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(Continua) L'ORIGINE POLITICA DEL CAPITALISMO PADANO E IL DISASTRO MERIDIONALE

L'ORIGINE POLITICA DEL CAPITALISMO PADANO E IL DISASTRO MERIDIONALE
 

8.1 La consorteria capitalistica che tuttora domina l’Italia creò il suo potere
di comandare lavoro nei primi anni di vita dello Stato unitario. Usando una
parola degli anni ’50 potremmo dire che decollò. Ma solo come sistema capace
di ingenerare un’accumulazione primaria. Credo, tuttavia, che sia più esatto
capovolgere la sequenza delle cause: fu essa che fece lo Stato unitario e, una
volta fattolo, usò la sovranità statale per accumulare il capitale primitivo, come
scrisse lapidariamente Gramsci. Bisogna aggiungere che soltanto nei primi
decenni della malsana convivenza nazionale l’appropriazione toscopadana fu
realizzata sotto forma di saccheggio coloniale. In appresso, avendo accettato
in eredità da Cavour il liberismo imperiale made in England, la nuova classe
dominante, per schiacciare il Sud, si è servita (e si serve) dei meccanismi che
regolano qualunque mercato nazionale capitalistico; in ciò assecondata dalla
banca centrale e dalla legislazione falsamente nazionale, che il parlamento
sforna. Una volta varato, il meccanismo dualistico funziona per forza d’inerzia,
secondo la classica interfaccialità sviluppo/sottosviluppo, ed è divenuto una
norma inavvertitamente osservata nei rapporti di scambio, nel lavoro, nel
costume, nella narrativa, nel cinema, nel giornalismo, nella lingua, nei massmedia,
nell’etica sociale (i terroni) e persino nei rapporti personali e familiari.
I processi a cui presteremo attenzione sono la moneta, le ferrovie, gli
armamenti, il debito pubblico. Circa l’iniqua distribuzione della fiscalità statale
e comunale, che costituisce un tema non meno importante, si rimanda il
lettore alla classica trattazione che ne fece Francesco Saverio Nitti** sul finire
del sec. XIX. Naturalmente i processi accumulativi non si svilupparono in
contesti separati, come dire, per capitoli. Tuttavia, per chi si accinge a
mettere in rilievo atti e fatti determinati sarebbe difficile una trattazione
unitaria. Tutto quel che può fare è di richiamare le connessioni fra l’uno e
l’altro evento.
Fatta l’Italia, il padronato di tutte le regioni si ritrovò a dipendere, per la sua
esistenza di classe, dalla consorteria cavourrista, dal re e dalle truppe in
campo. Nel timore di restare senza le divisioni necessarie per tenere a freno le
tensioni che percorrevano le classi povere, in particolare le aspirazioni
contadine, i padroni si adattarono a subire un monarca costoso e invadente,
assieme al suo esercito di prussiani da operetta. “Ci sembra significativa la
priorità riconosciuta dal governo piemontese, attorno al quale si organizzò la
borghesia italiana, alla costituzione di forze armate di sicuro affidamento e di
grandi ambizioni, necessarie perché il nuovo stato potesse far fronte al duplice
pericolo della pressione dall’esterno e della disgregazione interna” (Rochat e
Massobrio, pag. 6). Credo che agli illustri autori sia scivolata la mano allorché
parlano di pericoli esterni. In effetti, né l’Austria, né l’Albania, né il Turco, né il
Negus si sognarono mai di minacciare una guerra all’Italia. La Francia e
l’Inghilterra imposero le loro condizioni, ma, al tempo, lo facevano un po’ con
tutte le popolazioni arretrate e anche nella stessa Europa, con gli Stati più
deboli. Fu semmai l’Italia a esibirsi in guerre che servirono soltanto a
consumare uomini e materiali. Più aderente alla vicenda storica è invece il
richiamo al pericolo di una disgregazione interna del nuovo Stato. Il riferimento
generico riguarda in effetti la Guerra del Brigantaggio[1]; un evento tuttora
non ben inquadrato in tutte le sue implicazioni a causa dell’italica ipocrisia, e
che comunque fa da cartina di tornasole circa il carattere coloniale
dell’esercito piemontese. Alcuni esponenti della borghesia padana – ad
esempio Massimo d’Azeglio - avrebbero rinunziato all’annessione del Sud,
purché il nuovo Stato non dovesse continuare a combattere una guerra
ingloriosa e crudele. Fu invece la perfida Destra a temere, come Cavour, che
se avesse lasciato un qualche spazio all’iniziativa repubblicana, il risultato fin lì
ottenuto sarebbe saltato in aria. D’altra parte Genova e Livorno premevano
perché il saccheggio del Sud andasse avanti. Non bisogna dimenticare che per i
banchieri toscani e liguri lo sfruttamento del Meridione faceva parte di una
tradizione plurisecolare. Infatti gli usurai di Genova e di Firenze, pronubi i re
francesi e spagnoli, per cinque secoli avevano avuto mano libera nella
spoliazione del Regno meridionale; un fatto ampiamente testimoniato dai
cognomi fiorentini e genovesi di una parte non minoritaria della feudalità
napoletana.
Le spese per l’esercito e la marina militare – scarsamente produttive in un
paese senza industria siderurgica e meccanica – pesarono in misura disastrosa
sul buon andamento dell’azienda Italia; oltre che, ovviamente, sulla condizione
delle popolazioni tributarie. Queste, che già ereditavano circa due miliardi di
debiti per spese sostenute dagli ex Stati nel corso di un settennio di tensioni
guerresche, dovettero accollarsi anche la nuova, ingiustificata e velleitaria
follia. Tra il 1852 e il 1860 il peso dei tributi era cresciuto un po’ dovunque,
specialmente nel Regno di Sardegna. Negli stessi anni, l’ammontare
complessivo del debito pubblico era aumentato ancora di più. Anzi era quasi
raddoppiato tra 1859 e il 1860[2].
Tab. 8.1a Entrate, uscite e crescita del debito pubblico nel
complesso degli ex Stati prima della seconda guerra cosiddetta
d’indipendenza

Migliaia di lire sabaude, Anno: Entrate complessive: Uscite complessive: Debito pubblico degli ex Stati.
Totale
progressivo:
1852 418.475 446.218 1.310.360
1859 571.107 514.221 1.482.760
1860 469.115 571.277 2.241.870


Mia elaborazione su: Zobi, cit. pag. 12


Il debito pubblico non è fatto di cambiali a vista. Al contrario: se l’introito
del tesoro è immediato, la restituzione – se mai ci sarà - è rimandata di anni e
di decenni. Attuale è invece il peso degli interessi, come ben sanno gli italiani
di sempre, non esclusi quelli odierni. Anche il debito flottante, che il tesoro
dovrebbe poter accendere solo per provvedere a temporanee esigenze di
contante, in Italia è sempre stato un trucco governativo: di regola rinnovato,
spinto in avanti, più spesso consolidato che pagato[3]. Comunque, il nuovo
Stato non aveva una scadenza immediata di due o tre miliardi per debiti
pregressi, ma una di 124 milioni l’anno (divenuti 160 dopo le guerre del 1859 e
1860) a titolo di interessi a favore dei portatori delle cartelle, con un’incidenza
che, nei primi bilanci del nuovo Stato, stava intorno a un quinto delle entrate.
Tab. 8.1b Prospetto delle finanze degli antichi Stati al momento della
fusione in un unico bilancio:

Stati Entrate
fiscali
Spese totali Avanzo Disavanzo Procapite**
Lire
Regno
Subalpino
391.190.510 482.201.344   91.010.834 95
Lombardia 80.794.320 52.443.718 28.350.620   25
Emilia* 62.541.984 36.111.571 26.430.413   31
Marche 14.478.111 12.896.664 1.581.448   16
Umbria 8.959.642 5.348.199 3.611.443   17
Toscana 43.370.495 57.690.970   14.320.476 22
Napoli 109.429.066 100.493.766 8.935.299   16
Sicilia 47.644.750 50.433.067   2.788.317 20
Totale

 

758.408.878

 

797.619.300

 

68.909.204

 

108.119.627

 

35
39.210.421

· Parma, Modena, Romagne.
· ** Popolazione regionale al censimento 1861


N.B. E’ il caso di ricordare che le uscite sono quelle di Stati che si preparano
all’offesa o alla difesa. E’ facile supporre, inoltre, che almeno una parte delle
maggiori spese sono state effettuate dalle luogotenze sabaude d’occupazione.


Si trattava di una componente non tenue della spesa pubblica, tanto più
che il gettito fiscale - benché notevole fosse il suo peso per i contribuenti –
risultò, da principio, al di sotto di quello che ottenevano complessivamente gli
ex Stati.
In una relazione al parlamento, il deputato Pasini attribuì la fiacchezza delle
entrate tributarie al fatto che il nuovo Stato non percepiva il dazio sui consumi
interamente devoluto ai comuni (Plebano, vol. I, pag. 65). Unificati gli erari
degli ex Stati, fu evidente che la mucca non dava tutto il latte su cui i
cavourristi avevano fatto assegnamento. Ciò nonostante allentarono la corda
alle spese militari[4].

