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SISTEMA TRIBUTARIO DELL'ANTICA ROMA

SISTEMA TRIBUTARIO ED EVOLUZIONE SOCIOECONOMICA

EVOLUZIONE ECONOMICA E SOCIALE DELL'ANTICA ROMA Per inquadrare i cambiamenti socio-economici avvenuti nel corso della storia romana - in particolare in riferimento al periodo del passaggio dalla Repubblica all'Impero - dobbiamo tenere conto dell'esistenza di due distinte fasi a livello produttivo e sociale: a) quella 'agricola' e b) quella 'imperialista'. A) FASE AGRICOLA Nel corso della fase che chiamiamo agricola (e che molto schematicamente possiamo dire giungere fino al termine della seconda guerra punica, nel 202) si ha, all'interno della società romana, un netto predominio dell'aristocrazia terriera. Al di sotto di questa, si trova la plebe (composta sia da piccoli proprietari che da semplici lavoratori - per la maggior parte giuridicamente liberi - della terra). Questa aristocrazia rurale è di tipo capitalistico, tende difatti a arricchirsi a spese dei proprietari più piccoli: ovvero a ingrandire i propri possedimenti inglobando quelli di questi ultimi [si noti poi che quello della distribuzione delle terre - detto questione agraria - è un problema estremamente diffuso in tutto il mondo antico, come dimostra la vicenda della Grecia sia classica che pre-classica!]. L'opera di ampliamento dei propri territori non può certo essere inoltre estremamente difficoltosa per la classe aristocratica, dal momento che essa si colloca in una posizione nettamente dominante sia da un punto di vista economico che (attraverso il Senato) da un punto di vista politico. Quasi certamente, durante il periodo dell'egemonia e dell'influenza etrusche, si sviluppa una prima forma di vita industriale (in senso ovviamente non moderno, prima di tutto da un punto di vista tecnologico) e commerciale; ma un tale fenomeno resta comunque estremamente circoscritto, non andando in sostanza al di là di un tipo di produzione d'ambito familiare. Non vi è dunque, in questo primo periodo, alcuna classe che contrasti seriamente il predominio politico e economico nobiliare, predominio il cui fondamento è di natura essenzialmente terriera. La società arcaica si basa dunque su un forte divario tra i ceti ricchi e quelli poveri, divario coincidente grosso modo con quello di natura sociale tra patrizi e plebei (questi ultimi sia piccoli proprietari, sia proletari rurali e cittadini). Il patriziato inoltre esercita - in virtù del proprio predominio politico e istituzionale - un patronato diffuso su tutta la plebe: ogni famiglia nobile ha insomma le proprie clientele private (formate da coloro che sono in debito verso di lei e che quindi le restano legate a vita) che rinsaldano il suo dominio in un certo ambito territoriale. Un primo segno di mutamento di tale situazione sarà costituito dalle riforme poste in atto dal sovrano Servio Tullio, il quale dividerà la popolazione in base a criteri censuari, anziché di nascita o di casta. Questa nuova distinzione, indipendente dai criteri di 'casta' e di appartenenza familiare, tiene conto della ricchezza personale dei cittadini ed è il prodotto di un'evoluzione di carattere economico: l'arricchimento cioè di una parte della plebe. Pochi anni dopo le riforme di Servio Tullio inoltre, si avrà - e non a caso - la creazione delle Assemblee centuriate. B) FASE IMPERIALISTA Ma la vera e propria svolta nella storia romana si ha - secondo l'opinione concorde degli storici - al termine della seconda guerra punica (202 a.C.), quando Roma diviene 'padrona' delle regioni del Mediterraneo occidentale, dopo avere in sostanza eliminato la sua rivale, la potenza cartaginese, unico serio ostacolo alle proprie mire espansionistiche nelle zone del bacino mediterraneo occidentale. Inizia così per Roma una fase del tutto nuova: quella imperialistica. E per la società romana si aprono nuove prospettive sia di arricchimento che di trasformazione sociale, legate più o meno tutte al predominio militare e politico che essa esercita sui territori sottomessi. Se il patriziato, attraverso il protettorato di Roma su tali zone, acquisisce nuove terre e nuove ricchezze; la plebe vede invece ampliarsi enormemente gli orizzonti della propria azione: accanto al lavoro agricolo o all'esistenza strettamente urbana, si profilano difatti per lei possibilità quali l'arruolamento nell'esercito (che gradualmente si professionalizza) o il commercio. I nuovi orizzonti commerciali e finanziari, che il patriziato (per ragioni di prestigio sociale, legate a pregiudizi culturali di natura essenzialmente "anti-economica") tende a non sfruttare, diverranno difatti col tempo sempre più attività esclusiva della plebe, la quale si sobbarcherà appunto il compito di portare avanti - assieme ad altri ceti subalterni - questo tipo di iniziative. Ai plebei romani e italici si aggiungono poi quelli delle province, le quali a loro volta entrano a fare parte dei quadri dirigenti dell'impero. Un fenomeno essenziale, connesso a questa trasformazione, è quello per cui le antiche clientele dell'aristocrazia romana (risalenti ancora al periodo arcaico) perdono gradualmente il loro antico predominio sociale, a causa del ridimensionamento dovuto alle nuove forme di patronato create dai quei grandi condottieri che accentrano su di sé dei poteri vastissimi, che percorrono tutte le regioni imperiali da occidente a oriente. Le clientele nobiliari romano-italiche finiscono così per venire inglobate - almeno tendenzialmente - all'interno di quelle più giovani ma anche estremamente più ampie dei condottieri e dei principi, e nemmeno spesso come le parti più rilevanti di esse! E' la corte imperiale infatti, la vera "clientela" del principe, dal momento che in essa risiede l'insieme dei suoi uomini, ovvero dei tutori del suo predominio politico (i quali però, hanno anche notevoli possibilità di condizionarlo): un predominio cui debbono oramai sottomettersi - è gioco-forza - anche i patronati più antichi, quelli romano-italici e nobiliari. Non bisogna tuttavia credere che non vi siano, all'interno dei territori imperiali, anche altri centri di potere oltre alla corte, che mantengono una forte indipendenza da essa, poteri di natura economica o legati al persistere di poteri territoriali molto remoti. E neanche che in Roma l'aristocrazia non cerchi di contrastare l'egemonia politica del principe e degli apparati imperiali, facendosi forte delle sue antiche tradizioni clientelari e del loro