva parte della cosiddetta Pentapoli Aurunca, fulcro della 
confederazione degli Aurunci (o Ausoni), discendenti dei Tirreni, un popolo di 
stirpe italica.
 
 
 
 
 Intorno al IV sec. a.C. questo popolo 
entro' a contatto con i Romani, schierandosi apertamente contro di essi e 
alleandosi con i Sanniti. Le conseguenze furono disastrose: la Pentapoli venne 
letteralmente annientata nel 314 a.C. (Livio, IX, 25 "Deletaque Ausonum Gens"), 
tanto che di Ausona e di Vescia non e' rimasto che il ricordo del nome e delle 
altre solo esigue notizie. Nel 312 a.C. la costruzione della Via Appia, che 
collega Roma con Capua, interessa anche il sito di Minturnae diventandone il 
Decumano Massimo, e la citta' diviene colonia romana nel 295 a.C.   Inizia cosi' 
un nuovo periodo di prosperita', che raggiunge l'apice nel I^ secolo d.C.
 
 Di questo periodo restano e sono visibili l'acquedotto (I secolo), il 
teatro (eta' augustea), il foro con i suoi templi (eta' repubblicana e 
imperiale), le mura e l'anfiteatro.
 
 Teatro romano - interno
 Ancora 
oggi passeggiando per i resti silenziosi dell'antica Appia che attraversa 
Minturnae, osservando i resti delle botteghe, dei bagni e dei vicoli, si ha 
l'impressione di rivivere l'atmosfera Romana, risentendo il vociare degli 
antichi abitanti e il frastuono dei carri.
 
 Nell'ambulacro del teatro e' 
oggi allestito un Antiquarium dove sono esposti bellissimi reperti: marmi, 
ceramiche e statue dal I secolo a.C. al II secolo d.C.
 
 Teatro romano - 
esterno
 Minturnae segue quindi, con le dovute proporzioni, la fortuna e la 
storia di Roma, e cosi' quando quest'ultima decade, anche la sua colonia rivive 
tempi bui, fino a quando nel 590 viene devastata dai Longobardi.  Gli abitanti 
abbandonano definitivamente la citta', si rifugiano nelle vicine alture fondando 
la citta' di Traetto (oggi Minturno), e Minturnae subisce l'oltraggio di vedere 
depredati i propri marmi e colonne, a favore delle nuove costruzioni.  Il 
pontefice Gregorio Magno, abolisce il vescovato di Minturnae aggregandolo a 
quello della vicina Formia.
 NEMORES  DIANAE
 Il territorio di Nemi fu 
celebre al tempo dei Romani per il tempio dedicato a Diana Nemorense, meta di 
pellegrinaggi non solo dei Romani e dei Latini ma anche di abitanti di città 
lontane. Il nome Nemi viene dal latino nemus. Comunemente si traduce con 'bosco 
sacro'. In realtà questo è solo un significato derivato. Nemus viene dal greco 
nemw =  'pascolare', che poi assume il significato di abitare, e quindi 
governare la regione in cui si vive: la legge in greco è nomos. Ora, nemos è 
appunto il pascolo; poi diventa per estensione 'luogo con vegetazione' 
(comprensibile slittamento in Grecia, posto arido e sassoso) e quindi 'bosco'. E 
nemesis, che in età classica è la dea della giusta punizione (se nomos è la 
legge, il giudice esecutore è nemesis, ovviamente), in origine era la dea dei 
boschi (Diana).
 Ma la vera ricchezza della zona è data dall'enorme patrimonio 
culturale, ricco di miti, leggende e testimonianze archeologiche. Più tardi 
venne consacrato a Diana un nuovo tempio sulla collina di Ariccia. Esso era 
anche dedicato al semidio Virbio e alla ninfa Egeria. Quest’ultima era 
consigliera, ispiratrice e sposa del secondo re di Roma, Numa Pompilio, e si 
narra che alla morte di lui si sciogliesse in lacrime nel bosco di Ariccia, 
finché Diana, impietosita dal suo dolore, la trasformò in una fonte. La sorgente 
sgorgava dalle rocce per scendere con cascatelle nel lago, nel luogo oggi detto 
Le Mole.
 Un’arcaica tradizione voleva che sacerdote della dea fosse uno 
schiavo fuggitivo che, una volta riuscito a strappare un ramoscello a un 
determinato albero del bosco, acquisiva il diritto di battersi col sacerdote in 
carica. Se riusciva a ucciderlo gli succedeva con il titolo di re del bosco. Si 
raccontava che il ramo in questione s’identificasse con il ramo d’oro che Enea 
colse per invito della Sibilla prima di accingersi al suo viaggio nel regno dei 
morti. Probabilmente era un ramoscello di vischio, simbolo di rigenerazione 
fisica e d’immortalità. Quanto a Virbio, si riconosceva in lui l’eroe greco 
Ippolito che, sprezzando Afrodite (Venere) e le sue gioie d’amore, era stato 
ucciso dalla dea. Ma, risuscitato da Asclepio (Esculapio per i romani), era 
stato nascosto da Diana nel bosco di Ariccia.
 Il 
carattere sacro del territorio nemorense rimase per tutto il periodo romano 
permettendo la consacrazione di grandi selve impenetrabili, proibite ai profani 
al punto che l'imperatore Caligola, per aggiungere il divieto di costruire sulla 
terra, fece realizzare sul lago due navi con funzione di vere e proprie case 
galleggianti.
 Tutta la conca del lago, allora, diventa un immensa area sacra 
con il tempio di grandissime dimensioni (occuperà una superficie complessiva di 
almeno 8-10 ettari di terreno) di grande
 bellezza e di ricchezza unica. Il 
lago stesso diverrà luogo di culto per la processione dedicata ad Iside che 
percorrerà l'intero perimetro del lago su una strada appositamente costruita con 
opere di ingegneria formidabili di cui sono rimaste imponenti resti, mentre una 
triplice, mastodontica nave scivolava lentamente e silenziosamente sulle calme 
acque del lago (la triplice nave era composta, secondo le ultime ipotesi, da tre 
navi di lunghezza pari a ml 70, 72 e, presumibilmente ancora 70 per una 
lunghezza complessiva di circa 212 metri
 ed una larghezza massima di 30 
metri).
 
