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ANTICHI POPOLI DEL SUD ITALIA

ANTICHI POPOLI DEL SUD ITALIA IN EPOCA PRE ROMANA

Magna Grecia

Nell'antichità era conosciuta come Megale Hellas . Rappresenta un insieme di città poste nell'Italia meridionale fondate da membri di popolazioni greche (Ioni, Dori, Achei, Eubei, Calcidesi), emigrati dalle loro patrie per ragioni politiche ed economiche.
In questo modo le culture ellenica ed orientale sono approdate nel sud della penisola, popolato all'epoca dagli Enotri, popolazione autoctona, successivamente emigrata in Sicilia.
Nel corso dei secoli si è erroneamente pensato che questo territorio ebbe uno sviluppo subordinato a quello della madrepatria. In realtà queste città conobbero uno sviluppo proprio in vari settori, come l'arte, la scienza, la filosofia. Si arrivò così al punto che tale regione si guadagnò presso la madrepatria l'appellativo di "magna".
Essa divenne luogo di approdo delle navi provenienti dall'Asia e dalla Grecia, dunque sede di numerosi e prolifici commerci. L'arte e la scienza magnogreche vennero rapidamente conosciute in tutto il mondo.
Il territorio della Magna Grecia investe le regioni dell'Italia meridionale, ricche di terra fertile.
BRUZI

La comparsa di questo Popolo nella Storia della Calabria Antica e il suo definitivo declino, e' ben fotografato dalle parole di Strabone(VI,255) e (VI,253-254):
"Poco oltre i Lucani ci sono i Bretti, che abitano una penisola, la quale a sua volta comprende un'altra penisola il cui istmo va da Skylletion fino al golfo di Hipponion. Il loro nome è stato dato dai Lucani: questi i ribelli li chiamano appunto "bretti". Secondo la tradizione, i Bretti che prima erano dei pastori al servizio dei Lucani e poi si affrancarono, si rivoltarono contro di essi esattamente allorché Dione portò guerra a Dionisio  e fece sollevare tutti questi popoli gli uni contro gli altri".
"I Lucani, i BRETTI e gli stessi Sanniti, che furono i loro progenitori, sono talmente decaduti che risulta difficile persino distinguere i loro insediamenti. La ragione va ricercata nel fatto che di ciascuno di questi Popoli non esiste piu' alcuna organizzazione politica comune, sono scomparsi i dialetti, si è perduto l'uso degli abbigliamenti militari e civili e di altre cose del genere; per altro, i loro insediamenti, considerati uno per uno  e nei particolari, sono del tutto insignificanti"
L'arco di tempo "racchiuso" nelle parole del grande geografo è perciò quello che va dal 357-356 a.c. ( anno in cui Dionisio subì l'attacco di Dione) e il 7-18 d.c. ( gli anni durante i quali Strabone scrisse e revisionò la sua Geografia).
Per la verità, prima di questa data, la loro presenza in Calabria doveva essere nota al mondo greco poichè, in un frammento comico che Stefano di Bisanzio attribuisce ad una opera ignota di Aristofane, si parla di "pìssa Brettia"(fr.629) : la pece silana (Bruttia pix) era già, in qualche modo, "identificativa" di questo popolo sin dalla fine del V° sec. a.c. o inizio IV°.

Ma chi erano e da dove venivano le popolazione bruzie? Come vivevano?

Nel corso dell'età del Ferro, gruppi di genti di stirpe Indoeuropea penetrarono in Italia distribuendosi lungo l'arco delle dorsali appenniniche centro-meridionali. Ad essi fu dato il nome di Italici, all'interno dei quali venivano distinte le  tribu' dei Sanniti, degli Apuli, dei Campani, dei Lucani, ecc., tutti caratterizzati dal linguaggio comune definito Osco. Per tale ragione, gli stessi Romani li identificavano come un gruppo omogeneo cui diedero il nome di Sabelli.
La tradizione letteraria concorda nell'identificare i Bretti come pastori e/o servi dei  Lucani  che abitudinariamente vivevano a mo' di nomadi. Infatti tali li definisce - come già visto - Strabone, ma altrettanto fa Diodoro Siculo ( XVI,15) e Pompeo Trogo in Giustino (XXIII,1,1-14); quest'ultimo Autore, inoltre, conferma la loro discendenza dai Lucani e la vittoriosa rivolta contro quest'ultimi.
I Bretti ci vengono dunque presentati come Popolo di stirpe Indoeuropea, di linguaggio osco, di animo rude e bellicoso ( ad iniuras viciniorum prompti) e a connotazione nomade (Platone parla di popoli nomadi e aggressivi per i quali usa il termine di Peridìnoi presenti in Italia .  Leggi,VI 777c).

I Bretti, tra la metà del IV° e la metà del III° a. c. , attaccano e conquistano diverse città magno-greche,   (Terina, Hipponion, Sibarys sul Traeis e altre) sottraendo loro territorio e risorse.  La loro parabola va inquadrata nel contesto storico del tempo ove, contemporaneamente al declino delle pòleis magnogreche stremate da continue lotte intestine e all'ingerenza militare dei tiranni Siracusani , si assisteva alla inarrestabile ascesa della potenza Romana. Le guerre combattute al fianco di Pirro re dell'Epiro prima, e di Annibale poi (guerre puniche), decretarono la fine della potenza brettia e la loro scomparsa come etnia autonoma organizzata: quasi tutto il loro territorio, con in testa Cosentia (metropolis brettia) , faceva oramai parte dell'Ager Romanus (II° e I° sec. a.c.).
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, anche i ritrovamenti archeologici appartengono a materiali databili più o meno dal IV° sec. a.c. in poi. Questa concomitanza temporale alla tradizione letteraria potrebbe confermare il carattere nomade ( con assenza di insediamenti stabili ) del popolo derivato dai Lucani e la loro effettiva organizzazione socio-economica a partire dalla meta' del IV° sec. a.c.
Gli insediamenti stabili non raggiungevano mai la la dimensione e la organizzazione di una città, tanto che gli Italioti e la storiografia ad essi collegata , non li hanno mai percepiti come pòleis o modelli simili. In effetti si trattava di "nuclei", che si ripetevano regolarmente e a breve distanza, composti da un Oppidum cui erano collegate delle "ville". L'oppidum, abitato dalla classe dominante ( guerrieri, magistrati e, forse,sacerdoti), era il luogo dove si svolgevano le riunioni-assemblee e si prendevano le decisioni importanti per la salvaguardia e lo sviluppo della comunità. Entro la sua cinta muraria era posta la necropoli, lo studio archeologico della quale, testimonia delle differenze tra classi sociali e delle ulteriori differenziazioni all'interno della stessa classe.
Le tombe, a camera, contenevano tutta una serie di oggetti posti attorno al corpo inumato del defunto. Oltre a vasetti di ceramica di ispirazione greca e funzionalmente diverse a secondo del sesso del defunto, nelle sepolture maschili sono le armi (lance,spade,scudi,elmi,schiniere) a caratterizzare il rango del defunto, mentre nelle deposizioni femminili tale funzione e' svolta dai gioielli, sia in oro che in bronzo. Tali elementi ( armi e gioielli) sono per la massima parte di produzione italiota, a testimonianza della forte permeazione culturale magno-greca del mondo brettio. Accanto a questi , tuttavia, coesistono armi di produzione italica; allo stesso modo  sembra potersi dedurre la presenza di fabbricatori locali di oggetti in bronzo tra quelli contenuti nel cosiddetto " Tesoro di Sant'Eufemia".
Le deposizioni riguardanti il ceto subalterno delle ville, ove evidentemente si svolgevano le attività produttive, erano situate in tombe a fossa situate in prossimità delle ville stesse e non contenevano armi o oggetti di particolare valore.
In definitiva, un popolo quello dei Bretti sopratutto di guerrieri ma che ,come scrive il Marandino "almeno fino alla sottomissione da parte di Roma, sempre tanto forti da impedire a chiunque di unificare in un solo stato tutti i popoli della Calabria antica, e, comunque, sempre altrettanto deboli da non riuscire essi stessi a tale impresa"; un popolo di cui non resta alcuna traccia di civilta' culturale non materiale, ma che tuttavia erano gli unici ad essere definiti da Ennio "bilingues", come tramandato da Lucilio e commentato da Festo: "Bilingues Bruttates Ennius dixit,quod Bruttii et Osce et Graece loqui solit sint. Sunt autem populi vicini Lucanis"; un popolo influenzato ma mai assorbito dalla cultura magno-greca :" La storia dei Brezi e' intessuta dal progressivo appropriarsi delle forme materiali della cultura greco-italiota, funzionalizzate all'interno di una sfera che nasce e rimane anellenica".
ENOTRI