radicamento nei territori cittadini e peninsulari - ne è una prova ad esempio la Lex Valeria-Cornelia del cinque (e il suo aggiornamento nel 19 d.C.), con la quale Augusto e il Senato si spartiscono a spese delle Assemblee popolari i poteri elettorali sulle magistrature. Schematicamente, le componenti sociali che, all'interno dei territori imperiali, possiamo considerare come 'clientes' dei poteri del princeps sono dunque: - quelle provinciali (i gruppi di potere locali debbono infatti appoggiarsi, al fine di dare risonanza a livello globale ai propri interessi, all'autorità politica del principe e alla sua corte); - quelle militari (il principe infatti, erede della lunga tradizione dei condottieri romani - come Cesare o Mario - è anche il capo dell'esercito, e da lui dipende il buono stato di quest'ultimo, il quale inoltre - vista la sua importanza - può esercitare su di lui una forte pressione a livello decisionale); - le classi subalterne (ad esempio la plebe urbana e gli schiavi) e quelle commerciali (ad esempio, i plebei ricchi o gli equestri, e i liberti) le quali spesso si appoggiano a lui, e in generale al nascente Stato imperiale, per raggiungere un rango sociale e un livello economico più elevato. L'apparato imperiale dunque, trae gran parte della propria forza dall'alleanza con questi ceti non aristocratici. Infatti, se da una parte esso dà voce ai loro interessi, dall'altra li colloca in un quadro complessivo (quello imperiale appunto) che, consolidandone la funzione e il prestigio sociale, rafforza al contempo anche se stesso. Entrando a fare parte dell'esercito infatti, o divenendo funzionari dell'immenso apparato imperiale, o costituendosi parte della classe affaristica, commerciale e/o industriale (spesso bisognosa di aiuti da parte dello Stato: sia sul piano militare, ad esempio con missioni di polizia sui territori, sia su quello finanziario attraverso provvedimenti pubblici.), queste classi finiscono quantomeno tendenzialmente per dipendere dall'autorità del principe, il quale a sua volta si pone al vertice di quella vasta piramide di poteri che gestiscono questi aspetto della vita sociale dell'Impero. Si vede quindi chiaramente come egli, favorendo lo sviluppo di queste classi, consolidi al tempo stesso sia l'Impero sia la propria autorità politica e istituzionale: due realtà che, per ragioni politiche e culturali, tendono a porsi in contrasto con le prerogative e i valori della più antica aristocrazia terriera. Da Augusto in avanti, si può dunque parlare di una vera e propria politica delle classi medie, portata avanti consapevolmente dall'Imperatore (e dal suo seguito) al fine di rafforzare la propria creatura politica! Egli infatti, avendo compreso come la realtà imperiale trovi la sua solidità e il suo elemento connettivo essenzialmente negli interessi commerciali che accomunano le differenti regioni, favorisce lo sviluppo di una vasta classe agiata - definibile, anche se con termine improprio, come "classe medio borghese" - la quale, con le proprie attività commerciali, burocratiche e militari, contribuisce all'esistenza dell'Impero, traendone contemporaneamente dei benefici personali in termini di benessere economico e di considerazione sociale. Anche la condizione schiavile risente poi di queste trasformazioni. Mentre la maggior parte degli schiavi vede peggiorare, rispetto al periodo prettamente agricolo e arcaico della società romana, le proprie condizioni di vita (divenendo lo strumento fondamentale di un sistema produttivo sempre più esigente ed opulento), vi è una piccola minoranza invece che assurge a una nuova dignità. Sono coloro che si occupano - con successo - di questioni finanziarie e commerciali, e che contribuiscono in tal modo all'arricchimento e alla crescita capitalistica dei propri padroni (si ricordi a tale proposito il memorabile personaggio del "Satyricon" di Petronio: il liberto, ovvero lo schiavo liberato, Trimalcione). Essi inoltre, dopo essere stati affrancati dai propri proprietari (magari in punto di morte), continuano di solito a portare avanti in proprio le attività commerciali, divenendo in tal modo un elemento non secondario del dinamismo economico e mercantile dell'Impero. In conclusione possiamo dire che la società romana si trasforma, nel corso della sua evoluzione, da una realtà fondata su due piani contrastanti (basata cioè su una rigida divisione tra ricchi e poveri, coincidente in gran parte con la distinzione sociale - di casta - tra patrizi e plebei) in una fondata su più piani: i ricchi (l'aristocrazia terriera, ma anche i plebei abbienti o cavalieri, e molto spesso i liberti), i ceti medi (ovvero una vastissima classe di individui che hanno raggiunto o aspirano a raggiungere un certo benessere) e i ceti parassitari o marginali (quali il proletariato urbano, gli schiavi, ecc.) Ed è proprio tra i ceti medi (nonché in generale tra quelli commerciali e finanziari) che l'Impero trova il proprio principale elemento di forza: questi ultimi infatti vedono nella crescita dell'Impero la loro stessa crescita! E perciò ne sostengono a vari livelli e in diversi modi - e fino a un certo momento fondamentalmente con successo - lo sviluppo. Nonostante i conflitti interni alla compagine imperiale (conflitti legati soprattutto ai differenti interessi a livello regionale) quest'ultimo riuscirà, come tutti sanno, a sopravvivere ancora per parecchi secoli dopo la morte di Ottaviano Augusto. Evidentemente, la sua forza starà nel saper calibrare bene il rapporto tra le proprie risorse militari e coercitive (vaste, anche se non illimitate) e gli interessi particolaristici delle zone che lo compongono. Un tale capacità di mediazione e di compromesso manterrà questa immensa entità politica e militare relativamente compatta ancora per svariati decenni. I punti di forza che ne consolidano l'integrità territoriale, contribuendo al tempo stesso al benessere di una gran parte dei propri cittadini, sono: - la capacità di fare circolare le merci e la ricchezza al proprio interno (si parla a tale proposito di capitalismo distributivo) - la capacità di garantire la sicurezza interna attraverso azioni militari contro la pirateria, piuttosto che contro le spinte centrifughe interne, e in generale contro i nemici dell'Impero. Col tempo inoltre, la città di Roma diventerà sempre di più la capitale solo nominale dell'Impero, perdendo quel ruolo di effettiva preminenza sugli altri territori che aveva avuto ancora nei secoli della Respublica, e divenendo più semplicemente il centro dirigenziale di esso, ovvero la sede ufficiale per ragioni storiche e di tradizione dell'Imperatore - il quale assieme alla corte costituirà invece il vero centro dello Stato. Ciò perché gli interessi in gioco diventeranno gradualmente troppo vasti per poter coincidere con le istanze politiche della capitale, e per poter trovare quindi in esse un effettivo riscontro. 