 Affascinanti ed ancora avvolte in un mistero che potrebbe però 
essere chiarito, se non svelato addirittura, sono le vicende religiose del lago.
 Al culto primitivo della primigenia dea della luce o del fuoco, il culto 
arcaico si trasforma in quello di Diana, prima, dell'omologa Artemide, 
successivamente, quando gli influssi greci si faranno sempre più sentire.
 Con Caligola si sovrappone a quello di Diana il culto dell'egizia Iside 
l'Antica che fa da anello di congiunzione con il culto che i seguaci di Cristo 
stanno preparando per la Madre del Salvatore.
 Successivamente sul territorio 
nemorense si formò una comunità agricola denominata "massa nemus" che 
l'imperatore Costantino assegna in concessione alla Basilica di San Giovanni 
Battista di Albano. Una decisione di carattere politico con la quale 
l'Imperatore tese a potenziare la zona d'influenza di Albano, la cui comunità 
cristiana, uscita da poco dalla clandestinità, si contrappose agli altri paesi 
albani di antica e radicata tradizione pagana.
 LE  NAVI  ROMANE
 Queste 
navi, nonostante numerosi e costanti studi, sono ancora avvolte da un certo 
mistero. Erano piuttosto grandi per navigare in un lago come quello di Nemi, che 
è abbastanza piccolo. Inoltre sul ponte delle navi erano stati costruiti edifici 
di tipo terrestre, non si sa di che forma e neanche con quali funzioni. Ci sono 
solo delle ipotesi, alcune anche molto plausibili. Si sa di certo che queste 
navi, date le loro dimensioni, non navigavano nel lago, ma erano attraccate ad 
un molo, vicino al quale passavano anche i tubi di piombo che portavano l'acqua 
dalla terra alla nave. Solo una di esse aveva i remi, mentre l'altra doveva 
essere trainata. Molto probabilmente la presenza di queste navi nel lago era 
legata al culto di Diana che si praticava sulle sponde e nel bosco prospiciente 
il lago stesso.
 Le navi furono fatte costruire dall'imperatore Caligola, 
devoto della dea della caccia, e fortemente affascinato dal culto di Iside, che 
in Egitto veniva praticato sull'acqua, per mezzo di apposite barche. E' 
probabile che in questo modo, Caligola, abbia voluto gettare un ponte tra i due 
culti, che comunque avevano già diversi punti di contatto. Le navi sono state 
costruite tra il 39 e il 41 d.C., con una accuratezza e una precisione a dir 
poco impressionanti. Basti pensare che a bordo era stata ritrovata una gru, la 
cui base, per girare, sfruttava già la tecnica dei moderni cuscinetti a sfera. 
Esse furono realizzate a Capo Miseno, presso Napoli, dove venivano costruite le 
navi della flotta imperiale. Alla morte dell'imperatore Caligola, le  navi 
furono affondate nel lago, per cancellarne la memoria. Una memoria che noi, 
adesso, stiamo cercando di recuperare.
 NOMENTUM
 Dopo la scoperta dei 
metalli ebbero un forte sviluppo i popoli Sabini e Latini, che abitavano lungo 
le valli del Tevere , dell'Aniene e del Nera. Dove oggi sono le vie Salaria e 
Nomentana , già prima della fondazione di Roma, passavano i contadini e i 
pastori, per portare le loro greggi dalle montagne abruzzesi alle coste del mar 
Tirreno.
 Già Virgilio parlava di Nomentum e dei popoli del Lazio, che 
combatterono a fianco di Turno contro Enea.
 
 Con Turno infatti erano 
schierate le città di Amiterno, Eretum e Nomentum. Comunque siano stati narrati 
i fatti da Virgilio, Nomentum è stata una città più antica di Roma e stava dove 
adesso è la frazione di Casali: fra Monte d'oro, e l'area Cacamele 
all'Immaginella.
 Anche Nomentum prese parte alla guerra dopo il ratto delle 
Sabine. Fu poi sconfitta da Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) e da allora fu 
sempre legata a Roma. Quest'ultima fece di Nomentum un municipio, che si poteva 
governare autonomamente. Nomentum fu dunque unita a Roma dalla Via Nomentana.
 I buoni rapporti, che ben presto, in seguito a questi avvenimenti, si 
instaurarono tra Roma e Nomentum, apportarono a quest'ultima un discreto 
benessere e soprattutto, diedero impulso a quel fenomeno che, con termini 
abbastanza moderni, potremmo definire "turismo".
 Le maggiori attrattive per 
le quali Nomentum venne anche celebrata da poeti e scrittori latini, erano 
costituite, oltre che dal suo buon vino così generoso da conservarsi anche per 
cinque anni, dalla salubrità dell'aria e dalla presenza della stazione termale 
delle Acque Labane, posta nell'attuale località di Grotta Marozza.
 Moltissimi 
patrizi romani possedevano ville e vigneti nell'agro nomentano e tra queste 
vengono ricordate quelle di Seneca e Marziale, citate più volte nelle loro 
opere.
 La diffusione del Cristianesimo nel territorio è documentata già nei 
primi secoli col martirio dei Santi Primo e Feliciano, avvenuto durante la 
persecuzione di Diocleziano, divenendo in seguito sede di diocesi di primaria 
importanza; un vescovo Stefano è già citato in documenti del III 
secolo.
 NORBA
 Norba, la città di pietra, appena un chilometro fuori 
dell'abitato di Norma, in contrada Civita.
 La leggenda la vuole fondata da 
Ercole, come altre città della Provincia. La sua origine può ricondursi al IV 
sec. a.C. Dapprima ostile a Roma si impegnò con altri popoli Ernici e Volsci, a 
ripristinare il regno di Tarquinio il Superbo. Sconfitta dai Romani al lago 
Regillo lasciò, con gli alleati, nelle loro mani oltre 10.000 prigionieri. In 
seguito si alleò segretamente a Roma e nel 494 a.C. sventò una spedizione contro 
essa organizzata dai Volsci. Per questo le furono restituirti i prigionieri 
della battaglia del Regillo e fu inserita nella lega Latina divenendo colonia 
militare romana.
 Nel 329 a.C. fu saccheggiata dai Volsci pipernesi condotti 
dal cittadino di Fondi Vitruvio Vacca, ribellatosi alla dominazione romana. 
Questa figura si richiama al mito volsco di Camilla impersona un po' lo spirito 
d'indipendenza italica di questa zona, sulla quale si incentrò a lungo la 
resistenza volsca alla penetrazione romana. Fu anzi Priverno che fornì armi e 
uomini a Vitruvio Vacca quando operò il tentativo di allontanare da queste zone 
Roma, nel 329 a.C..
 Vitruvio Vacca, un ricco cittadino di Fondi vissuto a 
lungo nella Capitale, forse stanco di sentirsi un cittadino di colonia, tornato 
a Fondi cominciò a profondere denaro per convincere i suoi concittadini e le 
popolazioni volsche, specialmente quelle dell'interno, a ribellarsi a Roma. 
Priverno, che meno delle altre tollerava la presenza romana, aderì con 
entusiasmo al disegno di Vacca e formato un agguerrito esercito, iniziò una 
sistematica aggressione alle posizioni degli invasori romani, accompagnandola 
con azioni che oggi chiameremmo di guerriglia. Furono devastate Sezze, Cori e 
Norma, fedeli a Roma e si registrarono episodi di estrema crudeltà nell'un campo 
e nell'altro. I Romani reagirono all'insurrezione e dopo essersi riorganizzati, 
bloccarono l'esercito di V. Vacca in Priverno che, alla fine si arrese. Vacca 
pagò con la vita, nel 328, il suo tentativo. Da questa data inizia praticamente 
il declino vero e proprio della preminenza italica.
 Proprio da Roma venne poi 
distrutta per mano di Emilio Lepido nell'89 a.C., come punizione per aver 
parteggiato per Mario contro Silla.
 Della città non rimasero che rovine 
fumanti, mai più riedificate. Del vecchio tessuto urbanistico restano ben 
visibili solo i grandi blocchi poligonali; ma l'aerofotografia ha rivelato 
l'intero tracciato esterno delle mura e la trama urbanistica estremamente 
interessante.
 Norba mostra le sue poderose mura difensive, lunghe 2.262 metri 
ed alcune costruzioni seminterrate e identificate in un tempio a Giunone Licina, 
due arces, una delle quali con un tempio a Diana e la seconda con altri due 
templi. Inoltre sono pressoché integri la bellissima Porta Maggiore e il 
bastione detto La Loggia, modellato alla perfezione con blocchi squadrati e 
sovrapposti a secco.
 