Tab. 8.1c Annualità del debito pubblico degli ex
Stati, come calcolato retrospettivamente dopo la
presa di Roma (1871)*
Lire
Napoli 26.003.633
Sicilia 6.800.000
Lombardia 5.534.193
Veneto 3.890.169
Modena 745.727
Parma 424.186
Toscana 4.020.000
Stato Pontificio 22.459.518
Stato sabaudo 54.921.696
Retrospettivamente a prima del 1861. Rendita da pagare
annualmente dal nuovo Stato.
Totale generale per l’Italia[5]
124.799.125


8.2 Se rapportate alla ricchezza nazionale, le spese militari del Regno
d’Italia furono più che folli. Neanche Hitler o Mussolini caricarono sul bilancio
pubblico percentuali simili; spese che paiono deliberate da un governo in preda
a una forma di follia western per fucili, cannoni e corazzate. Per maggiore
sciagura, i detentori del potere politico insistettero nell’imbecillità tipicamente e
programmaticamente cavouriana di acquistare gli armamenti all’estero,
anziché creare un’industria pesante. Dietro il carnevale erariale stavano i
generali, i quali, più che una divisa da soldato, avrebbero dovuto indossare le
brache di Attila. Naturalmente lo scopo era ben altro: arricchire a spese di
Pantalone, sottomettere le classi del lavoro, apparire belli e nobili attraverso la
spesa opulenta. Meno naturalmente i sapientoni delle accademie, per
guadagnarsi la pagnotta, affermano che, sì, la gente pagò, ma poi si ritrovò
felice e appagata nella sua incomparabile patria, libera e indipendente. Ed è
magra consolazione il sapere che non esiste una legge che renda obbligatoria,
per gli storici, l’onestà e l’indipendenza di giudizio. Nonché la prudenza.


8.2a Entrate ordinarie e spese militari del Regno d’Italia in cifre
assolute e in percentuale dal 1862 al 1870
(Lire correnti all’epoca):

Anni Entrate
ordinarie
(riscosse)
Milioni
Spese
per
l’esercito e
la marina
%    Anni Entrate
ordinarie
(riscosse)
Milioni
Spese
per
esercito e
marina
%
1862 771 484 63   1867 715 400 56
1863 511 239 48   1868 739 214 29
1864 565 465 77   1869 902    
1865 637 385 60   1870 801  446 26
1866 609 715 117   Totali 6.250 3.348 54


Mia elaborazione da: Izzo cit. Appendici.


Le spese per il riarmo impegnarono per oltre trent’anni una parte
consistentissima delle uscite statali, causando l’espansione degli interessi sul
debito pubblico, la contrazione degli investimenti in industria e in agricoltura,
cioè nei settori portanti della produzione e del benessere, e allargarono lo
spazio operativo dei grandi usurai nazionali e forestieri, e di rimbalzo l’ulteriore
impoverimento dei poveri. Per mostrare quanto incidesse percentualmente la
spesa militare sul totale delle spese per beni e servizi, nella tabella che segue
la spesa per il debito pubblico (un’uscita per così dire in conto capitale) è stata
espunta dai totali della spesa annuale. Dal 1862 al 1868, i ministeri della
Guerra e della Marina divorarono oltre la metà della spesa pubblica (entrate
tributarie + prestiti pubblici), e furono la fonte prima dell’indebitamento dello
Stato e del calvario degli italiani del tempo. Su un reddito pro-capite calcolato
in 288 lire (circa dieci quintali di grano), una considerevole quota venne
saccheggiata dal mostro, per giunta inefficiente e causa, per l’Italia, d’indicibili
figuracce agli occhi del mondo intero (Lissa, Custoza, l’ammiraglio Persano, i
generali Cialdini e La Marmora: le mani più sporche di sangue italiano da
duemila anni in qua – dal tempo del genocidio dei Sanniti sotto le mura di
Roma - e la faccia più tosta di tutte le glorie risorgimentali).


Tab. 8.2b Ripartizione percentuale della spessa pubblica al netto
degli interessi sul debito pubblico dal 1862 al 1868:

Anno Giustizia Esteri Pubblica istruzione Interni Lavori
pubblici
Guerrae
Marina
Agricolt-
Industr-
Comm.
 
1862 4,9 0,5 2,1 10,1 17,1 62,0 3,3 100
1863 6,0 0,6 2,6 13,9 19,0 56,7 1,2 100
1864 5.9 0.6 2.5 13,5 20,0 56,0 1,5 100
1865 6,0 0,7 2,8 11,9 17,9 49,6 1,1 100
1866 5,0 0,8 2,7 9,4 9,9 71,4 0,8 100
1867 7.1 1,1 3,4 11,6 22.2 53,2 1,4 100
1868 8,0 1,3 4,0 12,3 19,7 53,4 1,3 100


Mia elaborazione su: Izzo cit., Appendici
Lo Stato italiano aveva un parlamento eletto fra i possidenti e un senato di
nomina regia, i cui membri erano le persone più ricche del paese. Le eccessive
spese dello Stato percuotevano fortemente anche la rendita padronale.
Certamente non nelle stessa misura nelle varie regioni, come insegna Nitti.
Dappertutto difficilmente un proprietario poteva compiere una totale o parziale
traslazione dell’imposta su altri soggetti economici, in quanto in agricoltura
vigeva, potremmo dire, una concorrenza perfetta (tra i produttori della
medesima derrata nella medesima regione). Inoltre, anche nelle regioni meno
povere, il rapporto tra il contadino-produttore e il proprietario percettore della
rendita, o l’affittuario, o il gabellotto era influenzato più dalla pressione
demografica sulla terra, dalla fame delle famiglie coloniche e bracciantili, che
dalla pressione fiscale. Logica avrebbe voluto che i redditieri, che, come detto,
erano la parte numericamente predominante del parlamento, si muovessero
contro le smodate spese statali. Storicamente i parlamenti erano nati proprio
per questo! Eppure non le contrastarono più di tanto.
Perché? Prima di tutto perché la frazione meridionale di questi signori
doveva mostrare la sua lealtà alla frazione toscopadana, la cui spocchia
militare faceva da metro morale e patriottico dell’italianità. Poi perché, sulla
frazione toscopadana, gli speculatori esercitavano l’egemonia culturale
realizzata al tempo di Cavour. La gente che ingrassava sulla spesa pubblica era
legittimata dal credo cavourrista del protezionismo dall’interno, che covava
sotto la cenere di un liberismo di facciata; in pratica un liberismo non
vincolante per i settori che si volevano proteggere (Carpi, 256 e sgg.).


Tab. 8.2c Parallelismo tra spese militari e nuove emissioni di debito pubblico
(milioni di lire correnti):

Anni Spese militari Nuovo d.p.
1861   500
1862 368  
1863 675  
1864 995  
1865 1.245 925
1866 1.624 1.525
1867 1.844 1.775
1868 2.011 2.025