1. Le tre fasi dell'economia romana Nella sua lunga evoluzione da città-stato a Impero, Roma ha attraversato differenti fasi non solo di carattere geografico e politico, ma anche di carattere produttivo: è passata cioè attraverso diverse forme o stadi produttivi. Molto schematicamente possiamo dire, riguardo a quest'ultimo punto, che si siano susseguite le seguenti modalità: A - quella 'capitalistica-agraria', B - quella capitalistica in senso commerciale e mercantile, C - infine quella agricola o 'pre-feudale'. A - Nella prima di tali fasi, la grande proprietà tende a accrescersi a spese di quella media e piccola, la quale rimane spesso soffocata dai debiti contratti con la prima e - di conseguenza - anche imprigionata nei vincoli di gratitudine e di asservimento che questa le impone. Si può perciò parlare di una sorta di "capitalismo" (nel senso di un impulso o di una tendenza costante verso l'accrescimento o la capitalizzazione della ricchezza), ma con la precisazione che si tratta di un capitalismo ancora eminentemente agrario, cioè privo (o quasi) di quelle basi commerciali e monetarie che lo caratterizzano nei suoi sviluppi più maturi e nella sua forma più pura. C - Nell'ultima fase - che prelude peraltro al feudalesimo (ovvero a quel sistema che diverrà, nel Medioevo, la principale forma di organizzazione sociale ed economica) - si afferma un tipo di economia che possiamo definire di autosussistenza, nella quale ogni centro di produzione locale, detto villa, tende a costituirsi come una realtà sociale e produttiva autonoma. Tanto la prima quanto l'ultima fase - pur con le dovute e profondissime differenze - sono caratterizzate dalla prevalenza pressoché incondizionata del momento della produzione (legata essenzialmente all'agricoltura e all'allevamento) su quello della distribuzione e dello smistamento dei prodotti. In esse dunque, secondario se non assente è il fattore commerciale, con tutto ciò che questo comporta (bassa specializzazione a livello della produzione locale, sottosviluppo delle città.) La differenza più evidente tra esse consiste invece nel fatto che la prima, col suo tipo di organizzazione sociale ed economica, preceda e in un certo grado prepari i futuri sviluppi della società romana: sviluppi di carattere commerciale e - pur con tutti i limiti che un tale termine assume in questo contesto - industriale; l'ultima, al contrario, sorge dal ripiegamento e dal collasso di questo secondo tipo - più avanzato - di organizzazione economica, che sfocerà in un sistema produttivo essenzialmente agricolo: quello feudale. Oggetto dei prossimi paragrafi saranno fondamentalmente gli aspetti di base del secondo stadio produttivo (B), di quello cioè che potremmo definire capitalistico in un senso più moderno, poiché comprendente tra l'altro: l'uso della moneta, il commercio su larga - e larghissima - scala, nonché un tipo di produzione di carattere 'proto-industriale' (finalizzata cioè alla fabbricazione dei beni in grande quantità!) Si tenterà, qui di seguito, di delineare il funzionamento del capitalismo romano 'maturo', utilizzando - a mo' di raffronto - i concetti e le categorie sottese all'analisi dell'economia moderna (di quella realtà storica cioè, il cui primissimo inizio si colloca con la rinascita cittadina del XIII sec.) E' ovvio che la diversità tra "capitalismo moderno" e "capitalismo antico" non può non essere abissale. Per tale ragione si cercherà di mettere sempre in luce - pure nell'affinità di fondo tra i due sistemi - anche le profonde differenze tra essi. insomma si utilizzeranno effettivamente le categorie dell'economia moderna, ma in un modo - si spera - critico ed estremamente prudente. In ogni caso, il tentativo sarà quello di interpretare il sistema socio-economico della Roma imperiale (e, più in generale, di quella 'imperialista') attraverso categorie 'moderne', utilizzate tanto in senso positivo (mostrandone cioè la sostanziale adattabilità al mondo antico), sia in senso negativo (mostrando anche, cioè, il profondo divario che intercorre tra i due sistemi). 2. Caratteri del capitalismo romano (e in generale di quello antico) Per comodità, si è deciso di dividere l'argomento in tre differenti paragrafi, corrispondenti a tre diversi livelli del discorso, tra loro strettamente interrelati: quello produttivo (inerente cioè alla produzione: al suo modo di esistere e alla sua redditività, ma anche - più in generale - all'organizzazione delle attività economiche); quello organizzativo (riguardante la ricchezza, nelle sue diverse forme e nel modo in cui esse si articolano); ed infine quello sociale, politico e culturale. Come si è già detto, si utilizzeranno - ma a mo' di raffronto e non certo in senso univoco - categorie sociali ed economiche moderne, ragion per cui ogni argomento (produzione, commercio, Stato, ecc.) verrà sempre posto in relazione con il suo più giovane - e da noi quindi anche meglio conosciuto - corrispettivo. A) Caratteristiche produttive Non può non balzare all'occhio - e non essere al tempo stesso il punto d'avvio del nostro discorso - l'enorme differenza che esiste, sul piano della produttività, tra la società romana (e più in generale antica) e la moderna società industriale. E' ovvio poi come il minor livello produttivo della prima comporti per essa anche minori eccedenze da reinvestire, in qualità di merci, in attività di tipo 'capitalistico'. Già da queste brevissime osservazioni si può intuire l'intrinseca debolezza del capitalismo antico [ove col termine "capitalismo" si intenda una pratica economica fondata sul commercio e sul reinvestimento degli utili ricavati attraverso esso in altre attività economicamente redditizie, al fine di una crescita idealmente illimitata della ricchezza] rispetto a quello moderno, dotato tra l'altro di risorse produttive infinitamente superiori. Una debolezza caratterizzante peraltro, sebbene in differenti gradi, tutti i momenti evolutivi (compresi quelli di maggiore splendore) della civiltà romana, e in generale di quella antica. Né è