Secondo le fonti antiche l'Enotria occupava un vasto territorio tra le colonie greche di Poseidonia  e Metaponto e gran parte della Calabria settentrionale. I centri enotri in Basilicata erano realtà cantonali corrispondenti ai diversi bacini fluviali.
Le valli fluviali, in questo territorio montuoso e pieno di boschi, rappresentavano le principali vie di comunicazione tra Ionio e Tirreno. Nel IX secolo a.C. gli abitati enotri erano situati su alture per controllare il territorio e gli itinerari. Si trattava di piccoli abitati di capanne con organizzazione sociale ancora di tipo tribale, basata su semplici rapporti di parentela. L'economia era basata essenzialmente sull'agricoltura, anche se era sviluppato l'artigianato come dimostrano i ricchi manufatti in bronzo.
Agli inizi del VII secolo a.C., in seguito alla fondazione delle colonie greche sullo Ionio e dei centri etruschi della Campania interna, i centri enotri stabilirono relazioni commerciali con il mondo greco-ionico e con il mondo etrusco-tirrenico, con il conseguente sviluppo socio-economico. Inoltre fino alla metà del V secolo a.C. gli Enotri assistono a un processo di acculturazione, basato su processi greci ed estruschi. Verso la metà del V secolo a.C., in seguito alla caduta di Sibari (510 a.C.), il mondo enotrio entra in crisi assistendo all'emergere dell'ethnos dei Lucani. Subiranno un processo migratorio verso la Sicilia, dando luogo a mescolanze con altri popoli locali.
Dionigi di Alicarnasso parlando dell'origine greca delle popolazioni dell'Italia meridionale e attingendo a fonti più antiche del V secolo a.C., racconta la storia dell'ethnos enotrio: " Primi tra i Greci questi [gli Arcadi], traversando il Golfo Ionio si stabilirono in Italia, sotto la guida di Enotrio figlio di Licaone... 17 generazioni prima della spedizione contro Troia. Fu dunque questa l'epoca in cui i Greci inviarono la colonia in Italia. Enotro lasciò la Grecia non essendo soddisfatto dell'eredità paterna: avendo infatti Licaone 22 figli, era stato necessario dividere in altrettante parti la terra degli Arcadi. Lasciato per questi motivi il Peloponneso e preparata una flotta, Enotro traversò lo Ionio, e insieme a lui anche Peucezio, uno dei suoi fratelli. Li accompagnavano molti della loro stessa stirpe poiché si dice che anticamente gli Arcadi fossero un popolo assai numeroso e quanti tra gli altri Greci possedevano terra insufficiente alle loro necessità. Peucezio, sbarcata la sua gente nel punto stesso del loro primo approdo in Italia, al di sopra del Capo Iapigio, vi si insediò, e da lui gli abitanti di quella regione furono chiamati Peuceti . Enotro invece, con la maggior parte della spedizione giunse all'altro golfo... Trovando molta terra adatta al pascolo, ma anche molta idonea per l'agricoltura, per lo più inoltre deserta o poco densamente abitata, dopo aver scacciato i barbari da alcune zone, fondò numerose piccole città sulle montagne, secondo quello che era l'abituale modello insediativo degli antichi. E chiamò tutta la terra che aveva occupato, e che era assai estesa, Enotria, ed Enotri tutti coloro sui quali ebbe il governo ".
Aristotele, filosofo greco del IV secolo av.C., riferisce che un successore di Enotro, Italo, diede agli Enotri leggi e istituzioni, (sissizi, ossia pasti comuni o riserve alimentari collettive), trasformandoli da pastori non in agricoltori sedentari. Da Italo la regione avrebbe assunto il nome di Italia.
La ceramica enotria
La produzione di ceramica enotria presenta poche forme di tradizione protostorica. Accanto a vasi ad impasto compaiono le produzioni in ceramica depuarata, a volte dipinta con una semplice decorazione geometrica. I vasi o la tazza attingitoio per i corredi funerari erano decorati con semplici motivi in colore bruno, tra cui il motivo distintivo della ceramica enotria più antica detta "a tenda elegante". Nel VII secolo a.C. il corredo vascolare è influenzato da nuove forme di derivazione tirrenica o greco-orientale come nel caso dei kantharoi, con qualche esempio di ceramica geometrica bicroma.
Soltanto nel VI secolo a.C. la produzione vascolare si amplia notevolmente: si diffondono forme di derivazione tirrenica e ancora i kantharoi a decorazione bicroma, forme di derivazione greca, in particolare corinzia e greco-orientale. Infatti alcuni vasi della produzione locale presentano dipinti con figure o schemi antropomorfi e ancora sono legati al rituale funerario modellini fittili di arredi di culto o quelli di casa-tempietto sormontati da protomi di ariete, di toro o volatili e serpenti. Alla fine del VI secolo a.C. la produzione vascolare enotria diminuisce favorendo quella di tipo greco funzionali al rituale del simposio.

PANDOSIA

Pandosia sorgeva su un colle tra i fiumi Agri (Acheronte) e Sinni (Signum), un tempo navigabili, e controllava tutta la piana sottostante (piana di Metaponto). Strabone ipotizza che sia stata fondata dagli Enotri e dice che Enotrio era uno dei ventitré figli di Licaone, che signoreggiò nella Lucania Orientale.  Però non tutti gli storici sono d’accordo con questa ipotesi. Pandosia confinava con Eraclea , altra città della Magna Grecia. Tra il 400 e 500 a.C. Taranto, alleata con il Re dell’Epiro e Eraclea, Lagaria e Pandosia, combatté contro i Lucani, alleati di Messapi e Sanniti e scesi dall’ Italia Centrale a quella Meridionale nel VI secolo a.C.  Durante questa guerra nel fiume Agri morì Alessandro il Molosso, lo zio di Alessandro Magno. Egli era il comandante dei soldati inviati dall’Epiro. Era venuto nella Magna Grecia per fuggire dalla propria patria, perché un oracolo gli aveva predetto che egli sarebbe morto presso Pandosia e, precisamente, nel fiume Acheronte (Agri). Presso l’Agri e il Sinni si combatté un’altra grande battaglia fra le legioni romane di Valerio Levino e l’esercito di Pirro e Taranto. In questa battaglia, detta di Eraclea, morirono 1500 soldati romani e altrettanti soldati di Pirro e dei suoi alleati. Pandosia fu distrutta successivamente dalle legioni di Lucio Silla nell’ 81 d.C.
GLI   ALFATERNI

Popolazione italica residente nell'Agro Nocerino - Sarnese.
Tale zona coincide coll'ampia vallata del bacino del fiume Sarno, ed è proprio questa conformazione geografica ad aver determinato il corso della sua storia. Infatti, reso fertilissimo dall'abbondanza d'acqua e dalle ceneri vulcaniche, esso fu abitato fin dalla preistoria, come attesta qualche ritrovamento di manufatti neolitici sulle pendici circostanti: mancano, invece, sinora, ritrovamenti nella pianura, perché millenni di alluvioni ed eruzioni vulcaniche hanno ricoperto ogni più antica traccia umana.
Le prime tracce umane risalgono all'Età del Bronzo, 1000 a.C. circa, e sono quelle di un villaggio che è stato scavato a Foce di Sarno, non lontano dal sito su cui furono poi costruiti il teatro ed un tempio sannitico; dello stesso periodo è anche il villaggio trovato a Striano. La datazione è piuttosto precisa perché tutti questi villaggi, furono seppelliti dalle ceneri. e dai lapilli di una delle più disastrose eruzioni vesuviane, detta delle Pomici di Avellino, avvenuta nel XVIII sec. a. C.. Un'occupazione umana più consistente si verifica nell'XI sec. a.C., quando popolazioni del ceppo indoeuropeo arrivano nella zona, occupando tutta la pianura campana fino a Cuma . Tali popolazioni sono definite protoitaliche perché antenate di quelle che in seguito chiameremo italiche: i Latini, gli Umbri, i Sanniti, ecc.. Noi ne conosciamo la cultura, nel senso che gli archeologi danno a questo termine, cioè l'insieme dei modi di vivere, attraverso le tombe, poiché villaggi non ne sono stati ancora trovati, mentre di tombe ne sono state trovate moltissime. Si tratta della cultura detta dagli archeologi delle tombe a fossa in cui i morti vengono in una fossa rettangolare nella terra con la testa ad Est così da avere lo sguardo rivolto verso il tramonto dove si credeva fosse il regno dei morti. Quasi sempre le fosse sono circondate da un cerchio di pietre aperto, che ricorda una capanna, ed allineate lungo dei viali, come per formare un villaggio dei morti accanto al villaggio dei vivi.
Tali necropoli sono state scavate a Sarno, a Striano ma soprattutto a S. Marzano e a S. Valentino dove si sono trovate più di 1300 tombe, che coprono un periodo di quattro secoli, dal X al VII sec. a.C.. Il quadro che ricaviamo da tali tombe è di una civiltà contadina, egalitaria ed arretrata: i corredi funerari sono, sostanzialmente, tutti uguali e molto poveri, contenenti qualche cerchio di bronzo e pochi vasi di manifattura piuttosto rozza.
LUCANI
I Lucani erano un popolo di ceppo Indoeuropeo, stanziato sui monti dell'Appennino centrale. Alla fine dell'età del ferro, verso il 500 a.C., dopo aver fondato Teggiano ed Atena Lucana, lungo il fiume Tanagro, si diressero verso l'Agri, fondarono la città di Grumentum e si diffusero anche nell'intera Lucania, mescolando­si con gli autoctoni, ossia con le popolazioni indigene, siano esse Pelasgi o Enotri.
Il nome Lucani deriva dal termine osco lukon che significa lupo.
La Lucania ha origine con i Lyki , popolazione proveniente dall'Anatolia, mentre a partire dall'VIII secolo sulle coste s'insediano i Greci. Comunque la Lucania di allora avava confini diversi da oggi: infatti si estendeva tra i fiumi Lao (Calabria) e Sele (Campania) sul Tirreno e tra i fiumi Crati (Calabria) e Bradano (Lucania) sullo Ionio.
Intanto tribù osco-sabelliche scendono dall'interno per combattere il predominio greco che, non dimentichiamolo, arriva sino a Poseidonia , loro capitale. Distruggono tutto, tranne Velia.
Nel 282 a.C., i Lucani, dopo una certa resistenza, furono assoggettati dai Romani. Questi, nell'epoca repubblicana, fecero di Grumentum un fiorente centro commerciale, colle­gato tramite la via Popilia da una parte al Tirreno, dall'altra allo Ionio. Dopo l'avvento di Roma, i Lucani si alleano con Pirro ma poi seguono le vicende romane, quindi anche la caduta dell'Impero e l'arrivo dei barbari.
Partenope - Neapolis

Nel '680 a.C.i cumani fondarono la città di Partenope che, col passare del tempo divenne il rifugio di tutti gli scontenti di Cuma, ben presto tanto numerosi da diventare minacciosi per la stessa madrepatria.

Nel 470 a.C. Partenope venne distrutta ma, a causa di una pestilenza mandata, secondo la Sibilla dallo stesso Nettuno , padre della sirena Partenope , per punire i Cumani, fu fondata sullo stesso posto la città di Neapolis per ripristinare il culto della sirena.
Divenne poi possedimento sannita prima e romano poi.
 