Mia elaborazione su Izzo, ibidem.
Non essendo sufficienti le entrate, i governi nazionali indebitavano i
contribuenti con chi all’interno e all’estero prestava dei soldi allo Stato. A
pagare avrebbero provveduto le future generazioni[6]. Questa metodologia
non era stata inventata dal defunto Conte o dai suoi corifei. Si trattava di un
espediente praticato, nei secoli precedenti, sia in Gran Bretagna sia altrove.
Applicato all’Italia-una esso ha portato un gran bene al Nord e ha rovinato il
Meridione. Le due cose sono visibili, diciamo così, a occhio nudo da tutti. Gli
addetti ai lavori, che dispongono di occhiali all’infrarosso e potrebbero leggere
fra le cifre le cause del disastro meridionale, voltano pagina in quanto
accortamente frollati all’italica arte dell’ipocrisia.
8.3 Torniamo al marzo 1861, con Cavour ancora vivo e trionfante, e con
Pepoli disoccupato, non essendo stata ancora decretata la tariffazione delle
monete degli ex Stati in moneta sabauda. Alla formazione del primo governo
nazionale, di cui viene nominato ministro delle finanze il banchiere livornese
Pietro Bastogi. L’inclusione nel governo di ministri non piemontesi non era una
novità. Nove anni prima, con l’ascesa di Cavour alla presidenza del consiglio
dei ministri, lo Stato sabaudo era passato, senza modifiche statutarie e quasi
inavvertitamente, da governo del re a governo parlamentare. Cavour, leader
indiscusso sia del governo sia del parlamento, aveva aperto le stanze del
governo ai profughi che, dopo il 1848, si erano rifugiati nel Regno sabaudo,
divenuto garantista, oltre che fautore dell’Italia unita (vale la pena di
ricordare, però, che su Mazzini, cittadino sabaudo, gravava sempre una
condanna al cappio, per giunta mai revocata dalla patriottica patria). E’ stato
osservato che l’ospitalità fu un costo che il Piemonte decise di pagare alle sue
ambizioni espansionistiche. Ciò non sminuisce l’intelligenza dell’atto politico.
Peraltro, nelle idee di Cavour, il Piemonte non si preparava a egemonizzare
l’Italia, ma a essere una parte della Toscopadana unita. L’idea colonialista è
successiva: non specificamente piemontese, ma complessivamente
toscopadana, e da attribuire essenzialmente al successivo ascendente
genovese e livornese sul governo. Emerse, comunque, quando gli eventi
internazionali allargarono l’originario progetto unitario alla Sicilia e al
Napoletano. Nell’anno circa, in cui il Sud rimase fuori dall’area sabauda,
l’unificazione delle regioni per prime annessesi al Piemonte e alla Liguria, se
non fu perfettamente paritaria, tese sicuramente a esserlo. Il padronato
piemontese non giocò con due mazzi di carte con la Toscopadana, come poi
farà proprio la Toscapadana unificata con il Sud, ma si comportò con lealtà
verso i padroni lombardi, toscani, emiliani e romagnoli, coinvolgendoli nella
gestione del potere.
Il primo ministero del Regno d’Italia-una appare una continuazione dei
ministeri piemontesi, sovrastato com’è dalla forte personalità di Cavour e dalla
centralità dell’esercito regio. Nella sua composizione è possibile osservare
un’apertura regionale, forse un po’ stentata, ma di buon auspicio. Fra le altre
presenze, tutte d’ incerto significato, quella toscana non è di facciata; ha un
peso reale. Prima di assurgere a ministro, il livornese Pietro Bastogi non aveva
fatto parte del circolo dei fuorusciti. Patriotticamente non aveva altri e diversi
meriti che un mazzianesimo giovanile. Invece era il padronato toscano a
godere di una posizione speciale agli occhi di Cavour - molto più di quello
lombardo. Riconsiderando i particolari passaggi della vicenda, è possibile
commentare che il padronato lombardo, pago d’essersi liberato dell’Austria,
non avanzò gran pretese. Sicuri di sé, i lombardi non fecero altro che infilarsi
quatti quatti dove i piemontesi lasciavano uno spazio, tanto che, qualche anno
dopo, riuscirono abilmente a gabbarli sul terreno fiscale. I toscani invece
posero delle condizioni (Ragionieri, passim, Salvestrini, passim). In appresso le
vicende parlamentari portarono alla luce del sole la contesa latente tra
interessi toscani e interessi piemontesi, nonché il successivo accomodamento,
che in effetti fu una spartizione dannosa per tutte le altre regini. I fatti di
Toscana sono stampati in tutte le storie unitarie. Oltre a rivendicare il merito
d’avere trascinato con sé, nelle braccia del Savoia, l’Italia centrale, il
padronato toscano era ricco; una cosa di notevole peso in un momento in cui
Cavour era stato costretto a battere cassa. Difatti i soldi che, nel 1859, aveva
inutilmente chiesto a Napoleone, poi a Bombrini e infine al popolo piemontese,
onde spesare la guerra all’Austria, gli erano venuti dalla Toscana, sottoscritti
formalmente dai banchieri livornesi Antonio Adami e Adriano Lemmi. E’ da
supporre, però, che i due non fossero che dei prestanome. La cifra era
alquanto consistente, superiore alle forze di due banchieri di provincia[7].
Dietro a loro c’erano sicuramente dei solidi latifondisti toscani e dei banchieri
inglesi.
Cavour vivente, il contrasto tra liguri-piemontesi, da una parte, e toscani,
dall’altra, se vi fu, non uscì dalla sacralità dei gabinetti politici. Ma, a vittoria
ottenuta, avendo portato molto, i toscani pretesero d’entrare nella sala dei
bottoni. Dovendosi avviare l’unificazione dei debiti pubblici degli ex Stati, a
gestire l’operazione fu chiamato Pietro Bastogi.
Sull’operazione e sul modo con cui fu condotta non ci sono obiezioni da fare.
O almeno obiezioni rilevanti. Come già accennato, era il caso di farla precedere
dalla conversione delle monete, ma non ritengo che la cosa abbia condizionato
l’operazione sui debiti pubblici. La mancata conversione della moneta resta
uno dei più grossi misteri italiani. Comunque sia, mentre Bastogi si prodigava
inconsapevolmente a creare l’inferno per quasi tutti gli italiani e il paradiso per
una minoranza – cioè il Gran Libro del Debito pubblico - l’anima di Cavour
volava a Dio. Gli successe il latifondista toscano Bettino Ricasoli, il quale
confermò Bastogi al ministero delle finanze. L’opera di unificare i vari debiti
statali era stata appena portata a compimento, che cadde anche il ministero
Ricasoli. Il barone toscano, aristocratico pare d’antico lignaggio, era poco
incline a piegare la schiena al cospetto del fulgido re d’Italia, il quale rivolle al
governo un suo fedele consorte, Urbano Rattazzi, le cui articolazioni dorsali
erano più flessibili, nella circostanza coadiuvato dall’uomo di punta della
sinistra parolaia, il lombardo Agostino Depretis. Il Regno d’Italia aveva dei
sudditi, dei ministri, dei generali, degli ammiragli, delle imposte, molti fucili,
qualche corazzata, ma non una moneta. Non avere una moneta era la strada
obbligata per fornire il becchime ai pollastri del capitalismo.
I libri di storia patria strombettano ai quattro venti che il primo merito dei
governi nazionali fu quello di fare le strade e le ferrovie, specialmente quelle
meridionali, che l’odioso e odiato Borbone aveva trascurato di fare.
“I brevi anni a ridosso dell’unificazione appaiono già determinanti per gli
sviluppi successivi. Dalla vigilia della proclamazione del regno sino al 1865 la
politica ferroviaria fu guidata (come affermò lo Jacini) da un assoluto stato di
necessità, da una sorta di istinto di conservazione della nuova realtà
statuale (grassetto del redattore), nata più per forza di idealità e nel quadro
di delicati equilibri europei piuttosto che per spinte tangibili di integrazione
provenienti dagli ambienti economici. Già i governi provvisori rilasciarono
concessioni per la costruzione e l’esercizio di migliaia di chilometri di nuove linee,
cui fecero seguito le iniziative altrettanto frenetiche dei governi e del
parlamento italiano, in un clima di inesperienza finanziaria e di illusioni sulla
reale consistenza della ricchezza nazionale. Analogamente, la convenzione con
la Francia del 1862 per la realizzazione di un tunnel ferroviario nei pressi del
Moncenisio rispondeva a considerazioni di natura prevalentemente politica e
diplomatica, anche se vi guardavano con attenzione gli ambienti economici
dell’Italia nordoccidentale.
“Dopo l’abbandono, già nel 1862, di ogni costruzione diretta da parte dello
Stato, il regime sistematicamente adottato fu quello della concessione a privati