necessario ricordare come l'economia di quest'ultima sia di tipo fondamentalmente agrario (legata peraltro non solo ai latifondi, ma anche alle medie e piccole proprietà - pur essendo queste ultime molto più indirizzate, rispetto ai primi, verso un'economia d'autosussistenza) o artigianale (praticata sia nella campagne che nei centri cittadini), priva quindi di una vera e propria produzione di carattere industriale, cioè su larghissima scala. Ma, nonostante la presenza dei fattori appena menzionati (i quali, limitando come si è detto la quantità di merci disponibili sui mercati, influenzano in un senso decisamente sfavorevole lo svolgimento delle attività commerciali) si deve anche ricordare come, inversamente, la crescita e il consolidamento del dominio internazionale di Roma favorisca lo sviluppo o il consolidamento di rotte di carattere commerciale che collegano da parte a parte le diverse aree dell'Impero, e che spingono inoltre la produzione locale in direzione della specializzazione produttiva. In tal modo quindi, ogni area tende a fornire alle altre una gamma di prodotti - di cui è naturalmente più ricca - ricevendone in compenso degli altri di cui è sguarnita, o che comunque sarebbe in grado da sola di produrre in quantità decisamente minore: un meccanismo che presenta evidenti vantaggi per tutte le regioni dell'Impero e attraverso cui si configura un sistema economico e commerciale 'globale'. E' poi interessante notare come un simile processo di specializzazione si possa paragonare - seppure molto alla lontana - alla moderna produzione industriale, in quanto finalizzato evidentemente a un tipo di produzione su 'larga scala'. Un altro elemento distintivo dell'economia romana - anche nei suoi stadi più avanzati - rispetto a quella moderna è il differente rapporto tra città e campagne. Mentre infatti le città moderne tendono a svilupparsi in opposizione o comunque in un rapporto di notevole autonomia rispetto alle campagne limitrofe, le città antiche mantengono al contrario con esse un rapporto molto più stretto, quasi simbiotico. E ciò sia perché, rispetto alle prime, la quantità di prodotti che ricevono dalle zone agricole è inevitabilmente molto inferiore (ragion per cui non riescono a sviluppare una eccessiva indipendenza da esse), sia a causa di uno sviluppo molto più basso delle attività commerciali e finanziarie, sia infine per l'assenza di quelle attività industriali che si svolgono oggi - almeno prevalentemente - all'interno delle città o nelle loro periferie. In conclusione, possiamo dire che tanto il sottosviluppo produttivo del mondo agrario romano - e più in generale di quello antico -, quanto quello (in gran parte conseguenza del primo) delle città e delle attività che in esse hanno luogo, portano come risultato una netta prevalenza delle attività di tipo produttivo (fondamentalmente rurali) rispetto a quelle di tipo capitalistico (legate ai traffici e, in modo complementare, al reinvestimento della ricchezza): ovvero in buona sostanza a una netta prevalenza, in termini sociali ed economici, delle campagne sulle città! B) Caratteristiche economiche Oltre alla differenze di tipo produttivo (appena analizzate), vi sono poi quelle riguardanti più specificamente la sfera economica, legate cioè al modo di organizzazione delle attività non specificamente rurali. Approfondendo tali aspetti, ci si accorge di come - oltre alle già menzionate deficienze di carattere produttivo - ve ne siano altre di tipo finanziario e commerciale. Prima di tutto, bisogna ricordare come nel mondo antico l'uso della moneta - soprattutto se paragonato a quello che, secoli dopo, se ne farà in quello moderno - risulti estremamente ridotto. Un dato che non può non comportare gravi difficoltà nelle transazioni commerciali [anche se, in senso opposto, possiamo già rilevare la presenza di monete 'internazionali', quali quelle romane del periodo imperiale o - ancora prima - delle 'civette' ateniesi]. In altri termini, la carenza di danaro liquido - e la sua cronica instabilità - finirà per rendere molto più difficoltosi e complicati gli scambi commerciali, costituendo un notevole impedimento - quasi una zavorra - per il loro svolgimento! Di ciò è prova anche il fatto che la pratica del baratto e quella delle prestazioni in natura, rimangano sempre molto diffuse nell'arco di tutta la storia romana. Ma il mondo antico è caratterizzato anche da altre deficienze sul piano dell'organizzazione economica, deficienze che riguardano l'assenza - o quasi - di veri e propri strumenti di organizzazione del credito (quali per esempio le moderne banche) che favoriscano il reinvestimento della ricchezza acquisita (piuttosto che posseduta per ragioni d'eredità) in nuove imprese commerciali o finanziarie, secondo un processo - capitalistico appunto - di crescita continua dei profitti. La carenza insomma tanto di danaro liquido, quanto di veri ed efficienti strumenti di tipo finanziario sarà, nel mondo antico, una delle ragioni alla base della difficoltà di decollo dell'economia propriamente capitalistica, costituendo una pesante (seppure inconsapevole) ipoteca non solo per le attività economiche di carattere commerciale, ma anche per lo sviluppo di una mentalità capitalistica in senso propriamente moderno. L'estrema debolezza e 'inconsistenza' della ricchezza mobile rispetto a quella immobile, infatti, porterà come conseguenza il fatto che i cittadini più ricchi preferiscano in linea di massima (almeno una volta consolidato il proprio patrimonio) gli investimenti di tipo agrario (legati essenzialmente all'acquisto di terre) a quelli di tipo più propriamente capitalistico, volti cioè a rimettere in gioco il proprio capitale attraverso attività di carattere commerciale e finanziario. E ciò sia perché questo tipo di investimenti è, all'interno di tale sistema, ancora più rischioso di quanto non lo sia nelle civiltà moderne; sia per ragioni di carattere più propriamente culturale o "di mentalità", essendo le attività commerciali ritenute tendenzialmente dequalificanti per gli individui, e comunque meno prestigiose di un'esistenza di tipo 'agreste' (come si vedrà meglio più avanti). Un altro elemento sintomatico della debolezza delle attività capitalistiche nel mondo antico è la schiacciante superiorità dello Stato in fatto di ricchezza rispetto ai privati cittadini: nel periodo imperiale infatti è l'Imperatore - e di gran lunga - il più ricco e il più potente capitalista, con possedimenti (e monopoli) che attraversano tutti i territori dell'Impero stesso, e che gli consentono non solo di sostenere finanziariamente gli apparati statali, ma anche di fungere da 'motore' e da sostegno nei confronti di tutta l'economia interna. A tali attività poi - non estranee ovviamente neanche agli stati moderni - si aggiungano quelle legate al mantenimento dell'ordine e della pace sociale, della sicurezza sulle frontiere, nonchè infine alla manutenzione e promozione di molteplici opere pubbliche: tutti fattori essenziali per il consolidamento dell'economia stessa - e anch'esse non estranee, anzi basilari, per l'economia degli stati moderni. C) Aspetti politici, sociali e culturali - Aspetti politici Un possibile fraintendimento della storia romana - anche di quella più avanzata - consiste nell'applicare a essa, sul piano delle scelte politiche, dei criteri eccessivamente moderni (secondo un tipo di lettura che si suole definire 'modernista'). Seguendo una tale linea interpretativa si considereranno le decisioni della classe dirigente come funzione, in tutto o in buona parte, di obiettivi di natura economica e capitalistica, cioè come finalizzate all'estensione dei mercati piuttosto che ad altre finalità di carattere 'capitalistico'. Se tuttavia un tale criterio può essere considerato valido per ciò che riguarda gli stati moderni (i cui sviluppi, sia tecnologici che ideologici, hanno portato a un'incontestabile centralità di tali fattori, anche in sede politica), lo stesso non si può dire per gli stati antichi - compresa l'antica Roma! E' altresì vero che i conflitti internazionali abbiano comportato per essa, nell'arco di tutta la sua lunga storia (soprattutto nella fase ascendente), una notevole estensione non solo dei territori o delle sfere di influenza, ma anche delle rotte commerciali, dei mercati e delle attività capitalistiche, e tuttavia ciò non significa automaticamente che tali conflitti siano stati provocati e intrapresi per motivazioni di carattere capitalistico! Piuttosto, possiamo dire che alla base delle campagne militari e delle guerre vi siano spesso, oltre a motivazioni di carattere difensivo, le seguenti aspirazioni: a) aspirazioni di carattere ideologico o comunque non legate alla ricchezza (ad esempio ragioni di prestigio, come l'affermazione a livello internazionale della potenza romana; oppure la ricerca di sicurezza: difesa da potenziali nemici, volontà di civilizzare aree culturalmente ostili. - due fattori questi che spesso, oggi come allora, si mescolano e si confondono tra loro!); b) prospettive di arricchimento 'a breve termine' (si consideri il fatto che la guerra porta sempre bottini, ragion per cui può anche essere combattuta per se stessa, essendo inoltre convinzione comune che essa debba auto-finanziarsi, ovvero riassorbire le proprie spese attraverso i guadagni immediati dovuti alle battaglie e alle rapine di guerra, o alla riduzione di buona parte dei nemici in schiavitù); c) possibilità di sfruttamento delle risorse - naturali piuttosto che umane - delle zone oggetto di conquista (una guerra può essere combattuta ad esempio, qualora tali regioni siano ricche d'oro piuttosto che di materie prime, o più semplicemente di manodopera schiavile. in potenza!). Si può poi ricordare, di nuovo, il ruolo che lo Stato - come autorità politico-militare e come 'maggior capitalista' - esercita solitamente in difesa delle attività economiche nonché della ricchezza interna dell'Impero! A tale proposito può essere utile ricordare anche come, in tutti gli Stati antichi, siano il sovrano e la sua corte la fonte principale (almeno nei primi periodi di sviluppo dello Stato) delle attività commerciali. Attraverso la loro ricchezza difatti, essi finiscono per esercitare una preziosa funzione di stimolo nei confronti di tali attività, ponendosi così all'origine dei futuri - seppure spesso esigui - sviluppi capitalistici della società. [Ciò vale per esempio per la civiltà egiziana e per quella micenea e minoica, per le quali si parla di solito di "Economia di palazzo".] - Aspetti sociali Anche sul piano dell'attribuzione dei ruoli sociali (ovvero del ceto di appartenenza) ai singoli cittadini, vi sono profonde differenze tra il mondo moderno e quello antico romano. E anch'esse appaiono - ad un'attenta analisi - allo stesso tempo causa ed effetto della relativa marginalità delle attività capitalistiche all'interno di quest'ultimo. Mentre infatti, nella società moderna censo e ceto tendono a corrispondere, in quella antica ciò non è molto spesso vero. In primo luogo, vediamo come i senatori - gli appartenenti alla classe nobiliare, cioè i cittadini più ricchi in assoluto - non siano autorizzati per legge a esercitare attività di carattere commerciale, o comunque legate in qualsiasi modo ad attività finanziarie o speculative. Le loro occupazioni pubbliche non possono che essere quindi di carattere politico o militare, mentre l'unica loro fonte di reddito sono i vastissimi possedimenti fondiari. Anche se è vero che i prodotti della terra sono alla base dei traffici che percorrono in lungo e in largo l'Impero, ciò non deve indurre a credere che i latifondisti esercitino anche attività commerciali in proprio. A seguito di una legge risalente ancora ai primi secoli della Respublica, essi sono difatti costretti a delegare queste ultime ad altri soggetti sociali, per i quali esse sono spesso cospicua fonte di ricchezza. Al di sotto della nobilitas, troviamo poi la classe degli equestri (cavalieri). Anche a essa si accede a partire da un altissimo livello patrimoniale (anche se, ovviamente, più basso rispetto a quello della classe precedente). Ai componenti di quest'ultima non è proibito l'esercizio - oltre che delle attività politiche - dei commerci e delle attività finanziarie, ad esempio quelle legate agli appalti pubblici (dominio dei 'publicani') tra i quali compaiono la riscossione delle imposte, il finanziamento delle guerre, quello delle opere pubbliche, ecc. Il fatto che possano impegnarsi in tali attività però, non significa che lo facciano sempre: molti infatti investono i loro guadagni in possedimenti fondiari, come del resto i nobili. Più in alto ci si eleva nella scala sociale, insomma, più difficile (e quasi disdicevole) diviene 'sporcarsi le mani' col danaro: e ciò anche se esso è, in realtà, alla base dell'ascesa sociale di moltissimi plebei e - come si vedrà subito qui avanti - non solo di essi! Un discorso analogo a quello fatto