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IL COLONIALISMO DAL 1870

COLONIALIASMO - IMPERIALISMO
 

 
Tra il 1870 e il 1914 si affermò tra le nazioni più progredite la spinta a colonizzare altri paesi. Non era certo una tendenza nuova nella storia: ricorderete infatti la creazione e la conquista di colonie, sia nell' antichità da parte di Fenici, Greci, Romani, sia nel Cinque-Seicento (da parte di Spagna, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Francia).

Possiamo distinguere le colonie che furono create nel corso dei secoli in due tipi. Da un lato le colonie di popolamento: territori dei quali gli europei si impossessavano per insediarvisi, per abitarvi stabilmente e in massa. In tal caso la popolazione esistente veniva combattuta, costretta a cedere le terre, talvolta sterminata.

Appartengono a questo tipo le colonie fondate nell'antichità da Fenici, Greci e Romani; le tredici colonie che poi costituirono il primo nucleo degli Stati Uniti; il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda. C'erano poi le colonie di sfruttamento: esse servivano non a dare casa, terra e possibilità di lavoro ai coloni, ma a rifornire la madrepatria di materie prime e ricchezze delle quali non disponeva. In questi casi la popolazione indigena non veniva scacciata dalle proprie terre, ma fatta lavorare a beneficio dei colonizzatori nelle piantagioni o nelle miniere. A loro volta, i colonizzatori erano relativamente poco numerosi e normalmente non svolgevano lavori manuali. Erano invece governatori, comandanti, ufficiali superiori, direttori, sorveglianti, amministratori, imprenditori, commercianti. Tali furono le colonie spagnole e portoghesi in America, quelle olandesi in Asia, quelle portoghesi in Africa. E furono di questo tipo la maggior parte delle colonie conquistate dai paesi europei nella seconda metà dell'Ottocento.

Colonialismo e imperialismo

La politica che mirava alla conquista di colonie è stata chiamata genericamente colonialismo. Nei secoli precedenti, la conquista e la colonizzazione erano state realizzate prevalentemente da avventurieri, come Cortes e Pizarro, o da gruppi di emigranti, come quelli che inizialmente popolarono l'America del Nord o l'Australia. Invece nella seconda metà dell'Ottocento la politica coloniale venne organizzata e condotta direttamente dagli Stati, che impegnavano le proprie truppe e i propri armamenti, o talvolta da grandi compagnie private, appoggiate dai governi: il colonialismo fu quindi un aspetto della politica estera e militare delle grandi potenze.

Tale politica fu definita anche imperialismo, perché il suo scopo era quello di costituire dei veri e propri imperi, anche economici, organizzati in modo che le colonie fornissero materie prime abbondanti e a basso costo alle industrie dello Stato dominante. Tali industrie, a loro volta, avrebbero potuto beneficiarne per mantenere basso il prezzo dei loro prodotti finiti e così diffonderli conquistando i mercati mondiali.

I TANTI PERCHE' DEL COLONIALlSMO

Quelle che abbiamo sopra descritto furono le vere ragioni di fondo, economiche e politiche, dell' espansione coloniale delle grandi potenze. Vi furono tuttavia anche altre motivazioni assai sentite dall' opinione pubblica. Certamente esse servirono spesso come propaganda, ma molta gente comune vi credette con sincerità e anche molti governanti e politici le tennero in considerazione, quanto meno per aumentare la propria popolarità.

Uno di questi motivi fu sicuramente il prestigio nazionale. Si riteneva comunemente, infatti, che una grande potenza non fosse tale se non affermava la propria superiorità attraverso la creazione di un impero coloniale.

Un altro motivo fu legato a una concezione per metà umanitaria e per metà razzista che sottolineava come il compito dell'uomo bianco, superiore e più evoluto, fosse quello di civilizzare le altre popolazioni.

Sicuramente quest' idea fu un' eccellente arma di propaganda, ma va detto che chi la condivideva, anche in buona fede, commetteva un grave errore di presunzione e si rivelava incapace di comprendere una verità che per noi oggi è scontata: che cioè possono esistere al mondo differenti modi di vivere, di pensare e di organizzarsi.

Bisogna però anche aggiungere che molti seguirono con sincera convinzione questo orientamento, spesso a prezzo di duri sacrifici, talvolta anche perdendo la vita. Legata all' ispirazione umanitaria fu in particolare la vasta presenza dei missionari, dei medici, degli esploratori nel continente africano.

 Esplorazioni geografiche

Collegato all' espansione coloniale fu il fenomeno delle esplorazioni geografiche. Durante l'Ottocento molti viaggiatori ed esploratori, spinti dal desiderio di allargare le proprie conoscenze, si inoltrarono nel continente meno conosciuto: l'Africa.

Alcuni di costoro andarono in cerca di fortuna e si arricchirono immensamente, come Cecil Rhodes (il fondatore dello Stato minerario della Rhodesia, oggi Zimbabwe). i Molti furono animati da genuino interesse scientifico; a volte le stesse persone furono contemporaneamente geografi e missionari.

Fra gli esploratori più noti possiamo ricordare il missionario inglese David Livingstone e il giornalista Henry M. Stanley, che contribuirono a delineare le prime carte geografiche del continente africano.

Fra gli Italiani ricordiamo Pietro Savorgnan di Brazzà, che legò il suo nome alla città di Brazzaville, nel Congo, e il missionario Guglielmo Massaia, che esplorò l'Abissinia.

Impero Britannico

La prima vera e propria politica imperiale e coloniale ottocentesca fu attuata dall' Inghil terra.

L'impero britannico impose alle colonie l'uso della propria lingua e un sistema di governo che si basava su funzionari inglesi efficienti e ben pagati, sull' organizzazione militare della Royal Navy, la marina da guerra di gran lunga più potente dell'epoca, e su un esercito poco numeroso, ma ben equipaggiato. L'impero britannico si estese nell'Ottocento su circa 33 milioni di chilometri quadrati ed ebbe il controllo di 450 milioni di abitanti.

Alle colonie più antiche (Canada, Australia, Nuova Zelanda) fu riservato un trattamento di particolare favore: ottennero infatti una larga autonomia politica ed economica per tutti gli affari interni e i loro abitanti furono riconosciuti come cittadini dell'impero britannico con diritti pari agli Inglesi.

Nel corso dell'Ottocento la politica coloniale inglese si indirizzò soprattutto, ma non esclusivamente, verso l'Africa. Qui l'Inghilterra voleva assicurarsi sia i rifornimenti di materie prime sia soprattutto il controllo su alcuni punti strategici per il commercio inglese. Nel 1882 occupò l'Egitto, importante per controllare il canale di Suez. Seguirono le colonie create nel Sudan, in Nigeria, nel Kenya, in Rhodesia, nella Costa d'Oro e nel Sudafrica. Quest'ultima fu sottratta con una sanguinosa guerra a coloni di origine olandese (i Boeri).

LA COLONIZZAZIONE DELL' AFRICA

Sul finire del secolo, tutta l'Europa, e non solo l'Inghilterra, partecipò alla conquista di colonie africane. Il Belgio ebbe il Congo, ricchissimo di miniere di rame e lo sottopose a un durissimo e rapace sfruttamento. La Francia, che possedeva l'Algeria dal 1830, occupò la Tunisia, il Ciad, il Dahomey (oggi Benin), la Mauritania. Anche la Germania intervenne occupando il Toga, il Camerun e l'attuale Namibia. Restarono indipendenti in Africa solo l'E tiopia e la Liberia, un piccolo Stato creato appositamente per dare una patria a ex schiavi provenienti dagli Stati Uniti.

 India e Cina

Nei confronti delle due maggiori nazioni asiatiche, India e Cina, l'imperialismo britannico ebbe manifestazioni differenti. L'India entrò a far parte dell'impero britannico nel 1876 quando la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie. A governare quell' enorme territorio fu inviato un alto funzionario, che ebbe il titolo di viceré. Il dominio inglese sull'India ebbe due fasi. Dapprima fu soltanto un duro sfruttamento: ad esempio, la fiorente manifattura indiana che produceva tessuti di cotone venne completamente rovinata dalla concorrenza di quella inglese. Successivamente, dopo alcune ribellioni, l'Inghilterra modificò il proprio modo di governare l'India, impegnandosi anche a modernizzare la sua economia e a creare una classe media di funzionari indiani istruiti e ben addestrati che collaborassero nell' amministrazione del paese.

