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L'EVOLUZIONE SOCIOPOLITICA DI ROMA ANTICA

LO SCHIAVISMO - LA RIVOLTA DI SPARTACO

EVOLUZIONE SOCIALE E POLITICA DI ROMA ANTICA
Sul finire del periodo monarchico si va affermando in Roma una nuova classe di ricchi, d'origine plebea, che si affianca nella direzione dello Stato alla più antica casta/classe patrizia. Questa classe di "uomini nuovi" emerge socialmente sfruttando la più vasta lotta popolare, ovvero la lotta della plebe nel suo complesso per la conquista del potere politico. Come esempio di tale lotta possiamo portare le molteplici ritirate sull'Aventino, con cui la plebe favorisce e accelera molte delle proprie conquiste sociali e istituzionali (si veda ad esempio la nascita del tribunato). Nonostante l'ottenimento di alcuni traguardi (quali i tribuni della plebe, il codice delle dodici tavole, ecc.) riguardi indiscutibilmente l'intera popolazione, i risultati delle lotte popolari giovano soprattutto ai plebei ricchi. Essi difatti riescono - anche, ma non solo attraverso tali lotte - ad affiancarsi ai nobili nella guida dello Stato. Col tempo si crea quindi una classe dirigente mista, ovvero patrizio-plebea (per la verità ancora abbastanza omogenea sul piano ideale e degli interessi), che detiene - attraverso i consoli e le maggiori cariche istituzionali - le principali leve decisionali di Roma (peraltro divenuta ormai un complesso organismo politico e una vera e propria potenza internazionale). - Ampliamenti territoriali Un secondo aspetto che caratterizza questi anni è l'impressionante crescita territoriale: tra il VI e il III secolo la città-stato di Roma estende il proprio dominio, sia diretto, sia indiretto (ossia coloniale), dalla sola zona del Lazio a quasi tutta la penisola italiana. Essa diviene dapprima la massima potenza della Lega latina, arrivando poi a scioglierla; successivamente conquista (con le tre guerre sannitiche) la supremazia su gran parte della Campania; e giunge infine ad oscurare il dominio greco sull'Italia meridionale. Ma bisogna anche notare come tali guerre, il cui effetto è l'estensione territoriale del dominio romano, non siano guerre aggressive e intenzionalmente di conquista, bensì guerre difensive volte a consolidare il proprio dominio contro possibili aggressori esterni. Soltanto quando la potenza di Roma si sarà scontrata, vincendola, con la potenza cartaginese, solo allora si darà inizio ad una vera e propria fase 'imperialistica', finalizzata cioè all'estensione dei domini. - I plebei e la colonizzazione italica Ma oltre alla crescita di prestigio di cui si è parlato, i plebei conoscono in questi anni anche un'opposta parabola sociale: ai plebei ricchi infatti si affiancano quelli poveri. I poveri della nuova Roma sono essenzialmente coloro che rimangono esclusi dai privilegi economici legati alle annessioni territoriali: fondamentalmente ex-contadini decaduti e divenuti proletari urbani, dopo esser stati depauperati dalle numerose guerre (che hanno danneggiato i loro campi, e li hanno inoltre tenuti lontani da essi) e da una distribuzione delle ricchezze alquanto ineguale (poiché gestita da una classe dirigente aristocratica, di vecchia e di nuova leva). Gradualmente la plebe si trasforma così da fenomeno contadino e agrario in un fenomeno cittadino - segno questo dei mutamenti che stanno avvenendo all'interno dello Stato romano: non più un semplice 'stato di contadini e di guerrieri', bensì potenza ormai cittadina (poiché la città convoglia i nuovi strati sociali, e diviene al contempo il centro direzionale dell'apparato statale complessivo) e internazionale. La crescente disparità tra ricchi e poveri poi, crea un antagonismo alternativo a quello tra plebei e patrizi, determinando nuove e più forti tensioni sociali. Il rischio chiaramente avvertito dall'establishment romano è che una tale situazione comprometta le strutture dello Stato mettendo in forse le sue ricchezze e i suoi privilegi (basati appunto su tali strutture). La soluzione sta quindi nel trovare un modo per allontanare lo spettro della ribellione sociale, alleggerendo (ma non rimuovendo) le motivazioni dello scontento dei ceti più bassi, esclusi oltre che dal potere politico anche da gran parte della ricchezza. Tra le strade più praticate ve n'è una che consiste nel riversare parte dei cittadini più poveri nelle nuove colonie, ossia nei territori di recente acquisizione, esterni ai confini territoriali della Roma vera e propria. In questo modo si ottengono due risultati: a) da una parte si restituisce la terra a coloro che l'hanno perduta; b) dall'altra si allontanano da Roma le masse degli scontenti, dal momento che essi installandosi nelle nuove colonie perdono la cittadinanza romana uscendo così dal gioco politico. E' un segno dei tempi che cambiano: Roma si mantiene in piedi essenzialmente attraverso un costante gioco d'equilibrio tra gli interessi delle diverse classi sociali. Il fatto di tenere insieme - cioè di conciliare - i differenti punti di vista (seppur mantenendo intatti i privilegi dei più ricchi) impedisce che si creino rotture interne che potrebbero risultare distruttive per la nascente classe dirigente e per la sua organizzazione di potere. Anche l'esercito inoltre modifica il proprio assetto e i propri connotati: non solo infatti esso muta la propria organizzazione in direzione di un maggiore dinamismo di manovra; ma si allarga anche quantitativamente, aprendosi ulteriormente all'apporto dei plebei (sia nei ranghi più alti, sia in quelli più bassi). Riguardo infine ai rapporti di Roma con le popolazioni sottomesse, la strategia utilizzata consiste nel mantenere in uno stato di subalternità la maggioranza della popolazione, rafforzando di contro il potere detenuto dalle aristocrazie locali (il cui dominio è spesso in crisi prima dell'intervento dei romani). I ceti dominanti ricevono così la cittadinanza romana e assieme a essa vari privilegi, tra i quali quello di far parte dell'aristocrazia senatoria romana. In questo modo il potere centrale, in sinergia con quello locale, riuscirà a mantenere saldo il suo dominio sulle zone di conquista, evitando così uno sfaldamento della compagine. 2. I principali eventi politici interni I primi anni della res-publica vedono le lotte popolari per l'auto-affermazione contro il dominio esclusivo dei patrizi. Sono gli anni dello "stato plebeo", delle ritirate sull'Aventino e delle ribellioni popolari. Ma la lotta in favore del popolo non è portata avanti soltanto da plebei; vi sono infatti anche patrizi 'illuminati' (quali ad esempio Appio Claudio) a sostenere tali rivendicazioni. Ai vertici del potere plebeo si trovano, in ogni caso, principalmente plebei potenti. La classe dominante finisce quindi per uniformarsi creando uno schieramento piuttosto omogeneo, interessato all'estensione territoriale e al consolidamento dei confini (e dei propri privilegi). Non si può infatti ancora parlare di due distinte classi, quella fondiaria e quella commerciale-burocratica, dato il basso livello di sviluppo dell'organizzazione economica e sociale. Le conquiste della plebe consistono essenzialmente in: . 494: istituzione del tribunato della plebe; . 493: istituzione degli edili, custodi dell'archivio delle delibere plebee; . 471: istituzione dei concilii della plebe: assemblee plebee divise non per censo (come quelle centuriate di origine monarchica) ma per tribù (ovvero territorialmente) e quindi più democratiche; . 451: istituzione di un decemvirato (guidato da Appio Claudio) per redigere un codice di leggi comuni a plebei e patrizi (negando così ai secondi il diritto - d'origine arcaica - di interpretare secondo il proprio arbitrio le consuetudini giuridiche); seguita dalla pubblicazione delle dodici tavole, primo codice scritto di Roma; . 443: istituzione della censura (voluta dai nobili, per bilanciare i vantaggi acquisiti dalla plebe con le tavole delle leggi), al fine di enumerare e registrare i cittadini secondo il loro censo e la loro tribù, e le cui finalità sono essenzialmente tributarie; . 376: i tribuni Licinio e Lucio Sestio chiedono che uno dei due consoli sia obbligatoriamente plebeo, proposta che dopo pochi anni diverrà legge; istituzione dei pretori, al fine di sgravare i consoli di alcune incombenze amministrative e giudiziarie. . 