per la nobiltà vale infatti, anche se da un punto di vista diametralmente opposto, anche per i ceti di origine più umile: cioè per i liberti, ovvero gli schiavi liberati. Mentre coloro che appartengono alle classi più alte, quelle nobiliari, non possono (fondamentalmente) esercitare attività di carattere capitalistico, coloro i quali - pur divenuti ricchissimi attraverso i traffici! - appartengono alla classe degli ex-schiavi, non possono entrare a fare parte - come invece gli altri cittadini liberi - di un ceto corrispondente alla propria effettiva rendita personale. In questo modo, i ceti socialmente più prestigiosi (i nobili e gli equestri) costituiscono, per coloro la cui provenienza sociale sia d'origine schiavile (e anche se ricchi), una sorta di casta chiusa e inaccessibile. Si è già detto altrove, come i liberti costituiscano un elemento fondamentale del dinamismo sociale ed economico (in senso capitalistico) della società romana, dal momento che - privi come sono in partenza di mezzi propri, in quanto ex-schiavi - possono accrescere la loro ricchezza soltanto attraverso attività di carattere affaristico finanziario. Ma il fatto che ad essi sia proibito l'accesso alle classi sociali superiori mostra molto bene come i promotori di tali attività godano di una considerazione sociale non certo eccessivamente alta - e inferiore di molto, in ogni caso, a quella dei nobili latifondisti -, e prova inoltre l'esistenza di notevoli pregiudizi (peraltro abbastanza ovvi) nei confronti di individui la cui condizione di partenza sia stata la più infima! Entrambe queste limitazioni giuridiche (sia quelle inerenti ai nobili, che quelle inerenti ai liberti) sono una chiara manifestazione del perdurare di una mentalità anti-economica - ovvero di casta - all'interno della società romana; una mentalità che - come già si è detto - ostacola il decollo di un'economia capitalistica, essendo poi al tempo stesso manifestazione e prodotto dell'instabilità e della precarietà congenita di quest'ultima. - Aspetti culturali Si è appena visto, nel precedente paragrafo, come le limitazioni sociali di carattere giuridico siano espressione di una perdurante mentalità anti-economica (ostile all'idea di un'ascesa sociale individuale per meriti di tipo personale), le cui origini storiche affondano ancora in quel periodo arcaico in cui Roma era divisa in caste fondamentalmente chiuse, e le cui ragioni immanenti si radicano invece nella maggior debolezza della ricchezza monetaria rispetto a quella immobiliare e fondiaria. Qui avanti cercheremmo di delineare a grandi linee le coordinate di quell'ideale agrario e 'bucolico', che si pone a base della mentalità anti-affaristica del mondo romano e latino; e successivamente di mostrare come e quando una tale mentalità sia stata (almeno in parte) superata o revocata da quelle stesse classi, nobiliari o comunque ricche, che ne sono anche l'incarnazione sociale più pura. Per quanto riguarda l'ideale agrario, possiamo dire che esso rimanga, nell'arco di tutta la storia romana, un'idea-guida e una fonte d'ispirazione per i comportamenti sociali di molti cittadini (non solo ricchi o nobili) attraverso le proprie scelte di vita. Esso si fonda sul principio del bastare a se stessi, del condurre cioè un'esistenza autonoma - almeno potenzialmente - rispetto al resto della società e delle attività che in essa si svolgono, per mezzo ovviamente dei frutti ricavati dalla propria terra. Un tale ideale è inoltre espressione di una mentalità molto più propensa all'accumulazione della ricchezza (peraltro fondamentalmente agraria, e non certo monetaria) che al suo reinvestimento. A un tale astratto proposito (astratto poiché ovviamente mai realizzato nella sua interezza!) corrispondono poi gli ideali dell'otium e della libertas: valori tipicamente nobiliari e aristocratici, secondo i quali sono da considerarsi neglette tutte le attività pratiche e manuali, e che prediligono invece quelle inerenti al comando militare o alla politica E' inoltre superfluo sottolineare come tali idealità trovino una piena realizzazione soltanto nella vita dei nobili o, comunque, dei ricchi, pur informando di sé in un certo grado un po' tutta la società. Ed è infatti proprio sulla base di tali valori (e dei comportamenti che ne conseguono) che le classi nobiliari si opporranno allo strapotere politico e ideologico detenuto, all'interno dello Stato, dal princeps e dai suoi apparati di potere! Da una parte quindi, troviamo le più antiche istituzioni repubblicane, legate ai valori oligarchici e agrari, mentre dall'altra troviamo la nuova società imperiale e internazionale, basata in gran parte su scambi di natura economica e culturale (che concorrono a creare una realtà 'globale') e su valori di segno almeno tendenzialmente opposto a quelli della prima. Un'inconciliabilità questa, non soltanto culturale ma anche economica (essendo a essa sottese due visioni estremamente differenti e in buona parte incompatibili dell'organizzazione produttiva della società), che si porrà a fondamento della latente - e a volte anche esplicita - ostilità tra Impero e Senato: una rivalità che percorrerà tutta la storia di Roma, a partire da Ottaviano (e, in certo senso, anche da prima) fino al crollo del quinto secolo. Certo accanto alla tendenza verso la disunione e la conflittualità, ve ne sarà un'altra - definita 'concordia' - in direzione dell'integrazione e dell'accordo tra queste entità (insieme politiche economiche e culturali), la quale sarà celebrata soprattutto nel cosiddetto 'periodo aureo' dell'Impero. E tuttavia essa sarà solo una disposizione di fondo (peraltro opposta e complementare alla prima), i cui momenti più felici si situano per l'Impero nella fase di maggiore splendore delle attività economiche e commerciali, ovvero essenzialmente nei primi due secoli dopo Cristo. Sempre molto forte sarà, insomma, sia prima che dopo che durante il cosiddetto periodo d'Oro della storia imperiale, la rivalità tra i poteri (e gli apparati) imperiali e quelli nobiliari senatorii: troppo spesso influenzati da valori e da obiettivi politici tra loro profondamente divergenti! IN CONCLUSIONEPossiamo dire dunque, che nell'arco di tutta la storia romana (nonché in generale di quella antica) sia la forma produttiva agraria (e 'cumulativa') a prevalere nettamente su quella più propriamente commerciale e capitalistica (basata invece sul reinvestimento delle ricchezze). E' anche vero, d'altra parte, che nel