 Sul lato opposto della città è la Porta Segnina, 
meno imponente. Norma ha una storia medievale condizionata dai due centri urbani 
limitrofi più importanti, Ninfa e Sermoneta. Nel 1298 Benedetto Caetani,papa 
Bonifacio VIII, ne procurò l'acquisto a Roffredo e Pietro Caetani, investendo 
quest'ultimo dei privilegi feudali nel 1303. Confiscato ai Caetani da papa 
Alessandro VI alla fine del XV sec.,per essere donato insieme a Ninfa, Cisterna, 
Bassiano, Sermonaeta e altri comuni a Rodrigo Borgia, figlio di Lucrezia,tornò 
ai Caetani che lo vendettero nel 1619 ai Borghese.
 PRENESTAE
 Seguendo una 
narrazione mitica riferita da Tito Livio (e da Properzio, Ovidio, Plutarco), 
fondatore della città sarebbe stato Telegono, figlio di Ulisse e della maga 
Circe. Un'altra tradizione, riportata da Catone e da Virgilio, attribuisce la 
fondazione della città a Ceculo, figlio di Vulcano. Una terza narrazione mitica 
(riferita da Stefano di Bisanzio e da Solino) attribuisce la nascita della città 
a Prenesteo, figlio di Latino, a sua volta figlio di Ulisse e di Circe.
 Il 
mito predomina anche nella spiegazione etimologica del nome "Praeneste", 
connesso da alcuni a Prenesteo, da altri al "luogo alto", su cui sorge 
l'abitato, da altri ancora al termine greco "prinos" che indica il leccio, 
pianta presente su tutto il territorio prenestino. Preneste appare inizialmente 
retta da monarchi (VII - VI secolo a.C.). Successivamente passa ad un regime 
repubblicano, la fine del periodo di massima fioritura di Preneste coincide con 
l'espansione politica di Roma. L'ostilità nei confronti di Roma dura fino al 339 
a.C., quando con un trattato Roma riconosce a Preneste la qualità di città 
"socia" indipendente, ad essa legata con un "foedus aequum" che vincola i 
Prenestini a fornire ai Romani un certo contingente militare.
 Da questo 
momento la storia di Preneste diventa un'appendice di quella di Roma. Nel 
periodo di "societas" con Roma si procede alla sistemazione urbanistica della 
città bassa, imperniata sull'asse viario Preneste - Anzio, sino alla 
colonizzazione promossa da Silla dopo il massacro degli abitanti e il saccheggio 
della città, da lui ordinati a seguito della sconfitta di Mario. Nella seconda 
metà del II secolo è da collocarsi l'avvio della completa ristrutturazione 
monumentale del santuario, da tempi immemorabili meta di pellegrinaggi e 
grandiose manifestazioni di culto. Tra gli ospiti delle famose ville prenestine 
vanno annoverati Orazio, Plinio il giovane, Aulo Gellio, Claudio Eliano, 
Simmaco; ma anche gli imperatori Augusto, Tiberio, Traiano, Adriano e molti 
altri notissimi personaggi dell'età imperiale. Tra gli edifici pubblici assumono 
notevole importanza l'anfiteatro (forse in località "Cori") e le "Pescare" 
(nell'omonima località) ampi bacini predisposti per i "Neptunialia" (spettacoli 
acquatici comprendenti "naumachie" o combattimenti di navi). Fra i dati storici 
più salienti della vita di Preneste durante il periodo imperiale si deve 
ricordare l'attività del filosofo e retore prenestino Claudio Eliano (170 - 235 
d.C.) e durante la persecuzione di Aureliano il martirio del giovinetto Agapito 
(274) divenuto in seguito il Santo Patrono della città. Nel 316, al tempo di 
Giuliano l'Apostata, prende nuovo vigore l'atavico culto della dea Fortuna; 
infine gli editti di Teodosio (380 - 392 d.C.) vietano qualsiasi espressione di 
culto pagano, colpendo in tal modo definitivamente ogni manifesto culto della 
antica religione; Preneste vede così dissolversi il proprio tradizionale motivo 
di vitalità civile e di dignità storica, ma ancora nel 391 Simmaco porge un 
significativo pubblico omaggio alla dea.
 PRIVERNUM
 Non sono note le 
origini di Priverno che si confondano con quelle degli altri insediamenti del 
periodo protostorico laziale.
 Rare testimonianze referibili all'età del 
Bronzo suggeriscono varie ipotesi, ma , in sostanza, Priverno entra nella Storia 
solo durante il periodo dell'espansione romana nel Lazio: allora appare come 
potente centro Volsco, conquistato da Roma sul finire del IV secolo a.C. con la 
conseguente distruzione dell'abitato. Di questi avvenimenti ci informa Tito 
Livio, mentre, Virgilio, in una visione poetica del tutto anacronistica, fa 
rivivere i fatti attraverso la bella immagine di Camilla.
 Non è stato ancora 
scoperto il sito della città Volsco, mentre è noto quello della colonia Romana 
di Privernum. Durante il II secolo a.C. questa sorse nella Valle dell'Amaseno, 
pure di Virgiliana memoria, in una posizione di controllo delle comunicazioni 
stradali fra la zona costiera Tirreno e la valle del sacco. I reperti 
archeologici di Privernum ( Tiberio e Claudio dei musei Vaticani; i busti di 
Alessandro e di Germanico dei musei Capitolini; i mosaici policromi attualmente 
depositati presso il Museo Nazionale delle Terme, ecc.) lasciano immaginare una 
cittadina ricca ed evoluta nel periodo che va dalla Repubblica al primo secolo 
dell'impero. Si ignorano le cause precise che provocarono la scomparsa di 
Privernum, ma alcune circostanze particolari lasciano supporre che la città fu 
distrutta durante la seconda metà del secolo nono, quando era, da tempo, sede 
vescovile, in una delle tremende incursione saracene.
 E' tradizione assai 
diffusa, e anche plausibile, che in quell'occasione il popolo di Privernum si 
rifugiò sulle colline circostanti la valle dell'Amaseno, dando origine ai 
diversi paesi che tuttora vi si affacciano, tra i quali l'attuale 
Priverno.
 