Si può sostenere che quella degli Inglesi in India fosse una politica coloniale più intelligente e di larghe vedute rispetto a quelle generalmente in uso nell'Ottocento, ma comunque essa mirò soprattutto a mantenere il controllo di quel vastissimo dominio. Tuttavia il governo britannico realizzò oltre 50.000 km di ferrovie, 60.000 km di strade la costruzione di scuole, ospedali, ponti, dighe, e grandi bonifiche agricole. E non soltanto sorsero grandi piantagioni per produrre materie prime, ma vennero anche create numerose industrie locali per trasformarle in prodotti finiti. Il volto più brutale e aggressivo dell'imperialismo fu invece quello che la stessa Inghilterra mostrò nei confronti della Cina, costretta, dopo una vera e propria guerra, ad accettare l'infame commercio dell'oppio, una droga dagli effetti assai dannosi sull'organismo umano. Tale droga veniva importata in Cina, in grandi quantità, proprio da mercanti inglesi che la scambiavano con prodotti cinesi. Essa produsse in pochi anni conseguenze catastrofiche sulla popolazione. Ma alle proteste e alle resistenze del governo cinese l'Inghilterra rispose con una guerra che durò tre anni, dal 1839 al 1842 e fu chiamata appunto guerra dell'oppio. La sconfitta della Cina portò alI'insediamento inglese a Hong Kong e a una lunga serie di trattati commerciali ingiusti, vantaggiosi solo per gli occidentali e imposti con la forza. Il grande, antico e civilissimo impero cinese divenne un semplice mercato per la vendita dei prodotti occidentali. Le grandi potenze non fecero della Cina una colonia vera e propria, ma divisero il suo territorio in varie zone, ciascuna sotto l'influenza di un paese europeo, che usava i suoi porti per commerciare con l'interno.
Su questo conflitto si è spesso sorvolato in Occidente, o addirittura si è favorita un'interpretazione esattamente opposta alla realtà, lasciando credere che siano stati gli europei a cercare di stroncare con le armi il commercio dell'oppio praticato dai "cattivi" orientali. La verità è che nel 1840, con l'appoggio delle altre potenze capitalistiche, fu la Gran Bretagna a scatenare una guerra di aggressione contro la Cina feudale, proprio per poter continuare a gestire il traffico dello stupefacente. Nell'VIII secolo l'oppio venne introdotto in Cina dagli arabi e usato come farmaco; intorno al XVI secolo si scoprì che l'oppio poteva essere fumato e dopo la conquista dell'India la Gran Bretagna conferì il diritto esclusivo del commercio dell'oppio alla Compagnia delle Indie, che governava la regione, iniziando a venderlo in gran quantità alla Cina in cambio di tè e seta grezza e ricavando enormi profitti da questo commercio triangolare. Negli anni precedenti alla Guerra dell'oppio, la Gran Bretagna contrabbandò in Cina più di 400 mila casse di oppio, ricavandone 300-400 milioni di talleri d'argento; in Cina i consumatori di oppio aumentavano sempre più e nel 1838 superavano già i 2 milioni. Di fronte a questa situazione, il governo non potè che considerare l'adozione di contromisure e l'imperatore Dao Guang della dinastia Ch'ing inivò un proprio plenipotenziario, Lin Zexu, nella provincia del Guangdong per stroncare il traffico: questi ordinò ai commercianti stranieri di consegnare entro tre giorni tutto il loro oppio e quindi decise di distruggere tutte le 20 mila casse confiscate. A fronte di questa nuova situazione la borghesia britannica e in particolare le lobbies legate al commercio dell'oppio invocarono immediatamente la guerra e il governo decise di inviare delle truppe: nel giugno 1840 una quarantina di navi da guerra con a bordo più di 4 mila militari raggiunsero il Mare cinese meridionale e bloccarono la foce del Fiume delle Perle; nei mesi successivi le forze britanniche occuparono varie città costiere, avvicinandosi a Pechino. A causa dell'incompetenza del governo Ch'ing, lo scontro si concluse con la sconfitta cinese: Cina e Gran Bretagna firmarono il Trattato di Nanchino, il primo dei trattati ineguali (cioè favorevoli solo a una delle due parti, quella occidentale) nella storia contemporanea della Cina. In virtù di questo accordo la Gran Bretagna ottenne numerosi privilegi, e in primo luogo acquisì Hong Kong, un dominio coloniale che si rivelò prezioso e fu anche utilizzato come base di aggressione contro la Cina. La Guerra dell'oppio, dunque, è stata l'inizio del violento impatto della civiltà occidentale con quella orientale e sancì la posizione dominante del capitalismo: l'Oriente fu ridotto a "magazzino" di materie prime e a mercato dei prodotti occidentali. Il colonialismo occidentale si consolidò in tutta l'Asia e tutta la storia recente è ancora fortemente condizionata dal particolare tipo di sviluppo imposto dal capitalismo a questi paesi.

Giappone

Proprio durante la lunga crisi cinese si verificò l'ascesa di una nuova nazione orientale: l'impero del Giappone. Vissuto a lungo isolato, il Giappone aveva visto nel 1853 l'arrivo nel suo arcipelago di una flotta americana. Essa aveva imposto al paese l'apertura dei suoi porti agli stranieri e una serie di trattati commerciali ingiusti, a tutto vantaggio degli Stati Uniti. Il Giappone comprese allora che per resistere all' aggressione occidentale avrebbe dovuto modernizzare il proprio sistema politico e la propria economIa.

Dapprima l'imperatore Mitsuhito restaurò l'autorità imperiale, combattendo il potente gruppo dei samurai, nobili guerrieri simili a feudatari, che per secoli avevano tenuto gran parte del potere.

Quindi il Giappone iniziò a industrializzarsi. Delegazioni giapponesi presero a frequentare regolarmente i maggiori paesi europei, studiandone l'industria, i trasporti, i cantieri navali, le tecniche agricole.

Il paese aveva una fiorente agricoltura, e, grazie alle sue forti esportazioni, soprattutto di seta, riuscì a pagare gli acquisti di macchinari per l'industria.

Privo di risorse naturali e di giacimenti minerari, il Giappone divenne un paese industriale sfruttando la laboriosità e le capacità dei suoi abitanti e i bassissimi salari di cui si accontentavano. Le materie prime necessarie venivano importate, lavorate e trasformate poi in prodotti finiti.

Il Giappone puntò a costituire il proprio impero nell' area asiatica. Occupò militarmente la Corea e l'isola di Formosa, penetrò in Manciuria, impose i propri prodotti in molte regioni cinesi. Poi si trovò di fronte la Russia.

 Russia

Nel corso dell'Ottocento la Russia aveva iniziato una lenta politica di espansione, che l'aveva portata progressivamente verso sud e verso est. A sud, dopo la guerra di Crimea, si era saldamente installata sul mar Nero, contrastando la potenza turca e l'influenza austriaca nei Balcani. La maggiore espansione della Russia era però avvenuta verso Oriente, con la colonizzazione della Siberia e l'occupazione di territori di confine con la Mongolia e la Manciuria. Il maggior porto russo orientale, Vladivostok, fu costruito ai confini della Corea e proprio davanti al Giappone.

Nei primi anni del Novecento la Russia e il Giappone si fronteggiarono: ambedue gli Stati erano interessati ad allargarsi in Corea e in Manciuria. Nel 1904-1905 si arrivò alla guerra russo-giapponese.

La Russia era una grande potenza militare di terra, molto più debole sul mare. Al contrario il Giappone disponeva di una flotta moderna e ben organizzata. Lo scontro decisivo avvenne in effetti sul mare, presso l'isola di Tsushima, dove la flotta russa fu duramente sconfitta.

Con la vittoria così riportata il Giappone si collocò tra le grandi potenze del tempo e iniziò la sua penetrazione verso la Cina, allargando la sua sfera d'influenza all'intero Sud-Est asiatico.

 L'imperialismo americano

La corsa verso la conquista dei mercati mondiali vide anche la partecipazione degli Stati Uniti d'America, divenuti ormai una grande potenza economica e militare. Nel 1898, in seguito alla guerra contro la Spagna, gli Stati Uniti occuparono Cuba, Portorico e le Filippine. Cuba e le Filippine ebbero dei governi autonomi, ma restarono sotto l'influenza americana.

L'imperialismo americano tuttavia non si indirizzò, alla conquista di terre, ma al controllo di alcuni punti chiave per il commercio internazionale. Fu sotto il controllo statunitense (1903) il canale di Panama, che collegava il Pacifico e l'Atlantico evitando la lunga circumnavigazione dell' America meridionale.

Inoltre furono acquisite le Hawaii, e numerose isole del Pacifico e dell' oceano Indiano. Infine caddero sotto il controllo degli USA paesi del Centro America come Haiti e Honduras. Un'altra importante strada per assicurare la penetrazione economica americana fu quella dei trattati commerciali. Gli Stati Uniti infatti ottennero, spesso con la minaccia di interventi militari, degli accordi di commercio che avvantaggiavano i loro prodotti rispetto a quelli inglesi o tedeschi. Tale politica assicurò una larghissima diffusione dei prodotti dell'industria americana, tanto che gli Stati Uniti divennero all'inizio del Novecento la maggior potenza economica del mondo, superando l'Inghilterra.