della costruzione e dell’esercizio delle linee, mentre lo Stato garantiva loro un
rendimento finanziario minimo [non tanto, per la verità! ndr] per chilometro. A
causa delle modalità affrettate di valutazione delle linee da parte dello Stato
(tracciati e redditività presunta) e dei requisiti sommari richiesti alle compagnie
concessionarie, quei primi anni videro all’opera numerose società improvvisate.
Tra di esse si distinguevano per una solidità maggiore solo quelle promosse da
alcune banche d’affari del Nord controllate da capitalisti stranieri e sorte da
pochi anni proprio in relazione all’occasione rappresentata dalle concessioni
ferroviarie italiane” (Fumi, pag. 91).
Ed è a questo punto – e a questo punto soltanto – che compare il grande
capitalismo toscopadano, in precedenza assolutamente invisibile, anche a
guardare con una doppia lente d’ingrandimento (e visibile soltanto nel paese
duosiciliano); un capitalismo “alla carta”, fatto cioè con i soldi dello Stato, o
per meglio dire con i soldi dei nuovi sudditi di quei patriottici facitori di nazioni,
finalmente risrgimentati.
Si doveva tenere a tutti costi unita una nazione che s’era pentita del suo
fasullo epos. Lo strumento per tenere unita l’unità erano i bersaglieri, i
cavalleggeri, i carabinieri. Il padronato italiano non fece obiezione circa il peso
dei loro stipendi e il costo degli equipaggiamenti. Bersaglieri, cavalleggeri, re e
generali dovevano funzionare da economie esterne, da infrastrutture armate,
idonee ad assicurare alla classe degli speculatori - che operava all’interno ma
anche alle spalle del padronato fondiario - la buona riuscita delle sue
manovre. Siccome il vero nemico era all’interno della patria-una, il primo,
glorioso intrallazzo ruotò intorno alle ferrovie meridionali. Con questo nome,
però, i padri della patria non intendevano riferirsi alle ferrovie che vanno da
Napoli in giù, ma alle ferrovie che vanno da Napoli in su, per portare
speditamente il sudici ducati borbonici a Milano, ansiosa anch’essa di
risorgimentare.
Di linee ferroviarie (al plurale), al Sud c’era gran bisogno, onde realizzare
un sistema di comunicazioni interne che superasse la millenaria, reciproca
separatezza delle provincie. Il Sud, si sa, è una penisola lunga ma non larga,
che si va assottigliando man mano che s’inoltra nel Mediterraneo. I punti che
bisognava congiungere immediatamente erano l’area campana con la Puglia,
gran produttrice d’olio e di grano, e più in generale il Jonio e l’Adriatico con il
Tirreno, essendo il percorso ferroviario, tra Bari e Napoli, un sesto o un
settimo di quello via mare. Questo, più per gli uomini che per le cose. Per le
cose, il trasporto marittimo otteneva un forte risparmio rispetto alla ferrovia, il
cui solo costo d’impianto stava tra le 210 e le 250 mila lire a chilometro (come
dire 10.000 quintali di grano, ovvero il nutrimento annuo di 3/4000 persone),
più il materiale rotabile.
Comunque il problema da risolvere (allora e anche oggi), per
movimentare l’economia, era la viabilità interna (a pettine) tra collina e costa.
Ma questa esigenza valse poco agli occhi dei padri della patria. Al contrario la
rapidità offerta dalle rotaie al rapido spostamento dei corpi d’armata dal Nord,
dove godevano del loro naturale habitat, all’arido Sud, si presentò
strategicamente decisiva in un momento in cui le regioni napoletane e siciliane
erano abitate da genti ancora da domate e sottomettere alla radiosa corona dei
Savoia e agli intrepidi generali Enrico Cialdini e Alfonso La Marmora, famosi
entrambi per i massacri compiuti (non solo) al Sud e per il modo brillante con
cui furono sconfitti dagli austriaci, già sconfitti, anzi sbaragliati, dai prussiani
nella stessa guerra (glorie d’Italia!). Il treno, militarmente parlando, era anche
un risparmio, nel senso che un’armata che può muoversi facilmente sul
territorio vale almeno quattro che stanno ferme. Le ferrovie del Lombardo-
Veneto erano in mano ai Rothschil già prima dell’unità. Siccome il Lazio era
ancora in gran parte sotto al Papa, non potendone attraversare il territorio per
penetrare al Sud, il governo italiano decise di raggiungere Napoli aggirando i
resti dello Stato Pontificio lungo l’Adriatico, con una tratta Ancona - Foggia, a
cui avrebbero fatto seguito le tratte Ancona - Ceprano (a sud di Roma) e
Napoli-Foggia. Durante la sua dittatura, Garibaldi aveva stipulato con i
banchieri livornesi Adami e Lemmi una concessione riguardante le linee
sudiche. E qui gli storici, poco pratici di geografia ferroviaria, fanno un
ammirevole pasticcio. Garibaldi riconcesse ai suoi raccomandati una
concessione stipulata dai Borbone a favore di Talabot, ma non certo la Napoli-
Bologna, via Adriatico[8]. E’ infatti inconcepibile che il governo napoletano
stipulasse una concessione riguardante i territori del papato. In effetti la
concessione borbonica riguardava la Napoli-Foggia.
Cavour, che favoriva i mazziniani solo quando gli servivano, aveva revocato
la convenzione e si era rimesso in contatto con il banchiere francese Paolino
Talabot. Era questi un nome d’assoluta garanzia, in quanto agiva per conto di
James Rothschild. Morto Cavour ed esautorato Ricasoli, nell’inverno del 1862 il
nuovo presidente del consiglio, Rattazzi, spedì come suo emissario a Parigi,
affinché trattasse l’affare, l’ingegnere milanese e deputato Grattoni (spesso
nomina sunt res), che in appresso sarà nella direzione tecnica delle Società per
le Ferrovie Meridionali. Non ho prove da portare, ma la mia convinta opinione
è che il piano di non lasciare alla casa parigina il boccone in via di cottura fu
concepito sulle sponde della Senna, dall’illustre ed ecologico duca di Galliera,
che certamente dovette fare da cicerone al connazionale, lungo i boulevard
della nuova Parigi. Peraltro il successivo botto coinvolse un così alto numero di
persone che è facile supporre una gestazione durata parecchi mesi. Comunque
sia, nel giugno del 1862 il governo Rattazzi concluse un accordo con
Rothschild, che sottopose al parlamento affinché deliberasse la concessione
ferroviaria. Infatti, pur non essendo scritto nelle costituzioni, gli Stati moderni,
similmente allo Stato feudale, s’intendono sovrani di ogni via di comunicazione,
sia essa terrestre, sotterranea, sopraelevata, marittima o fluviale.
8.4 Siamo alla metà di luglio dello stesso anno 1862. Mentre Pepoli, il
ministro delle finanze in carica, sfoglia la margherita in materia di coni
monetari, viene insediata una commissione parlamentare per l’esame della
concessione ferroviaria a Rothschild. La discussione non ha il tempo di
cominciare che, al suo presidente, arriva una lettera del precedente ministro
delle finanze, Pietro Bastogi (da non dimenticare che è un toscano, amico di
Ricasoli e di Peruzzi, gente che aveva dato dei soldi a Cavour), nella quale si
dice che un gruppo di capitalisti-patrioti (o se preferite di patrioti capitalisti, in
ogni caso ferventi) ha già formato una società con cento milioni di capitale, per
la costruzione delle ferrovie meridionali.
Eccone il teso: « Poichè era a mia notizia che due compagnie di capitalisti
esteri si facevano concorrenza per ottenere la concessione della costruzione e
dell'esercizio delle strade ferrate meridionalí, mi parve potesse giovare alla
dignità e agli interessi del nuovo regno d'Italia che anche una compagnia di
[patrioti, ndr] Italiani si accingesse al concorso. Era mio desiderio che si
rendesse manifesto come gl'Italiani, quando vogliano collegare insieme le
singole forze, ne possano creare una economica tale che valga ad esplicare
tutta la potenza produttrice della ricchezza nazionale. Per dare al Governo ed
al Parlamento una prova di questo desiderio, il quale è pure vivissimo in tutti
gl'Italiani, e può veramente essere soddisfatto [e fu in effetti soddisfatto per
patriottismo ndr.]; per dare il primo esempio fra noi di una grande
associazione di capitalisti nazionali, oso sottoporre alla S. V. illustrissima, in
mio nome, un'offerta ed un capitolato per assumere la concessione delle strade
ferrate meridionali, e quindi costituire una società anonima col capitale di 100
milioni. E perché incerto non resti il concorso dei capitalisti e la costituzione
della società, trasmetto alla S. V. i documenti comprovanti essere già fin d'ora