 Parco Archeologico
 
 A soli dieci minuti dal centro 
storico di Priverno, è l'area attualmente scavata territorialmente assegnabile 
all'antica città romana di Privernum.
 
 I resti principali oggi fruibili e 
sui quali si sta incentrando l'attività di scavo, sono senz'altro quelli delle 
due ricche Dumus di impianto repubblicano, con strutture ben conservate sia 
delle aree abitate che di quelle dedicate ai giardini ed alle terme. Da queste 
abitazioni, certo appartenenti ai ceti dirigenti della città romana, provengono 
ricche pavimentazioni musive ed esposte, con appropriati apparati didattici al 
Museo di Priverno.
 
 Fra queste, dalla casa più piccola, una eccezionale 
soglia policroma raffigurante un gioco di pigmei in ambiente egiziano (il tipo 
di pavimento, rarissimo, è detto appunto nilotico) e dalla Domus maggiore un 
emblema (ovvero il riquadro centrale di una pavimentazione) figurato 
policromo.
 
 
 Interessante risulta inoltre il rimaneggiamento 
architettonico dell'assetto originale nel passaggio tra repubblica ed 
impero.
 SATRICUM
 Antica città dei Volsci, ritenuta area sacra ed 
importante. Gran parte di queste città non furono fondate dai Volsci ma 
preesistevano alla loro invasione, ed erano colonie latine o latino-etrusche. 
Tito Livio narra anche della conquista romana di Satricum, i cui ruderi si 
trovano presso B.go Montello.
 Fu contesa tra i Sanniti ed i Romani, fino a 
cadere sotto questi ultimi.
 SETIA
 (Sezze) La leggenda vuole il mitico 
Ercole fondatore della città.
 Questi infatti soggiogata la Spagna venne in 
Italia per prosciugare una palude ed edificare città: Hercules devicta Hispania 
in Italiam immigravit, desiccatisque palutibus urbes quam plurimas 
condidit.
 E che tale palude fosse quella Pontina si deduce dal fatto che 
Ercole compì tale impresa subito dopo avere sconfitto i Lestrigoni, popolo del 
basso Lazio.
 E dalle setole del leone Nemeo (setis Nemeaei leonis) con le 
quali l'Eroe era fiero coprirsi si vuole derivato il nome di Setia.
 In onore 
di tale superbo fondatore i Setini eressero un maestoso tempio e vollero che il 
simbolo della città fosse per sempre il bianco leone rampante, da Ercole ucciso, 
recante tra gli artigli una cornucopia ricolma dei beni della terra e 
incorniciato dalla scritta: Setia plena bonis gerit albi signa leonis  (Sezze 
piena di beni porta le insegne del bianco leone).
 Ma questa è appunto la 
leggenda, in effetti la storia della vera origine di Setia (calcolata nel V 
secolo a.C.) è ancora motivo di dibattito tra chi la vuole Volsca per la sua 
ubicazione geografica e chi la vuole avamposto latino.
 Questa seconda ipotesi 
sembra in verità più attendibile avendo la città capeggiato nel 340 a.C. la 
rivolta delle città latine confederate, rivolta
 soffocata da Roma nella 
battaglia di Trifano.
 Ricordiamo che già nel lontano 490 a.C. Setia fu 
assalita dall'esercito volsco comandato dal patrizio romano ribelle Coriolano 
nella guerra che questi aveva scatenato contro la patria.
 Ricordiamo pure che 
in latino il vocabolo "setius"  è un avverbio che significa "diversamente"; 
Setia era quindi una città diversa, ma diversa da chi se non dalle città volsche 
che in pratica la  circondavano.
 Assoggettata da Roma, come tutte le città 
limitrofe, e divenuta colonia romana nel 382 a.C., Setia fu un importante centro 
urbano grazie alla sua posizione strategica e commerciale a ridosso della via 
pedemontana e della via Appia, le strade che collegavano la capitale al 
meridione.
 A causa della vicinanza di Roma la città seguì di questa le 
alterne vicende, un esempio su tutti: nella guerra tra Mario e Silla i Setini si 
schierarono con il primo e vennero duramente puniti dal vincitore Silla con 
incendi e saccheggi.
 Per le sue fortificazioni e per la sua posizione isolata 
Setia fu scelta per custodire i prigionieri di guerra e da qui partì nel 198 
a.C. (come narra Livio) la rivolta degli schiavi che minacciò la grandezza di 
Roma.
 Nel periodo imperiale Setia era famosa per le sue ville e per i suoi 
vini lodati da Marziale, Giovenale e Cicerone.
 SIGNIA
 Insediamenti 
saltuari sono presenti nel territorio di Segni fin dai tempi più remoti, 
addirittura risalenti all'età del bronzo. La vera storia di Segni inizia però in 
epoca protoromana, tempi in cui Segni assurse a grande importanza in virtù anche 
della sua posizione strategica sulla Valle del fiume Sacco, quindi sulla 
direttrice che mette in contatto l'alto Lazio con il basso Lazio e la 
Campania.
 Nel VI° sec. a.C. (precisamente nel 513 a.C.) Tarquinio il Superbo, 
uno dei sette Re di Roma, inviò a Segni dei coloni e una guarnigione armata per 
proteggere, per via terra, le vie di accesso alla città di Roma. Proprio per 
questi fatti, suffragati anche da ritrovamenti archeologici, si dice che Segni 
fu fondata da Tarquinio il Superbo.
 Successivamente (495 a.C.) Sesto 
Tarquinio deduce a Segni una seconda colonia.
 In entrambi i casi, come 
consuetudine di quei tempi, una buona dose di coloni romani viene ad insediarsi 
nel territorio di Segni.
 Ma Segni, sin dai primordi, fu una città-stato 
autonoma fino al 340 a.C. quando venne conquistata dai Romani che ben presto le 
concessero la dignità di Municipio, godendo così di relativa indipendenza, ma 
con obblighi di alleanza con la stessa Roma.
 Infatti nel 493 a.C. i Segnini 
furono uno dei popoli sottoscrittori del Foedus Cassianum, patto di alleanza 
stipulato tra le città latine e Roma, dopo il termine della battaglia che i 
Romani avevano intrattenuto con popoli che si erano ribellati durante il secondo 
consolato di Spurio Cassio.
 In questi tempi Segni era dunque una città tanto 
fiorente che, unica in tutto il Lazio, coniava monete d'argento con la scritta 
SEIC e addestrava milizie proprie con le quali offriva aiuto a Roma (A tal 
proposito sembra che il nome "Segni" derivi proprio dal SEIC suddetto, indicante 
il cinghiale, animale sacro per gli antichi abitanti di Segni, anche se altri lo 
fanno derivare dalle insegne di Tarquinio il Superbo - SEIGNIA, in latino- o 
dalla statua del dio Mercurio -Signinum-, presente nel recto delle monete di 
Segni, oppure ancora segno (seignom) distintivo di Segni che, sola fra tante 
città latine, coniava moneta) .
 Signia è governata da quattro pretori, due 
per la legislazione e due per il governo effettivo. E' alleata fedele di Roma, 
particolarmente nei momenti più difficili, e per questo viene scelta come luogo 
di confino dei prigionieri punici durante la guerra contro Annibale di 
Cartagine. Durante la battaglia fra Mario il giovane e Silla, i segnini 
parteggiarono per il primo: alla sua sconfitta (nella battaglia di Sacriporto, 
vicino Piombinara) i segnini ricevettero una cruda rappresaglia da parte di 
Silla.
 Si arriva così all'89 a.C. (guerra marsica), anno in cui Segni 
acquisì la condizione di Municipio ed il diritto di fregiarsi della sigla 
S.P.Q.S. (Senatus PopulusQue Signinus).
 Durante l'era repubblicana ed il 
successivo periodo imperiale, a Signia viene costruito il foro, i templi al dio 
Ercole, alla Bona Dea, vengono innalzati monumenti a varie divinità ed 
all'imperatore Marco Aurelio Antonino (detto Caracalla) e vengono costruite 
numerose, e lussuose, ville nel circondario.
 In epoca molto posteriore Segni 
subì i gravi disagi conseguenti alla guerra greco-gotica che portò un periodo di 
recessione economico-sociale.
 Tra la fine del sec. VI e l'inizio del 
successivo nacque a Segni Vitaliano, Papa dal 657 al 672. Questi cercò un 
riavvicinamento con l'Impero Bizantino e con la Chiesa di Costantinopoli, inviò 
missionari in Inghilterra e diffuse il canto Gregoriano.
 In epoca bizantina 
Segni ebbe una ripresa economico-sociale.
 Monumenti
 E' la volsca Signia, 
ed è ancora cinta da mura ciclopiche (sec. VI a. C. ) ben conservate, nelle 
quali si aprono alcune porte.
 