 
La colonizzazione italiana:

Dopo aver conseguito l'unità, anche l'Italia, come altre grandi Potenze europee, cercò di  conquistare possedimenti coloniali fuori d'Europa, sia per dirigere in territori di sua appartenenza la popolazione esuberante, che già si avviava all'emigrazione transoceanica, sia per aprire nuovi sbocchi al suo commercio. Le pressioni dell'industria armatoriale, cantieristica, siderurgica che non trovavano in patria sufficienti occasioni di profitto non erano estranee a queste sollecitazioni imperialistiche. Del resto le altre potenze avevano già iniziato da anni a formare i loro imperi coloniali, e negli ultimi tempi queste mire si stavano estendendo a dismisura.
Infatti in questo ventennio di fine del secolo le grandi potenze avevano iniziato a spartirsi il mondo; una vera e propria era imperialistica. Chi per procurarsi materie prime, chi per estendere i suoi commerci, chi per piazzare nelle esportazioni il surplus della produzione in patria, e chi per accaparrarsi le grandi miniere di oro o di diamanti. A dominare nelle conquiste coloniali ovviamente l'Inghilterra, che già da un centinaio di anni (tra la fine del Settecento e la prima metà del XIX secolo) l'occupazione delle terre era stata la sua vocazione. In questo 1882 ai suoi 244.000 kmq dell'isola, gli inglesi avevano già aggiunto e "conquistato" 22.000.000 di territori sparsi nei cinque continenti. Così la regina Vittoria divenne anch'essa imperatrice. Questa situazione fino al 1884. Dopo la Conferenza Internazionale di Berlino le potenze in tacito accordo pianificarono la spartizione dell'Africa intera e tutto quanto non era stato ancora conquistato. Inghilterra, Germania, Belgio, Olanda, Russia, Stati Uniti, Italia e Francia iniziarono la "gara" con ogni mezzo, in ogni luogo e in varie forme. Una intesa diplomatica c'era inizialmente, ed erano impegni di non darsi fastidio in questa espansione coloniale. Ma poi alcune nazioni iniziarono a ignorare le mire di altre.
La Francia fu una temibile concorrente per tutti. Ma soprattutto dell'Italia che fino al 1882 non aveva nulla. I Francesi invece erano sbarcati già nel 1830 in Algeria, ma prima ancora della Conferenza di Berlino (nel 1881) iniziarono a penetrare in Tunisia. Un territorio che ambiva l'Italia, per motivi storici ma anche perchè era di fronte alla vicina Sicilia. C'erano stati a Berlino degli accordi Francia-Italia, ma poi i Francesi non li rispettarono. Oltre che la Tunisia, proseguirono nelle conquiste africane ed estesero la loro influenza in Marocco, Senegal, Congo francese, Ciad, Madagascar, buona parte del Sahara, e sul Corno d'Africa (Gibuti). Nel 1914 la Francia poteva già contare su una superficie di oltre 10.000.000 di kmq di possedimenti. (30 volte l'Italia). Tralasciamo Belgio, Olanda, Russia e Stati Uniti, e soffermiamoci in Italia che si buttò nell'avventura colonialistica senza avere nè i mezzi logistici, nè il potenziale economico e tanto meno abili statisti. Le sollecitazioni vennero dai nuovi governi della Sinistra (Crispi) e soprattutto dettate da questioni di prestigio. Fin dal 1869 la Compagnia di navigazione genovese Rubattino aveva occupato la Baia di Assab sulla costa occidentale del Mar Rosso, per crearvi un deposito di carbone. In quell'epoca, arditi esploratori italiani, sostenendo fatiche e patimenti d'ogni sorta, superando difficoltà inaudite, penetravano nel cuore dell'Africa, ne percorrevano i deserti interminabili, attraversavano le foreste, seguivano il corso dei fiumi, si internavano tra i monti, svelavano i segreti di quel continente in gran parte sconosciuto.
La conoscenza della Somalia fu opera di LUIGI ROBECCHI BRICCHETTI, di ANTONIO CECCHI e specialmente di VITTORIO BOTTEGO, il quale in due viaggi (1892-93 e 1895-97) scoprì le sorgenti del fiume Giuba e determinò il corso dell'Omo-Bottego, immissario del lago Rodolfo. Alle esplorazioni tennero dietro occupazioni di piccoli territori. Ma Francia e Inghilterra allarmate di così tanto dinamismo, si affrettarono a occupare le regioni più ricche; e anche la Germania si fece avanti arditamente. Nel 1882 il governo italiano impossibilitato a fare una vera e propria spedizione coloniale offensiva, ebbe una singolare idea: comprò la Baia di Assab dalla Compagnia Rubattino. Messa così una base, che diventò ben presto con l'invio di alcune migliaia di soldati una testa di ponte, nel 1884 occupò la città di Massaua, anch'essa sul Mar Rosso, con lo scopo di farne un porto commerciale delle regioni retrostanti. Di qui poi l'Italia avanzò verso l'interno, per occupare la parte settentrionale dell'Altipiano Etiopico. L'avanzata e poi l'insediamento fu ostacolato dal Negus Giovanni II, sovrano dell'Etiopia (dagli italiani battezzata Abissinia). A Dogali 500 soldati italiani, comandati dal colonnello DE CRISTOFORIS, furono assaliti da orde innumerevoli di Abissini, e dopo due ore di accanito combattimento caddero, bagnando col loro sangue il suolo della prima colonia africana dell'Italia (26 gennaio 1887). Un'altra spedizione ristabilì senza molte difficoltà il prestigio italiano e tenne più in rispetto i nemici. Poco dopo il Negus morì; FRANCESCO CRISPI capo del governo italiano, fece subito con MENELIK, re dello Scioia, un patto e lo aiutò a diventare Negus dell'Abissinia (1889). Nello stesso anno con il Trattato di Uccialli, Menelik dopo l'aiuto di Crispi- ovviamente riconosceva il protettorato italiano sull'Abissinia. I possedimenti furono allora riuniti sotto il nome di COLONIA ERITREA (1890). Alcuni anni dopo - nel '95, dopo che l'Italia si era spinta a occupare anche il Tigreè - Menelik rinnegò le sue promesse, e provocò una guerra che, dopo varie vicende, terminò con la sfortunata battaglia di ADUA (1 marzo 1896). I soldati italiani vi combatterono con valore, ma il loro capo, ORESTE BARATIERI, non seppe guidarli alla vittoria; e l'Abissinia si sottrasse al protettorato italiano. I confini fra Colonia Eritrea e l'Abissinia rimasero fissati dal fiume Mareb, dal suo affluente Belesa e dal torrente Muna. Frattanto fin dal 1890, in seguito ad accordi con il sultano di Zanzibar, con l'Inghilterra e con la Germania, l'Italia aveva acquistato il possesso della Somalia, dal capo Guardafui alla foce del Giuba. Nei primi anni la Somalia, fu amministrata dalla Società del Benedir; nel 1908 passò alla dipendenza del governo. Per lungo tempo, soltanto la zona meridionale, o Benedir (capitale Mogadiscio), fu dominio diretto; la zona settentrionale comprendeva tre protettorati: il Sultanato di Obbia; il territorio di Nogal; il Sultanato dei Migiurtini: tutti e tre amministrati da un commissario residente a Benedir Alula. Il Governo Nazionale fascista abolì i protettorati e ridusse tutto il territorio a dominio diretto. La Colonia Somalia si ingrandì poi con l'Oltregiuba, zona a ovest del fiume Giuba, ceduta dall'Inghilterra all'Italia, in esecuzione dei patti fatti per la guerra europea. Un altro problema s'impose poi all'Italia: Lo scoppio della Guerra Mondiale andò a sconvolgere non solo tutti gli stati europei ma anche tutte le colonie. A spartirsi quelle tedesche le ingorde Francia e Inghilterra. Dal modo come, e per volontà di Mussolini nel 1935-1936 fu poi riconquistato all'Italia l'Impero Etiopico.
Fu la "grande realizzazione" del regime fascista. Mussolini fin dall'inizio del suo governo lo aveva promesso all'Italia. Pur vittoriosa nella Grande Guerra, gli era stata nella pace sottratta i suoi diritti. I suoi alleati, già ricchi di pingue colonie, si erano spartiti i possedimenti tedeschi, cedendo all'Italia soltanto alcuni tratti desertici, senza valore. Ciò accadde per la debolezza degli uomini che allora reggevano i destini dell'Italia, e che non seppero far rispettare i diritti conquistati a prezzo di tante sangue. Mussolini su questa indignazione iniziò a costruire la sua fortuna e salito al potere, si propose di educare e preparare il popolo italiano alla giusta rivincita che - inutile aggiungere - tutti volevano; anche se molti italiani pensavano ancora che le colonie fossero politicamente un ingombro, economicamente una passività, perchè chiusi nel fiacco egoismo di una politica casalinga, desiderosi soltanto di pace a qualsiasi prezzo. Ignorando però che gli altri non pensavano le stesse cose, ma continuarono a spadroneggiare con ulteriore colonialismo, ulteriori annessioni, usando la forza, giustificandola come "sicurezza delle nazioni". Implicitamente affermavano che "unicamente con la forza che i popoli - se sanno osare e combattere- si fanno grandi". Nacque così - in 14 anni di regime- quello "spirito coloniale nel Popolo italiano e la volontà di potenza" dei suoi governanti: del Re, di Mussolini, dei Militari di carriera, di una miriade di gerarchi in cerca di facile gloria, di fortuna, di prebende, di rendite o di semplici medaglie da mettersi sul petto da sfoggiare nelle adunate. Nè mancarono gli industriali e le banche con i lucrosi affari, sia della guerra che delle opere pubbliche da realizzare sul nuovo territorio. La grande avventura africana iniziò nel 1935. L'Impero Etiopico, confinante con le colonie dell'Eritrea e della Somalia molestava i possedimenti italiani con frequenti razzie e con atti di ostilità. (Questo era quanto riportavano i giornali). Un incidente più grave del solito (ma alcuni storici riferiscono pretestuoso) fece "traboccare la bilancia". L'Italia chiese soddisfazione dei danni morali e materiali subìti per opera degli Abissini cui il Negus non era in condizione di soddisfare. Fu dunque ritenuto "giusto" e "necessario" e "sacrosanto"... "nell'ora solenne", ricorrere alle armi (3 Ottobre 1935) nonostante l'ostilità dichiarata della Società delle Nazioni, che offrendo una ambigua solidarietà al Negus, bandì contro l'Italia il blocco economico con le (blande) Sanzioni. Dopo tante crisi militari (esonero De Bono) e dopo un attacco giudicato immorale (l'uso dei gas iprite) il 5 maggio del 1936 il corpo italiano di spedizione guidato da Badoglio (quasi in gara con Graziani nell'arrivare primo) entrava ad Addis Abeba, la capitale dell'Ex Impero Scioiano. Il 9 maggio dal balcone del Palazzo Venezia, Mussolini annunciava al popolo italiano che i territori ( 1.149.000 kmq) e le genti (8 milioni di abitanti) già appartenenti all'Impero Etiopico venivano posti sotto la sovranità piena ed intera del Re d'Italia, il quale assumeva anche il titolo di Imperatore.