corso della sua lunga fase espansiva e imperialista, Roma svilupperà forme di organizzazione economica di tipo anche commerciale, che svolgeranno peraltro un ruolo essenziale all'interno della sua vita sociale e culturale. Tuttavia, l'intrinseca debolezza di una tale dimensione è provata chiaramente - tra l'altro - dal fatto che essa, in soli due secoli, finisca per cedere nuovamente il passo a un tipo di società fondamentalmente agraria: quella feudale. In altri termini, il capitalismo antico può essere visto come una sorta di 'isola felice', in un mondo in cui le forme produttive largamente dominanti sono (per ragioni intrinseche e strutturali) di tipo agricolo - forme che sia prima sia dopo il cosiddetto 'periodo aureo' finiscono per prevalere totalmente nell'organizzazione economica della società. ECONOMIA DI CONSUMO E DI SCAMBIO NELL'ANTICA ROMA Le origini agrarie di Roma - Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali - L'affermarsi di un'economia 'mista' - Il declino dei commerci 1. Fase arcaica: le origini agrarie di Roma Nella fase arcaica (quella gentilizia), coincidente all'incirca con il periodo monarchico e con i primi secoli della Repubblica, non sono presenti - quantomeno in misura sensibile - attività di carattere commerciale. L'economia e la produttività sono quasi esclusivamente agricole (pure con qualche sporadica attività di tipo artigianale, sia nelle città che nelle campagne). 2. Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali E' il processo di crescita dei territori - dovuto allo scontro, spesso non volontario, con altri popoli o con altre potenze, quale quella mediterranea cartaginese - ad innescare, assieme ad altri aspetti, anche la crescita delle attività commerciali e mercantili. Ed è il ceto alto-plebeo o equestre a farsi promotore di molte delle nuove attività economiche, connesse peraltro all'accrescimento territoriale di Roma, ovvero al nuovo assetto sociale determinato da una tale situazione. Tali ceti, assieme ai liberti, assumono almeno tendenzialmente il controllo delle attività finanziarie, commerciali, degli appalti pubblici (legati alle opere pubbliche e al finanziamento delle guerre di conquista). ma anche, in buona parte, di altri aspetti della vita sociale romana, quali quelli giuridici e politici. D'altra parte - in contrapposizione a questi ceti e alle loro attività - le classi patrizie o nobiliari rimarranno maggiormente attaccate alle attività agricole e alle proprietà fondiarie: fonte primaria (anche a livello ufficiale) delle loro ricchezze. 3. L'affermarsi di un'economia 'mista' Ma l'estensione dei commerci e dei mercati non può non costituire un potente richiamo (date le facili prospettive di arricchimento che fornisce) anche per i ceti agrari e latifondistici, ovvero per la nobilitas senatoria. A partire soprattutto dagli anni della tarda Repubblica e in quelli successivi dell'Impero (soprattutto nei momenti di maggiore fioritura economica), si assiste così a un'evoluzione delle proprietà fondiarie (dette "villae") in vere e proprie 'industrie capitalistiche', finalizzate a un incremento della produttività - a sua volta finalizzata al commercio -, sia attraverso una notevole specializzazione produttiva che con un'intensificazione delle colture. Fenomeno interessante, però, è anche il fatto che in esse permangano anche delle attività produttive finalizzate al mero consumo, il cui fine è cioè il semplice mantenimento della stessa proprietà fondiaria e dei suoi abitanti (la nobiltas e i suoi 'familii'). Accanto a una produzione di carattere industriale (se così si può dire) e a sfondo capitalistico, rimane dunque in vigore anche un altro tipo di produzione, di natura decisamente più arcaica, il cui fine da una parte è l'autoconsumo e dall'altra la conservazione di una 'via d'uscita' potenziale dalle eventuali strettoie dei commerci. Ma, oltre a essere uno strumento di tutela sul piano economico per i latifondi e i loro possessori (si ricordi a tale riguardo l'estrema instabilità delle attività commerciali antiche, instabilità le cui cause risiedono in una miriade di fattori: da quelli monetari alle incerte vie di traffico.), una tale conduzione di natura "autarchica" è anche il prodotto del perdurare di un tipo di mentalità che vede nel "bastare a se stessi" - possibile proprio soltanto attraverso una rendita fondiaria - la linea di demarcazione tra nobili e plebei, tra ceti alti e non. Si parla, a tale proposito, di una "economia a doppia strategia", nella quale, accanto e nonostante gli investimenti di natura commerciale, è lasciata aperta una porta anche a un'economia di natura autarchica, secondo un modello di vita più antico (incentrato sui valori nobiliari dell'otium e della libertas - ovvero del vivere senza lavorare, ma soprattutto senza preoccupazioni di carattere economico). Ma anche i ceti economicamente e socialmente emergenti, ovvero gli equestri e i liberti, pur molto legati all'Impero e alle attività che in esso si svolgono - che stanno peraltro alla base della loro stessa ricchezza -, hanno la tendenza a investire i propri patrimoni monetari in capitali di tipo immobiliare, ovvero nelle terre, e a vivere - secondo uno stile aristocratico - dei proventi di queste ultime: un doppio movimento, insomma, dal latifondo (ovvero da un'economia 'di consumo') verso il commercio e gli affari, e da questi verso il latifondo! Si può quindi dire che, tutto sommato, le attività capitalistiche - almeno nel pieno del fiorire delle attività commerciali e dello sviluppo delle vie di comunicazione - si diffondano in senso "trasversale", coinvolgendo così un po' tutti i ceti (non solo quelli più abbienti) della società romana. D'altra parte, però, l'insicurezza congenita di un tale tipo di attività, porterà anche a un movimento inverso: un po' tutti coloro che abbiano soldi da investire, infatti, tenderanno a cercare un rifugio economico più solido nel possedimento di terre e di beni immobili. Nei periodi di maggiore splendore dell'Impero, quindi (ma anche in quelli immediatamente precedenti e seguenti) la tendenza dominante sarà quella verso un'economia mista, rivolta in parte ai commerci e in parte, al contrario, all'autoconsumo - secondo l'antico mito dell'autarchia tipico delle classi alte. 4. Il declino dei traffici Con il declinare dei traffici - parallelo, peraltro, a quello degli stessi apparati imperiali - si verificherà un'inversione di tendenza sul piano della produttività e