assicurato in azioni il capitale di 100 milioni. Mi reco finalmente a debito di
mettere a disposizione di V.S. per guarentigia della mia offerta, il deposito
preliminare di 2 milioni di lire, valore nominale di rendita 5 per cento italiana.
Non è mestieri che io esponga a V.S. illustrissima i vantaggi di ogni maniera
che, quando fosse accettata, deriverebbero dalla mia proposta al paese. Ad
ogni modo sono certo che essa riuscirà gradita al giusto orgoglio di un ministro
del regno d'Italia». La lettera reca un poscritto: « Sebbene tutto il capitale
della società sia sottoscritto, mi obbligo a cedere a favore dei Napoletani e dei
Siciliani ventimila azioni, purchè siano sottoscritte entro dieci giorni ». Da
notare che il domicilio provvisorio torinese è indicato nella casa di un deputato,
il Beltrami, che entrò poi a far parte del consiglio di amministrazione della
società ((Novacco, pag. 8).
In sostanza i milioni versati furono soltanto due e in titoli di rendita
probabilmente comprati a metà prezzo. Ciò nonostante l’aula di Palazzo
Madama, dove sedevano i yesman dell’organo legislativo, in preda a un moto
di legittimo e italico orgoglio, quasi scoppiò a quell’annuncio. Bastogi l’ebbe
vinta prima di combattere. Il parlamento deliberò la concessione scavalcando
persino il governo, che statutariamente era il solo a poterla proporre e
sottoscrivere. Mentre il popolo tricolore ancora applaudiva e piangeva di
commozione, si seppe che l’intrepido mazziniano aveva corrotto un consistente
numero di deputati[9]. Oggi, una cosa del genere è meno di un peccato
veniale. Ciò facilita gli storici nell’assolvere i patrii padri, fondatori di una
grande nazione (in cui, a tutt’oggi, 4 o 5 milioni di cosiddetti cittadini sono
senza lavoro). Chi si confuse, chi era un birichino! E poi, si sa, i soldi piacciono
a tutti. Ma quanto costò la birichinata? Chi pagò? Chi paga tuttora?
E’ anche da chiedersi: poteva, il Regno d’Italia, rinunziare a nuove linee
ferrovie? E’ convinta opinione di chi ha studiato a fondo il tema della
valorizzazione delle forze e dei mezzi della produzione nell’Italia unita – per
esempio Emilio Sereni - che quei soldi, investiti in altre attività, avrebbero
fruttificato molto di più. Sicuramente la rete ferroviaria imposta al Sud nella
prospettiva di un mercato nazionale diretto dai toscopadani, al Sud, non fece
che danni. Un esempio da manuale del colonialismo ferroviario nazionale è
dato dalla linea che da Brindisi porta in Francia, la quale fu realizzata subito
dopo l’apertura di Canale Suez, raccordando tronchi già esistenti, affinché la
Valigia delle Indie si avvalesse di un porto italiano, appunto Brindisi, che al
tempo dei Romani era stata la porta dell’Oriente. La linea non valse a tal fine;
servì invece a ché con il danaro facile offerto dalle banche genovesi, le ditte
liguri (spesso gli stessi banchieri) s’impossessassero dell’esportazione dell’olio
e del vino pugliesi verso la Francia. E non è proprio il caso di spiegare che,
vigendo un assetto capitalistico della produzione, il modo più efficace per
distruggere un paese consiste nell’annientare (o sottomettere, che è la stessa
cosa) i suoi capitalisti.
Invece le ferrovie meridionali servirono poco o niente ai bersaglieri, i quali,
per raggiungere i briganti napoletani e gli indocili palermitani, continuarono a
impiegare le navi di linea ex borboniche, che l’ammiraglio Persano aveva
lealmente acquistato a prezzo di svendita - pare solo per due milioni di lire,
tutto compreso, navi e ufficiali di vascello. Bisognerà attendere il 1893 e
l’insurrezione dei Fasci Siciliani perché i bersaglieri viaggino per ferrovia fino al
luogo della patriottica repressione.
8.5 A livello notarile, la Società italiana per le strade ferrate meridionali
“risale ad una convenzione stipulata il 25 agosto 1862 tra il governo italiano
ed il conte (chissà se anche lui, come Cavour, di antichissima ascendenza?
ndr) Pietro Bastogi ed approvata con regio decreto n. 804 del 28 agosto 1862.
Per essa vennero concessi al Bastogi la costruzione e l’esercizio delle seguenti
linee ferroviarie, per una lunghezza complessiva di Km. 1365:
1 una linea lungo il litorale adriatico da Ancona ad Otranto per Termoli,
Foggia, Barletta, Bari, Brindisi e Lecce, con una diramazione da Bari a
Taranto;
2 una linea da Foggia a Napoli per Ascoli, Eboli e Salerno;
3 una linea da Ceprano a Pescara per Sora, Celasco, Sulmona e Popoli;
4 una linea da Voghera a Brescia per Pavia e Cremona.
Il conte Bastogi si impegnò a costituire una società anonima,
denominata Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali e dotata di un
capitale di 100 milioni di lire, che avrebbe dovuto assumersi gli obblighi ed i
diritti contemplati nella convenzione. La società era autorizzata a procurarsi i
capitali occorrenti, per 1/3 sotto forma di azioni e per 2/3 in obbligazioni (Da
Pozzo e Felloni, pag. 361).
Il racconto dell’italico ri-risorgimento postunitario è esaltante. Secondo i
suoi bilanci, in trenta anni la Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali
produsse (comandò) lavoro per un valore di lire italiane 1.563.418.000,
pochissime delle quali andarono a qualche sterratore meridionale, perché
persino gli sterratori arrivarono dal Piemonte;
ricevette dallo Stato contributi a fondo perduto per 700.000.000 di lire
dell’epoca (pari a circa 5.600.000.000.000 di lire dell’anno 2000);
pagò dividendi per 109.031.000 ai risorgimentati toscopadani;
emise obbligazioni per un ammontare di 906.700.000 di lire dell’epoca;
obbligazioni che essendo collocate a un prezzo più basso del valore nominale
portarono all’introito di 447.300.000 di lire, lasciando subito in mano ai
sottoscrittori 459.400.000 di lire dell’epoca, più un interesse del tre per cento
annuo, che a causa del prezzo di collocamento parecchio inferire al valore
nominale, fu del sette per cento circa. Insomma una vera pacchia, per gli
speculatori francesi che, investendo oro, venivano remunerati in oro, e per gli
speculatori italiani che, investendo la carta di Bombrini, avevano in dono un
accresciuto potere di comandare lavoro. Ma la cosa da mettere fermamente in
risalto è che al Sud fu patriotticamente vietato di fare altrettanto.
Le Ferrovie Meridionali (absit iniuria verbis) furono l’atto di nascita del
capitalismo toscopdano, che prima dell’evento era un nulla impastato di niente,
o volendo essere pedestri, era indietro e non avanti all’altro capitalismo
peninsulare, quello napoletano.
Naturalmente le folli spese e i facili guadagni degli speculatori furono resi
possibili dal fatto che gli agricoltori pagavano le tasse allo Stato e che
controbilanciavano le spese fatte all’estero esportando una parte consistente
della loro produzione. Senza la qual cosa non sarebbe stato costruito neppure
un chilometro di ferrovia, anzi non sarebbe esistito Bastogi, e neppure
Bombrini.
Dal canto suo Pietro Bastogi, cedendo la concessione governativa (anzi
parlamentare) alla cosiddetta Società per le Ferrovie Meridionali, ebbe subito
17.500.000 di gratifica in azioni della stessa società. Fu anche fatto conte e
senatore dal re. Nazionalizzate le ferrovie nel 1906, la sua famiglia continuò ad
avere il protettorato sul Meridione attraverso la Società Meridionale di
Elettricità (SME). Non so dove si trovino i suoi discendenti al momento, ma
dovunque siano si abbiano i sensi della mia personale riconoscenza e la
gratitudine del popolo meridionale per l’opera di civilizzazione condotta dal loro
antenato e da loro stessi.
8.6 Per scienza e coscienza dei miei lettori fornisco qualche dato circa i
nomi dei meridionalisti ante litteram che sottoscrissero il famoso capitale
bastogino, costituito da 200.000 azioni da lire 500; in tutto lire 100.000.000
Credo che, trattandosi di patrioti che mettevano a rischio le loro sostanze, ogni
meridionale che si rispetti sentirà il dovere di incorniciare la pagina e di
attaccare il quadro alle pareti del suo salotto.
Patrioti da statua equestre
Patriota conte Pietro Bastogi, azioni 40.000.
Patrioti appiedati
Torino
Azioni: Cassa commercio e industria (Credito Mobiliare) azioni 20.000;
Ignazio Nobile de Weill Weiss, 20.000; Cavaliere Felice Genero, 4.000, Gustavo
Hagermann, 2.000; Cavaliere Federico Carmi, 2.000; Barone Raimondo