 

Il colonialismo nell’Italia post-unitaria (tratto dal sito www.sissco.it);

La Società geografica italiana e le origini dell’espansione in Etiopia (1867-1883).
All’origine della presente tesi di dottorato si pone il tema estremamente vasto e in
buon parte ancora inesplorato, delle origini dell’espansione coloniale italiana, delle
sue peculiarità, e del peso che i singoli fattori economici, socio-culturali e politici
hanno avuto nel determinarne la genesi.
Tenendo presente tale questione storiografica, nel corso della fase
preliminare di preparazione del progetto di ricerca, si è proceduto all’elaborazione di
una prima indagine relativa al “partito” coloniale, intendendo con ciò l’insieme degli
ambienti, delle associazioni e delle personalità che già a partire dalla fine degli anni
sessanta dell’Ottocento, cominciarono ad elaborare dei “discorsi” coloniali e a
proporre le prime direttrici d’espansione.
Quindi si è deciso di concentrare l’attenzione sul ruolo svolto dalle società
geografiche e di esplorazione commerciale nel promuovere l’espansione coloniale
italiana. Questi organismi si costituirono in Italia nell’arco di un quindicennio, a
partire dalla fine degli anni sessanta: nel 1867 fu fondata a Firenze la Società
geografica italiana, nel 1879 si costituì a Milano la Società di esplorazione
commerciale in Africa, e nel 1880 nacque a Napoli il Club africano, che due anni più
tardi assunse la denominazione di Società africana d’Italia.
Sorsero in una fase storica in cui l’impegno della classe dirigente, sia in
politica interna che in politica estera, era principalmente rivolto alla risoluzione dei
problemi legati all’edificazione e al consolidamento dello stato nazionale, e la
questione coloniale non trovava spazio nel discorso politico ufficiale. Fu proprio
all’interno di queste società che cominciarono a maturare le prime propensioni
coloniali. La loro nascita segnò il passaggio dai primi tentativi di esplorazione
condotti per iniziativa di singoli missionari e/o viaggiatori, a spedizioni meglio
organizzate, propagandate e finanziate. La loro funzione di “avanguardia” coloniale
si attuò soprattutto attraverso l’organizzazione di spedizioni che, soprattutto nel caso
della Società geografica italiana, pur essendo ufficialmente proposte sulla base di
interessi scientifici, erano spesso caratterizzate da una piattaforma coloniale, ed
erano finalizzate a fornire ad una classe dirigente ancora priva di un programma di
politica coloniale, i vettori di una eventuale espansione oltremare.
Una volta compiuta una prima ricognizione delle attività e delle iniziative
che le società in questione intrapresero in una direzione espansionista, è stato scelto
l’oggetto della tesi, ovvero il ruolo svolto dalla Società geografica italiana nel
promuovere l’espansione coloniale del nuovo stato unitario, a partire dal periodo
immediatamente post-unitario.
In Italia gli studi sul “partito coloniale” sono stati a lungo trascurati, e i
caratteri del nascente movimento coloniale italiano per molto tempo non sono stati
oggetto di un’analisi storiografica accurata. Tale ritardo è senza dubbio implicabile
alle vicende particolari che hanno caratterizzato la storia della storiografia sul
colonialismo italiano.
Le conseguenze che l’orientamento ideologico imposto dal regime fascista
ha continuato ad avere in tale ambito storiografico ancora nei primi decenni
dell’Italia repubblicana hanno infatti notevolmente rallentato la formazione di un
approccio critico negli studi. Come è noto, gli studi prodotti in epoca fascista erano
caratterizzati dalla coesistenza di requisiti di scientificità e di elementi
propagandistici ed agiografici, ed erano articolati per lo più sulla base di un impianto
nazionalistico, nell’ambito di un quadro di adesione ai programmi espansionistici
del regime. Tali elementi sono facilmente individuabili negli scritti di Raffaele
Ciasca, autore della principale opera d’insieme sul colonialismo italiano prodotta in
epoca fascista (Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea. Da Assab
all’Impero, 1938).
Dopo la seconda guerra mondiale la storiografia “coloniale” ha subito un
ridimensionamento, ma non è stata affatto avviata una revisione critica della storia
del colonialismo italiano, e gli studiosi formatisi durante il fascismo hanno
conservato il monopolio quasi esclusivo degli strumenti di ricerca del settore,
affermando in questo ambito storiografico quella continuità tra fascismo e Italia
repubblicana che è stata per anni denunciata negli interventi e negli scritti di Giorgio
Rochat, Angelo Del Boca e Romain H. Rainero (Rochat, Colonialismo, in Storia
d’Italia. Il Mondo contemporaneo, 1978; Rainero, Colonialismo e imperialismo
italiano nella storiografia italiana del secondo dopoguerra, in Rainero (a cura di),
L’Italia unita. problemi ed interpretazioni storiografiche, 1981; Rochat in Gli studi
africanisti in Italia dagli anni sessanta a oggi. Atti del convegno di Roma, Roma,
Istituto Italo-africano, 1986; Del Boca, Le conseguenze per l’Italia del mancato
dibattito sul colonialismo, in «Studi piacentini», 5, 1989; Del Boca, L’Africa nella
coscienza degli italiani, 1992).
Ancora nei primi anni cinquanta Raffaele Ciasca mostrava di essere legato
agli schemi ideologici dell’espansionismo coloniale, elogiando la politica coloniale
di Crispi, difendendo l’idea della colonizzazione come opera di civilizzazione, e
sostenendo la chiarezza del trattato di Uccialli. (Ciasca, La politica coloniale
dell’Italia contemporanea. Da Assab all’impero, in E. Rota (a cura di), Questioni di
storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia, 1951). Emblematico dell’assenza di
una soluzione di continuità è anche il caso di Enrico De Leone che nel 1955 ancora
fondava la propria riflessione su un’impostazione di tipo nazionalistico, sostenendo
che l’espansione italiana ebbe la funzione di ricondurre gli italiani nel vivo delle
competizioni internazionali e consentì loro di riprendere nel mondo quella missione
di civiltà e di progresso già esercitata in passato (De Leone, Le prime ricerche di
una colonia e la esplorazione geografica, politica ed economica, in L’Italia in
Africa, vol. II, 1955).
Il più rappresentativo degli storici coloniali, attivo fino ai primi anni 70,
è stato sicuramente Carlo Giglio. Questi, ancora negli anni 50, continuava ad
elogiare il movimento colonialista italiano e negli studi diplomatici relativi
all’occupazione del porto di Massaua, cercava di dimostrare l’autonomia del
colonialismo italiano da quello britannico in Africa orientale (Giglio, L’impresa di
Massaua. 1884-1885, 1955). Giglio coordinò inoltre l’attività del Comitato per la
documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, anch’esso rappresentativo della
continuità tra fascismo e Italia repubblicana creatasi in tale ambito storiografico.
Fondato nel 1852 in corrispondenza dello scioglimento del ministero dell’Africa
italiana, il suo compito consisteva nell’esaminare e pubblicare parte della
documentazione relativa all’attività degli italiani in Africa conservata presso
l’archivio storico del soppresso ministero. Il lavoro fu affidato alla gestione quasi
esclusiva di ambienti e personalità legati al colonialismo, molti dei quali ex
funzionari coloniali. Il comitato produsse dieci tomi antologici nei quali non vi sono
fonti relative alle violenze commesse dai militari italiani in Africa, né i saggi di
corredo contengono un’analisi critica delle vicende coloniali italiane.
Tale storiografia inoltre, sia quella prodotta durante il fascismo che nel
secondo periodo del dopoguerra, era caratterizzata da un approccio prevalentemente politico e
diplomatico che ha a lungo ostacolato l’inserimento delle vicende coloniali
nell’ambito del contesto della storia nazionale, ed ha pertanto rallentato l’avvio di
studi fondati su una concezione dell’espansionismo come prodotto della complessità
della società italiana.
In Italia gli studi critici sul colonialismo italiano sono sorti in
contrapposizione alla storiografia coloniale e il primo tentativo in tale direzione è
stato compiuto, come è noto, da Roberto Battaglia con il volume La prima guerra
d’Africa, pubblicato nel 1958. Si tratta di un’opera di “rottura” scritta da uno
studioso che per formazione culturale era portato al più radicale rifiuto della
ideologia espansionistica, il cui principale obiettivo polemico era la retorica del
colonialismo, nel tentativo di demistificarne i miti. Relativamente alla prospettiva
analitica, anche se la componente militare e quella dei rapporti politico-diplomatici
conservano nell’economia del lavoro una posizione preponderante, è rintracciabile