300: la legge Ogulnia permette anche ai plebei l'accesso alle massime cariche religiose (come ad esempio il pontificato massimo ...), rompendo così l'antico monopolio patrizio in materia religiosa. In conclusione, si può dire che gli sviluppi sociali all'interno del mondo romano siano tali in questi anni da favorire l'avanzamento politico dei non-nobili, ma che di tale possibilità usufruiscono principalmente i plebei ricchi, i quali hanno - tra l'altro - più facile accesso alle cariche stesse. Roma rimane quindi uno stato fondamentalmente 'aristocratico', anche se più in senso censuario (di ricchezza posseduta o acquisita) che non di nascita. 3. I principali eventi politici esterni a) Passaggio dalla Monarchia alla Repubblica Motivo contingente alla base del passaggio dall'organizzazione monarchica a quella repubblicana, sarà l'alleanza di Tarquinio il Superbo (l'ultimo sovrano) con la compagine latina, alleanza che determinerà come reazione l'intervento del re di Chiusi (città dominante nell'orbita etrusca), Porsenna. Tale intervento porterà alla caduta della monarchia di Roma e all'instaurazione di un regime repubblicano (al cui vertice verranno posti due consoli, inizialmente chiamati pretori). Nonostante dopo un tale intervento la città di Roma venga ricompresa nell'orbita dei conquistatori, essa non tarderà molto - anche con l'aiuto del tiranno magno-greco Aristodemo - a riappropriarsi della propria autonomia, rientrando a fare parte dell'orbita latina. Lo stato romano rimarrà tuttavia di tipo repubblicano. Nei primi anni della Repubblica, la politica romana oscillerà inoltre tra l'alleanza con i latini (implicante appunto l'emancipazione dal tradizionale giogo etrusco) e quella con gli Etruschi e i Cartaginesi (due potenze sì distinte, ma tradizionalmente alleate in funzione anti-ellenica). b) Le prime campagne di Roma Le prime guerre condotte dalla nuova Roma repubblicana sono finalizzate a riaffermare la propria importanza nel seno della Lega latina, e portano (dopo un conflitto conclusosi nel 493) alla stipulazione di un patto con quest'ultima (il foedus Cassianum) largamente favorevole a Roma. Inizia così per Roma la fase 'espansiva': con l'aiuto delle città-stato latine, di cui si pone a capo, la città difatti si annette nuovi territori, sconfiggendo i Volsci nel 431 (dando inizio inoltre alla pratica della deduzione delle colonie, pratica consistente nel trasferire in veste di coloni alcuni dei propri abitanti - i quali, almeno in questo primo periodo, non necessariamente sono cittadini disagiati - sui territori occupati). Dopo la sconfitta dei Volsci (popolazione situata a sud della città) è la volta di Veio, città etrusca a nord di Roma. La guerra contro di essa, si conclude con la distruzione della città, nel 387, e con la prima annessione territoriale di Roma. Per la prima volta i territori conquistati non diventano infatti colonie latine (cioè di tutta la compagine), ma territori esclusivamente romani. E ciò perché Roma ha qui agito da sola, non essendo la guerra contro Veio e contro le città confinanti d'interesse per le altre città che compongono la Lega. La pratica dell'annessione prenderà d'ora in avanti sempre più piede, trasformando col tempo lo Stato romano nella massima potenza italica, e permettendo ad esso tra l'altro di sciogliere la stessa Lega latina. Successivi alla conquista dei territori etruschi saranno l'invasione e il saccheggio gallico di Roma del 390. Da questo tragico episodio la città romana uscirà tuttavia con una nuova alleata, la vicina Cere, col cui aiuto essa riuscirà a frenare l'avanzata gallica (383). Cere invece otterrà in cambio dei legami più stretti con Roma, come ad esempio il diritto di ospitalità. In questi anni Roma continua dunque a crescere (sia a nord che a sud), tanto sul piano dei territori quanto su quello delle zone d'influenza. Conclusa la guerra per fermare l'avanzata dei Galli, Roma si scontra con i popoli Sannitici, abitanti delle zone montuose della Campania. Il dominio di questi popoli estremamente violenti e bellicosi sulle aree limitrofe determina da parte dagli abitanti di queste ultime più di una richiesta di aiuto alla potenza romano-latina. Ma, molto probabilmente, alla base di tale scontro vi sono anche i differenti interessi economici e una notevole diversità culturale. Roma dunque, rispondendo alle richieste d'aiuto dei Sidicini e di Capua, interviene in difesa delle popolazioni campane dando vita alla prima guerra sannitica (conclusasi nel 341), al termine della quale scioglie - dopo un breve conflitto - la stessa Lega latina, la quale ormai entra apertamente in contrasto con la sua potenza. Roma difatti, che ormai non è più una semplice città ma il centro di un vero e proprio Stato territoriale, non può tollerare di spartire il proprio potere con altre città-stato. Essa diviene insomma una vera e propria città egemone, mentre i territori latini diventano rispetto a essa delle semplici province. Alla prima seguono le altre due guerre sannitiche (326-304; 298-290), nel corso delle quali la città di Napoli (Neapolis) nonchè in generale la regione campana entrano a fare parte dell'orbita degli interessi romani. La politica di alleanza - in funzione anti-servile e anti-democratica - con le elitès locali sarà poi una delle basi dell'insediamento romano in queste regioni. Attraverso tale politica, i romani raggiungeranno infatti in pochi anni un pieno controllo sulle zone precedentemente conquistate, zone nelle quali inoltre essi fonderanno parecchi insediamenti colonici. c) Lo scontro con le colonie della Magna Grecia Logica conclusione di queste guerre è infine lo scontro con le città magno-greche del sud d'Italia. Anche qui è la richiesta d'aiuto di Turi (una città magno-greca governata da un'oligarchia in crisi, in quanto minata dalla presenza di movimenti democratici) la molla che porta alla guerra contro l'intera compagine greca. Lo stesso sovrano dell'Epiro, Pirro, interverrà in difesa delle città magno-greche, subendo però (dopo un conflitto lungo e logorante) una sconfitta che lo costringerà a tornare in patria (275). Così, per la prima volta, Roma si farà sentire anche oltre gli angusti confini del mare Adriatico, e la sua fama giungerà fin nei territori della compagine ellenistica, la quale da parte sua riconoscerà finalmente in Roma una grande potenza internazionale! Ed è in questi anni, molto probabilmente, che Roma inizia una propria attività di monetazione, smettendo di utilizzare per le proprie transazioni commerciali le monete di altri paesi: un altro segno della sua crescente importanza e della sua apertura ad un più ampio orizzonte economico e culturale. LO SCHIAVISMO: Le cause Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno "strumento o animale parlante". Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà egizie e sumera. In latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano "schiavo" per l'economia schiavile rivolta al mercato, e "servo" per indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola "servo" stava ad indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio. Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio. Si diventava schiavi sostanzialmente per due motivi: sconfitta militare: i prigionieri di guerra, caduti in proprietà dello Stato, venivano venduti al miglior offerente; indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del creditore, dopo il relativo periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui mercati di Trastevere. Ma lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena che comportasse la perdita della libertà personale (p.es. l'assassinio o la renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non poteva pagare una pena pecuniaria. E non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati (perché non riconosciuti dal padre) o venduti dalle famiglie povere. Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che emigravano a Roma per porsi in servitù, o quelle tribù nordiche che facevano la stessa cosa, spinte dalla fame o dalla carestia. Da ultimo non si può non considerare che un commercio estero, internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i romani diventassero una grande potenza. Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui. La compravendita Gli schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali. Generalmente stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse a ingresso controllato. I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro). Anche ai romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante miseria. Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi. I romani più ricchi potevano anche acquistare stare per rivenderli o cederli a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo aspetto alcuni arrivarono persino ad allevarli. Le mansioni Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati). La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie. In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali (fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori molto più duri. Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a scuderie e cavalli. In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici. I diritti Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema. Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone. Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa. Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro. Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo. La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali. Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice. Il diritto romano non riconosceva agli schiavi un culto religioso proprio, ma gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari. Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo... A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra. Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario. Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal padrone. Evoluzione Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto. All'inizio del II sec. a.C. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone. Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell'isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno. L'estendersi dell'economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà. Nel II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto. Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale. Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento. Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.C., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti. Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre. Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo. Provenienza geografica Durante il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31 a.C.) furono condotti schiavi a Roma e in Italia: 30.000 abitanti di Taranto nel 209 un gran numero di Sardi nel 176 150.000 abitanti dell'Epiro nel 167 50.000 Cartaginesi nel 146 50.000 Corinzi nel 146 intere popolazioni della Spagna tra il 150 e il 100 150.000 Cimbri e Teutoni verso il 102-101 centinaia di migliaia di asiatici dalle guerre di Pompeo nel 66-62: Ponto, Siria, Palestina un milione di Galli dalle guerre di Cesare nel 58-50 Durante il periodo della pax romana (31 a.C. - 192 d.C.) sotto Augusto proseguono le conquiste e affluiscono a Roma sempre nuovi schiavi a basso prezzo, Tiberio rinuncia a conquistare la Germania, perché diventa più vantaggioso allevare schiavi, Vespasiano e Tito distruggono Gerusalemme nel 70 d.C. e portano a Roma decine di migliaia di schiavi ebrei, Traiano occupa la Dacia e l'Armenia: nuovo arrivo di schiavi in massa (circa 50.000). L'ultima grandiosa tratta e vendita all'incanto di schiavi si ebbe appunto con Traiano. Ma in complesso il numero degli schiavi diminuisce. Nel periodo della crisi dell'impero (192 - 476 d.C.), con l'anarchia militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto. A Roma, su una popolazione che poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione di abitanti, gli schiavi erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II sec. d.C.). Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone libere di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo 100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità della famiglia con rendite proprie. Difficile dire il numero dei liberti, degli stranieri, dei militari, della classe media. Si pensa che nella Roma imperiale almeno l'80% della popolazione provenisse da origine servile più o meno remota. L'ordine senatoriale comprendeva circa 600 famiglie, mentre quello equestre circa 5.000, quindi in tutto le persone più influenti o più ricche che disponeva del maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di un consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400 schiavi. Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi. Forme di riscatto L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste dal diritto civile (vedi scheda ppt-zip): manumissio per vindictam: davanti a un magistrato, il padrone metteva una mano sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo schiavo su una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di potere, e lo dichiarava libero; manumissio censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo come cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare o per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente libero. L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario addetto ai ruoli delle imposte e alla registrazione del censo; manumissio testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o più schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che il padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste del censo. Col tempo s'imposero forme più semplici: manumissio inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di voler dare la libertà allo schiavo; manumissio per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme agli ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale; manumissio per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo l'intenzione di liberarlo. La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore Giustiniano. Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose che in sostanza si presentavano come anticamera dei medievali rapporti di servaggio. Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori impedirono più volte, con la cancellazione dei debiti, che masse di debitori cadessero in schiavitù per insolvenza. I liberti Uno schiavo affrancato era detto "liberto". E l'età adatta a riscattarsi si aggirava sui 30 anni. Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano impegnati nelle guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere spontaneamente la condizione di "liberto", oppure lo schiavo poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso il padrone sulla base di un contratto. D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e persino il commercio di schiavi. Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività. Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale. I liberti venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari, denaro. I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (p.es. erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza. Tuttavia i suoi discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti. Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte solo da un'assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva a chi non era romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti. Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia (spesso connessi al fisco). Il che poteva aiutare gli imperatori a dimostrare il carattere democratico delle istituzioni. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane. Quando, nel 40 d.C., l'imperatore Claudio propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Tuttavia, la tesi che prevalse, riportata da Tacito, fu la seguente: "A qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi, nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in disparte gli stranieri?. Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero, fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si ha il torto di credere: l'antica Roma ne ha dato molti esempi". Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni. Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche. Le punizioni Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione. Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture). Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto. Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi. Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa si realizzava il concetto di virile coraggio. Il primo edificio utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei soldi. Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci l'anno. Le rivolte La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 137 a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere. I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento che sotto la guida dello schiavo Cleone andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000. Elessero re Euno il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati. Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo contro i latifondisti. Negli stessi anni un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Ai romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio. Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea. In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea, con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna, dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il nome di Trifone. A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio che nel 101 ebbe la meglio. La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco. Gli ultimi movimenti di rilievo dei ceti servili, furono quello detto dei Bagaudi, in Gallia, verso la fine del regno di Gallieno e di Postumo. Agli insorti si unirono i piccoli artigiani di Augustodunum (Autun) e gli schiavi impiegati nelle fabbriche di armi della stessa città. Poi quello degli Isauri in Asia Minore, e dei Mauri in Africa. Ormai siamo alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si dissolve e la rivolta servile diventa una vera rivolta contadina. Fonti U. Fasanella, La schiavitù dai ceppi dei sumeri alle catene di montaggio, ed. AMZ, Milano 1975 E. M. Staerman - M. K. Trofimova, La schiavitù nell'Italia imperiale, Editori Riuniti, Roma 1982 Iza Biezunska-Malowist, La schiavitù nell'Egitto greco-romano, Editori Riuniti, Roma 1984 V. I. Kuziscin, La grande proprietà agraria nell'Italia romana, Editori Riuniti, Roma 1984 F. Reduzzi Merola, "Servo parere". Studi sulla condizione giuridica degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, ed. Jovene, Napoli 1990 F. De Poli, Gli schiavi nel mondo antico, ed. Radar, Padova 1971 G. Del Gaudio, Il problema della schiavitù, ed. Morano, Napoli Giuffrè, La repressione criminale nell'esperienza romana. Profili, ed. Jovene, Napoli 1997 E. Ghersi, La schiavitù, Padova 1945 G. Abignente, La schiavitù nei suoi rapporti con la chiesa e col laicato, Torino 1890 A. D'Amia, Schiavitù romana e servitù medievale, Milano 1931 E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, Udine 1940 L. Muratori, Dissertazione sopra i servi e i liberti antichi, 1747 LA RIVOLTA DI SPARTACO In origine Spartaco fu un pastore della Tracia, una regione balcanica tra il Mar Nero e il Mar Egeo. Forse perché costretto dalla miseria, aveva accettato di arruolarsi in un corpo ausiliario della milizia romana, dal quale però fuggì ben presto. Dichiarato disertore, venne cercato e trovato da "squadre speciali", che lo ridussero in schiavitù (la quale veniva sempre imposta ai disertori, ai prigionieri di guerra, e più in generale ai cosiddetti "barbari"). Dopodiché fu trasformato in gladiatore e venduto a Lentulo, un organizzatore di spettacoli di Capua. Ma Spartaco nel 73 a.C. riuscì a fuggire anche da qui, trascinando con sé circa 200 gladiatori di cui solo una settantina riuscirono a rifugiarsi presso il Vesuvio, da dove ebbero la meglio contro i primi inviati romani, guidati dai pretori Caio Clodio e P. Vatinio. Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori dell'esercito. Da questa posizione saccheggiavano la ricca regione campana. Altri schiavi, braccianti, contadini poveri, pastori dei territori circostanti cominciarono ad aderire alla rivolta. Sicché la linea di blocco posta intorno al Vesuvio fu spezzata e più divisioni romane furono sconfitte in Campania. Spartaco condusse gli schiavi nella parte sud della penisola, dove si aggregarono altre bande. Nell'inverno 73-72 a.C. l'esercito dei ribelli fu armato regolarmente. I consoli del 72, Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, scesero in campo con due legioni ciascuno. Una divisione di 20.000 schiavi celti e germani, comandata dal celta Crisso, fu vinta in Puglia, sul Gargano, dal propretore di Gellio, Quinto Avio, che uccise lo stesso Crisso. Ma il grosso dell'esercito, che ormai era arrivato alle 100-120.000 unità, guidato da Spartaco, vinse l'armata romana e si aprì a forza il passaggio verso il nord d'Italia, fino a Modena. Era praticamente aperta la via per le Alpi e quindi per il rimpatrio nei paesi celtici, germanici e nel territorio balcanico. Tuttavia una parte degli schiavi vittoriosi (soprattutto i contadini meridionali) volle restare in Italia o tutt'al più marciare contro Roma, approfittando del momento di debolezza dell'esercito romano. Spartaco avrebbe preferito continuare le battaglie in Gallia, con l'appoggio sicuro della popolazione locale, ben sapendo che i romani si sarebbero presto ripresi. Però si piegò al volere della maggioranza, ottenendo soltanto che non si muovesse subito contro Roma ma si cercassero al sud altri alleati. E così condusse il suo esercito fino in Lucania. Roma cominciava a impensierirsi e alla fine del 72 chiese di sostituire i consoli al comando supremo col pretore Marco Licinio Crasso, in quel momento il miglior stratega militare della capitale. Gli fu affidato un esercito di otto legioni, le stesse che bastarono a Cesare per conquistare la Gallia! Crasso intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente, Mummio, incaricato di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte e Spartaco poté dirigersi nel Bruzio (Calabria), presso Turi. Qui, molti mercanti si erano radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco proibì che ricevessero in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi. Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando a Spartaco le navi dopo aver ricevuto il compenso pattuito, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate. Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di sfruttare la conformazione del Bruzio per confinare nella regione i nemici: egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km), per impedire qualunque forma di rifornimento. Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, Spartaco riuscì a passare il vallo presso Petilia e le selve silane, in una notte di tempesta. A questo punto Crasso chiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo. Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I due capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse. Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Nei pressi del fiume Sele, in Lucania, si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che porta da Capua a Roma). Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così la rivolta di Spartaco. Purtroppo di questa rivolta conosciamo assai poco, poiché le principali fonti che ne parlano sono andate perdute: il IV libro delle Historiae di Sallustio e i libri XCV-XCVII di Livio. Le uniche fonti rimaste, per lo più contraddittorie, sono le vite plutarchee di Crasso e Pompeo, le Guerre civili di Appiano, gli Excerpta Liviani di Floro, di Eutropio, di Orosio. Sappiamo che Cicerone e il poeta Lucano usano il nome di Spartaco in senso negativo, invece Floro e Sallustio gli riconoscono la dignità di vero comandante. Quanto alle idee di Spartaco e alla sua personalità, sappiamo che aveva vietato alle sue truppe di maneggiare oro e argento e che pretendeva di dividere in parti eque ogni bottino conquistato. Si sforzava di mantenere uniti i suoi seguaci cercando alleanze tra la popolazione locale. Era capace di condurre una lunga guerra di logoramento, a differenza di altri suoi luogotenenti, come Crisso, Enomao, Gannico, Casto, più avvezzi a colpi di mano e improvvisazioni. Da notare che Pompeo e Crasso, infierendo così duramente su questi schiavi, indebolirono ulteriormente le sorti già precarie della repubblica, al punto che quando Cesare pose in essere le fondamenta dell'impero, nulla poterono fare. LA RIVOLTA DI VELZNA Velzna, l'antica Orvieto di origine etrusca, conobbe una rivolta di schiavi circa 270 anni prima della nascita di Cristo. Schiavi, liberti (per buona parte greco-orientali) e plebei della città, cui ben presto si unirono quelli di origine etrusca, umbra, sabina e sannita, si opposero al nuovo modello economico che Roma, soprattutto dopo aver sconfitto gli etruschi, voleva imporre a tutta la penisola: grandi latifondi posseduti da poche famiglie di aristocratici, lavorati da migliaia di schiavi in condizioni miserevoli. I rivoltosi prendono possesso delle terre coltivate, dei boschi e delle industrie del bronzo. Si attribuiscono cariche pubbliche, sostituendo tutti i funzionari in carica. Il governo della città-stato emana nuove leggi: i latifondisti devono lasciare le terre in eredità ai liberti, le terre vanno redistribuite fra gli schiavi che le lavorano, vanno legalizzati i matrimoni tra persone di classe sociale diversa, va concessa maggiore libertà (anche sessuale) alle donne, vanno amnistiati i reati contro il pudore. Nelle assemblee popolari tutti hanno uguali diritti: donne e uomini, poveri e benestanti, etruschi e stranieri. Gli aristocratici rifiutano ovviamente la rivolta e inviano propri ambasciatori segreti a Roma per un incontro notturno col senato. Implorano l'intervento militare accampando falsi pretesti: i rivoltosi stuprano le donne nobili, impediscono di punire i colpevoli... Nella primavera del 265 a.C. un grande esercito, guidato dal console Quinto Fabio Massimo, risale la valle del Tevere da Roma al corso del fiume Paglia, accingendosi a "liberare" Velzna dai rivoltosi. Gli scontri sono durissimi: i romani riescono a distruggere l'armata di Velzna, ma il console Fabio ci rimette la vita. I sopravvissuti si rinchiudono nella città, che viene assediata per molti mesi. Privata di viveri, di acqua, sconvolta dalle epidemie, dagli incendi, dalle distruzioni causate dalle macchine da guerra romane, la città di arrende nel 264 a.C. Il nuovo console Marco Fulvio Flacco fa trucidare tutti i capi rivoluzionari, incendia le campagne, rade al suolo la città, trascina parte degli abitanti a Roma per venderli come schiavi o farli morire in carcere. I superstiti vengono deportati nella Nuova Velzna (Volsinii Novi, l'antica Bolsena), fondata dai vincitori sulle rive del lago. Duemila statue bronzee vengono rubate dai romani nel tempio principale della città distrutta. Schiavitù delle civiltà antiche ed in epoca romana: Nella fase delle civiltà più antiche ha dominato la schiavitù, in forme diverse, poiché la schiavitù dei contadini egizi o assiro-babilonesi non era uguale alla schiavitù sotto i greci e, soprattutto, sotto i romani, che raggiunsero praticamente il vertice nell'organizzazione socio-economica basata sullo sfruttamento della manodopera schiavizzata. In 4.000 anni di storia si è passati da una sorta di schiavitù implicita, in cui il contrassegno era l'obbligo del tributo, che se non veniva pagato poteva portare il contribuente a una schiavitù esplicita, a una vera e propria schiavitù diretta, immediata, senza soluzione di continuità: un'esistenza in cui tutta la persona dello schiavo, con tutta la sua vita quotidiana, era un "tributo" al suo padrone. Nel mondo greco poté esserci un'attenuazione della schiavitù solo con l'emigrazione verso le colonie, nel senso che i coloni, tra di loro, cercarono di vivere nelle colonie una maggiore democrazia rispetto a quella della madrepatria. Nel mondo romano i conflitti sociali furono enormemente superiori a quelli del mondo greco e la trasformazione dello schiavo in colono fu solo la conseguenza della irreversibile decadenza dell'impero, incapace di fronteggiare i nemici esterni e la crisi interna. Forse si può dire che nello schiavismo implicito (quello egizio) la rappresentazione della forza si serviva di preferenza della proprietà agricola, nel senso che quante più terre si possedevano tanto più si era forti. Tuttavia, l'idea stessa di poter misurare la propria forza in rapporto alla quantità di terre possedute deve essere stata successiva all'idea di poter misurare la propria superiorità in virtù della pura e semplice forza fisica. Quindi all'inizio della proprietà privata deve esserci stato un conflitto di tipo personale, in cui i "Caino" e gli "Abele" della storia si sono misurati sul piano fisico, col risultato che ha prevalso quello che ha adottato i metodi più violenti, ma anche più subdoli, che risultarono inaspettati alla collettività. Poi, là dove la comunità ha reagito, il violento è stato emarginato o espulso; là dove invece la reazione non è stata adeguata, col tempo, in maniera progressiva, si è imposto un rivolgimento di valori. In altre parole, mentre sotto lo schiavismo implicito il più forte poteva servirsi della proprietà della terra per imporre la propria forza, senza dover necessariamente ricorrere alla forza fisica o militare, e questo presuppone ch'egli fosse già nel passato ricorso a tale forza e che ora non ne avesse più bisogno come prima, viceversa nell'epoca dello schiavismo esplicito la rappresentazione della forza aveva soprattutto bisogno della componente militare, con la differenza che la giustificazione di tale componente aveva bisogno di una legittimazione teorica più sofisticata, come p. es. il diritto. L'Egitto classico sperimentò il passaggio ai due tipi di schiavismo, ma quando entrò nella fase del secondo, accentuando di molto gli aspetti militaristici, incontrò degli avversari - in primis i romani - che sul piano specifico dell'organizzazione militare e della legittimazione teorica erano molto più evoluti. I romani avevano questa particolare caratteristica: il principio della forza militare veniva mistificato dalla finzione del diritto. Cioè nel passaggio dal dominio della terra al dominio militare, con cui viene difeso il possesso privato della terra e che separa peraltro il passaggio dalla repubblica all'impero, si ha un'accentuazione degli aspetti che in apparenza avrebbero dovuto essere antimilitaristici, come appunto il diritto, e che invece serviranno proprio per giustificare l'uso della forza più cieca. Questo non sarebbe mai stato possibile se all'origine dell'affermazione della terra come proprietà privata non ci fosse stato l'uso personale della forza fisica come criterio per risolvere le controversie sociali. In Egitto in luogo del diritto vi fu uno sviluppo eccezionale della religione, e solo nel momento in cui si cercò di realizzare il passaggio allo schiavismo esplicito si operò un tentativo di riforma, poi abortito, in direzione del monoteismo assoluto (tentativo poi portato avanti da Mosè e altri sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che mal sopportava l'acuirsi dello schiavismo). Il fallimento di questa riforma contribuirà decisamente al crollo della civiltà egizia. In ogni caso anche da queste cose si comprende il motivo per cui la civiltà egizia sia durata più di quella romana, anche se questa ha lasciato nella storia delle civiltà un segno maggiore. Al tempo dello schiavismo non esistevano vere e proprie ideologie, se non miti di tipo religioso, formule sacre da ripetere per la propria o altrui salvezza. Ciò che non si metteva mai in discussione era il primato della forza, che in quel momento veniva espresso dal monarca e dai suoi più stretti collaboratori e funzionari. L'ideologia invece è subentrata nel momento stesso in cui il concetto di forza aveva bisogno di una giustificazione teorica per poter continuare a sopravvivere in forme e modi diversi. Sia il sacro romano impero che l'impero bizantino sono stati il tentativo di giustificare lo schiavismo (poi attenuato nella forma del servaggio) realizzando una fusione ideologica tra diritto romano e religione