I  MESSAPI

I Messapi erano gli abitanti della parte meridionale della Iapigia (Puglia) distinti dai Peuceti (terra di Bari) dai Dauni (terra di Foggia) e riconosciuti con il nome di Salentini.
Non si sa bene da dove derivi il loro nome. Si pensa significhi "popolo tra due mari" perché si erano stabiliti nella zona a sud della Puglia, tra il Mar Adriatico e quello Ionico, e perché nel loro nome si avverte la presenza del suono "ap", come anche in Iapigi e Apuli, che vuol dire "acqua". Si pensa anche voglia dire "domatori di cavalli" (equorum domitores, come li definisce Virgilio); infatti allevavano i cavalli.
Erodoto li ricorda come una popolazione unitaria e compatta etnicamente e culturalmente; in un passo della sua opera, i Messapi sono definiti discendenti dei Cretesi, che si spinsero sulle coste del Salento, si mescolarono alle popolazioni già presenti, fondando così le prime città e portando usi e costumi che distinsero i Salentini dalle altre popolazioni.
Secondo gli storici moderni, invece, i Messapi erano di stirpe illirica, come farebbero pensare gli etnici, i nomi geografici, le glosse e la lingua delle iscrizioni messapiche, rinvenuti in Puglia. Essi sarebbero arrivati a Otranto intorno al 1000 a.C., in quanto punto più vicino all’Albania, e poi sarebbero scesi fino a S. Maria di Leuca e risaliti fino a Taranto . Questo deriva da testimonianze storiche considerate valide perché gli autori antichi parlano di alcuni viaggi così effettuati. Anche Virgilio nell’Eneide, parlando delle peregrinazioni di Enea, fa riferimento ad un viaggio con un itinerario simile.
Gli storici antichi assegnavano ai Messapi tutta la penisola da Brindisi e da Taranto fino al capo di S. Maria di Leuca, come testimoniano i ritrovamenti linguistici. La lingua messapica ci è nota da un numero considerevole di iscrizioni pubbliche, funerarie, votive, numismatiche, rinvenute in Puglia soprattutto nel Salento, redatte in alfabeto messapico, che è quello greco di Taranto . Si tratta di una lingua indoeuropea che rientra nel gruppo delle lingue cosiddette "satem", cioè le indoeuropee centro-orientali, presentando un’affinità con l’odierno albanese. Comunque della lingua messapica non si sa molto, o meglio, si sa leggerla ma non si sa capirla perché i simboli, simili a quelli dell’alfabeto greco, formano parole di cui non si conosce il significato.
SANNITI - CAUDINI
 
Origini

Il primo problema che si affronta nella descrizione dei Sanniti, è l’attendibilità delle fonti storiche. Si tratta di un popolo che ha ingaggiato una dura lotta con i romani per circa tre secoli, uscendone, alla fine, sconfitto.
Tutti gli storici che descrivono questo popolo, come Livio ad esempio, sono filoromani, cioè schierati dalla parte dei vincitori, ed hanno svolto una continua propaganda, volta ad esaltare i signori del mondo di allora e ad oscurarne i nemici.
I sanniti, presenti in Italia già dal 600 a.C., sono frutto di una fusione tra popolazioni autoctone provenienti dall’area sabina centro-meridionale ed indoeuropee. Il risultato di questo processo è stato la formazione di gruppi osco-umbri che si sono sparsi su tutto il territorio. Questi trovarono una lingua locale abbastanza facile da apprendere e la fecero propria: l’osco. Essa, infatti, risulta essere la più diffusa in tutta l’Italia.
Una seconda difficoltà relativa alla descrizione dei sanniti sta nell’individuarne l’autenticità. Infatti, oltre ai sanniti stessi, esistevano moltissime popolazioni che parlavano l’osco: Sabini, Bruti, Lucani, Peligni (di Sulmo e Corfinium), Umbri, Piceni, Marsi (Fucino inferiore e Alba Fucens) , Aurunci (di Cales) , Equi (di Carseoli) , Volsci (di Arpinum, Fregellae), Hernici (Ciociaria), Frentani (di Larinum) , Apuli o Dauni (di Arpi) , Messapii (Salento) , Marrucini (basso Abruzzo) , Vestini (alto Abruzzo) , Campani (di Capua) , Alfaterni (di Nuceria) , Sidicini (di Teanum).



Molti di questi popoli sono noti anche come sabellici, nel senso che parlavano dialetti di tipo osco, mentre sabelli sono considerati quei popoli che parlavano direttamente l’osco. Ai primi appartengono i seguenti popoli: Peligni, Marrucini, Vestini, Marsi. Ai secondi: Sanniti, Mamertini, Frentani, Sidicini, Campani, Lucani, Apuli, Bruzi .
I sanniti, i sabelli per eccellenza, si distinguevano dagli altri popoli anche per altri elementi: arte, religione, senso della difesa comune, sistema legislativo. Le tribù sannite erano quattro:
i Carecini, abitanti della regione del basso Abruzzo, con capitali Cluviae, Aufidena e Juvanum;
i Pentri, popolo bellicoso, residente in Molise, con capitale Bovianum, che annoveravano tra le loro città Aesernia e Sepinum;
i Caudini, tribù ellenizzata, residente nella zona del beneventano, con capitale in Caudium, l’odierna Montesarchio, e Telesia;
gli Irpini (dall’osco hirpus-lupo), popolo lottatore, che aveva la propria capitale in Maleventum ed anche città come Aeclanum, Abellinum, Compsa, Carife, Aquilonia, Luceria e Venusia.
 
Queste tribù occupavano e gestivano il controllo di una regione estesa ed impervia.

 
Attività
 
La durezza del territorio abitato costringeva i sanniti a sviluppare attività abbastanza ridotte ed essenziali, tutte finalizzate alla sopravvivenza.
Quelle principali erano costitute dalla pastorizia e dalla caccia. La prima in particolare spinse ad un’attività di transumanza lungo i tratturi: piste prestabilite che attraversavano il sud dell’Italia. I sanniti vivevano molto anche sulle razzie che compivano ai danni dei villaggi dei popoli vicini.
Molto semplici nel vestire e nel mangiare, lavoravano la pietra e qualche metallo: ne sono un esempio le numerosissime fibulae ed i monili trovati nelle varie tombe. Non coniarono monete, ma basavano le attività di compravendita sul baratto. Solo sotto la dominazione romana iniziarono a forgiare delle monete, anche a scopo puramente di ribellione, rappresentando l’effigie di qualche repubblicano o anti-romano.
L’attività industriale era ridotta al minimo ed era abbastanza semplice. Anche l’agricoltura non ebbe molto sviluppo, basti pensare alla tipologia del territorio sannita. Famosi erano comunque i cavoli sabelli. Il tasso di mortalità era abbastanza elevato ed i sanniti venivano seppelliti nelle tombe a tumulo, importate dalla cultura indoeuropea.
Amavano molto la lotta e praticavano dei giochi gladiatori in occasione dei funerali. Famosi furono i gladiatori sanniti, al pari dei Marsi, e sembra che i romani importarono da loro e non dagli etruschi tale arte ludica.
Dal punto di vista militare, erano organizzati in coorti, come i romani ed avevano un equipaggiamento leggero, perché non disponevano di molto metallo. In battaglia impiegavano l’astuzia ed erano accompagnati da una buona dose di vigore. Le loro armi erano: le lance, il giavellotto, gli scudi tondi e rettangolari. Alcune di essere furono impiegate anche dai romani. Tipici erano i gambali ed i pennacchi sull’elmo, comuni a tutti i popoli italici.
Per quanto riguarda l’arte, ci è pervenuto pochissimo, sia perché non ne possedevano molta, sia perché quel poco che era stato realizzato venne preso dai romani. Pochissime sono le pitture, molto semplici, mentre più numerose sono le lavorazioni in marmo ed in bronzo. I santuari di Pietrabbondante e Schiavi d’Abruzzo hanno rappresentato una miniera in tal senso.


I templi, realizzati in pietra, erano imponenti ed orientati lungo l’asse est-ovest, secondo la tradizione orientale. Le città erano tutte arroccate in alto sulle rocce, per scopi difensivi, e circondate da palizzate (il termine carseoli è legato alla parola roccia). 
Le case erano molto semplici ed essenziali, come le tombe del resto. Il numero maggiore di reperti che ci è pervenuto è rappresentato dalle tombe. Di grande interesse risultano essere anche i templi di Sepino     

e di Pietrabbondante .
           
 Bisogna aggiungere che lo stile vita e la cultura dei sanniti subì notevoli influenze dai greci e dai romani. In particolare i Caudini furono sottoposti ad un processo di ellenizzazione, considerata la loro vicinanza con Napoli. I romani, infatti, una volta vinta la guerra, non trovarono molte difficoltà a fare apprendere a tale tribù il concetto di civitas, che aveva radici nel mondo greco, completamente ignorato dal resto dei sanniti.
L’influenza romana si basava su scopi politici. Venne attuata una strategia che si proponeva di separare fisicamente le quattro tribù sannite tra loro, creando delle regioni "cuscinetto". Inoltre, con un costante processo di romanizzazione, si mirava ad affievolire lo spirito ribelle di queste popolazioni. Questo ebbe dei riflessi anche sulla lingua osca, molto semplice da apprendere, che venne sistematicamente cancellata, per lasciare posto al latino.
La conferma di tutto ciò si ha quando Annibale scese in Italia e non riuscì a portare dalla sua parte tutte le tribù sannite, ormai romanizzate. Da un certo punto di vista la storia sannita e quella etrusca si assomigliano, soprattutto nell’epilogo.
 
Sviluppo
Dal 500 a.C. al 350 a.C., i sanniti, attraverso i loro flussi migratori con i quali conquistavano territori ricchi di pascoli e di campi da coltivazione, controllarono gran parte dell’Italia centro-meridionale (Sannio, Molise, alta Lucania, alta Puglia, Alta Campania), realizzando un regno abbastanza florido. Anche il tenore di vita sannita mutò in funzione delle ricchezze che venivano lentamente acquisite.
In Campania, gli etruschi lasciavano spazio alle tribù sannite che avevano sempre più interesse a controllare territori ricchi come Capua, Pompei, Nocera e Nola. Verso la Puglia la loro espansione si sentiva minacciata da incursioni dall’Oriente, mentre in direzione della Calabria (Bruzi) e della bassa Campania vi erano influenze elleniche e siceliote, in particolare siracusane. Nel momento in cui gli interessi sanniti si diressero verso il basso Lazio e Napoli, si entrò in contatto con i romani.
 