un primo tentativo, soprattutto nella prima parte del volume, di individuare i circoli
all’interno dei quali le élites dell’espansionismo coloniale italiano iniziarono a
strutturarsi e ad operare.
Il volume ha costituito però l’unica eccezione di quel periodo e solo quindici
anni più tardi, in seguito alla pubblicazione di importanti opere d’insieme e raccolte
documentarie, la storiografia sul colonialismo italiano ha superato definitivamente il
retaggio coloniale che la caratterizzava (Rochat, Il colonialismo italiano. Documenti
1973; Zaghi, L’Africa nella coscienza europea e l’imperialismo italiano, 1973;
Bosco Naitza, Il colonialismo nella storia d’Italia (1882-1949), 1975; Carocci, L’età
dell’imperialismo, 1979; Goglia e Grassi, Il colonialismo italiano da Adua
all’Impero, 1981).
Nel 1976 fu edito il primo volume dell’opera di Angelo Del Boca (Del Boca,
Gli italiani in Africa, I. Dall’unità alla marcia su Roma, 1976) che attraverso una
ricostruzione del comportamento degli italiani in Africa, a partire dai primi
esploratori fino all’intervento dei militari, demoliva il mito prodotto e alimentato nel
dopoguerra dalla storiografia filo-coloniale, relativo alla “diversità” del colonialismo
italiano dell’ultimo quarto dell’Ottocento e del primo ventennio del Novecento, che
sarebbe stato più umano, più illuminato, rispetto agli altri colonialismi coevi.
Sempre nel 1876 veniva tradotto e pubblicato in Italia il volume di Jean-
Louis Miége, L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, edito otto
anni prima in Francia, nel quale si poneva esplicitamente il problema della ricerca
dei fattori ideologici, politici ed economici, e del peso da essi avuto nella genesi del
colonialismo italiano, suggerendo una prospettiva d’analisi diversa e più completa
rispetto a quella tradizionale. Miége proponeva anche una prima ipotesi di
comparazione tra l’imperialismo coloniale italiano e gli altri colonialismi europei,
accennando al maggiore peso che i fattori politici e/o ideologici hanno avuto in Italia
nel determinare il fenomeno dell’espansionismo coloniale, rispetto a quelli
economico-finanziari.
L’assunzione di un punto di vista critico nell’esame della storia coloniale
italiana ha costituito il presupposto indispensabile affinché fosse possibile l’apertura
di nuove linee di ricerca che hanno determinato la costituzione di un rapporto più
funzionale tra storia sociale, economica, delle idee e della cultura politica.
Dall’approccio di storia politica, diplomatica e militare tipico della storiografia
tradizionale si così potuti passare ad una storiografia tendente a considerare la
complessità dei problemi, degli ideali, delle forze politiche, sociali ed economiche
che nelle varie fasi storiche caratterizzarono il paese, e che costituirono il terreno da
cui scaturì il colonialismo italiano.
2) Le nuove linee di ricerca: opinione pubblica e politica coloniale.
Nel corso degli anni settanta ha in particolare preso avvio una prospettiva di
ricerca fondata soprattutto sull’esame dei movimenti d’opinione pubblica e del loro
rapporto con la politica coloniale.
Un’analisi delle reazioni della società civile di fronte alla questione coloniale
in relazione al primo colonialismo italiano, fu iniziata da Guido Pescosolido,
esaminando il dibattito sui principali quotidiani nazionali. Inizialmente, partendo
dalla convinzione per cui la battaglia di Adua non poteva essere spiegata solo
attraverso un esame delle decisioni assunte da Crispi e dai vertici militari,
Pescosolido è entrato nel merito di quei fattori di natura politica, economica ed
ideologica, che portarono il paese e il governo verso lo scontro con Menelik
(Pescosolido, Il dibattito coloniale nella stampa italiana e la battaglia di Adua, in
«Storia contemporanea», 4, 1973). Successivamente l’attenzione è stata posta sulla
vicenda di Assab. Lo storico ha considerato la scarsa attenzione che la stampa
nazionale diede all’acquisto della baia di Assab e ai problemi connessi alla sua
utilizzazione, rispetto alle vicende contemporanee relative al rifiuto del governo
italiano di intervenire in Egitto al fianco dell’Inghilterra nell’estate del 1882.
(Pescosolido, Assab nella stampa italiana dal 1882 al 1885, in «Nuovi annali della
Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», 1, 1983).
Nello stesso periodo lo studio delle relazioni tra opinione pubblica e politica
coloniale ha interessato anche alcuni ambiti specifici della società e della politica. Il
mondo cattolico è stato oggetto della riflessione di Fausto Fonzi (Fonzi, La presenza
della Chiesa cattolica e dell’Italia in Africa e in Oriente nella seconda metà
dell’Ottocento, in «Clio», 1, 1991; Id., Mondo cattolico, missioni e colonialismo
italiano, in «Clio», 1, 1998), e contemporaneamente è stato avviato anche l’esame
delle posizioni in merito alla questione coloniale emerse nel cattolicesimo
conciliatorista e in quello intransigente (Carli, Il giudizio della stampa cattolica
conciliatorista sulla prima fase dell’impresa coloniale italiana 1881-1887, in
«Rassegna storica del Risorgimento», 79, 1992; Palazzi, L’opinione pubblica
cattolica e il colonialismo: L’avvenire d’Italia (1896-1914), in «Storia
contemporanea», 1, 1979).
Sulla spinta del volume di Roman H. Rainero su L’anticolonialismo italiano
da Assab ad Adua, edito nel 1971, alcune ricerche hanno inoltre preso in esame il
dibattito sul colonialismo e sull’anticolonialismo all’interno degli ambienti socialista
e repubblicano (Dota, Il dibattito sul problema coloniale nella stampa socialista
(1887-1900), in «Storia contemporanea», 6, 1879; Patanè, Le polemiche sul
colonialismo nel movimento repubblicano e socialista (1887-1890), in «Archivio
trimestrale», 4, 1979, e 1, 1980; Ottaviano, Antonio Labriola e il problema
dell’espansione coloniale, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», Torino, vol.
XVI, 1982; Iraci, Idee e dibattiti sull’imperialismo nel socialismo italiano tra
l’ultimo decennio del XIX secolo e la conquista della Libia, in «Studi piacentini», 7,
1990).
All’inizio degli anni settanta Francesco Malgeri ha affrontato il tema della
guerra di Libia (Malgeri, La guerra libica. 1911-1912, 1970), adottando un
approccio rivolto non più solamente alla ricostruzione degli aspetti diplomatici,
bensì esaminando, oltre agli interessi economici italiani che hanno operato in Libia
durante la fase della penetrazione pacifica, anche gli aspetti ideologici e culturali
della propaganda nazionalista, e le posizioni dei vari movimenti politici di fronte
alla guerra.
Un filone storiografico finalizzato a studiare l’esplorazione come momento
iniziale del processo espansionistico ha iniziato in quegli anni ad essere oggetto
dell’elaborazione di Francesco Surdich. L’analisi verte in questo ambito sulla
mentalità degli esploratori e del loro rapporto con l’ideologia colonialista. Sulle
categorie con le quali i viaggiatori interpretavano in modo stereotipato e spesso
funzionale ai programmi espansionistici l’”altro” africano, e sugli effetti che la sua
rappresentazione aveva sul processo di formazione dell’immaginario coloniale
(Surdich, Le grandi scoperte geografiche e la nascita del colonialismo, 1975; Id.,
Esplorazioni geografiche e sviluppo del colonialismo nell’età della rivoluzione
industriale, 1980; Id., L’esplorazione italiana dell’Africa, 1982; Id., Momenti e
problemi di storia delle esplorazioni, Genova, Fratelli Bozzi, 1989; Id., L’attenzione
della Gazzetta piemontese per le prime iniziative di esplorazione ed espansione
coloniale italiana in Africa (1880-1885), in «Bollettino storico-bibliografico
subalpino», 2, 1980; Id., L’impatto dell’esplorazione dell’Africa sull’Italia di fine
Ottocento, in «Materiali di lavoro», 2-3, 1991 e 1, 1992).
La ricerca sulle origini dell’espansionismo coloniale italiano ha inoltre
costituito successivamente l’elemento centrale degli studi condotti da Surdich sul
caso municipale di Genova. Si tratta di ricerche rivolte oltre che alla ricostruzione
del dibattito locale anche all’individuazione degli interessi economici privati e dei
gruppi di pressione che erano intenzionati a promuovere una politica espansionistica
(Surdich, I viaggi, i commerci e le colonie: radici locali dell’iniziativa
espansionistica, in Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi. La Liguria, 1994).
Nel corso degli anni settanta è stata avviata anche una riflessione sulle
argomentazioni del primo colonialismo italiano, sul diverso uso e sulle diverse
accezioni che il termine “colonia” ha assunto nelle varie fasi del dibattito.
L’attenzione è stata posta in particolare sul ruolo svolto dal modello della colonia
libera, ovvero di emigrazione, nel dibattito interno agli ambienti fautori di un ritorno