ebraico-cristiana, ed è così che è nata la teologia, che è la prima vera ideologia delle civiltà antagonistiche del mondo occidentale. Oggi l'illusione di un diritto contrapposto alla forza è di molto superiore all'illusione che nelle civiltà antiche si aveva di mitigare l'eccesso della forza con le formule e i riti religiosi. Le civiltà sono state la più grande disgrazia dell'umanità e sarà possibile liberarsene solo quando si porrà fine alla proprietà privata e, di conseguenza, alle sovrastrutture che la difendono: apparati politici, militari, burocratici, fiscali ecc. * * * Bisognerebbe tracciare una linea evolutiva delle civiltà antiche in modo da dimostrare che l'impero romano si configura come l'organizzazione migliore nella gestione dello schiavismo. "Migliore" nel senso della capacità di sfruttare gratuitamente il lavoro altrui. Quali sono state le caratteristiche salienti dell'impero romano che nell'insieme lo hanno reso "migliore" rispetto a tutte le altre formazioni sociali schiavistiche? La centralizzazione dei poteri, prima intorno alla città di Roma, rappresentata dal senato, poi nelle mani dell'imperatore: significativo è stato il passaggio dal particolarismo e localismo del concetto di polis all'universalismo del concetto di stato e di impero, rappresentato dall'imperatore. I grandi imperi di Alessandro il Macedone e di Gengis Khan non hanno avuto la stessa influenza nella storia, la stessa capacità organizzativa, perché probabilmente erano basati su un concetto di forza o troppo diretto o troppo individualistico o comunque troppo semplicistico per poter durare a lungo, mentre quello romano aveva la caratteristica molto singolare per quei tempi, e quindi anche molto moderna, di dare all'uso della forza una copertura ideologica che ne mistificasse la forma. La militarizzazione dell'economia, nel senso che le basi dell'economia imperiale erano la conquista militare e la conseguente colonizzazione. La ricchezza di Roma non dipese tanto da una particolare abilità nello sfruttare le risorse interne (come p.es. si verificò in quella egizia o babilonese, o in quelle pre-colombiane), ma dipese per buona parte dallo sfruttamento esoso di risorse esterne. Quanto più si allargava l'impero, quanto più aumentava lo sfruttamento economico delle sue risorse (che spesso va di pari passo col riconoscimento dei diritti civili e politici, perché anche in questa ambivalenza sta la grandezza di Roma), tanto più i romani si concentravano nello svolgere attività economiche improduttive, connesse all'esigenza di vivere una vita lussuosa, dispendiosa, futile: di qui le grandi costruzioni di ville, monumenti, bagni pubblici, strutture ludiche... che avevano anche lo scopo di favorire il consenso politico. Di qui anche il rifiuto, a un certo punto, di partecipare alla vita militare, con la conseguente necessità di arruolare i cosiddetti "barbari" nelle legioni. La copertura ideologica del diritto, che svolse una funzione di tutela pseudo-democratica della proprietà. La strumentalizzazione della religione a fini politici. La progressiva accentuazione di tutti questi aspetti, che ha avuto uno sviluppo impetuoso soprattutto dopo la morte di Cesare e la trasformazione della repubblica in impero, determinò una progressiva rinuncia alle lotte di liberazione, di cui l'ultimo significativo esempio è stato quello ebraico, anticipato un secolo prima da quello degli schiavi guidati da Spartaco. Una lotta di liberazione viziata dalla componente religiosa venne portata avanti dai cristiani, ma quando l'impero fu invaso dalle popolazioni cosiddette "barbariche" non si realizzò un vero superamento dell'ideologia e della prassi schiavistica, ma solo una trasformazione che ne attenuasse le asprezze: di qui la nascita del servaggio. E per altri mille anni il feudalesimo ha conosciuto conflitti di ogni sorta intorno ai concetti di proprietà e di libertà. * * * Bisognerebbe dimostrare che il mancato passaggio dallo schiavismo al capitalismo è dipeso non tanto o non solo da questioni tecniche o economiche (cioè di tipo quantitativo), ma anche e soprattutto da questioni culturali, nel senso che il rifiuto di considerare lo schiavo una persona (questione introdotta per la prima volta dal cristianesimo) ha impedito di realizzare un rapporto giuridico formalmente libero e quindi di indurre lo schiavista a trasformarsi in imprenditore, cioè a puntare l'attenzione sulla tecnologia per poter sfruttare come prima e meglio di prima una manodopera formalmente umana e non animalesca. Il mondo romano avrebbe potuto passare dallo schiavismo al capitalismo, saltando la fase del servaggio feudale, a condizione che l'accettazione e il rifiuto del cristianesimo avvenissero in tempi molto brevi. Tuttavia considerare lo schiavo una persona implicava un'altra cosa, che si considerasse il lavoro una forma emancipativa e non una condanna. E questo per tutta l'epoca classica, incluso il Medioevo, non s'è mai verificato. Ecco perché il capitalismo non è nato nel feudalesimo, dove pur esisteva il concetto di persona, per quanto limitato dal servaggio. Per far nascere il capitalismo ci voleva l'uomo formalmente libero e l'idea che col lavoro è possibile emanciparsi dalla schiavitù-servitù e contemporaneamente dal proprio passato, dalle tradizioni condivise, dalla comunità di villaggio, dalla chiesa... Per tutto il Medioevo non si è mai stati capaci di porre il lavoro al centro dell'emancipazione politica e sociale. Infatti il lavoro nell'accezione moderna (borghese) viene visto come occasione di affermazione del singolo contro la comunità (in Italia addirittura già intorno al Mille il borghese cominciava a guardare con disprezzo chi non lavorava, quindi non solo i feudatari e il clero ma anche i poveri). La borghesia ha ereditato dal cristianesimo il concetto di persona e ha fatto del lavoro non una dimensione degna dell'uomo ma un'occasione prima di emancipazione individualistica (nel commercio c'è il furto, l'inganno ai danni della collettività) e poi un'occasione di sfruttamento di chi è solo formalmente libero ma materialmente nullatenente. Se guardiamo il momento in cui in Italia sono rinati i commerci, intorno al Mille, noteremo subito che ciò avvenne mentre contestualmente nelle Università si stava teorizzando la fine del cattolicesimo tradizionale (papocentrico, gerarchico, integralistico ecc.), a tutto vantaggio della riscoperta dell'aristotelismo, del nominalismo, del relativismo dei valori, dell'affermazione dei valori borghesi, che in Italia andavano imponendosi, a livello di società civile, in ambito comunale, signorile. La nascita della borghesia europea è contestuale alla critica del cattolicesimo romano. Poteva avvenire una cosa del genere nel mondo romano? Le eresie sono state tantissime nel mondo romano-cristiano (dopo l'ufficializzazione di Teodosio), ma sono state tutte duramente represse, e il pensiero si è per così dire fossilizzato. La teologia agostiniana rimarrà in auge per tutto l'Alto Medioevo e verrà decisamente superata solo dal Tomismo, che aprirà le porte a un'esperienza della fede basata sulla razionalità, cioè su un atteggiamento che è l'anticamera del modo di porsi borghese, tant'è che il tomismo è ancora oggi la teologia dominante per il cristianesimo-borghese. E non a caso Wojtyla ha cercato, vanamente, di superarlo accentuando gli aspetti dell'integralismo preconciliare (operazione che poteva andar bene nella Polonia preborghese, in funzione anticomunista, ma che nell'Europa occidentale non ha avuto alcun seguito). Questo insomma per dire che se lo schiavismo non s'è trasformato in capitalismo non è stato perché mancavano delle basi strutturali, ma perché mancavano basi di tipo culturale, le quali, se fossero state poste, avrebbero generato le necessarie strutture. Il capitalismo infatti non sarebbe stato possibile senza un'esperienza alienata del cristianesimo, cioè senza la convinzione che l'ideologia cristiana, ai fini della giustizia sociale, sarebbe stata una clamorosa illusione. Ma perché maturasse questa convinzione occorreva del tempo: dalla fine dell'impero romano alla nascita del capitalismo sono occorsi praticamente mille anni. Dunque senza cristianesimo non avrebbe