Franchetti, 500; Cassa commercio ed industria (Credito mobiliare), 3.500,
Fratelli Ceriana, 1.000; Vincenzo Denina, 1.000; Cavaliere Camillo Incisa, 500;
F. Berné e Comp., 500. Totale n.12 - Con un massimo di mille azioni: 3
Genova
Azioni: Cassa generale di Genova, 5.000, Cav. Felice Genero, 500; Fratelli
Leonino di David, 1.000; Barone Giuliano Cataldi, 250; Cavaliere Giuseppe
Pignone, 250; De La Rùe e Comp., 2.000; L. Gastaldi e Comp., 500;
Francesco Oneto, 500; Carlo De Fernex e Comp., 2.000; Maurizio Jung,
2.500; I. Tedeschi e Comp., 1.000; Solei Hebert, 250; D. Balduino fu
Sebastiano, 350; Cavaliere avvocato Tito Orsini, 250; Fratelli Cataldi, 250;
Amato Bompard, 400; P. Pastorino e Comp., 1.000; Firs e Comp., 500. Totale
18 – Con un massimo di mille azioni: 13
Milano
Azioni: Zaccaria Pisa, 6.000; G. A., Spagliardi e Comp., 6.000; Pietro
Carones, 1.500; Pio Cozzi e Comp., 1.000, Fratelli Brambilla, 500; Fratelli
Valtolina di G., 200; Giuseppe Finzi di A., 500; Marchese Gaetano Gropallo,
500; Weiss-Norsa e Comp., 3.000; S. Norsa, 500; Carli e Comp., 3.000;
Caccianino, 1.000; Giulio Bellinzaghi, 6.000; Noseda e Burocco, 4.000;
Cavaiani Orveto e Comp., 3.500; Brambilla e Comp., 3.500; G. Maffioretti e
Comp., 3.000; Utrich e Comp., 3.100; W. Warchex Garavaglis e Comp.,
3.200; Totale 19 - Con un massimo di mille azioni: 8
Livorno
Azioni: Luca Mimbelli, 2.000; Bondi e Soria, 1.000; E.E. Arbib e Comp.,
1.500; S. Salmon,, 1.200; David Valensin, 500; C. Binard, 500; G. M.
Maurogordato, 500; D. Allatini, 400; Gioachino Bastogi, 400; Angelo Uzielli,
300; I. Sonnino, 300; R. di A. Cassuto, 250; P. Racah e Comp., 250; S. Moro,
200; I. S. Friedmann, 200; Bondi e Soria, 3.500.
Totale 16 –Con un massimo di 1000 azioni: 11
Firenze
Azioni: Angelo Mortera, 500; G. Sacerdote, 500; Leopoldo Cempini, 1.000;
Elia Modigliani, 500; L. di S. Ambron, 500; A. di V. Modigliani, 600; Angelo
Qrvieto, 1.000; Angelo Qrvieto, 500; G. Haraneder, 500; Z. Della Ripa, 1.000;
Em. Pegna, 200; Alessandro Prato, 1.000; Giacomo Levi, 200; Angelo Levi,
300; Alberto Levi, 200; Jacob Castiglioni, 1.000; B. Philipson, 500; Anselmo
Vitta, 500; Barone Raimondo Franchetti, 1.000;
Totale 19 – Con un massimo di 1000 azioni : 19
Patrioti irregolari dispersi sul sacro territorio della Patria una
e indivisibile
Bologna: Fratelli Ballerini, 1.000;
Modena: Allegra e David Guastalla, 1.000;
Alessandria, Angelo Frascara, 1.000
Brescia: Fiers e Comp Gaetano Bonoris, di Brescia, 1.000
Mantova: Giac. D’Italia, di Mantova, 3.500;
Bergamo: Ingegnere G. Silvestri, di Bergamo.
Venezia: Jacob Levi e figli, 2.000
Totale azioni sottoscritte 200.000, capitale patriotticamente non interamente
versato.
(Fonte: Novacco, cit.) [10]
Non patrioti, alias marmaglia
L’Aquila 0, Teramo 0, Pescara 0, Chieti 0, Campobasso 0, Caserta 0,
Benevento 0, Napoli 0, Avellino 0, Salerno 0, Foggia 0, Bari 0, Taranto
0, Brindisi 0, Lecce 0, Potenza 0, Matera 0, Cosenza 0, Catanzaro 0,
Reggio 0, Trapani 0, Palermo 0, Messina 0, Agrigento 0, Caltanissetta
0, Enna 0, Catania 0, Ragusa 0, Siracusa 0.
Potremmo esercitarci con le consuete banalità, per esempio dire che
siamo di fronte a un paese diviso. E non solo tra ricchi e poveri, o tra arditi e
pavidi, ma essenzialmente tra Sud e Nord. Ma si tratta appunto di una
banalità. I patriottici sottoscrittori sono in tutto 97, diciamo cento in quanto tre
li abbiamo certamente perduti fra le carte. Solo due banche arrivano a
sottoscrivere 20.000 azioni, 10 milioni di lire, che riportati ai decimi
obbligatori, scendono a sei e a tre milioni. Siccome, poi, le banche
toscopadane non raccolgono depositi a risparmio (godono infatti di scarsissima
fiducia), i loro mezzi bancari non possono essere arrivati da altra fonte che
dalle banconote della Nazionale, sono, cioè, danaro inventato, emissioni senza
copertura, la specialità di Bombrini.
L’Italia secondo Carlo Cattaneo è il paese dalle cento città, eppure in
questo paese fortemente urbanizzato solo dodici città partecipano alla
generosa gara di costruire le patriottiche Ferrovie Meridionali. Di esse, ben
sette con un numero non superiore a un azionista. La gara di patriottismo si
restringe, pertanto, a cinque città. Come segue: Firenze = 19, Milano = 19,
Genova = 18, Livorno = 16, Torino = 12. Manca la città di Cavitigozzi.
Tuttavia anche in queste elette sedi di patrioti l’avarizia ha largo spazio.
Difatti gli azionisti che arrivano a rischiare solo lire 500.000 (cioè 150.000)
sono: !9 su 19 a Firenze, 13 su 18 a Genova, 11 su 16 a Livorno, 8 su 19 a
Milano, 3 su 12 a Torino. In sostanza a sottoscrivere le azioni delle Ferrovie
Meridionali sono gli agenti milanesi, torinesi e genovesi di banchieri di altri
paesi. I soldi degli italiani, che pure ci sono, non hanno il coraggio d’uscire allo
scoperto. Il Savoia va bene come gendarme, ma, quanto all’amministrazione
delegata dell’azienda Italia, forse è meglio non fidarsi. Di modo che è
presumibile che una buona metà dei cento azionisti abbia impegnato qualche
denaro per non scontentare un amico, così come si fa ancora oggi nei paesi,
quando un conoscente prende l’iniziativa di collocare una lapide a ricordo di un
poeta paesano defunto e dimenticato, sulla facciata della casa dove era
nato.
Ci resta Bastogi. Questi sottoscrisse per dieci milioni di lire. Eppure non
era la persona più ricca della Toscana. Il massimo sottoscrittore toscano
s’impegnò per un milione di lire. Tutti gli altri sottoscrissero cifre inferiori. E
facile arguire, quindi, che anche i tre milioni veramente sottoscritti da Bastogi
erano fumo cartaceo, probabilmente un prodotto della rinomata Tipografia
Bombrini & C. A fare i conti, nell’affare delle Meridionali, Pietro Bastogi, di suo,
non mise una sola lira. La mirabolante sottoscrizione di 20.000 azioni,
annunziata in parlamento, fu solo un bluf bombrinesco, in quanto le 20.000
azioni da lui sottoscritte furono coperte dal dono di 17.500 azioni che gli altri
soci, riconoscenti, gli fecero. In sostanza, queste, e le 2500 ancora mancanti,
furono messe in conto ai futuri (e immancabili) profitti. Cioè pagate con
l’argent des autres.
Neppure questo dice tutta la verità. In effetti il vero finanziatore
dell’operazione è l’oro francese, il quale, ovviamente, è ben determinato a
spremere profitti e rendite dalle popolazioni italiane, con la copertura dello
Stato-esercito e la senseria di un ristretto gruppo dei su mentovati patrioti, i
quali hanno frequentazione e dimestichezza con i settori della classe dirigente
francese. Commenta De Cecco (pag. 25): “Il tentativo di drenare risorse
finanziarie interne senza intermediazioni estere è allettante, ma anche chi,
come Bastogi, vorrebbe rivendicare a una leadership finanziaria italiana [leggi
padana, ndr] il compito di dirigere le operazioni del prestito del 1861 [recte:
1862, ndr], in realtà può solo riuscire a porsi alla testa di una cordata di
finanzieri stranieri alternativa ai Rothschild.” Siamo ancora nel quadro morale
inaugurato da Cavour, ma adesso, unificata l’Italia, la platea tributaria è cinque
o sei volte più vasta che ai suoi tempi, e più facile è adesso il credito, in quanto
coincide con un “periodo di boom finanziario internazionale” (De Cecco, pag.
22). Forse si potrebbe dire meglio: La speculazione internazionale, sentendosi
garantita da una popolazione contribuente di quasi 25 milioni di abitanti, non
disdegna l’Italia, portandovi, con i soldi, i sui intrighi, le sue alleanze, le sue
losche congiure.
In Italia, il risparmio non manca (idem, ???), ma i possidenti hanno ben
capito che il governo e la Banca Nazionale sono in mano agli speculatori,
cosicché sono restii a farsi scippare. Siccome, poi, i danari bisognava spenderli
all’estero per comprare i materiali, dietro il fumo dei sottoscrittori toscopadani
si disvela la presenza dell’oro straniero. Logicamente l’estero, una volta fatto il
lucro, rivuole il suo oro. Chi mai glielo dà? Non certo Bombrini. A pagare in oro
sono i prodotti dell’agricoltura italiana, con le tratte su Marsiglia e Lione.
L’iniziativa di Bastogi fu salutata in parlamento da grandi ovazioni
patriottiche. Ma è giusto chiedersi: allora, gli italiani del tempo erano proprio
fessi, o cosa? In effetti essi sapevano perfettamente che Bombrini, Bastogi e
l’intero gruppo dei banchieri nazionali lucravano delle consistenti tangenti