 Porta Saracena
 
 Notevoli i resti 
delle mura, con la c.d. Porta Saracena, larga in alto m. 1,40 e alla base m. 3, 
di forma ogivale con architrave monolitico.
 Oltre la Porta Saracena sono 
presenti altre porte minori, già descritte dai numerosi archeologi che 
periodicamente hanno fatto studi su Segni:
 La "Portelletta", subito sotto il 
curvone di Pianillo;
 Una porta nel tratto intermedio fra la Saracena e la 
Portelletta;
 Una piccola porta, senza architrave, subito sotto la pineta di 
Pianillo;
 La "Porta Santa", subito sotto S.Pietro, dalla caratteristica 
arcata ogivale;
 La "Porta Foca";
 La porta in corrispondenza del Ponte 
Scarabeo;
 La porta del Lucino.
 Altri monumenti degni di nota 
sono:
 Sull'Acropoli i resti di un tempio del III-II sec. a.C. (parzialmente 
inglobati nella chiesa di S.Pietro (sec. XIII), che occupa la cella centrale 
dell'antico tempio),
 
 Cisterna Romana
 e la Cisterna Romana, 
anticamente utilizzata per il recupero dell'acqua piovana per uso umano, in 
mattoni di tufo cementati con l' "Opus Signinum" (tipo particolare di calce, 
caratteristica del luogo, famosa nel tempo antico perchè molto resistente ed 
impermeabile all'acqua);
 nel centro storico la Cattedrale, con la facciata 
neoclassica progettata dal Valadier.
 TELLANAE
 
 Antichissimo villaggio 
latino di epoca pre-romana, posto sulla via Laurentina.
 Caratteristica è la 
sua necropoli.
 TIBUR
 La città di Tivoli è collocata sulle pendici dei 
monti Tiburtini lungo l'Aniene nei pressi della grande cascata che il fiume 
forma ai piedi dell'antica acropoli. La ricchezza delle sue acque, la felice 
posizione strategica sulla via dei traffici verso l'Abruzzo, la fertilità del 
suo territorio e le condizioni climatiche favorevoli contribuirono in età 
protostorica a creare le condizioni per insediamenti spontanei stabili che 
determinarono i presupposti per la fondazione della città.
 Secondo Virgilio 
la città fu fondata da Tiburto o tibumo, personaggio mitico originario di Argo i 
cui fratelli parteciparono alla guerra contro Troia a fianco dei Greci; per 
Catone invece la città ebbe origine da Catillo, comandante della flotta di 
Evandro; infine Dionigi di Alicamasso ci parla di Tibur come di una colonia dei 
Siculi,  dai quali prese il nome di Siculeto e successivamente dagli aborigeni i 
quali la chiamarono Polistephanon cioè Corona della Città.
 Le prime 
attestazioni archeologiche dell'antica Tibur sono costituite dalla sua cinta 
muraria di IV secolo a.C. di cui restano visibili ancora alcuni tratti. L'asse 
viario principale, che determinò l'orientamento della città, era costituito 
dalla via Tiburtina che la collegava direttamente a Rorna, sotto la cui egida 
venne a trovarsi già dal 380 a.C., che entrava nell'abitato attraverso la Porta 
Maggiore per uscirne poi dalla porta Variana. Nel II secolo a.C. un forte 
sviluppo edilizio interessò i settori urbani più importanti con la costruzione 
di edifici civili e di culto che costituirono i fulcri su cui poi, nei secoli 
successivi, si sarebbe articolato l'impianto urbanistico giunto fino a 
noi.
 
 TEMPIO DI ERCOLE VINCITORE
 Si tratta di un complesso monumentale 
che presenta forti analogie con altri tempi presenti nel Lazio ( Giove Anxur a 
Terracina, Fortuna Primigenia a Palestrina ) tutti contraddistinti dall’uso dei 
terrazzamenti digradanti utilizzati al fine di creare una scenografia di 
contorno all’edificio templare vero e proprio esaltandone gli effetti 
prospettici. Il santuario occupava originariamente un’area molto vasta giungendo 
fino al tracciato della Via Ttiburtina che veniva isolata dall’intero complesso 
attraverso poderose costruzioni .
 