mai potuto esserci il capitalismo, e il cristianesimo che ha permesso la nascita del capitalismo è stato quello che ha tradito se stesso, i suoi principi, cioè anzitutto il cattolicesimo-romano, che ha tradito se stesso sul piano politico, con l'affermazione della monarchia pontificia, e successivamente il protestantesimo, che ha portato alle estreme conseguenze il tradimento cattolico, estendendolo a livello sociale: sotto il protestantesimo la corruzione non si pone solo a livello di istituzioni, gerarchia, papato, ma si estende a livello di società civile, di rapporti sociali quotidiani: tutti sono nemici di tutti. E questo in nome del dio cristiano, stravolto nei suoi contenuti originari. Il cattolicesimo ha posto delle premesse politiche a favore del capitalismo che il protestantesimo ha sviluppato a livello sociale. LA RIVOLTA DEL GLADIATORE SPARTACO Mentre Roma era impegnata a fronteggiare la ribellione di Quinto Sertorio nelle province spagnole, un grave pericolo si concretizzò nella penisola italica, un pericolo inizialmente sottovalutato, ma che richiese successivamente un grande sforzo militare per disinnescarlo: la rivolta di un gruppo di gladiatori che si trasformò in una grande guerra al potere di Roma e alle sue ingiustizie sociali. Una guerra che passerà alla storia con il nome di "bellum servile". Spartaco A guidare i rivoltosi, uno di loro, un trace di nome Spartaco, che diventò un simbolo immortale delle lotte degli oppressi contro gli oppressori, tanto che ancora nel 1918, in Germania nasceva un movimento socialista il cui nome fu proprio quello di "movimento spartachista". Spartaco era quindi un gladiatore originario della Tracia, una regione balcanica ta il Mar Nero e il Mar Egeo. Prima di diventare gladiatore era stato un soldato dell'esercito Romano, ma accusato di diserzione era stato ridotto in schiavitù e venduto ad un lanista, un addestratore di gladiatori. La rivolta dei gladiatori Nel 73 a.C., Spartaco si trovava a Capua in una scuola per gladiatori (ludus), di proprietà di un certo Gneo Lentulo Batiato. Fu proprio da questa scuola che partì la rivolta, originata dalle pessime condizioni di vita a cui erano sottoposti i suoi 200 gladiatori. Su questi gladiatori Spartaco aveva un particolare ascendente, alimentato dalle profezie della sua concubina, una donna iniziata ai riti dionisiaci. Si erano tutti organizzati per fuggire, ma poi a causa di una delazione 80 di loro furono costretti ad accelerare i tempi; la rivolta scoppiò improvvisa e i gladiatori ebbero ragione dei loro carcerieri pur non disponendo di armi ma solo di strumenti da cucina. Le armi le trovarono all'esterno della scuola, saccheggiando prima un convoglio destinato ad un altra scuola e assalendo successivamente la guarnigione militare di Capua. Male armati, ma molto determinati i fuggitivi si rifugiarono sulle falde del Vesuvio, dove si riposarono in attesa di decidere una strategia. A fianco di Spartaco, altri due gladiatori, di origine celtica, spiccavano sul resto del gruppo, tanto da diventare una sorta di luogotenenti del guerriero trace: Crisso ed Enomao. Le prime facili vittorie Sottovalutando il pericolo, il propretore Claudio Glabro si recò sul Vesuvio alla guida di 3000 soldati, convinto inizialmente di sistemare la questione senza eccessive difficoltà. Ma una volta arrivato sul posto forse comprese che la situazione era più complicata di quello che aveva immaginato e così si limitò ad assediare i ribelli in attesa di rinforzi. Ma i ribelli trovarono una via per fuggire all'assedio: utilizzando rami di vite costruirono delle scale con cui discesero i ripidi costoni del Vesuvio e, dopo aver girato intorno ai loro assedianti, riuscirono a ribaltare i ruoli, piombando improvvisamente sull'accampamento dei soldati. La vittoria dei gladiatori fu netta e accese un lume di speranza in tutti gli schiavi e i disperati della zona che continuavano ad ingrossare le fila di questo esercito improvvisato. La situazione era grave, ma ancora una volta la minaccia venne sottovalutata da chi era incaricato di soffocare la rivolta. Anche il pretore Varinio, affrontò i ribelli con pochi uomini e con una tattica improvvisata. Le sue truppe, divise in due distaccamenti di 2000 uomini ciascuno, furono annientate con facilità dagli uomini di Spartaco. Lo stesso pretore rischiò la vita, ma poi riuscì a sfuggire al nemico per rifugiarsi a Cuma, da dove mandò un messaggio al Senato di Roma, evidenziando la gravità della situazione. I successi conseguiti da Spartaco, assumevano dei contorni leggendari sugli schiavi e sui disperati che vivevano sia nelle città sia nelle campagne, i quali si sentivano attratti da questo vento di libertà e di riscatto. Le fila di questo esercito improvvisato si ingrandivano a dismisura e per Spartaco e i suoi legati le priorità diventavano quelle di sfamare questa moltitudine e di prepararla alle battaglie imminenti. Il viaggio verso le Alpi Approfittando dell'effetto sorpresa, Spartaco, con il suo esercito, abbandonò le falde del Vesuvio per cominciare un percorso con cui intendeva risalire la penisola per poi valicare le Alpi e tornare in quelle terre da cui proveniva. Spartaco sapeva che restando in Italia prima o poi sarebbe stato sconfitto da un esercito romano: l'effetto sorpresa non sarebbe durato a lungo. Durante il percorso questo esercito irregolare attaccava città come Nola e Nocera, ma nello stesso tempo saccheggiava le campagne e le borgate isolate. Spartaco non riusciva a controllare tutti gli uomini che si muovevano con lui, alcuni dei quali si erano organizzati in bande dedite alla violenza e al saccheggio; per questo motivo tentava di rendere più veloce il suo progetto di abbandonare la penisola. In effetti il Senato di Roma si stava organizzando per fare fronte a questa minaccia, conferendo ai consoli dell'anno, Gellio Publicola e Cornelio Lentulo Clodiano, l'incarico di reprimere la rivolta. I consoli avevano l'occasione per approfittare delle divisioni che si stavano creando tra i rivoltosi: il progetto di Spartaco non era gradito alla componente celtica del suo esercito e ai suoi luogotenenti Crisso e Enomao. Loro preferivano restare nella penisola, continuando a saccheggiare campagne e a conquistare città. Così Spartaco alla guida di 30.000 uomini si mise in marcia verso le Alpi, mentre Crisso ed Enomao, insieme a 10.000 uomini prevalentemente di origine celtica, puntarono a sud, verso l'Apulia. La sconfitta di Crisso e Enoma Il console Publicola, insieme al pretore Arrio, ebbe vita facile contro il gruppo celtico e in poco tempo li annientarono, uccidendo Enomao in un primo combattimento e Crisso in uno successivo. A quel punto i due vincitori si mossero in aiuto del console Clodiano che stava per attaccare Spartaco e i suoi uomini, che intanto erano cresciuti ancora di numero. L'obiettivo era quello di attaccare i rivoltosi con una mossa a tenaglia, ma il piano fallì e Spartaco riuscì a sbaragliare entrambi gli eserciti Romani per poi riprendere il suo viaggio verso Nord. La sua marcia sembrava inarrestabile, anche il propretore della Gallia Cisalpina, Cassio Longino, dovette recedere dal proposito di bloccare l'avanzata di Spartaco, dopo aver perso in una prima battaglia ben 10.000 soldati. Spartaco volle commemorare in modo particolare la morte del suo compagno d'avventura Crisso, morto sotto i colpi dell'esercito Romano. Lo fece attuando una vendetta che aveva un significato particolarmente simbolico e cioè costringendo ben 300 prigionieri Romani ad affrontarsi in una grande sfida gladiatoria all'ultimo sangue. Spartaco inarrestabile Ora con l'ex-gladiatore erano schierati ben 100.000 uomini, una massa difficile da controllare e da gestire. Il problema del cibo era sempre più evidente e Spartaco che , nonostante le facili vittorie, era sempre più preoccupato della situazione. Arrivato a Modena, di fronte alle sue mura ben difese e alle sue porte sbarrate, Spartaco, senza una spiegazione evidente, rinunciò alla sua idea, e decise di tornare verso sud. Questo cambio di direzione sconcertò i Romani che temevano un attacco alla città. Temevano sopratutto che i tanti schiavi presenti in città potessero unirsi alla rivolta, creando