facendo da intermediari fra i grossi banchieri internazionali e lo Stato italiano.
Sapevano anche che il paese era caduto in mano a gente di pochi scrupoli, a
patrioti dei propri affari. Ma sapevano in primis che l’unità italiana era proprio
questo. Per quel tipo d’Italia essi avevano optato, in quanto gli si era fatto
credere che prima o poi i vantaggi si sarebbero estesi a tutti loro, persino ai
meno abili, ai meno inseriti nel giro, ai pigri sudditi dell’odiato borbone. Che
fosse la povera gente a dover a pagare, a loro non importava granché, anzi
era proprio quel che volevano. Lo spirito del capitalismo lascia fuori la porta
l’idea del pane altrui.
La parola ‘capitale’ ha un senso se viene esplicitato il contenuto reale,
umano che essa racchiude. Lo sappiamo già. Il capitale altro non è che il
potere di comandare lavoro; sia il lavoro vivo, attuale delle persone assunte
quali dipendenti, sia il lavoro morto, già incorporato in un prodotto, in una
macchina, in un attrezzo, in un impianto, in una materia prima, in un
semilavorato, nel combustibile, nell’elettricità, nei servizi che vengono assunti
nel corso della produzione o della commercializzazione. Il caso delle Ferrovie
Meridionali è paradigmatico del processo con cui l’affarismo
toscopadano formò il potere di comandare lavoro in tutta Italia. E
paradigmatico anche per il metodo con cui i possidenti meridionali
sono stati tagliati fuori dal processo di arricchimento; cioè di come la
forza lavoro del Sud (quando riesce a trovare occupazione) viene
comandata direttamente o indirettamente dagli eredi naturali e morali
dell’affarismo toscopadano.
Le Ferrovie Meridionali comandarono lavoro per lire 1.563.418.000,
dell’epoca. Affinché si arrivasse al prodotto finito, lo Stato dette contributi a
fondo perduto per settecento milioni, quasi la metà dell’investimento. Il lucro
disvelato a favore dei privati fu di 570 milioni, la parte del lucro che non
conosciamo dovette anch’essa essere consistente. La quota di Bastogi fu
certamente rilevante. Ma, in termini di ricchezza, questo conte Bastogi, chi era
prima?
Niente di romanzesco. Immaginiamo un ufficio composto da due magazzini,
al piano terreno di un palazzo, in una viuzza della vecchia Livorno. Dentro
operano due signori decentemente vestiti e un attempato contabile. Nella sala
più interna c’è una cassaforte murata. Si tratta di una casa di rilievo in città,
ma niente di simile al palazzo napoletano (oggi museo) in cui vive e svolge la
sua attività don Carlo Rothschild. Nel corso di una giornata lavorativa,
nell’ufficio entrano una decina di armatori e proprietari navali a pagare la rata
di un debito di 200 fiorini o a contrarre un prestito dei 50 fiorini occorrenti per
calafatare il bastimento. Il bilancio annuale della ditta chiude con un profitto
che, tradotto in moneta sabauda, non supera le 250.000 lire.
Bene! Uno dei due padroni diventa, a un certo punto, ministro delle finanze
di uno Stato popoloso e l’anno successivo investe 20 milioni di lire in una
grande società per azioni. Non ha rubato allo Stato né ad altri. Di suo ha in
tutto due milioni scarsi. Due milioni dell’epoca non sono una cifra irrisoria, ma
è difficile che diano un lucro di tre milioni per 30 anni di seguito.
Immaginiamo che Bastogi non superi in nessun momento dei 30 anni
successivi al 1862 la sesta parte del capitale e dei dividendi delle Ferrovie
Meridionali. In questi 30 anni, le Ferrovie danno un profitto totale di 560
milioni. Bastogi ne ottiene un sesto, cioè 93 milioni, in trent’anni che, ripartiti
su 30 anni, danno milioni di lire 3,1 all’anno. In sostanza il conte Bastogi,
senza mettere altro di suo che l’unità d’Italia, passa da titolare di 100 mila lire
di profitti annui a ben sei milioni.
Il capitalismo padano è nato così. Prima del luglio 1859 non c’era,
ma nell’agosto dello stesso anno era già grande e mangiava per
mille.
Oggi gli italiani viviamo in uno Stato ricco e potente. Quella fase della
storia nazionale fu un passaggio obbligato per pervenire alla presente, felice
condizione? Debbo dire francamente che se fossi nato a Milano o dintorni, la
risposta sarebbe sì. Una classe di onesti uomini di Stato avrebbe certamente
fatto pagare agli italiani dei costi meno esosi e avrebbe fatto scelte corrette in
vista dell’interesse generale, ma il cammino del capitalismo non conosce altro
percorso che quello di fabbricare i fabbricanti espropriando e saccheggiando le
popolazioni (metropolitane e coloniali) coinvolte. Le lacrime di chi cade per
strada ungono gli scalmi. Per altro, in un quadro mondiale in cui sedevano al
tavolo da gioco soltanto i paesi capitalisticamente attrezzati, qual era quello del
1860, la Toscopadana non aveva molte opzioni. Qualcuno doveva pur pagare.
Fra le occasioni profittevoli, ci fu quella di usare il Sud come una colonia
interna, allo stesso degli Stati Uniti, dove, proprio in quegli anni, gli States
atlantici del Nord piegavano il Sud, onde far pagare ai piantatori di cotone il
loro sviluppo industriale. Diversamente dall’aristocrazia sudista, la borghesia
terriera duosiciliana piegò la testa in forza della regola: primum vivere.
Stupidamente immaginò che il sistema padano non avrebbe toccato l’assetto
della rendita; che il vero nemico fossero i contadini e non i bersaglieri
intervenuti a difenderla.
E a proposito delle Ferrovie cosiddette Meridionali c’è una terza osservazione
da fare. Nel momento in cui il parlamento si irretire da Bombrini e soci, e dai
banchieri francesi che li hanno al soldo (Bouvier, passim), al Banco di Napoli
affluiscono quei depositi che alle banche toscopadane fanno completamente
difetto[11]. Tuttavia, per non avere concorrenti, il Banco di Napoli viene
obbligato a non creare moneta fiduciaria; una vera incongruenza se
consideriamo che si tratta dell’unica banca non sfiduciata dal pubblico, tanto è
vero che i suoi titoli fanno persino aggio sul coniato metallico. Sul capitolo di
questi soldi deve, patriotticamente, dominare una spessa nebbia. E’ tuttavia
un dato verificabile: a partire dal 1862 i depositi prendono a risalire e
superano già i cento milioni, per poi salire ancora. In sostanza, il padronato
meridionale ha i soldi per pagarsi il collegamento ferroviario con la fiera
capitale piemontese. Ciò è noto al re Savoia, a Rattazzi, presidente del
consiglio dei ministri, a Depretis, ministro dei lavori pubblici, all’ineffabile
risparmiatore di calamai, Quintino Sella, ministro delle finanze, e a chiunque
nella Toscopadana si interessi di cose economiche, oltre che, soprattutto al
prevaricatore Bombrini, che su quei soldi ha messo gli occhi, e da tempo.
Per ottenere in modo normale, coretto e al prezzo giusto il capitale
occorrente per costruire le ferrovie da Napoli a Bologna, e in appresso da
Napoli a Palermo e Agrigento[12], bastava che al Banco di Napoli fosse
accordata la facoltà di triplicare i depositi, come dire che gli fosse concesso di
emettere fedi di credito nel rapporto di uno (di riserva metallica) per tre di
titoli fiduciari, cioè lo stesso privilegio di cui godeva la Banca ex sarda. Per
giunta, a Napoli i capitalisti, tradizionalmente, avevano dimestichezza con la
figura della società per azioni e con le operazioni di borsa. Né mancavano gli
imprenditori facoltosissimi[13]. Per fare le ferrovie al Sud non era necessario
né era conveniente indebitarsi con i finanzieri francesi, tanto più che quel
debito – era chiaro a tutti i contemporanei, specialmente al Risparmiatore di
Calamai – sarebbe arrivato presto alla scadenza. Al primo stormire di crisi le
cambiali sarebbero state messe all’incasso, come avvenne in effetti dopo
appena tre anni, tra il 1865 e il 1866. L’oro c’era. D’altra parte i miliardi
necessari per costruire duemila chilometri di ferrovie in Sicilia e nel
Napoletano, non erano da spendere tutti in un giorno, ma in non meno di venti
anni. Come abbiamo visto, nelle Due Sicilie circolavano 500 milioni di moneta
argentea e aurea, che avrebbero sorretto anche più di altri 500 milioni di carta
fiduciaria. Ma Bombrini, l’oro di Napoli, lo voleva per sé.
Neppure accenno all’idea che il Sud avrebbe avuto il diritto di valorizzare i
surplus derivanti dalle sue esportazioni di olio, vino e agrumi; esportazioni di