 Il tempio vero e proprio, di cui 
restano i lati lunghi del perimetro, si sviluppava, su un alto podio cui si 
accedeva mediante una gradinata. La cella era circondata su tre lati da un 
colonnato con otto colonne sul prospetto principale. Sul suo fondo un’esedra 
incorniciava la statua di culto. In asse con il tempio si trovava il teatro 
fornito di scena e portico retrostante. Il culto di Ercole, con cui spesso la 
città veniva identificata nell’antichità ( Herculaneum Tibur ), riporta alle 
originarie rotte della tramsumanza delle greggi di cui il dio era protettore, 
che, con molta probabilità, costituirono uno degli elementi portanti della 
originaria economia cittadina. Nella città è possibile 
vedere:
 ACROPOLI
 Sorgeva su uno sperone roccioso da cui si gode la vista 
delle cascate dello stupendo paesaggio di Villa Gregoriana. La sua funzione 
culturale è documentata dalla presenza di due tempi di cui il più antico è 
databile, in base alle strutture edilizie, alla metà del II secolo a.C. . La sua 
forma è rettangolare con quattro colonne in facciata ( di cui due conservate ) 
con basi attiche, pareti in opera quadrata di travertino e semicolonne laterali 
addossate alla cella.
 
 Lo stile dell’intero edificio doveva essere ionico 
a giudicare dal capitello rinvenuto sul retro. Il tempio circolare posto accanto 
ad esso conserva 10 delle originarie 18 colonne corinzie che delimitavano il 
peristilio di cui è ancora visibile parte della decorazione a cassettoni del 
soffitto. Sull’architrave si conserva una iscrizione dedicatoria. Alcuni 
studiosi ipotizzano che, nella nicchia presente sul muro di fondo della cella, 
fossero conservati i Libri Sibillini collegati dalle fonti letterarie a Tivoli e 
al fiume Aniene.
 
 TEMPIO DELLA TOSSE
 Si tratta di una grande aula 
circolare a due ordini sovrapposti con copertura a cupola segnata esternamente 
nel punto d'imposta da mensole di travertino. Nella parte superiore si aprono 
sette nicchie, in quella inferiore vi sono i due ingressi. In origine l'edificio 
doveva costituire il vestibolo monumentale di una villa del I secolo a.C. 
riutilizzata alla fine del III inizi IV secolo d.C. come attestano i rifacimenti 
delle murature in opera vittata (file sovrapposte di tufelli e mattoni).
 
 
 Il periodo imperiale fu particolarmente fecondo di straordinarie 
opere di cui Villa Adriana costituisce un magnifico esempio architettonico per 
le sofisticate soluzioni tecniche in essa adottate, e culturale, quale summa del 
pensiero storico ed estetico della propria epoca. Sempre al periodo di Adriano 
può essere fatta risalire la costruzione dell'Anfiteatro detto di Bleso sito a 
nord della Rocca Pia, rinomata fortezza con quattro torrioni cilindrici, 
costruita intorno al 1461 per le esigenze militari di Pio II, 
Piccolomini.
 Il complesso termale delle Acque Albule conserva resti 
rifelibili alla media età repubblicana, periodo in cui era già apprezzata la 
pratica della idroterapia, ed una serie di sepolcri, ubicati nelle immediate 
vicinanze della città ancora in buono stato di conservazione completano il 
quadro delle preesistenze di età classica. Mentre il territorio limitrofo alla 
città vide coincidere il periodo alto-medievale con la decadenza delle grandi 
ville suburbane di epoca romana, il centro urbano, nella variata ottica dei 
valori, si andò plasmando alle nuove esigenze e al nuovo sentire di quel 
periodo. Il foro, centro della vita ciale, fu sostituito dal duomo di S. Lorenzo 
edificato, come sembra, nel IV secolo. Nel 1155, con Federico Barbarossa, la 
città tornò agli antichi splendori: furono riedificate le mura di cinta che, con 
la loro estensione, forniscono l'indicazione di un notevole incremento dell'area 
urbana; furono costruite, a scopo difensivo, alcune case-torri nel punti 
strategici, di cui si conservano alcuni significativi esempi (Vicolo dei Ferri, 
via Postera, via del Serminario, ecc.); furono edificati il palazzo dell'Arengo, 
la Torre del Comune, la chiesa di San Michele che definirono il nuovo fulcro 
della vita civile e religiosa della città. Nel 1550 il Cardinale Ippolito d'Este 
realizzò, su progetto di Pirro Ligorio, la famosa villa, cui seguirono le 
costruzioni di numerose dimore nobiliari: il palazzo Cenci-Alberici, Bellini, 
Pacifici, Pusterla, ecc.
 TUSCULUM
 Secondo una poetica tradizione, il 
leggendario Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, fondò la città, che 
storicamente risale al IX sec. a.C. e fu resa potente dalla Lega Sacrale Albana, 
prima di cadere sotto il predominio romano.
 Tusculum infatti fu sconfitta da 
Roma al Lago Regillo intorno al 500 a.C. quando al Comando dei Latini era il 
Dittatore Tuscolano Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio il Superbo. La 
derivazione del nome conferma l'antichità della combattiva città latina. 
Tusculum, secondo Festo, è in relazione con i Tuschi, Etruschi. Nella zona non 
si sono tuttavia trovate tracce di cultura etrusca.
 E' invece documentato 
l'influsso delle antiche pratiche religiose greche. Giove era comunque la 
divinità più venerata, come dimostrano i ruderi del tempio sull'arce, e di due 
simulacri del dio scoperti nei pressi. Sullo stesso spiazzo dell'Acropoli 
sorgeva anche il tempio ai Dioscuri, Castore e Polluce, distrutto nel 
medioevo.
 La cittadinanza romana di Tusculum risale all'anno 380 a.C., 
allorché i romani la occuparono per annetterla, dopo molti anni, alla tribù 
Papiria; ma Roma soppresse tutte le magistrature militari e giurisdizionali 
della città latina e vi lasciò solo quelle incaricate della polizia e del 
mercato, ossia gli edili. Ben presto Tusculum cominciò a destare l'interesse dei 
ceti più rappresentativi ed autorevoli del popolo romano (la Mamilia, la Porcia, 
la Fulvia, la Fonteia e la Corumcaria). Molti nobili vi possedevano lussuose 
ville data l'amenità del luogo e l'abbondanza dell'acqua.
 Si raggiunge la 
zona dove riaffiorano le vestigia dell'Anfiteatro, ancora in gran parte 
nascosto. Era un armonioso edificio di forma ellittica, destinato agli 
spettacoli tra gladiatori e fiere o a quello dei ginnasti. L'anfiteatro poteva 
ospitare 3000 spettatori e aveva un diametro di m 53 x 80 (l'arena m 48 x 29). 
Era costruito in opera reticolata (il conglomerato di sassi e calcestruzzo, 
detto opera cementicia, era estremamente rivestito di piccole bozze di pietra 
che regolarizzavano la superficie dandole l'aspetto di una rete a fitte maglie). 
La costruzione risale al II sec. d.C., come dimostrano i bolli sui mattoni 
trovati sul posto: un secolo dopo la costruzione dell'anfiteatro Flavio, cioè il 
Colosseo.
 Verso la parte orientale dell'anfiteatro sono i ruderi attribuiti 
alla Villa di Tiberio, qui trasferitosi da capri, dove viveva con Antonia, 
vedova di Druso. Scoperta nel cinquecento come Villa di Cicerone (ivi furono 
ritrovate sculture ed una statua) fu oggetto di molti studi; oggi si può 
affermare che gli avanzi visibili costituivano una terrazza e un complesso di 
robuste costruzioni. Nella zona furono fatti ritrovamenti, di altre ville 
appartenenti a nomi illustri, anche se non si è potuto dimostrare che la vera 
Villa di Cicerone, dove il grande oratore scrisse "le Tusculanae", si trovasse 
nella zona finora esplorata. E' un fatto che la villa rustica sui Colli Laziali 
servì al riposo specialmente degli uomini politici. Perciò le ville furono tutte 
sontuose: ricche nella costruzione, vaste ed ombrose. Tra parchi e boschetti si 
ergeva il praetorium o palazzo, grande atrio, portici, comodissime e 
decoratissime stanze alla greca.
 Sulla parte più alta della villa una o 
più riserve di acqua pluviale alimentavano le terme private e le fontane dei 
giardini, popolate di ninfe e di tritoni. Vi erano palestre e biblioteche, 
reparti riservati agli ospiti, altri per l'actor, per il villicus e per altri 
addetti alla custodia, oltre le scuderie. Nei dintorni furono scoperti i resti 
della Villa dei Quintili, di quelle di Piasseno Crispo, di Matidia Augusta e 
forse, quella di Asinio Pollione. Sul lato settentrionale dell'arce (indicata 
attualmente da un'alta croce) si vedono avanzi di mura: esse cingevano le 
abitazioni di un gruppo di coloni condottivi ai tempi di Silla II sec. a.C. Vi è 
anche una piccola cisterna scoperta con volta a ogiva, opera pregevolissima che 
risale ai secoli V-VI a.C.
 L'ampio spiazzo dovette ospitare il Foro di 
Tusculum, dove è conservato un interessante teatro romano.
 