all’espansionismo coloniale dopo Adua, quando non era immediatamente
riproponibile la strategia di conquista territoriale e politica (Dinucci, Il modello della
colonia libera nell’ideologia espansionistica italiana. Dagli anni ‘80 alla fine del
secolo, in «Storia contemporanea», 3, 1979).
Nell’ambito di un filone di analisi dei caratteri dell’ideologia espansionista
italiana è stato fondamentale lo studio di Luciana Giusti e Giuseppe Are, che hanno
esaminato il dibattito sull’imperialismo nella cultura italiana di inizio Novecento.
Sono state ricostruite le discussioni sorte intorno ad alcune opere e riviste coeve e
sono stati valutati gli effetti che alcuni eventi come la guerra anglo-boera,
l’emergere dell’imperialismo di altre potenze, e i modelli rappresentati dalle altre
nazioni europee, ebbero su alcuni settori della cultura e della politica italiana e sui
loro orientamenti (Are e Giusti, La scoperta dell’imperialismo nella cultura italiana
del primo Novecento, in «Nuova rivista storica», 1974, in seguito ampliato e
ripubblicato, Are, La scoperta dell’imperialismo. Il dibattito nella cultura italiana
del primo novecento, 1985).
Sempre negli anni settanta, è stato avviato lo studio degli attori economici
del colonialismo italiano. Fabio Grassi ha in particolare focalizzato l’attenzione sugli
interessi dell’industria tessile lombarda nel corno d’Africa. La sua ricerca, che
affronta esplicitamente il problema delle origini del colonialismo italiano in
Somalia, ha riguardato sia la fase del colonialismo indiretto caratterizzata
dall’azione della Compagnia Commerciale del Benadir, sia il successivo fallimento e
il passaggio ad una gestione diretta della colonia (Grassi, L’industria tessile e
l’imperialismo italiano in Somalia. 1896-1911, in «Storia contemporanea», 4, 1973;
Id., Le origini dell’imperialismo italiano. Il caso somalo 1896-1915, 1980).
È proprio nell’ambito del fervore storiografico che ha caratterizzato gli anni
settanta, che si è giunti all’elaborazione di quella storiografia sulle società
geografiche e di esplorazione commerciale, e sulla loro funzione di strumenti
dell’espansione coloniale italiana cui la presente tesi di dottorato intende
riallacciarsi.
Nel 1872 e nel 1873 furono pubblicate le ricerche di Maria Carazzi, su La
Società geografica italiana e l’esplorazione coloniale in Africa (1867-1900), e di
Anna Milanini Kemeny, su La Società di esplorazione commerciale in Africa e la
politica coloniale (1879-1914). I due volumi, seppur caratterizzati da evidenti limiti
di impostazione, documentazione e realizzazione finale, rappresentavano una novità
storiografica molto rilevante. Indubbiamente essi costituivano un primo meritevole
contributo in direzione di una storiografia finalizzata ad analizzare la connessione
esistente tra le iniziative e gli interessi privati, e la politica governativa in ambito
coloniale.
Tale prospettiva di studio se da un lato si alimentava della storiografia più
attenta agli aspetti sociali, culturali e ideali, e alla loro relazione con la politica, che
proprio in quegli anni veniva elaborata, dall’altro proponeva il superamento di un
simile approccio attraverso un’analisi tesa ad individuare i soggetti “organizzati”
dell’espansionismo coloniale italiano. Il problema delle origini dell’espansione
coloniale italiana veniva per la prima volta inquadrato nell’ambito di un filone
storiografico volto ad individuare e ad esaminare quegli organismi elitari che
avevano promosso l’espansione coloniale, sulla loro azione sia in ambito politico
che pubblico, e sugli interessi economici ad essi legati.
Alcuni anni dopo la pubblicazione dei due volumi, fu Alberto Aquarone ad
attribuire rilevanza analitica e metodologica a tale filone storiografico. In un saggio
sulla nascita dell’Istituto coloniale italiano (Aquarone, Politica estera e
organizzazione del consenso nell’età giolittiana: il Congresso dell’Asmara e la
fondazione dell’Istituto coloniale italiano, in «Storia contemporanea», 1, 2, 3, 1977)
lo storico dell’Italia liberale pur considerando il carattere innovativo delle ricerche
dedicate alla storia delle idee coloniali e all’analisi del dibattito culturale, come
quelle condotte da Giuseppe Are e Luciana Giusti, proponeva di uscire da tale
ambito per indagare il ruolo che alcuni strumenti istituzionali, «avevano svolto nel
processo di formazione e di condizionamento dell’opinione pubblica italiana in
funzione di determinati obiettivi di politica estera» (Ivi, pp. 57-58).
Aquarone proponeva un ulteriore avanzamento storiografico passando dallo
studio del rapporto tra opinione pubblica e politica coloniale, all’esame degli
ambienti in cui settori significativi della società civile ed esponenti della classe
dirigente italiana avevano operato al fine di tradurre in una linea politica praticabile i
nascenti ideali coloniali.
In tempi più recenti, la storiografia sul colonialismo italiano ha continuato ad
interrogarsi su alcune questioni decisive e a proporre linee di ricerca fondamentali
ma la proposta storiografica di Aquarone, soprattutto in relazione al problema della
genesi del colonialismo italiano, non ha avuto un seguito significativo.
Nel corso di alcuni convegni sono stati presentati interventi relativi al
rapporto tra politica estera e politica coloniale in Italia, al dibattito tra le forze
politiche, all’atteggiamento degli ambienti militari, e ancora alla formazione
dell’immaginario coloniale (Del Boca su Adua. Le ragioni di una sconfitta, 1997).
Anche nel corso del convegno Taormina - Messina su Fonti e problemi della
politica coloniale italiana, tenuto nel 1989, i cui atti furono pubblicati nel 1996,
molte proposte di ricerca si sono collocate sulla scia degli studi prodotti a partire dai
primi anni settanta. Pescosolido, proseguendo il lavoro sulla stampa, ha preso in
considerazione il periodo compreso tra l’acquisto della baia di Assab e
l’occupazione del porto di Massaua, ovvero la fase in cui le tendenze colonialiste
all’interno dell’opinione pubblica maturarono al punto da riuscire ad esercitare
pressioni significative sui governi (Pescosolido, Alle origini del colonialismo
italiano: la stampa italiana e la politica coloniale dell’Italia dal rifiuto di intervento
in Egitto alla vigilia dell’occupazione di Massaua. 1882-1884). Attraverso l’esame
della stampa è stato illustrato anche il modo in cui l’opinione pubblica percepiva
all’inizio degli anni ottanta il rapporto tra le scelte di politica estera, ovvero il
rapporto con gli imperi centrali stabilito con la stipulazione della triplice alleanza, e
quelle di politica coloniale, ossia il rifiuto di intervenire in Egitto al fianco
dell’Inghilterra nel 1882.
Nel corso dello stesso convegno Daniel J. Grange, interrogandosi
sull’esistenza di un “parti colonial” italiano all’inizio del XX secolo, ha di nuovo
posto l’attenzione sulla costellazione di associazioni e di comitati che a partire dal
1906 ebbe come struttura portante proprio l’Istituto coloniale italiano (Grange, Peuton
parler au début du XX siécle d’un parti colonial italien? , in Fonti e problemi
della politica coloniale italiana). Altri interventi hanno riguardato il ruolo dei
funzionari coloniali (Melis, I funzionari coloniali), delle missioni religiose, il tema
dell’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte alla questione coloniale (Fonzi,
La Chiesa cattolica e la politica coloniale), gli ambienti militari (Ortolani, Le carte
del generale Oreste Baratieri presso il Museo del Risorgimento e della lotta per la
libertà di Trento;Della Volpe- Frattolillo, Mire espansionistiche e progetti coloniali
italiani nei documenti dell’Ufficio storico dello SME; Mariano, La Marina militare,
le esplorazioni geografiche e la penetrazione coloniale), l’anticolonialismo
(Rainero, L’anticolonialismo italiano tra politica e cultura ), e la politica coloniale
di Giolitti (Vigezzi, Il liberalismo di Giolitti e l’impresa libica).
Negli ultimi anni sono stati inoltre prodotti studi tesi ad inquadrare la figura
di Raffaele Rubattino, imprenditore che svolse un ruolo centrale nella prima fase del
colonialismo italiano (Doria, Debiti e navi. La compagnia Rubattino 1839-1881,
1990), del viaggiatore Manfredo Camperio, tra i fondatori della Società di
esplorazione commerciale in Africa (Fugazza e Gigli Marchetti, Manfredo
Camperio. Tra politica, esplorazioni e commercio, 2002), e di Giuseppe Sapeto
(Surdich, L’attività missionaria, politico diplomatica e scientifica di Giuseppe
Sapeto. Dall’evangelizzazione dell’Abissinia all’Acquisto della baia di Assab,
2005), che oltre come missionario fu una personalità estremamente rilevante dal