cui il Nord utilizzava la corrispondente valuta per le sue importazioni di prodotti
metalmeccanici.
Viene il vomito a insistere su tali argomenti, tanto sono ovvi. Se si voleva
veramente unificare l’Italia, e non fondare una colonia, come in realtà
avvenne, la prima cosa da fare era spostare subito la capitale a mezza strada,
tra Ancona e Brindisi; cosa che oltre al resto avrebbe valorizzato il versante
adriatico e jonico, sacrificato dagli ex Stati nel corso delle secolare dipendenza
militare e commerciale dalla Spagna e dalla Francia[14].
Insomma, l’affare delle Ferrovie Meridionali portò alla luce il patto
municipalistico e antinazionale tra gli speculatori piemontesi, liguri, toscani e
lombardi avente per oggetto l’uso dell’Italia, fondata interamente a debito, per
farne un territorio di pascolo abusivo per i vecchi banchieri parigini e i parvenu
di casa. Il patto si consolidò nei decenni successivi con l’inclusione
dell’aristocrazia fondiaria laziale e delle eminenze romane, e si stabilizzò per il
tempo secolare attraverso il controllo della Banca d’Italia su ogni aspetto
dell’economia produttiva degli italiani. L’affare Meridionali ci aiuta anche a
capire quante melensaggini raccontino i libri scolastici quando ci
ammanniscono la bubbola di una patria comune. A un livello accademico si è
più prudenti. La bubbola si fa raffinata. Le popolazioni (i proletari) non
parteciparono al moto unitario. L’unità, si afferma, fu voluta dalla borghesia.
Anzi, secondo il credo crociano, il popolo neppure entrò nel conto[15].
Nicola Zitara
[1] La Guerra cosiddetta del Brigantaggio è considerata erroneamente una
guerra civile, se non del tutto un fenomeno banditesco; un’interpretazione,
quest’ultima, buffonescamente corrente fino a quando i vili Savoia non furono
detronizzati. Fu invece una guerra d’indipendenza nazionale, come in Irlanda,
in quanto non minacciò di disgregazione una formazione politica già compiuta,
ma fu la continuazione della guerra internazionale contro il Sud d’Italia
promossa dai toscopadani, che si sentivano intrappolati in più Stati, tutti di
dimensioni regionali, ed ebbe lo scopo di creare uno spazio vitale e una
soddisfacente platea fiscale ai tangentisti della Palude Padana e della Toscana.
La guerra contro i resistenti meridionali ebbe inizio nell’autunno del 1860,
subito dopo la conquista di Napoli e finì - ma solo in quanto guerra combattuta
con le armi - intorno al 1873/74, ben quattordici anni dopo la resa di Gaeta.
[2] Secondo Plebano (I, pag.76), a guerra finita l’ammontare degli interessi
era di 161.290.245 lire e il debito capitale di lire 3.103.150.
[3] Sotto la voce debito del tesoro si nasconde l’inconsistenza dell’istituzione
parlamentare, nata con lo scopo di mettere i ceppi al re e al suo governo, in
materia di maneggio delle entrate fiscali. In teoria, il tesoro statale s’indebita,
per qualche mese, non di più, come qualunque azienda, con la banca centrale
e/o con le banche commerciali per far fronte a bisogni temporanei di cassa,
che anche uno Stato ha. La banca centrale e/o le altre banche negoziano le
cartelle del tesoro, stampate in piccolo taglio, per esempio 1.000 lire, proprio
perché le banche possano commerciarle. Il fatto sembra una banalità, mentre
invece è una prova della slealtà dei governi nei confronti dei sudditi. Per
legge, i debiti di bilancio andrebbero contratti con una ‘legge’ e non atti
amministrativi.
[4] I Savoia costarono ai malcapitati italiani più di quanto costava la regina
Vittoria ai suoi sudditi, che poi erano distribuiti su un quinto dell’intera
superficie terrestre. Di idee molto più antiquate degli altri sovrani italiani, i
Savoia restarono legati alla politica espansionistica tipica della loro casata,
cosicché considerarono anche il nuovo regno più o meno come un feudo,
benché questo non fosse a loro pervenuto in base a vittorie militari (bugia
invereconda che ancora fa - libro di - testo nelle scuole), ma cavalcando
abilmente l’onda lunga del principio napoleonico di nazionalità. Sul futuro
dell’erario, certamente anch’essi si erano fatti la medesima illusione che si era
fatta, e in qualche caso continuava a farsi, la classe politica. E tuttavia, venuta
a galla la realtà di un paese piegato dal fisco, essi continuarono a scialacquare,
indifferenti al fatto che a pagare fossero i loro sudditi vecchi e nuovi.
[5] Solo per dare un'idea della grandezza, 125 milioni del 1861 acquistavano
circa 5 milioni di ettolitri di grano, pari a un ottavo di tutta la produzione
granaria nazionale in quegli anni.
[6] Intorno al tema del debito pubblico si ricorda quanto detto al paragrafo
3.7. Altri giudizi saranno espressi in appresso.
[7] A quel tempo, in Italia, le banche private difficilmente disponevano di un
capitale che superasse i due o tre milioni. Soltanto il Banco delle Due Sicilie
effettuava operazioni attive per un importo che si aggirava annualmente
intorno ai 30/35 milioni di ducati (circa 120/130 milioni di lire sabaude).
[8] Stano! Il Piemonte sabaudo accettò anche eredità negative che venivano
dallo Stato delle Due Sicilie. A prescindere dal debito pubblico, la cui non
accettazione per altro sconvolto il quadro neoborghese, liberale e sedicente
patriottico, mi vengono in mente gli impiegati statali e gli ufficiali della marina
e dell’esercito, che in fondo avrebbe potuto (e fatto bene a) mandare a casa.
Ma colonialisticamente non accettò i lasciti che risultavano favorevoli al
capitalismo meridionale e che, se lasciati a questo, sarebbero diventati una
acerba per il volpino affarismo toscopadano.
[9] La successiva vicenda parlamentare e giudiziaria non rientra nella trama
di questo lavoro (cfr. Novacco, pag. 3 e segg.).
[10] Osserva Domenico Novacco, autore del testo qui citato (pag. 4) e
incluso nel vol. 18 dell’opera sul parlamento curata da Rodolico: “Questo
elenco, per le ripetizioni dei nomi e per varie imprecisioni, costituisce un’utile
spia delle difficoltà incontrate dal Bastogi nel corso della sottoscrizione”.
Purtroppo nel paese in cui vivo non esiste ancora una via intitolata a Pietro
Bastogi, in modo che possa portare un fascio di fiori. Spero ardentemente che i
miei concittadini provvedano, come hanno sempre fatto per i grandi delle
guerre Risorgimentali, quelli con la Camicia Rossa, quelli con la Tuba, quelli
con la Sciabola dei Bersaglieri. Quelli senza camicia, no! Bisogna aggiungere
che in paese ci manca anche un monumento a Vittorio Emanuele a cavallo
collocato sulla piazza principale.
[11] “Notiamo che nel quadrimestre anteriore al maggio 1866 (quando fu
decretato il corso forzoso dei biglietti di Bombrini, ndr) i depositi del Banco di
Napoli non vennero diminuiti, ché anzi in questo stesso periodo di tempo il
Banco ne ricevette di nuovi” (Atti, I, pag. 41).
[12] Vale la pena di ricordare ancora una volta che il Sud aveva bisogno di
ferrovie da Mare a Mare, tra il Jonio e il Tirreno, invece che nella direzione di
Milano. Le ferrovie Sud-Nord servono al Nord e non al Sud.
[13] Basti pensare che, al tempo del governo borbonico, la sola ditta
Mericoffe pagava ogni anno non meno di 4 milioni (in lire sabaude) per dazi
alla frontiera e che il principe di Gerace vendeva olio per 2 milioni ad annata.
[14] Torino non era quella gran città che le successive generazioni
immaginano. Se proviamo a togliere dal conto la corte, la pubblica
amministrazione e l’esercito, a livello economico non era più di Bari, e forse
meno. Ma l’Austria, si dirà? La minaccia austriaca fu soltanto un alibi ben
confezionato da Cavour e dai suoi epigoni. L’Impero absburgico era piegato
economicamente e, sul piano militare, ormai incapace di reggere all’offensiva
militare francese (1859) o germanica (1866). E si dirà ancora: quando la
capitale fu portata al Roma la condizione del Sud peggiorò, anziché migliorare.
Certo. Ma quando i toscapadani arrivarono a Roma, il comando del paese era
già in mano agli intrallazzisti genovesi e toscani, che l’avevano largamente
devastato e portato a tale stato di degrado morale che l’intera Europa ne era
inorridita.
[15] Di parere opposto i sedicenti gramsciani postbellici, i quali si affannano
a elencare le volte in cui il popolo inalberò il tricolore. Fra i boli di un marxismo
mal digerito, emergono le opere di Rosario Villari.

 
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