Società
 
Tra i sanniti non vi era il concetto di civitas o di città-stato. La più piccola unità politica era il pagus. Si trattava di una parola osca che rappresentava un distretto rurale semindipendente. Esso svolgeva funzioni governative locali, reclutava militari, aveva nel suo interno edifici e in esso si tenevano assemblee, dove si approvavano leggi. Più pagi formavano un touto. Il touto dei Peligni era composto di 25 pagi. Soprattutto in termini militari, i sanniti si riunivano spesso in touto, che risiedeva presso la capitale. Alcune tribù avevano più capitali perché, di volta in volta, il touto si riuniva in luoghi diversi.
L’autorità amministrativa più importante era il meddix tuticus (magistrato-console), che veniva eletto dall’assemblea e gestiva molto potere. Vi erano anche dei funzionari minori: censor, legatus (kenzstur in osco), aidilis, praetor, prefectus. Simbolo del potere era un trono di pietra. Solo con la dominazione romana il potere fu affidato ad una oligarchia fatta di ricchi possidenti, a cui erano legati numerosi vassalli. Questa fu la fase di decadenza della società sannita, in cui una classe ristretta aveva potere di vita e morte sulla maggioranza della popolazione.
Ciascun touto era una repubblica ed approssimativamente corrispondeva ad una tribù. Quando i sanniti dovevano affrontare una guerra, nominavano un comandante in capo. Spesso le diverse tribù si riunivano in federazioni, in particolare nella fase finale della guerra contro Roma.
Vi era anche una classe sacerdotale che gestiva un potere non indifferente. Non si conosce praticamente nulla della condizione della donna, anche se si presuppone che la società fosse abbastanza patriarcale.
 
Religione
Circa la religione, le poche informazioni ci sono pervenute da alcuni reperti archeologici. Nella tavola di Agnone sono riportati i nomi di numerose divinità.
La semplicità di vita dei sanniti si rifletteva anche nel loro culto. Essi dedicavano lo stesso luogo alla venerazione di più divinità ed offrivano loro sacrifici animali, in particolare il maiale, e quei pochi prodotti dei raccolti che già non bastavano per loro.
Le prime manifestazioni di culto erano guidate da una specifica classe sacerdotale ed avvenivano all’aperto, nei boschi o nelle vallate, secondo uno stile prettamente indoeuropeo. Successivamente si è passati all’edificazione di diversi santuari: Pietrabbondante, Schiavi d’Abruzzo, Capua, Compsa. Il sacerdote svolgeva anche funzioni di stregone e di uomo di scienza oltre che di celebrante delle cerimonie e custode dei templi. Anche i meddix presiedevano le diverse funzioni.
Molti erano i luoghi che si pensava fossero abitati dagli dei, come, ad esempio, la valle dell’ Amsanctus o la campagna di Aeclanum .
Nel corso dei secoli la religione ha subito diverse influenze da parte delle culture etrusche, romane e greche. I sanniti, infatti, davano importanza agli auspici ed alla previsione del futuro. Diverse divinità vennero importate ed altre esportate. La venerazione di ciascun dio cercava di dare loro una risposta a quei fenomeni naturali che non si era in grado di controllare. La loro vita, dunque, non aveva molta importanza ed il loro destino era estremamente labile.
La cerimonia più importante consisteva nel Ver Sacrum . Per allontanare i cattivi presagi, tutti i maschi nati nella primavera erano dedicati al dio Mamerte, ma non venivano uccisi. Questi erano allevati e considerati sacri. Nella primavera successiva dovevano lasciare il loro villaggio e seguire un animale guida (cervo, cinghiale, lupo) che gli avrebbe indicato dove fondare un nuovo villaggio in cui crescere e prosperare. Questa cerimonia cerca di dare una spiegazione irrazionale ai continui processi migratori che sono stati molto frequenti tra le popolazioni sannitiche. Anche l’affidarsi ad animali, testimonia la strettissima connessione tra l’uomo e la natura. Si tratta di un elemento di estrazione indoeuropea, che presso i celti ha avuto un fortissimo sviluppo.
Tra le divinità sannite ricordiamo: Vezkeì, Euclus, Kerres (Ceres), Filia Cerealis, Matae (mater), Lucina, Liganacdix Intera, Flora Cerealis , Perna Cerealis, Diva Genita, Imbres, Heres, Feronia, Fatui, Lymphae Cerealis, Amma Cerealis, Inter Stita, Hercules Cerealis, Patana Pistia, Mamerte, Famel, Jupiter Rigator, Jupiter Juventus .
Si tratta di nomi legati alla natura e che richiamano gli elementi essenziali della sopravvivenza di questo popolo. Il signore supremo era Giove, Kerres generava i raccolti, Flora, divinità esportata a Roma in seguito, nutriva le messi. Dunque Kerres e Flora erano fortemente connesse tra loro. Questa era una prima terna di divinità principali, a cui le altre divinità erano in subordine. Famel era la dea terra, molto cara ai Sabini ed ai sanniti, Mamerte, equivalente di Marte, era ricordato nella cerimonia del Ver Sacrum. Compagno di quest’ultimo era Heres. Entrambi erano divinità che accompagnavano il popolo in guerra. Fatui e Feronia proteggevano i pastori. Infine Lucina era dea della nascita, molto importante per il popolo, considerato il numero dell’elevata mortalità.
Con l’avvento dell’influenza ellenica, i sanniti cominciarono a credere nell’aldilà. Questo è dimostrato da pitture rinvenute in alcune tombe.
Soprattutto nella zona di Alfedena sono state rinvenute numerose tombe a tumulo, in cui venivano deposti i defunti assieme al cibo, alle corazze, ai monili e gioielli, che li accompagnavano nel viaggio eterno.
Città dei SANNITI:
ABELLA
Avella, centro in provincia di Avellino, da cui dista 24 Km, situata al centro della valle del fiume Clanio. Di origine calcidese, conserva numerose testimonianze del periodo osco, sannitico e romano. Fu ricordata da Plinio per la produzione di nocciole. Importanti sono i resti di un anfiteatro romano ( tra i più antichi della Campania) e di una serie di monumenti funerari di età tardo - repubblicana e imperiale. Un antiquarium locale espone i preziosi corredi rinvenuti negli scavi delle due necropoli della cittadina.

Il nome di Abella deriva, secondo Plinio, dalle nocciuole (abellane), che abbondano nel suo territorio; altri la farebbero derivare da Belo, della stirpe regia di Nembrot (Bela, Bella, Abella); altri ancora dal termine Aberula (aberu, apru, aper = cinghiale), città del cinghiale, animale raffigurato nel suo stemma civico; e per altri ancora sarebbe stata fondata dai Calcidesi, che denominarono la località "Abella", ovvero campo erboso, pascolativo: quod pastui aptum est.
Situata nel bacino superiore del fiume Clanio, alle falde dei Monti Avella, per la sua posizione geografica fu un crocevia di civiltà fin dalla preistoria.
La presenza umana in questi territori è accertata sin dal paleolitico superiore, all'incirca 25.000 anni fa, mentre un primo insediamento abitativo si deve far risalire alla fase appenninica.
Successivamente risentì della influenza delle colonie greche della costa e dell'area etrusca, mentre è, altresì, evidente uno stretto rapporto con l'area Caudina, come testimoniano i numerosi reperti archeologici rinvenuti.

Fu osca, etrusca, sannita e poi romana. Nel 339 a.C. si pose sotto la protezione di Roma e, per la sua fedeltà, meritò di essere Municipio; più tardi fu colonia. L'anfiteatro aveva sei porte, un teatro, una piscina, una palestra, le terme, il pretorio e un ginnasio. Fu saccheggiata da Alarico nel 410 d.C. e, successivamente, da Genserico nel 455. Cadde, poi, sotto il dominio dei Goti e fu longobarda sotto Singinolfo.
Assalita dal Saraceni nell'884, fu saccheggiata e sottomessa; infine fu quasi completamente distrutta dagli Ungari nel X sec. d.C.
Anfiteatro di Abella
L’anfiteatro di Avella può essere considerato come uno dei più antichi della Campania. Esso, infatti, fu costruito tra il primo secolo d.C. ed il secondo secolo d.C. nell’odierna località S. Pietro, al posto delle abitazioni distrutte durante la guerra tra Mario e Silla. Annoverato tra gli anfiteatri costruiti su terrapieno e dimensionalmente molto simile a quello di Pompei, l’anfiteatro di Avella fu eretto in "opus reticolarum" di tufo in parte appoggiato all’angolo SE delle mura perimetrali della antica città, in parte ad un pendio naturale ed in parte (lato Sud) a grosse costruzioni a volta.
Esso sorgeva all’estremità orientale del "Decumano maior" (l’attuale Corso Vittorio Emanuele) all’altro capo del quale era il foro (nelle vicinanze dell’attuale Piazza). A differenza di anfiteatri più recenti come, per esempio, il Colosseo o l’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, nel monumento avellano sono totalmente assenti sotterranei e cunicoli.

Un'immagine schematica dell’anfiteatro di Avella è rappresentata su uno dei lati di una base onoraria, databile intorno al 170 d.C., dedicata a Lucio Egnazio Invento, ristoratore dei giochi gladiatori di avella e cavaliere romano sotto gli Imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Lo schema presenta una cavea con tre ordini: l’"ima cavea", la "media cavea" e la "summa cavea". Allo stato attuale, della "summa cavea" rimangono solamente poche tracce sui lati Sud ed Est mentre la cavea si presenta divisa in tre settori: "moeniana", divisi da corridoi di appoggio in senso orizzontale; "praecintiones" e "baltei", questi ultimi muri di divisione in senso verticale. Ad essa era possibile accedere attraverso dei "vomitoria" disposti sull’asse maggiore dell’ellisse ("itinera magna"). All’arena, situata al di sotto del piano di calpestio circostante, si accedeva attraverso due porte principali: la "porta triumphalis", orientata in direzione della città, e, dal lato opposto, la "porta libitinensis" dalla quale venivano portati via i gladiatori morti in combattimento. Una terza porta, più piccola nelle dimensioni e, probabilmente, riservata ai giudici, si apre sul lato Ovest; di fronte ad essa si evidenzia un ambiente con tracce di un’edicola riservata ad un dio al quale i gladiatori si "raccomandavano" prima del combattimento. Di gran lunga posteriori rispetto alla costruzione dell’intero monumento sono sicuramente le aperture nel podio che danno verso l’arena. Si tratta di stalle per le bestie databili intorno al IV secolo d.C.. Il lavoro per la loro costruzione risulta incompiuto o perché gli spettacoli erano scaduti di tono o a causa della decadenza economica in atto dovuta, principalmente, alle invasioni barbariche.
BOVIANUM
Sulla città di Bojano esistono ancora oggi accese discussioni tra gli studiosi ed archeologi sulla sua origine ed ubicazione. Non tutti sono concordi nel riconoscere l'antica capitale dei Pentri nell'attuale cittadina. Di seguito riportiamo il testo che ne descrive i natali secondo Adriano la Regina, fine studioso del Sannio e dei Sanniti:

Il capoluogo dei "Samnites Pentri", municipio romano dopo la guerra sociale e poi colonia, è ubicato alle pendici settentrionali del Matese (Tifernus Mons), il massiccio che divide il Sannio dalla Campania. L'acropoli si trovava sull'altura della Civita, e l'abitato, in basso, era attraversato dalla strada Aesernia-Beneventum, il cui tracciato si è conservato nel tratturo che passa per Boiano e per Sepino. L'insediamento si sviluppò gradualmente sulla strada percorsa stagionalmente da greggi e armenti, donde si formò altresì il nome "Bovianum", per indicare un usuale mercato di buoi.
La maggior fortuna di Bovianum, che divenne il centro di gran lunga preminente dei Sanniti Pentri dopo la distruzione di Aquilonia (293 a.C.) e dopo la fondazione delle colonie latine di Beneventum (269 a.C.) e di Aesernia (263 a.C.), si dovette proprio alla accresciuta importanza della strada che collegava queste due ultime città.
"Bovaianom" era il nome originario della città, in lingua osca, che conosciamo grazie ad una iscrizione di Pietrabbondante, ove un Meddix Tuticus, Novio Vesullico, aveva inviato un donario da Bovianum (in ablativo: bùvaianùd).