punto di vista politico e diplomatico. Queste ricerche hanno contribuito in modo
significativo alla comprensione degli interessi economici e politici che furono alla
base di iniziative espansionistiche che, sebbene sorte in ambito locale, ebbero una
forte rilevanza politica nazionale.
Recentemente gli aspetti economici del colonialismo italiano sono stati
oggetto degli studi di Gian Luca Podestà. Questi ha fornito in due volumi un quadro
sia del ruolo che alcune forze economiche hanno avuto in Italia, anche se quasi mai
in modo continuo, nel promuovere e sostenere l’iniziativa coloniale, sia degli
interessi economici italiani affermatisi nelle colonie (Podestà, Sviluppo industriale e
colonialismo: gli investimenti italiani in Africa orientale, 1869-1897, 1996; Id., Il
mito dell’impero: economia, politica e lavoro nelle colonie, 1898-1941, 2004).
Lavori di notevole spessore storiografico sono stati prodotti relativamente
alla funzione di vettore della politica coloniale avuta dalla marina mercantile (De
Courten, La marina mercantile italiana come strumento d’espansione. 1861-1914,
1989), e al rapporto tra esercito, politica e società soprattutto in relazione alla
battaglia di Adua e alla guerra d’Etiopia (Labanca, In marcia verso Adua, 1993; Id.,
Una guerra per l’impero. Memorie della campagna d’Etiopia 1935-1936, 2005).
Alcuni aspetti politici del primo colonialismo italiano sono stati inquadrati da
Calchi Novati che ha esaminato in particolare l’atteggiamento improntato al
realismo politico e pertanto alla prudenza, che ha contraddistinto il governo italiano
durante il congresso di Berlino, nonché i suoi effetti sugli equilibri in Africa
settentrionale (Calchi Novati, Cairoli, la Sinistra Storica e gli inizi della
penetrazione coloniale in Africa: un caso di colonialismo controllato, in «Africa»,
3, 1990).
Il tema dell’espansione coloniale recentemente è stato ripreso anche
nell’ambito di una prospettiva volta ad inquadrare il rapporto tra Italia ed Islam a
partire dall’inizio del Novecento (Trinchese, Mare nostrum. Percezione ottomana e
mito mediterraneo in Italia all’alba del ‘900, 2005; Ianari, Lo stivale nel mare.
Italia, Mediterraneo, Islam: alle origini di una politica, 2006).
La proposta storiografica di Aquarone relativa allo studio degli strumenti
sociali e istituzionali del colonialismo italiano è stata finora recuperata solo
relativamente al periodo successivo alla battaglia di Adua. Giancarlo Monina in un
volume su Il consenso coloniale. Le società geografiche e l’Istituto coloniale
italiano (1896-1914), edito nel 2002, ha approfondito il ruolo svolto dalle
associazioni geografiche nella fase di riorganizzazione del “fronte” coloniale che
seguì Adua, e il loro ruolo nella fondazione dell’Istituto coloniale italiano.
Relativamente allo studio della funzione ideologica e politica che le società
geografiche e di esplorazione hanno svolto subito dopo l’unificazione, in qualità di
vettori dell’espansione coloniale, le ricerche non sono però andate oltre i saggi di
Carazzi sulla Società geografica italiana, e di Kemeny sulla Società di esplorazione
commerciale in Africa.
3) Impostazione e obiettivi della ricerca.
La scelta della Società geografica italiana è stata determinata dalla
consapevolezza del fatto che il sodalizio costituisce un oggetto di studio
particolarmente significativo proprio al fine di cogliere alcune delle peculiarità della
genesi del colonialismo italiano. Esso rappresentava infatti una componente
significativa dell’opinione pubblica italiana, ed era caratterizzato dalla presenza al
proprio interno, spesso con ruoli dirigenziali, di esponenti di primo piano della
classe politica italiana.
La ricerca copre l’arco temporale compreso tra la fine degli anni sessanta e la
metà degli anni ottanta dell’Ottocento ed esamina in particolare l’azione che la
Società geografica italiana ha svolto in Etiopia.
Un primo capitolo della tesi è dedicato alla ricostruzione del dibattito nato
già all’inizio degli anni sessanta, intorno all’apertura del canale di Suez, incentrato
sia sui benefici in termini di commercio che l’apertura della nuova via di
comunicazione con l’Estremo oriente avrebbe potuto comportare per il paese, sia
sulle modalità e gli strumenti necessari per porre il nuovo stato unitario nella
condizione di ricevere tali benefici. Pertanto si è cercato di cogliere il dibattito sulle
infrastrutture ferroviarie e portuali attraverso le quali la penisola sarebbe potuta
divenire luogo di un commercio di transito tra l’Estremo oriente e l’Europa centro
occidentale, sulla necessità di modernizzare la marina mercantile italiana, sulle
possibilità di espansione commerciale offerte dalla presenza delle comunità italiane
all’estero, sulla necessità che i privati si mobilitassero in una direzione d’espansione
commerciale. Si è esaminata quindi la reazione dei governi italiani di fronte
all’emergere di tali voci all’interno della società civile, e la tendenza a congelare in
questa prima fase la questione coloniale.
Visto che la storia del sodalizio non si esaurisce nell’ambito coloniale, un
secondo capitolo verte sulla nascita della Società geografica italiana e sulle modalità
attraverso le quali si affermò al suo interno un programma espansionista. Sono stati
quindi esaminati gli equilibri e i rapporti di forza interni, in particolare tra la linea
più moderata, fondata su una concezione della Società come comunità scientificogeografica,
sostenuta dal suo fondatore e primo presidente Cristoforo Negri, e quella
più d’espansione, rivolta all’Africa, rappresentata da Cesare Correnti, secondo
presidente della Società.
La posizione più moderata, almeno nell’arco cronologico preso in esame,
non ebbe mai la forza per caratterizzare i programmi dell’associazione. La linea
programmatica d’espansione iniziò invece ad affermarsi sin dall’inizio, quando
Correnti ancora non era stato eletto presidente.
Da subito, infatti, all’interno della Società geografica italiana tese ad
affermarsi una prospettiva che concepiva le scienze geografiche come
essenzialmente funzionali allo sviluppo economico e commerciale, e che era
interessata a tradurre in una politica d’espansione tale rapporto. Ciò avvenne perché
la stessa Società geografica fu il frutto di quel dibattito sulle modalità e gli strumenti
attraverso i quali il paese avrebbe dovuto avviare una politica espansionistica, che
era iniziato ad emergere in alcuni settori minoritari dell’opinione pubblica italiana.
Nel terzo capitolo si esamina il progetto esplorativo elaborato dal sodalizio a
partire dall’inizio degli anni settanta, finalizzato a stabilire rapporti diplomatici e
commerciali con il regno dello Scioa, governato da Menelik. La vicenda viene
esaminata fino alla stipulazione del primo trattato di commercio e di amicizia tra il
governo italiano e Menelik, avvenuta nel 1883.
Il re dello Scioa manifestò sin dai primi anni settanta, attraverso alcune
ambasciate, la volontà di stabilire rapporti con l’Europa ed anche con l’Italia,
affinché potesse ricevere le armi che gli erano indispensabili nella lotta contro il
negus Giovanni IV. Ciò spinse la Società geografica italiana ad elaborare un
progetto di apertura del mercato etiope attraverso lo Scioa che poggiava
sostanzialmente su due poli. Da un lato sull’organizzazione di una spedizione con
l’obiettivo di instaurare un rapporto privilegiato con Menelik e di stabilire una
presenza italiana nello Scioa, soprattutto attraverso la fondazione di una stazione
scientifica che all’occorrenza sarebbe potuta diventare anche commerciale.
Dall’altro, tale iniziativa si sarebbe legata alla baia di Assab acquistata da Rubattino
a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, che avrebbe costituito lo sbocco delle merci
provenienti dai mercati interni. In questo modo si sarebbe affermata l’influenza
economica e politica italiana nella regione compresa tra le regioni centrali
dell’Etiopia e la costa.
In questo capitolo si ricostruiscono pertanto le origini di quella linea scioana
che contraddistinse la politica di espansione coloniale italiana in Etiopia anche nel
periodo successivo, durante tutta la prima fase crispina.
Visto il carattere di luogo di intersezione tra sfera politica e società civile che
caratterizzava la Società geografica italiana, si è deciso di impostare l’analisi di
questa vicenda su due piani di analisi complementari. L’attività dell’associazione
viene innanzitutto esaminata cogliendo i rapporti che la dirigenza della Società
intrattenne con la classe politica, e in particolare con gli ambienti governativi, il
ministero degli Affari Esteri e quello di Agricoltura, Industria e Commercio, che in