 Teatro
 Edificato a ridosso della collina, sfruttandone il naturale 
pendio, presenta una cavea con un diametro massimo di m. 51 (1.500 spettatori), 
di cui solo il meniano inferiore risulta oggi visibile, suddiviso in quattro 
cunei separati da file di gradini, e un corpo scenico rettangolare di dimensioni 
m. 35,5x12,5. All’estremità della cavea si aprono gli aditus, rampe d’accesso a 
gradoni inclinati. Ancora visibile è la disposizione della scaenae frons (fronte 
della scena), in cui si aprivano la valva regia (porta centrale) e le due valvae 
hospitales (porte laterali).
 Interessante sottolineare la presenza di una 
strada che dal foro passava sotto la metà settentrionale della cavea, prendendo 
pertanto l’aspetto di una sorta di galleria, la via tecta, la cui copertura oggi 
non è più visibile, fiancheggiata da una struttura muraria in opus 
quadratum.
 Si tratta di un complesso teatrale di dimensioni abbastanza 
modeste, situato su uno dei lati minori del foro, il cui limite orientale è 
proprio costituito dalla facciata del corpo scenico.
 Il teatro ebbe tre fasi 
costruttive ben definite:
 fase A: nella prima metà del I sec. a.C., 
probabilmente in età sillana, vengono repentinamente distrutti una serie di 
edifici e strutture con funzione idraulica, situati nella zona nord e risalenti 
all’epoca repubblicana, che occupavano lo spazio su cui dovrà sorgere il teatro, 
che proprio allora viene edificato;
 fase B: nella prima metà del I sec. d.C., 
probabilmente all’inizio dell’epoca giulio-claudia, viene effettuato un 
importante lavoro di ristrutturazione dell’edificio, che comporta la costruzione 
di un nuovo corpo scenico, una modifica della cavea, un nuovo pozzo di 
drenaggio;
 fase C: intorno al 100 d.C. (periodo tardo flavio-traianeo) si 
effettuano nuovi interventi che comprendono la realizzazione di una serie di 
muri in opus reticulatum che modificano i sistemi di accesso e circolazione 
della parte nord della cavea, la costruzione di un nuovo canale di drenaggio, 
l’elevazione del piano di calpestio.
 La fase di abbandono dell’edificio, 
almeno per quanto riguarda l’hyposcaenium, si realizza nel corso della prima 
metà del III sec. d.C. Interessante il ritrovamento nell’hyposcaenium di 
elementi in pietra e di incassi pertinenti a una complessa struttura, per lo più 
lignea, che permetteva il movimento dell’auleum (sipario).
 