La città è ricordata più volte dagli autori antichi in relazione alle guerre sannitiche, a partire dall'inverno del 314-13 a.C., allorchè l'esercito romano si sarebbe accampato nel Sannio per espugnarla (Livio, IX 28, 1-3). Dopo la notizia liviana di una espugnazione da parte romana avvenuta nel 311 a.C., non ritenuta attendibile dalla critica moderna, Bovianum è nuovamente citata nell'anno 305 a.C., quando sarebbe stata effettivamente presa (Livio, IX 44, 5-15, e Diodoro Siculo, XX 90, 4, ove compare con il nome errato di « Bola »). Assalita ancora una volta nell'anno 298 a.C. (Livio, X 12, 9), viene saldamente tenuta dai Sanniti in una successiva invasione romana, nel 293, allorche furono distrutte Cominium, Aquilonia e Saepinum, con altre città minori (Livio, X 41, II; X 43, 15). Bovianum viene infine coinvolta nelle operazioni della guerra annibalica (Liyio, XXV 13, 8). Se ne torna a parlare, nelle fonti, a proposito della guerra sociale, nell'anno 89 a.C., quando fu espugnata da Silla , per essere ripresa l'anno successivo da Poppedio Silone.
Appiano riferisce che la città sarebbe stata presidiata da tre fortezze. In una di queste è da riconoscere con certezza la Civita, che faceva parte della città stessa, mentre le altre due sono da cercare altrove, in posizioni esterne rispetto al perimetro delle mura, ma sufficientemente vicine da poterle controllare. Una piccola postazione fortificata è stata individuata di recente sul monte Crocella (m 1040 sul livello del mare), l'altura ubicata a sud-ovest della Civita, e vi si è giustamente riconosciuta una delle rocche menzionate da Appiano. Un recinto di mura quasi circolare, dal perimetro di circa 110 metri, racchiude un'area di quasi 900 metriquadrati. All'interno si possono scorgere i resti di una cisterna. E' evidente che l'altura così fortificata doveva servire da base permanente per un presidio militare con compiti di avvistamento e, in caso di assedio della città, di difesa della strada di accesso all'arce.
Prima della guerra sociale, e quindi finche perdurò lo stato sannitico, Bovianum non fu sede unica dei concilia e delle riunioni del senato, che dovevano aver luogo nei principali santuari di culto pubblico e, tra questi, certamente a Pietrabbondante e a Campochiaro. A Bovianum doveva invece essere la sede del Meddix Tuticus, il sommo magistrato annuale dello stato sannitico. Con la soppressione di questa magistratura e con la riorganizzazione territoriale romana in distretti amministrativi municipali, la circoscrizione di Bovianum fu delimitata, durante la prima metà del I sec. a.C., a un ambito non ampio che si estendeva verso nord fino al Monte Vairano incluso, verso est per circa 10 chilometri fino alla Sella di Vinchiaturo, verso ovest per una dozzina di chilometri fino a Castelpetroso, confinando a sud con la montagna. Tale assetto si è protratto per tutta l'antichità, anche nella prima organizzazione ecclesiastica, perdurando poi nel gastaldato di Hovianum dal secolo VII fino al secolo X. Solamente con la costituzione della contea furono annessi a Hovianum i territori del gastaldato bifernense (erede del municipio romano di Fagifulae) e di Saepinum.
La fase sannitica è caratterizzata, qui come altrove, da una accentuata distribuzione dell'insediamento agricolo con conseguente diffusione di villaggi, luoghi di culto, ecc. Già in questo periodo l'abitato di Hovianum aveva preso consistenza nell'area della Civita e del sottostante declivio, racchiuso in un'unica cinta di mura in opera poligonale. Ne furono visti in passato notevoli resti, e qualche traccia ne esiste tuttora presso la porta meridionale della Civita. Limitati saggi di scavo eseguiti sulla Civita, ai margini esterni dell'area occupata dal castello medievale, hanno dimostrato che il sito era stato occupato con edifici e utilizzato intensamente durante la fase sannitica.
All'ultimo secolo di questo periodo è da attribuire un notevole incremento della produzione di tegole, impiegate in tutta l'area della piana di Boiano. Questa attività è da collegare con un accentuato sviluppo edilizio anche nell'ambito urbano. Tegole e coppi di produzione bovianense usati in edifici pubblici sono contrassegnati con la data di fabbricazione impressa per mezzo di stampi rettangolari recanti il nome dei magistrati annuali. Una dedica posta a Cesare, patrono del municipio durante la seconda dittatura (CIL IX 2563) ci informa che negli anni 48 - 46 a.C. La città aveva già lo statuto municipale. Dovette divenire colonia più tardi, tra gli anni 44-27 a. C., e più precisamente forse tra gli anni 43-41 a.C., quando vi furono assegnazioni agrarie da parte di Ottaviano, in base alla legge Giulia (Lib. col., 231, 259 L.).
Infine, tra gli anni 73-75 d.C., altre assegnazioni da parte di Vespasiano a veterani della legione XI Claudia, comportarono la rifondazione della colonia (CIL IX 2564; Igino Gromatico, 131 L.), che, solo in questa occasione, potè assumere il nome di Bovianum Undecumanorum, noto dall'elenco di Plinio (Storia naturale, III 107). La colonia di Bovianum vetus, che compare nel testo pliniano insieme con l'altra, è evidentemente quella istituita da Ottaviano, definita vetus successivamente per essere distinta da quella flavia registrata dopo il 73 in omaggio a Vespasiano.

I principali percorsi esterni si sono conservati nel tracciato del tratturo. La strada antica attraversava la città in corrispondenza dell'attuale corso Umberto e si doveva immettere nell'area urbana, dalla direzione di Aesernia, nel punto in cui si trovano le chiese del Purgatorio e di San Nicola, per uscire nella direzione opposta, verso Saepinum, presso la chiesa di San Biase. L'alveo del torrente Calderari, probabilmente regolarizzato già in antico, doveva rappresentare il limite della città verso la pianura. I resti antichi rinvenuti in passato oltre questo corso d'acqua si riferiscono con ogni probabilità a costruzioni extraurbane.
Una terza porta si doveva aprire su questo lato della città in connessione con una strada che collegava Bovianum con Larinum e con la costa adriatica. Abbiamo dunque, come a Venafro, una città a pianta ortogonale con almeno sette tracciati stradali disposti parallelamente alla montagna, non del tutto rettilinei perchè adattati alla conformazione dei luoghi, tra la chiesetta di San Michele Arcangelo, a monte, e il torrente Calderari. Nell'altra direzione, tra la chiesa del Purgatorio da una parte e la chiesa di San Biase dall'altra, vi dovevano essere almeno nove assi stradali paralleli. Il Foro si doveva trovare in corrispondenza della Cattedrale.
Nei pressi della chiesa di Santa Maria dei Rivoli dovevano essere ubicati il teatro e, forse, l'anfiteatro. Degli edifici antichi non restano in vista per tutta la città altro che elementi smembrati. Un mosaico con complessi motivi ornamentali fu rinvenuto nel centro dell'area urbana.
PIETRABBONDANTE

Il Teatro di Pietrabbondante è forse l'esempio più bello di architettura italica nel Sannio pervenutoci in condizioni soddisfacenti. Che nella zona di "Calcatello" esistessero

Panorama di Pietrabbondante.antiche vestigia comunemente definite "romane" si sapeva fin dal 1840. Dopo diversi anni, sempre sotto il regno di Ferdinando II, iniziarono i lavori a cura della Direzione degli Scavi Reali e vennero riportati alla luce molti ruderi che, dalle fattezze, fecero subito pensare ad un grande insediamento sannitico. Una delle prime ipotesi formulate sull'origine del sito venne espressa dal Mommsen che, partendo da una iscrizione in lingua osca rinvenuta "in loco", ipotizzò per le antiche vestigia l'insediamento denominato "Bovianum Vetus".
 L'epigrafe di Vesiullaeo su cui il Mommsen basò le proprie teorie era la seguente:

"NV. VESULLIAIS TR. M. T. EKIK SAKARAKLUM BUVAIANUD AIKDAFED"

che venne così interpretata:

"NOVIUS VESULLIAEUS TR. F. MEDDIX TUTICUS HOC SACELLUM BOVIANI AEDIFICAVIT".


Il Mommsen ritenne di aver trovato una seconda Bovianum, il che, tra l'altro, coincideva con quello che Plinio aveva scritto sul libro III della "Naturalis Historia".

Il Garrucci, al contrario del Mommsen, affermò che quella che si stava scavando altro non era che l'antica Aquilonia, e prova ne era un toponimo ancora in uso nella zona, la fontana nei pressi del paese chiamata "Acudandra". Il prosieguo degli scavi ha portato alla luce un'importante testimonianza del popolo sannita, ma non si è ancora certi dell'originaria denominazione del sito. Si tratta certamente di un insediamento sannita, un centro abitato con un'area sacra che, intorno al III secolo a.C., raggiunse un notevole sviluppo edilizio. Tale sviluppo continuò in tutto il secolo successivo, al punto da divenire il luogo di culto preminente per tutti i Sanniti Pentri.
Pietrabbondante
Rilievo dello scavo archeologico
dell'area del Teatro e del Tempio B.