un pericoloso fronte interno che avrebbe indubbiamente favorito l'attacco dall'esterno, altrimenti impossibile. Ma Spartaco sapeva bene che la conquista di Roma sarebbe stata un'impresa impossibile e quindi si mantenne lontano dall'Urbe, ridiscendendo la penisola sul versante Adriatico. La sua marcia, anche se in senso inverso, continuava ad essere inarrestabile e ogni tentativo di bloccarla si dimostrava vano. I consoli dell'anno (72 a.C.) si dimostrarono inadeguati, subendo ripetute sconfitte, e così per fronteggiare la situazione di emergenza, Roma ricorse ancora alla soluzione dell'uomo forte, l'uomo a cui veniva concesso un imperium assoluto. La Repubblica Romana, per salvare se stessa, adottava una soluzione che la spingeva sempre più velocemente verso la sua estinzione. Marco Licinio Crasso Mentre Pompeo esercitava il suo imperium in Spagna, al pretore Marco Licinio Crasso veniva concesso il comando assoluto della lotta contro Spartaco; Crasso era un ricco aristocratico che, nella guerra civile, aveva combattuto al fianco di Lucio Cornelio Silla e che ora cercava di cogliere questa occasione per accrescere il suo prestigio personale. Crasso, nella nuova carica di proconsole, si impegnò nella guerra servile schierando ben 10 legioni, di cui 6 arruolate personalmente da lui. Ne mandò subito 2 a controllare i movimenti del nemico, ma le stesse, sfidate dall'orda nemica, si smembrarono, evidenziando un'estrema fragilità. Molti dei legionari si diedero alla fuga, provocando la dura reazione di Crasso. Il proconsole volle dare un forte segnale che richiamava i suoi soldati al rispetto di quelle caratteristiche di disciplina e coraggio che da sempre avevano contraddistinto l'esercito Romano. Sottopose così le due legioni, accusate di tradimento, ad un provvedimento punitivo ormai in disuso: la decimazione. Gli uomini venivano divisi in gruppi di dieci e per ogni gruppo un solo uomo veniva condannato a morte. La selezione veniva effettuata per sorteggio, ma la cosa peggiore era che la condanna doveva essere eseguita dai 9 compagni più fortunati. Con la decimazione si punivano duramente le legioni riducendo al minimo i danni: infatti le legioni punite restavano integre e operative perdendo in fondo solo un decimo dei loro effettivi. Nel frattempo Spartaco, che aveva definitivamente rinunciato ad attaccare Roma, continuava a spingersi a Sud. Non potendo mantenere compatto un gruppo troppo numeroso, divise la sua armata in gruppi più piccoli. Uno di questi, composto da 10.000 uomini, finì sotto le grinfie delle legioni di Crasso e venne annientato. Spartaco si era spinto fino all'estremità della penisola, a Reggio Calabria, con l'intenzione di imbarcarsi per la Sicilia. Ma i pirati della Cilicia che avrebbero dovuto trasportare lui e i suoi uomini sull'isola vennero meno al loro impegno. L'accerchiamento in Calabria Così Spartaco, si trovò in una situazione molto difficile, chiuso come era in un lembo di terra circondato per tre quarti dal mare. Si rifugiò nelle montagne dell'Aspromonte, impotente di fronte all'opera di accerchiamento che gli uomini di Crasso andavano costituendo. Un accerchiamento sostenuto da un grande sforzo di ingegneria che permise di costruire in poco tempo, una lunga palizzata in legno e un ampio fossato: due opere, lunghe 55 chilometri, che isolavano di fatto la punta, dal resto dello stivale; di fronte a Spartaco e ai suoi uomini la prospettiva di una morte lenta per mancanza di cibo. I tentativi di fuga risultavano vani, in uno di essi morirono 12.000 uomini, mentre la negoziazione veniva rifiutata in modo deciso da Crasso che ormai sentiva la vittoria imminente. Ma una notte una parte dei ribelli riuscì ad aprirsi un varco e a fuggire. Crasso per evitare di trovarsi accerchiato dovette abbandonare l'assedio, lasciando a Spartaco e al resto dei rivoltosi la possibilità di abbandonare quella trappola mortale. Spartaco prese la via di Brindisi, dove forse sperava di imbarcarsi per la Tracia. Colto dalla disperazione, Crasso chiese aiuto al Senato, il quale richiamò sia le truppe di stanza in Macedonia, agli ordini di Marco Terenzio Varrone Lucullo, sia Pompeo Magno con il suo esercito, che nel frattempo aveva portato a termine vittoriosamente la campagna iberica contro l'altro grande ribelle del tempo: Quinto Sertorio. Crasso si pentì amaramente della sua richiesta di aiuto, che aveva provocato il ritorno in patria di Pompeo. I due uomini si odiavano a vicenda, divisi da una grande rivalità fomentata dalla grande ambizione di potere. Del resto Crasso, coadiuvato da Lucullo, aveva tutte le risorse necessarie per combattere quello che era in fondo un gruppo di disperati male armati e alla ricerca disperata di cibo. Il proconsole pensò quindi di rendere più pressante la sua strategia militare e di chiudere il conto con Spartaco prima che Pompeo potesse tornare in patria per prendere parte alla guerra. La sua tattica fu premiata da alcuni successi importanti, come la vittoria contro un gruppo di celti guidati da Giannico e Casto. In questa battaglia le truppe Romane recuperarono 5 aquile, simbolo della forza delle legioni Romane, ingenerando in questo modo nuovo entusiasmo e vigore tra i legionari che assegnavano grande valore alle loro insegne. La morte di Spartaco Spartaco sotto la spinta delle legioni di Crasso e di quelle di Lucullo fu costretto a ripiegare nel Bruzio e dopo, qualche schermaglia con sorti alterne, non poté evitare l'impeto delle legioni Romane. In una grande battaglia svoltasi in Lucania, sulle rive del Sele, le legioni Romane riuscirono finalmente ad annientare le orde nemiche. Lo stesso Spartaco, nonostante la sua furia, cadde sotto i colpi del nemico, anche se il suo corpo non fu mai ritrovato, alimentando così ulteriormente la leggenda che aleggiava intorno alla sua figura di grande combattente. Il suo comportamento coraggioso nella battaglia finale, gli viene riconosciuto da tutti gli storici della Roma Antica, anche quelli che più ostili alla sua figura. Nella primavera dell'anno 71 a.C., finiva un incubo che aveva sconvolto le notti dei Romani per un anno e mezzo. Questo uomo, che aveva messo sotto scacco per così lungo tempo Roma e il suo esercito, aveva invece rappresentato un dolce sogno di libertà per tutti quegli uomini che vivevano in regime di schiavitù. Crasso anche in questo caso, come nel caso della decimazione, adottò una punizione esemplare per i prigionieri che erano sopravvissuti alla battaglia decisiva. Ben 6000 croci vennero erette lungo la via Appia, nel tratto che collegava Roma con Capua. 6000 ribelli persero quindi la vita in questo orribile modo, fornendo a detta di Crasso, un valido esempio per tutti gli schiavi che non si erano ribellati, ma che si erano sentiti moralmente vicini all'azione di Spartaco. Un esempio della grande potenza di Roma. Il colpo decisivo di Pompeo Crasso era pronto per il trionfo, un trionfo da grande condottiero, ma la sfortuna volle che un gruppo composto da 5000 schiavi, sfuggiti al grande massacro, si scontrasse in Etruria con le le truppe di Pompeo che discendevano la penisola. I 5000 fuggiaschi furono massacrati dalle truppe pompeiane, dando così modo al generale piceno di accaparrarsi una parte dei meriti connessi con la fine della rivolta. Lo stesso Pompeo, mandando un messaggio al Senato dichiarava: "Se Crasso ha vinto il male, io ne ho estirpato le radici". Due generali alle porte di Roma Entrambi i generali si mossero quindi verso Roma, senza smobilitare i loro eserciti, richiedendo a gran voce il meritato trionfo e la possibilità di candidarsi al consolato per l'anno successivo. Quest'ultima era una richiesta assolutamente incostituzionale, considerato che nessuno di loro aveva le carte in regola per potersi candidare, ma in quegli anni, la costituzione repubblicana era diventata così vulnerabile da non rappresentare più una garanzia contro l'ambizione di alcuni uomini particolarmente potenti. E così il Senato in difficoltà, con due eserciti minacciosi ancora mobilitati, concesse il trionfo a Pompeo e una semplice ovazione a Crasso e poi diede il benestare alla loro candidatura al consolato.



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