 Foro
 Anche 
gli studi più recenti hanno continuato a sostenere per il foro di Tusculum 
l’ipotesi ricostruttiva più accreditata: una piazza rettangolare in asse con il 
teatro, circondata da portici, con un’area triangolare all’estremità occidentale 
e, presso quest’ultima, una curia. Il complesso forense, di cui si attestano 
sicuramente almeno due fasi di intervento, una di epoca repubblicana e l’altra 
di sec. I d.C., consiste invece in un’area centrale irregolare, perfettamente 
delimitata e circondata da edifici di particolare pregio.
 L’area del foro non 
costruita presenta una forma trapezoidale (lati maggiori m. 80x40) con un’area 
centrale pavimentata con lastre rettangolari di tufo, risalenti alla prima metà 
del I sec. d.C., e delimitata a nord, est ed ovest da assi viari con 
pavimentazioni a blocchi poligonali di basalto.
 Sul lato sud, oltre a un 
canale di raccolta delle acque e pozzi di decantazione (risalenti al periodo 
repubblicano), sono i resti di un grande edificio porticato con almeno tre 
ordini paralleli di colonne, avente un pavimento di grandi lastre di tufo. Di 
questo grande edificio, forse una basilica, costruito sicuramente dopo il III 
sec. a.C., rimangono visibili una struttura in opus reticulatum con un’abside 
esterna e due piccole esedre, pavimentata con un opus sectile (pavimento a 
lastre di marmo) bicromo. L’ordine del porticato pertinente a questo edificio 
era ionico con colonne scanalate a base attica.
 Nell’estremità ovest della 
piazza, in cui Canina collocava una inesistente curia, si trovano invece una 
serie di piccoli ambienti contigui, aperti su un portico lastricato, che in un 
momento successivo alla loro costruzione vennero decorati con rivestimenti 
marmorei. Il fatto che questi ambienti presentino una sorta di banchetto 
addossato al muro di fondo e i resti di probabili are, ha suggerito l’ipotesi 
che possa trattarsi di una serie di piccoli sacelli del foro.
 Il lato nord, 
quello da cui entrava chi proveniva dall’antica via Labicana, presenta anch’esso 
un portico, che oggi risulta quasi completamente distrutto. Anche in questo lato 
è presente un canale di drenaggio, con pozzi di decantazione, identico a quello 
del lato sud; l’emergenza più rilevante è però il grande muro di terrazzamento 
del foro, costruito in opus quadratum tra la fine del IV e gli inizi del III 
sec. a.C.
 Il muro suddetto costituisce finora uno degli elementi più 
importanti della prima fase di costruzione del foro risalente all’epoca 
repubblicana (III sec. a.C.) che aveva forma poligonale, aperto e pavimentato 
con lastre di tufo, a cui risalgono anche i canali di deflusso e i pozzi di 
decantazione ritrovati sui lati nord e sud. Una nuova pavimentazione (quella in 
gran parte tuttora visibile) dell’area centrale del foro si può datare in 
corrispondenza della fase B del teatro (prima metà del I sec. d.C.), in 
relazione al tentativo di dare una unità formale al complesso. Per gli edifici 
che delimitano il foro è stata documentata una serie di rifacimenti più o meno 
importanti nel corso del II sec. d.C. Sia nel teatro che nel foro è testimoniata 
un’importante occupazione medievale che pare circoscritta ai secoli 
X-XII.
 VELITRAE
 ORIGINI
 L’origine di Velletri, così come quello di 
molte altre città la cui storia "si perde, nell’oscurità dei tempi, è incerta 
per cui, in mancanza di testimonianze certe ed univoche, si è cercato di 
ricostruirla attraverso "fonti" rilevatosi successivamente inattendibili e 
"congetture" che non hanno retto neanche al primo riscontro. Nessuno degli 
antichi storici parlano della fondazione di Velletri, né di quella delle altre 
città del Lazio; essi si limitano a ricordarle indirettamente, nelle narrazioni 
delle gesta romane.
 C’è chi ritiene che Velletri sia stata fondata dai 
Volsci, di cui ne divenne la capitale e chi sostiene invece che la nostra città 
nacque etrusca intorno al 700 a.C., tanto per citare due tesi del tutto 
contrastanti quanto puntigliosamente difese.
 I Volsci erano un popolo forte e 
guerriero che verso il VI sec. a.C. vennero a stabilirsi sui monti Lepini 
occupando quella vasta zona di territorio che si estendeva da Segni sino a Sora 
e Cassino attraverso la valle del Sacco e da Sezze e Priverno sino a Terracina, 
Fondi e Formia, attraverso le Paludi pontine. Più che i fertili campi della 
Campagna veliterna deve essere stata l’invidiabile posizione strategica della 
città ad indurli ad occupare Velletri.
 A riprova di ciò Svetonio, ne Le vite 
dei dodici Cesari, riferisce che a Velletri si trovava un tempio di Marte, nume 
tutelare della gente volsca. Questo tempio era in grande rinomanza presso tutta 
la nazione, la quale vi conveniva a sacrificare per la pubblica prosperità e a 
prendere i presagi. Il che diede motivo ai poeti di chiamare Velletri Urbs 
inclyta Martis, celebre città di Marte.
 Gli Etruschi, invece, provenivano 
dall’Etruria da dove si spinsero verso il Sud per barattare i loro utensili in 
metallo con quelli di altre civiltà e lungo il percorso di questa lenta ma 
costante marcia ad ogni tappa ponevano la base di una città in cui si 
soffermavano per qualche tempo. Possiamo quindi ricostruire l’itinerario del 
loro avvicinamento al mondo greco dalle città da essi fondate: Veio a nord del 
luogo dove qualche secolo dopo sarebbe sorta Roma, Tivoli su una altura lontana 
dagli acquitrini paludosi e malarici, Tusculum, l’attuale Frascati, Praeneste 
ossia Palestrina, Cori sino a Capua dove vennero in contatto con i Greci ivi 
stanziati.
 
 MUNICIPIUM ROMANUM
 Con la nascita di Roma la città di 
Velletri, volsca o etrusca che fosse, dopo aver resistito per circa due secoli 
alle forti pressioni espansionistiche veniva conquistata dai romani.
 Velletri 
fu una civitas opulenta, come lo attestano le sue mura preromanee, le artistiche 
terrecotte volsche, preziosi tesori del VI sec. a.C., conservati nel museo di 
Napoli e in quello della nostra città. Fiera del suo Senato, della sua forza e 
della sua autorità, resistette lungamente contro la prepotenza accentratrice di 
Roma; e quando, domata da Furio Camillo, le dovette cedere il passo, essa 
divenne il più apprezzato Municipium Romanum.
 Per la tenace resistenza 
opposta le sue fortificazioni vennero rase al suolo ed i suoi cittadini portati 
a forza a Roma al di là del Tevere (ossia nell’attuale quartiere di Trastevere) 
ripopolandosi la città con coloni per la coltivazione di quelle fertili terre 
che l’Urbs tanto aveva desiderato possedere per l’invidiabile posizione 
strategica della nostra città.
 
 Pur ultima dopo gli Equi, gli Enrici e gli 
Aurunci, quindi, anche a Velletri nel 338 a.C. alla fine di una guerra che Livio 
definì "eterna" e Cicerone "gravissima", veniva soggiogata da Roma e finiva così 
il regno dei Volsci con il leggendario re Metabo e sua figlia Camilla di cui ci 
ha lasciato memoria Virgilio nell’Eneide.
 Le prime ostitilà sorsero sotto il 
re Anco Marzio; conquistata dal console Aulo Virginio, ricevette una colonia 
romana nel 493 a.C. e un’altra nel 404; poco dopo la Guerra Gallica passò ad una 
aperta rivolta contro Roma e venne infine sconfitta sulle sponde dell’Astura nel 
338 a.C. Divenne, pertanto, come abbiamo appena ricordato prima una colonia e 
subito dopo il più apprezzato Municipium Romanum concorrendo con il valore ed il 
sangue dei suoi figli alle vittorie su Pirro e su Annibale.
 Era inevitabile, 
però, che il dominio romano imponesse a Velitrae e ai suoi abitanti la sua 
religione, i suoi costumi e la sua lingua facendo a poco a poco perdere memorie 
di tutto quello che rimaneva della passata civiltà. Anche se Strabone scrisse: 
"Quando il popolo dei Volsci venne assorbito dai Romani, rimase presso questi la 
loro lingua, tanto che si rappresentavano in Roma commedie in lingua
    volsca.
 
 Continua>
 |  |  
                                    | 
 |  
                                    |   |  |  |  |   
                      |  |  |