L'importanza di questo sito archeologico è tale da far ipotizzare un "locus" ben definito nella organizzazione sociale dei Sanniti. Ad evidenziare ciò che il Garrucci affermò vi sono diversi toponimi nella zona che sembrano convalidare le sue ipotesi ed in più vi è una coincidenza basata sulle dimensioni del teatro sannitico di Pietrabbondante.
Al di là delle caratteristiche di controllo che il luogo offriva, considerando il fatto che vi erano altri siti con requisiti analoghi, l'unica ipotesi che emerge è l'esistenza di una permanenza storica tale da far preferire, per motivi che analizzeremo, quel luogo ad altri.
Tale situazione infatti doveva coinvolgere, tra gli altri, anche discorsi a carattere architettonico-edilizio, essendo il luogo forse disseminato di materie prime già lavorate che comportavano una enorme economia, specialmente di tempo, nella costruzione delle fortificazioni. 

Quindi, considerando questa permanenza storica ed architettonica tipica di un grosso insediamento abitativo e valutando l'estensione dei singoli municipi romani, oppure quei territori che sappiamo con certezza dovevano far parte dei municipi romani, diventa plausibile l'ipotesi che anticamente Pietrabbondante possa aver occupato un ruolo preminente nella politica romana nel contesto di quel determinato territorio.
E se dovette essere sede di un municipio altro non poteva essere che la Bovianum Vetus citata da Plinio.
Pietrabbondante - Teatro Sannitico
Veduta della cavea.


Tornando agli scritti liviani, si evidenzia una certa difficoltà nel seguire le descrizioni degli avvenimenti succedutisi durante le Guerre Sannitiche proprio a causa della poca conoscenza che abbiamo del Sannio ed in particolar modo la difficoltà diventa maggiore quando si tenta di capire come un esercito consolare diretto in una precisa regione sannita si trovi invece a combattere nei pressi di un centro fortificato ubicato dalla parte opposta. Tale difficoltà si evidenzia proprio in quei casi in cui viene ad essere menzionata la città di Bovianum che noi identifichiamo con l'odierna Bojano, che l'annalista romano descrive come la città di gran lunga più ricca e più fornita di armi e di uomini, considerandola la capitale dei Sanniti Pentri.


Pietrabbondante - Ricostruzione assonometrica dell'area del Teatro e del Tempio B.Alla luce delle odierne acquisizioni storiche, siano esse di derivazione archeologica o letteraria, è diventata plausibile l'ipotesi dell'esistenza di due Bovianum presso le quali indistintamente Livio ambienta le narrazioni degli avvenimenti bellici. Ma l'interpretazione topografica degli scritti sembra indirizzare gli avvenimenti verso una precisa regione del Sannio e con l'esempio di alcuni passi è possibile evidenziarla.
Nel libro IX al capitolo 31, Livio descrive come il console Giunio Bruto dopo aver espugnato Cluviae nel 311 a.C., condusse l'esercito vittorioso a Bovianum e, dopo aver espugnato anch'essa, raccolse il bottino concedendolo generosamente ai soldati.

Analizzando il raggio d'azione del console romano e considerando Bovianum come l'attuale Bojano, si evince che dopo Cluviae, nei pressi dell'attuale Casoli in provincia di Chieti, egli attraversa l'intero Sannio, Pietrabbondante compresa, per arrivare in un luogo distante, in linea d'aria, più di 90 chilometri. Se invece considerassimo Pietrabbondante come la Bovianum espugnata, essa si troverebbe sul percorso di rientro del Console romano ed i chilometri si ridurrebbero a poco più di quaranta.
Nel proseguo delle narrazioni liviane, al libro X nel capitolo 12, troviamo che il console Cneo Fulvio, nell'anno 297 a.C., combattè presso le mura di Bovianum e la espugnò. Dopo aver razziato la città si diresse verso Aufidena alla quale toccò la stessa sorte. Anche in questo caso, considerando l'attuale Bojano, un console romano con il suo esercito espugna prima una città posta ai limiti meridionali del Sannio Pentro per poi dirigersi esattamente ai limiti settentrionali dello stesso territorio.
Forse è più logico supporre che il console Cneo Fulvio espugnò la Bovianum di Pietrabbondante e raggiunse Aufidena seguendo il percorso tratturale Lucera-Castel di Sangro in direzione nord-ovest. Infatti dopo pochi chilometri sarebbe giunto proprio sotto le sue mura.
AECLANUM

In località Passo di Mirabella, frazione della città di Mirabella Eclano (AV), sono visitabili gli scavi dell'antica città di Aeclanum, uno dei principali centri della tribù sannita degli Irpini.
L'archeologo Italo Sgobbo rinvenne, negli anni 30, quattro monumenti epigrafici oschi: uno riportava il nome Mamers (nome osco del dio Marte), un altro rappresentava un'ara di tufo dedicata alla dea Mefite (oggi al Museo Nazionale di Napoli) e facente parte di un luogo sacro collocato fuori dalle mura cittadine e sulla Via Appia, un terzo indicante una non meglio identificata costruzione ordinata da Magio Falcio ed un quarto pertinente al culto del dio Fauno.
Aeclanum - Strada romana ed abitazioni.


La via Appia e la necropoli orientale. La città di Aeclanum, in età romana, aveva la forma di un corimbo ed un'estensione di 18 ettari, era difesa da una cinta muraria lunga 1820 mt. e costruita in opus reticulatum a prismi di travertino e di arenarie compatte. 
Le mura si ergevano per oltre 10 mt. ed erano interrotte da almeno tre porte delimitate ai lati da torri quadrate (turres), di oltre 5 mt. per lato, mentre ogni 20 mt. erano presenti torri più piccole (hemiturres), di 2,5 mt. per lato, che non superavano in altezza, come le più grandi, le cortine murali (perciò definite "turres aequae qum moiro", cioè "torri alte quanto il muro"). Lo spessore delle fortificazioni è compreso, nei vari punti, fra 2,12 - 2,40 mt.
Attraverso la porta occidentale entrava in Aeclanum la Via Appia, proveniente da Benevento, e ne usciva attraverso la porta orientale. Al tempo della Guerra Sociale (89 a. C.), Aeclanum era protetta soltanto da una cinta di legno, incendiata poi da Silla quando, resosi conto che gli eclanesi aspettavano aiuto dai Lucani, ordinò di accastare intorno alle mura fascine di sarmenti, bruciate dopo che trascorse il tempo concesso dal dittatore per arrendersi. Aeclanum infatti fu saccheggiata ed occupata
Strada romana con impronte di carri.
perché non si era arresa spontaneamente ai Romani ma anche per convincere le altre città irpine ancora insorte a deporre le armi.
Dopo la Guerra Sociale, circa nell'87 a.C., la città divenne municipio con diritto di voto ed iscritta alla tibù Cornelia. Più tardi, all'epoca dell'imperatore Adriano (all'incirca nel 120 d. C.), assunse lo stato di colonia con la denominazione di "Aelia Augusta Aeclanum".



Aeclanum - Le Terme.

Altre strade, oltre l'Appia, interessavano Aeclanum ed il suo territorio: la via Aeclanum - Aequum Tuticum che la collegava alle Puglie, la via Herculia che attraversava la parte orientale della giurisdizione eclanese e la via Aurelia Aeclanensis che procedeva in direzione di Ordona.
Al periodo romano, per lo più imperiale, risalgono la costruzione ed il rifacimento di opere pubbliche come le Terme, il Macellum, il Gimnasium, il Foro, l'Anfiteatro, il Teatro ed il "forum pecuarium" (mercato del bestiame da pascolo).

               
Aeclanum - L'area del macellum.

Il Macellum (mercato coperto), posto probabilmente nelle vicinanze del foro, presenta attualmente una piazzetta centrale rotonda ed una vasca che forse era adornata da un zampillo; la tholus macelli è costituita da alcuni pilastri in opus vittatum e la pavimentazione arricchita dal marmo. Le Terme sono il monumento di maggior rilevo degli scavi: la tecnica di costruzione è in opus mixtum e sono rintracciabili gli ambienti del tepidarium, del calidarium e del frigidarium.


Aeclanum - Domus di tipo pompeiano.

Nell'area delle Terme fu rinvenuta una pregiata statua marmorea raffigurante Niobide ed oggi collocata in una sala del Museo Irpino di Avellino, ove sono esposti numerosi reperti provenienti da Aeclanum. In un'altra occasione fu raccolta un frammento di statua di Arpocrate, datata al II secolo d.C. e che rappresenta il dio fanciullo con il corno dell'abbondanza.

Tra le abitazioni private ben visibile è una domus di tipo pompeiano, che in epoca tarda è stata convertita ad officina per la lavorazione del vetro. Di rilievo sono, inoltre, i resti di una Basilica paleocristiana con fonte battesimale (baptisterium) a forma di croce greca, con tre scalini sui quattro lati e rivestita in origine da marmo (un altro battistero simile a quello di Aeclanum è di pertinenza della città di Venosa). La Basilica era a tre navate e, fosre, con un portico sul davanti (nartece).
Il battistero della basilica paleocristiana.
Ad un livello inferiore rispetto all'edificio religioso fu scoperto un ambiente con quattro otrii giganti (dolii), adoperati per la conservazione delle derrate alimentari.
Sicuramente Aeclanum rappresentò una delle principali città del Sannio Irpino. Lo stesso Silla, dopo l'assedio di Pompei, si diresse direttamente contro la città,
incurante di altri centri urbani come Nola o Abellinum, che erano sul tragitto. Si presume che possa aver ricoperto il ruolo di capitale sannita all'epoca della Guerra Sociale e che la popolazione contò sui quattro-cinquemila abitanti quando assunse il ruolo di colonia ed il suo territorio superò l'estensione di 700 kmq.
Nel 369 d.C. un violento sisma colpì Aeclanum con conseguenze disastrose: in un'epigrafe Umbonio Mannachio, di rango senatorio, è definito "fabbricatore ex maxima parte etiam civitatis nostrae".
Aeclanum - Base per fistule di torchio.
Più tardi, nel 410 d.C., il passaggio di Alarico e dei Visigoti dalla Campania alla Puglia arrecò ingenti danni alla città. Fu coinvolta nelle guerre tra i Goti e i Bizantini nel VI secolo d.C., finchè l'arrivo dei Longobardi (570 d.C.) ed il transito dell'imperatore Costante II di Bisanzio, diretto all'assedio della longobarda Benevento, soffocarono sotto un velo di distruzione le ultime tracce del passato romano.