assenza di organismi preposti, potevano assumere decisioni di politica coloniale. Ciò
con l’obiettivo di valutare il grado di successo che la linea della Società geografica
italiana ebbe all’interno di tali ambienti, e pertanto in che modo e fino a che punto il
sodalizio riuscì ad indirizzare la politica coloniale del governo.
Allo stesso tempo l’indagine verte sui canali e gli strumenti attraverso i quali
la Società geografica italiana cercò di stimolare nell’opinione pubblica l’interesse
per la questione coloniale, mobilitandola a sostegno del proprio progetto
d’espansione. L’obiettivo in questo caso consiste in un esame sia dal punto di vista
quantitativo che qualitativo, del livello di partecipazione della società civile.
In particolare, il gruppo dirigente della Società impiegò le risorse politiche e
mediatiche di cui disponeva per lanciare una sottoscrizione nazionale di
finanziamento della spedizione. Furono coinvolti dapprima i ceti più elevati e
gradualmente anche gli strati più bassi della società italiana. Facendo leva sulla
questione dell’emigrazione e attivando gli esponenti della diplomazia presenti nel
corpo societario, fu inoltre possibile raccogliere una parte significativa dei
finanziamenti all’interno delle comunità italiane all’estero. Il livello di
partecipazione fu molto alto e il risultato finanziario molto positivo, anche se i mezzi
forniti per la spedizione si rivelarono presto insufficienti.
Il grado di partecipazione raggiunto pose però i dirigenti del sodalizio nella
condizione di attribuire al loro progetto una rilevanza nazionale, e ciò accrebbe
notevolmente il potere contrattuale della Società nei confronti del governo, il quale
non poté esimersi dal seguire e sostenere la spedizione. Inoltre l’azione
propagandistica della Società produsse sulla stampa nazionale un livello ed
un’intensità di dibattito intorno all’opportunità dell’espansione coloniale, senza
dubbio superiori rispetto alla fase precedente. Il dibattito sulla spedizione si legò tra
l’altro alla discussione in corso sulla utilizzabilità della baia di Assab.
Un elemento di debolezza che caratterizzò la sottoscrizione e che di fatto
condizionò i risultati dell’iniziativa, fu rappresentato dalla mancanza di una
partecipazione significativa degli ambienti economici. Salvo casi di personalità
dotate di una particolare sensibilità per il tema dell’espansione coloniale, o che
agitavano strumentalmente tale questione per interesse personale, per il resto
l’adesione alla sottoscrizione dei soggetti del mondo economico ebbe un carattere
simbolico, e non può affatto essere considerato il sintomo di una iniziale
mobilitazione a sostegno di iniziative di espansione coloniale.
L’analisi dei rapporti con la sfera politica e con l’opinione pubblica, non
poteva non basarsi anche sulla ricostruzione di quella rete di relazioni personali,
politiche e culturali che si diramò a partire dalla Società geografica italiana.
Particolare attenzione è stata posta su alcune personalità che svolsero una funzione
di dirigenza all’interno del sodalizio, e che grazie alle risorse politiche maturate nel
corso della loro attività risorgimentale, furono in grado di influenzare alcuni settori
della società civile, del parlamento e del governo. Tenendo conto del loro retroterra
culturale è stato necessario un esame dei percorsi di pensiero, dei nodi e dei concetti
su cui poggiava la loro riflessione, del rapporto tra la loro esperienza risorgimentale
e l’elaborazione dell’espansionismo. Sono state prese in considerazione personalità
come Cesare Correnti, presidente della Società geografica italiana dal 1872 al 1879 e
massimo rappresentante della tendenza colonialista all’interno del sodalizio; Attilio
Brunialti, redattore del Bollettino della Società durante la presidenza Correnti e
segretario della Sezione di geografia commerciale che si costituì all’interno
dell’associazione; Manfredo Camperio, consigliere della Società geografica dal 1875
al 1877; Oreste Baratieri, presidente a partire dal 1876 del comitato italiano
dell’Associazione africana italiana che fu costituito in stretta connessione con la
Società geografica. Tali soggetti costituirono i nodi centrali della maglia relazionale
intorno alla quale si andò costruendo la nascente élite coloniale italiana.
Nell’ultimo capitolo è stato infine esaminato il momento in cui, a partire dai
primi anni ottanta, il progetto di espansione commerciale in Etiopia avviato dalla
Società geografica è stato fatto proprio da Depretis, soprattutto nel tentativo di
valorizzare la baia di Assab, ormai di proprietà dello Stato italiano. Furono Depretis
ed il ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini, sulla base dei rapporti che la
Società aveva già stabilito con Menelik ad incaricare il viaggiatore Pietro Antonelli
a stipulare un trattato di amicizia e commercio con il sovrano sciano, e ad aprire
contemporaneamente una via di comunicazione tra Assab e lo Scioa.
4) La scelta delle fonti.
L’aspetto degli equilibri vigenti nella Società, del dibattito interno, della
elaborazione e progettazione delle iniziative, è stato studiato sulla base della
documentazione inedita conservata presso l’archivio storico della Società geografica
italiana. Sono stati utilizzati soprattutto i verbali del consiglio direttivo della Società
e le relazioni che gli esploratori operanti in Africa inviavano alla presidenza. Tale
documentazione si è rivelata fondamentale per comprendere le strategie
espansionistiche che la direzione del sodalizio intendeva praticare.
I rapporti interni sono stati studiati anche sulla base di alcuni carteggi del
fondo Cesare Correnti, conservato presso l’Archivio storico del Museo del
Risorgimento di Milano. È stata in particolare studiata la corrispondenza di
Cristoforo Negri, di Manfredo Camperio, e di Oreste Baratieri con Correnti.
L’aspetto dei rapporti politici è stato ricostruito attraverso le lettere inviate
dalla presidenza e dalla dirigenza della Società geografica ai ministri degli Affari
Esteri, e di Agricoltura, Industria e Commercio, conservate negli archivi storici dei
rispettivi ministeri, che hanno permesso di inquadrare le caratteristiche del rapporto
instaurato con tali ambienti. La documentazione contenuta nel fondo dell’ex
ministero dell’Africa Italiana, conservato presso l’Archivio storico diplomatico del
ministero dell’Affari Esteri, ha fornito informazioni complementari a quelle desunte
dalle carte conservate presso l’archivio storico della Società geografica italiana,
consentendo così la ricostruzione degli aspetti politici più delicati. Attraverso le
carte del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, conservate presso
l’Archivio Centrale dello Stato, si è cercato inoltre di ricostruire anche gli aspetti più
legati alla politica estera commerciale.
Sono state svolte ricerche anche in altri archivi, nel fondo Manfredo
Camperio, conservato presso la biblioteca di Villasanta in provincia di Monza,
presso il fondo Agostino Depretis all’Archivio Centrale dello Stato, e presso
l’Archivio degli esploratori italiano all’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, ma
con scarsi risultati.
Oltre al materiale archivistico sono stati consultati alcuni bollettini e riviste
di argomento commerciale e coloniale importanti nella ricostruzione di alcune fasi
del dibattito. Il Bollettino della Società geografica italiana ha fornito in particolare
informazioni utili per interpretare le fonti archivistiche, e dati fondamentali per
ricostruire la composizione sociale del sodalizio.
Il dibattito politico, il livello di partecipazione della società civile e le
reazioni dell’opinione pubblica di fronte all’azione della Società geografica, sono
stati esaminati anche attraverso lo spoglio della stampa nazionale. Sono stati scelti
quotidiani legati ad ambienti economici e commerciali che potevano essere
interessati all’avvio di una politica espansionista come Il Corriere mercantile e La
Borsa di Genova, e il Sole di Milano. Oltre ai giornali che mostravano particolare
attenzione all’azione del sodalizio e che ne propagandavano i progetti come Il
Diritto, di fatto organo ufficioso della Società geografica, e La Nazione, in
determinate occasioni si è tenuto conto anche delle polemiche che alcuni quotidiani,
come La Perseveranza e Il Fanfulla sollevarono nei confronti del sodalizio.
Gli atti parlamentari, infine, hanno consentito di cogliere in che misura il
dibattito interno all’opinione pubblica veniva recepito dalla Camera dei Deputati e
dal Senato, ed il riflesso che le iniziative della Società geografica italiana ebbero
all’interno della classe politica.

 

 
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