Veduta della zona delle terme.

Al di fuori del circuito cittadino di Aeclanum, si possono ammirare ancora i resti di un edificio pubblico (dall'ignota funzione) con mura in reticolato e laterizio nel sito della chiesa di Santa Maria di Pompei crollata dopo il sisma del 1980.
Da ammirare inoltre, parte di una necropoli orientale (III-IV secolo d.C.) con monumenti e recinti funerari, posta ai lati della via Appia e nelle vicinanze della odierna via Nazionale Passo.
CAUDIUM
Il territorio della Valle Caudina vide l'antica capitale dei Caudini di cui oggi si conosce ben poco.
 "Caudium", l'odierna Montesarchio, si caratterizza per la ricchezza delle necropoli che hanno restituito corredi tombali significativi di particolare valore artistico e tecnico, espressione del grado di acculturazione raggiunto dalle popolazioni sannitiche fra il VI e il IV sec. a.C. Il contesto romano emerge a "Caudium" in una serie di edifici monumentali esplorati attraverso saggi, puntuali ma limitati, effettuati nell'area della città antica individuata , ma ancora non esplorata, che si estende lungo la strada statale Appia a sud - ovest del centro moderno. Il Museo Archeologico comprensoriale che la Soprintendenza ha in corso di realizzazione nel complesso monumentale del Castello di Montesarchio, ospiterà, con sessioni differenti, i reperti archeologici provenienti dal territorio suddetto.
SAEPINUM
La tradizione storica molisana fa coincidere l'evoluzione dell'area, poi soggetta al municipio romano, alla costante dei traffici della transumanza. La città sorge a ridosso di un incrocio formato da un percorso proveniente dal fiume Tammaro e diretto verso le alture del Matese e da un importante tratturo, parallelo al massiccio del Matese, sul quale probabilmente fin dai tempi in cui l'uomo ancora non li allevava, gli animali transitavano istintivamente nelle loro migrazioni stagionali. Lo stesso nome latino Saepinum sembra derivare da saepio cioè recinto e doveva riferirsi ad un'area che intorno al IV secolo a.C. era adibita dagli antichi abitanti a luogo di scambio di mercanzie ed animali. L'intera area era soggetta al controllo del centro fortificato posto sulle alture e denominato, in epoca posteriore a quella romana, Terravecchia (Saipins).
TERRAVECCHIA
La costruzione e la collocazione nel territorio di questa antica fortezza da parte dei Sanniti doveva soddisfare preci- se esigenze strategiche di controllo dell'area alle falde del Matese. Fu edificata a 950 mt. di altitudine su di un'altura compresa tra i valloni dei torrenti Magnaluno a nord e del Saraceno a sud, ambedue affluenti del Tammaro.
L'antica struttura costi- tuiva una efficace posi- zione di controllo dei traffici e dei passaggi tra l'Apulia e la Campania ed il Sannio pentro. Il sito controlla anche l'unica via d'accesso che dalla pianura sale verso i pascoli del Matese. L'insediamento dei Sanniti è ancora riconoscibile nella sua struttura difensiva. Una cerchia di mura megalitiche, con pianta trapezoidale con la base maggiore rivolta verso nord-est a ridosso della scarpata che guarda il terrapieno naturale di Castelvecchio, racchiudeva l'abitato. Le mura, costruite saldamente senza dislivelli ed ancora in buono stato di conservazione, hanno una lunghezza di 1500 metri. Sono costituite da una doppia cortina terrapienata in opera poligonale e quella superiore è arretrata di 3 metri rispetto a quella inferiore. Tre sono al momento le porte di accesso alla fortezza identificate dagli archeologi. La prima sul lato sud-ovest chiamata la "Postierla del Matese" che dava il percorso alla montagna, la seconda a nord-ovest chiamata "dell'Acropoli" ed era sul percorso che conduceva verso Civitella di Campochiaro e Bovianum Undecumanorum, e la terza e forse la più importante ad est delle mura e denominata "del Tratturo" che permetteva il passaggio verso la pianura ed il sito del saepio. Infatti questo tragitto, nel suo tratto finale, viene ad identificarsi con cardo maximus della futura Saepinum romana.
 Foro
SAEPINUM
La felice situazione morfologica vuole che già alla fine del IV secolo a.C. l'incrocio tra questa direttrice proveniente da Terravecchia ed il tratturo divenga centro di scambi, controllato dalla fortificazione posta arretrata sulle alture del Matese, in una posizione geografica che permetteva la difesa delle genti distribuite nell'area sepinate. Sul finire del II secolo a.C., ai limiti dell'incrocio compare già un unitario sistema composto anche da costruzioni private che, come verificato nei sondaggi sotto il tessuto romano, manifestano caratteristiche evo- lute e l'uso di manodopera com- petente (pavimenti di coccio- pesto e tessere di mosaico, mosaici ed impluvium di terracotta con lettere osche). Quando, dopo la guerra sociale (91-98-a.C.), lo stato romano decide di organizzare ed amministrare l'area, il centro in effetti già costituisce un punto di riferimento con una urbanizzazione in atto.
 Teatro
Tra il 2 a.C. e il 4 d.C. si effettua la fortificazione della città con l'innal- zamento delle mura che da allora, e per buona parte ancora oggi, delimitano l'antico recinto sannitico e sono visibili in elevato; la cinta muraria è definita in opera cementizia rives- tita da opera reticolata, la stessa era intervallata da un sistema di torri elevate a cadenza rego- lare. Le quattro porte, poste in modo da opporsi rispetto ai principali tracciati, sono ancora ben identificabili. Restaurate, prendono rispettivamente nome dai luoghi di provenienza dei percorsi, pertanto troviamo sul tratturo le porte di Boiano e di Benevento, e sul secondo percorso la porta Tammaro e la porta Terravecchia.
BENEVENTUM
Benevento, per la sua posizione strategica e le condizioni ambientali è sempre stata un polo di attrazione per le popolazioni del Sanno sin dall'antichità come ci testimonia il ritrovamento di insediamento iscriveteli al periodo neolitico. Importante centro sannita, Benevento, divenuta colonia romana nel 268 a. C., cresce di importanza di pari passo con la potenza romana: nel 90 a.C., con la promulgazione della Lex Iulia, diventa Municipium e si sviluppa con l'arrivo di altri coloni in età augustea. Tutto il suo antico splendore è testimoniato dalla cospicua presenza di monumenti e di edifici pubblici di rilievo conservati fino ai nostri tempi e riportati alla luce grazie ad una intensa attività di scavi, restaurati e tutela.
Il teatro di Benevento è sicuramente uno dei più imponenti edifici per spettacoli conservati in Italia meridionale. La sua ubicazione è sempre stata nota in quanto la pianta dell'edificio è perfettamente leggibile, sin dalla cartografia storica più antica, poichè era restituita dall'andamento delle case che ad esso si sono sovrapposte incominciando da epoca medioevale. La datazione dell'edificio, mancando al momento dati di scavi, è incerta: comunque, sulla base di una iscrizione con dedica ad Adriano e delle analisi delle tecniche costruttive viene datato ad età adrianea. Tuttavia alcune considerazioni scaturite dallo studio del rilievo grafico, di recente eseguito e l'osservazione che la sopracitata dedica è reimpiegata dallo studio del rilievo grafico, di recente eseguito e l'osservazione che la sopracitata dedica è reimpiegata nella scena, come uno degli elementi di sostegno del colonnato antistante, sembrano far scendere la cronologia dell'edificio al II secolo avanzato.
Il monumento simbolo di Benevento é il bellissimo arco onorario ad un solo fornice, fatto costruire da Traiano per commemorare l'apertura nel 114 d.C. della Via Appia Traiana. Esso costituisce il più grande esempio del rilievo storico romano nel II secolo d.C. e la più completa rappresentazione pervenutaci di un trionfo romano, quello di Traiano cui Daci nel 107 d.C. .Il lato verso la città (Via Traiano) comprende opere e scene di pace, mentre quelle verso la campagna (Via del Pomerio) comprende scene militari. L'arco è stato oggetto di attenti lavori di restauro che hanno permesso di ripulire le superfici marmoree annerite dallo smog e di consolidare alcuni rilievi lesionati.  La Via Traiana, che seguiva una via più antica permetteva di collegare più rapidamente la Campania con la Puglia e quindi l'Italia con i principali porti d'imbarco per l'Oriente. Rispetto alla Via Appia faceva risparmiare un giorno di viaggio. Il suo tracciato campano interessa i comuni di Benevento, Paduli, Sant'Arcangelo Trimonte, Buonalbergo, Casalbore, Montecalvo Irpino, Ariano Irpino e Greci.
LUCERIA
Di origini antichissime, fu fondata, in epoca imprecisata, dai Dauni. Il nome di Lucera deriva, molto probabilmente, dalle parole etrusche "luc" (bosco)  ed "eri" (sacro).
Fedelissima a Roma, specie al tempo delle guerre sannitiche, Luceria diventa Colonia juris latini nel 314 a.C. e per la sua grande lealtà fu sempre tenuta in grande considerazione dai Consoli e dal Senato (Lucerinis bonis et fidelibus sociis - Livio: IX, X), ricevendone ampia autonomia e indipendenza d’azione: diritto di conio, proprie leggi, proprio fisco, propri magistrati. Nel 90 a.C., in rispetto della lex iulia de civitate, Roma concedeva alla sempre fedele Lucera la propria cittadinanza, iscrivendola alla nobile Tribù Claudia. Durante la guerra civile, prima che Cesare presidiasse la città con una propria guarnigione, Lucera fu quartier generale delle truppe di Pompeo.
Nel periodo imperiale testimonianze dello splendore della città furono l’erezione di alcuni circhi, numerosi templi (tra cui quelli di Cerere, Diana, Minerva e Apollo), del Foro, delle Terme, dell’Anfiteatro: tutti monumenti, tranne questi ultimi due, andati miseramente distrutti o inglobati in edifici più moderni. In epoca tardo imperiale Lucera registra la fondazione di una delle prime comunità cristiane: prima dell’anno 60 l’apostolo Pietro, di passaggio per la città romana, battezzando nelle acque del fiume Vulgano, pose a capo della nascente Diocesi il vescovo San Basso, martire cristiano sotto l’imperatore Traiano (a. 112). Questi ebbe come successori San Pardo (251-264), il Beato Giovanni (302-328), San Marco (328-350), S. Giovanni II (a. 350 e ss.) e S. Marco II (a. 743 e ss.), i quali rifulsero per capacità e doti religiose.
L'impianto romano fu distrutto quasi completamente dai Bizantini nel 663 e la città, dopo un lungo periodo di stasi, riprese a rifiorire sotto gli Svevi e i primi Angioini.
Federico II  ne fece una delle sue residenze predilette e una delle piu' potenti fortezze d'Italia, ove concentrò a piu' riprese, tra il 1224 e il 1246, i Saraceni di Sicilia, divenuti elementi di disordine nell'isola;

questi, lasciati liberi di sviluppare le attività economiche preferite, diedero un notevole impulso allo sviluppo della città, che vide allora le moschee sostituite alle chiese e fu detta "Luceria Saracenorum". Sotto Carlo I d'Angiò i Saraceni si ribellarono (1267) ma furono assoggettati.
Anfiteatro
Unico esempio architettonico completo della Daunia romana e unico monumento del genere in Puglia, l’Anfiteatro augusteo lucerino risale al I secolo dell’Impero. Esso è senz’altro il più vasto Anfiteatro romano dell’Italia meridionale.

Come appare dall’epigrafe dedicatoria dell’architrave delle porte di accesso alla cavea, il monumento venne fatto costruire su proprio terreno e a proprie spese dal prefetto dei fabbri, tribuno militare, duoviro e pontefice Marco Vecilio Campo in onore dell’imperatore Ottaviano, in occasione del conferimento a questi, da parte del Senato di Roma, del titolo di Augusto (27 a.C.) e in onore della fedele colonia romana di Lucera, antica ed opulenta roccaforte militare, già antisannitica ed antipunica.
TELESIA
A 6 chilometri dalla confluenza del fiume Calore con il Volturno e a metà strada con l'attuale centro di Telese, sorgeva anticamente la città, che divenuta colonia romana, assunse il nome di Telesia. Fu una città ricca ed opulenta. Ebbe un teatro, un circo, il foro, le terme, i sacerdoti, magnifici templi, e possedeva una propria moneta con la quale commerciava con i popoli vicini.
La lingua originaria era quella "osca ", che prevalse in gran parte dell' Italia meridionale e si diffuse anche in Calabria. Successivamente fu soppiantata dal latino.
Secondo gli studiosi di urbanistica, a Telesia sarebbe stato creato un sistema difensivo quasi perfetto, formato da una cinta muraria sulla quale si aprivano quattro porte principali, costruite usando una tecnica costruttiva detta "opera reticolata" e da un insieme di torri poste simmetricamente lungo tutto il percorso dell' "opus reticolatum". Parte di queste mura sono ancora visibili a pochi chilometri dall'attuale centro urbano.
L' agro di Telese Terme fu abitato dall' uomo sin dalla preistoria: nell'età della pietra, del bronzo, e del ferro, come ci dimostrano alcuni reperti archeologici. Nelle epoche successive, in più riprese, eserciti romani e cartaginesi attraversarono questa fiorente terra sannita. Gli abitanti di Telesia, nutrirono sempre un odio profondo verso Roma.

Ed è' in questo ambiente che vanno inquadrate le Guerre Sannitiche, durate circa 50 anni. Fra i tanti condottieri, è d' obbligo citare un giovane ed esperto generale: Gavio Ponzio Telesino, il quale riuscì a far passare i Romani sotto il giogo delle Forche Caudine, umiliandoli. Successivamente i Romani sconfissero l'esercito sannita e Silla, accecato dall' ira, distrusse completamente la città.
In seguito alla caduta dell 'Impero romano, Telesia fu conquistata dai Goti e dai Longobardi. Subito dopo la città subì i danni di un terremoto e successivamente fu distrutta completamente dai Saraceni.
SIDICINI
Popolazione di origine autoctona che ha subito influenze latine, sannite e greche.
Il principale centro abitato fu Sidicum, divenuto in seguito colonia romana. Sullo stesso territorio sorse Capua, colonia etrusca, a testimonianza dell'influenza subita da parte dei Tirreni.
I Sidicini furono in lotta con i Sanniti e si mostrarono alleati con Roma, soprattutto al tempo di Annibale .
Considerate le ricchezze e la fertilità del loro territorio, vivevano di agricoltura ed allevamento.
IAPIGI
Al principio dell’età del ferro (intorno al 1700 a.C.), l’Apulia rivela una cultura dovuta all’avvento di nuovi elementi etnici: erano gli llliri che venivano dall’altra sponda dell’Adriatico. Trovarono nella nostra regione la popolazione indigena e, amalgamandosi con essa dettero luogo agli Iapigi, il cui nome fu loro dato dagli antichi Greci che considerarono questi antichi popoli discendenti del mitico Dedalo attraverso suo figlio Iapige .
  La  IAPIGIA
Gli Iapigi diedero origine a tre gruppi etnici diversi che si mescolarono con le popolazioni locali autoctone ed in particolare con gli Enotri: a nord della Puglia i Dauni o Apuli , al centro i Peuceti ed al sud i Messapi .

La prima città fondata dagli Iapigi protostorici è Oria (Uria , XVI sec.a.C) che elessero loro capitale.
Ebbero un ruolo determinante con la città di Taranto . Famosa era la cavelleria iapigia.
La colonia greco-tarantina fu d’importanza fondamentale non solo sul piano pugliese, ma anche su quello storico generale della penisola italiana, prima per via delle guerre di espansione, poi per i contrasti interni alle stesse colonie e per gli scontri con Roma. Spesso i tarantini furono costretti a ricorrere ad aiuti militari esterni, sia da Sparta sia dall’Epiro , infliggendo e subendo pesanti sconfitte.
A Canne , sull’Ofanto, si combatté nel 216 a. C. la battaglia più famosa dell’antichità, dove Roma subì la sua più cocente e devastante sconfitta.
In seguito l’espansionismo romano, dopo le guerre sannitiche in cui le città pugliesi si allearono quasi tutte con Roma, penetrò nei territori iapigi.
Per la Puglia passò la Via Appia che collegò Roma con l’Oriente, e a Brindisi (città peuceta) Roma ebbe il suo principale porto di comunicazione con le ricche e civilizzate terre greche, ellenistiche e mediorientali.
AURUNCI

Popolazione di origine indoeuropea che si stabilì nel basso Lazio. Una delle città principali fu Terracina. Socialmente non erano particolarmente evoluti e conservavano delle caratteristiche tipicamente umbro-osche.
Ausona faceva parte insieme a  Minturnae, Sinuessa, Suessa e Vescia, della cosiddetta "pentapoli aurunca", fulcro della confederazione degli Aurunci, popolo di stirpe italica di ipotizzata origine tirrenica.

PEUCETI

La Peucetia corrisponde all'attuale territorio della provincia di Bari.
I Peuceti sono considerati un gruppo etnico derivato dagli Iapigi e stabilitosi nella Peucetia intorno all'800 a.C..
La Peucetia confina a sud con la Messapia e a nord con la Daunia.
Altamura era uno degli insediamenti peuceti più importanti, situato lungo il percorso di un'antica via di comunicazione che sarebbe diventata la Via Appia. Il nome della città deriverebbe dalla bella regina dei Mirmidoni, Altea, da cui Altilia, il nome primitivo della città. Non meno suggestivo è l'altro etimo proposto: Alterum Ilium (altra Troia) per cui Altamura entra nel piano provvidenziale che, dopo la caduta di Troia, porta Enea alla fondazione di Roma.
Tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C., Altamura assumeva una fisionomia ben precisa con la costruzione della cinta muraria megalitica che chiudeva l'acropoli e parte della collina. Questa esigenza di difesa scaturiva dalle pressioni dei principali centri lucani da un lato e dalle mire espansionistiche di Taranto dall'altro.
L'economia del centro peuceta si basava sull'allevamento del bestiame e l'artigianato che aveva il suo maggior sviluppo nella filatura e nella tessitura della lana.
Importanti erano i contatti con le colonie della Magna Grecia, in un primo tempo con Metaponto e successivamente con Taranto; tali rapporti sono testimoniati dal ritrovamento di monete e di vasi di pregiata fattura. Inoltre sono attestati rapporti con l'area dauna e con la vicina Enotria (Basilicata orientale).
Numerosi furono anche i contatti e le guerre con i Messapi.
Altri centri peuceti furono Bari (Barium) e Ruvo. 
A Canne , sull’Ofanto, si combatté nel 216 a. C. la battaglia più famosa dell’antichità, dove Roma subì la sua più cocente e devastante sconfitta.
In seguito l’espansionismo romano, dopo le guerre sannitiche in cui le città pugliesi si allearono quasi tutte con Roma, penetrò nei territori peuceti.

APULI
Popolazione di origine illirica abitante l'odierna Daunia, da cui avevano anche il nome di Dauni .
Si svilupparono dapprima sul mare in semplici villaggi, vivendo di commercio e di pirateria. Successivamente si diffusero nell'entroterra, mescolandosi con le popolazioni autoctone, fondando dei centri urbani, risentendo dell'influenza greca.
In età neolitica la fertile pianura del tavoliere era già fittamente colonizzata da centinaia di villaggi sparsi, ognuno racchiuso da un fossato cingente un’area vastissima. I primi contatti con il mondo egeo risalgono all’età del bronzo e la Daunia era indicata dagli Elleni come la “terra di Diomede", ritenuto il fondatore di Arpi (la capitale), Canosa, Siponto (Sipontum). Inoltre ricordiamo la città di Herdoniae (Orta Nova). Tutti questi centri conobbero anche un discreto prestigio, al punto che coniavano monete proprie. Frequentissimi erano anche i contatti con le terre al di là dell’Adriatico, a cui si inviava il grano del Tavoliere e da cui si riceveva prodotti di metallo.
Subirono il dominio dei Sanniti  e poi dei Romani. In seguito conobbe prestigio la  città di Luceria, che divenne importante colonia romana.




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