dell'economia. Le classi tipicamente agrarie difatti - tanto quella senatoria (ovvero quella non solo più ricca, ma anche maggiormente vincolata alla terra) quanto gli altri proprietari fondiari (essenzialmente i cavalieri e i liberti) - ripiegheranno sempre di più verso la pratica di un'economia di autoconsumo, e ciò ovviamente a scapito ulteriore dei traffici e delle attività di scambio. Se i primi poi (de sempre - per tradizione politica e culturale consolidata - ostili o comunque critici nei confronti delle forze e degli apparati dell'Impero) avranno buon gioco a prendere le distanze dallo Stato imperiale, oramai in evidente declino, e a rifugiarsi all'interno dei loro stessi domini fondiari (divenenti sempre più veri e propri centri di autosussistenza, estranei alla vita che si svolge al loro esterno), gli altri (molto più legati agli apparati dell'Impero, a partire dai quali hanno costruito gran parte della loro ricchezza e della loro fortuna) subiranno invece le conseguenze di una tale situazione, rimanendo imprigionati in quelle stesse maglie di potere che li avevano precedentemente sostenuti e aiutati a emergere socialmente. In ogni caso, la tendenza economica dominante di questo periodo sarà quella a chiudersi all'interno dei propri possedimenti, quella cioè verso l'autosussistenza (o comunque la tesaurizzazione delle proprie ricchezze) - non certo quella verso il commercio e il reinvestimento dei beni. D'altra parte, un'economia di scambio quale quella antica (che poggia su basi produttive - schiavili e agrarie -, finanziarie - si pensi solo alla costante carenza di moneta circolante e alle banche - e su un sistema di trasporti - come per esempio le antiche vie di transito - estremamente fragili) non potrà resistere a lungo ad alcuni fattori critici, quali le invasioni di popoli ostili o il calo improvviso della produttività (dovuto in gran parte alla mancanza di manodopera schiavile), che difatti ne decreteranno la fine praticamente in soli due o tre secoli. Concludendo, possiamo dire che la parabola dell'economia romana antica inizi sotto il segno della produzione finalizzata al consumo e si concluda di nuovo sotto di essa, conoscendo però - nei periodo di maggior splendore dell'Impero - una parentesi 'mista', basata tanto sui commerci quanto sull'autoconsumo. L'AGRICOLTURA DI ROMA ANTICA Quando i romani iniziarono a sottomettere le popolazioni italiche definirono le terre conquistate col termine di "agro pubblico". Una parte di questi terreni veniva divisa in centurie, cioè in rettangoli più o meno equivalenti, destinati ad essere assegnati ai coloni-soldati, che di mestiere facevano i contadini e che su questi lotti praticavano sostanzialmente un'agricoltura di sussistenza. Altri terreni potevano essere affittati a cittadini privati, che quindi li gestivano, anche potendo trasmetterli in via ereditaria, senza averne la proprietà, che restava statale. La parte del leone toccò sempre ai comandanti militari, membri dell'aristocrazia senatoria, forniti di poteri quasi illimitati, che potevano far lavorare sulle loro terre coloni e schiavi. I processi di colonizzazione spesso coincidevano con migrazioni interne quasi bibliche, in quanto i romani cacciavano gli esuberi relativi alle popolazioni autoctone: p.es. 40.000 liguri apuani, appena vinti, furono trasferiti nelle campagne attorno a Benevento. Fu soprattutto dopo le guerre puniche che alcuni ceti (i patrizi) si arricchirono enormemente, trasformando il demanio pubblico in proprietà privata. Gli investimenti erano prevalentemente indirizzati all'acquisto di terre, in quanto i senatori, secondo una legge del 218 a.C. che voleva tenere separati l'attività politica da quella commerciale in senso stretto, non potevano disporre di navi di grossa stazza. Viceversa, i senatori riuscirono ad aggirare abbastanza facilmente un'altra legge antica (legge Sextia del IV sec. a.C.) che vietava di occupare più di 500 iugeri (100 ettari) di agro pubblico. Il processo di concentrazione terriera nelle mani di pochi privilegiati non trovò ostacoli neppure con le vicende dei Gracchi e praticamente determinò la crisi irreversibile della piccola proprietà contadina libera. In questo quadro s'inserisce il primo trattato di agricoltura (De re rustica) di Catone, scritto tra il 164 e il 154 a.C. e indirizzato al ricco proprietario che vive in città e affida la gestione della villa di campagna (l'azienda agricola) a un fattore, di condizione servile, riservandosi di ispezionarla personalmente di tanto in tanto. Generalmente la villa era divisa in due parti: la parte urbana, destinata ad ospitare il padrone, e quella rustica, destinata agli alloggi degli schiavi, e adibita come attrezzaia. Catone indubbiamente conosceva l'enciclopedia agricola del cartaginese Magone, che evidenziava i grandi livelli produttivi e scientifici dell'agricoltura punica. Infatti fu proprio Catone che diede all'agricoltura romana, fino a quel momento dominata dalla monocoltura cerealicola, una svolta verso gli impianti di ulivi e di vigne. Al punto che si vietò alle genti transalpine di piantare colture analoghe. Nella graduatoria stilata da Catone, il vigneto, per importanza, deteneva, nell'azienda agricola, il primo posto, seguito da orto irriguo, saliceto, uliveto, prato, seminativo, bosco ceduo, terreni ed arbusti, bosco a ghiande. La manodopera schiavile doveva essere rigorosamente schiavile, organizzata in squadre controllate da due villici, maschio e femmina, che, pur essendo schiavi, svolgevano la funzione responsabile di un fattore. Le mansioni di tutti questi lavoratori e il modo di sfruttare al massimo la loro forza-lavoro vengono descritti sin nei minimi particolari. Tuttavia il calcolo economico era molto rudimentale, praticamente si riduceva al principio: "vendere molto e comprare poco". Anche la tecnologia era piuttosto primitiva. In tutta la storia di Roma l'idea di profitto non è mai stata legata alla terra, ma solo ai commerci e soprattutto all'usura. Alla terra si legava l'idea di rendita. Il vigneto-tipo doveva essere di circa 100 iugeri (20 ettari), lavorati da 16 schiavi, cioè dai due fattori, dieci braccianti, un aratore o bifolco, un asinaio, un addetto al saliceto (o legatore di viti) e un porcaro. L'uliveto-tipo doveva invece essere sui 240 iugeri (48 ettari), lavorato da 13 schiavi. L'azienda doveva essere chiaramente orientata al mercato, per cui si dovevano specializzare le colture (specie il vino e l'olio) ed evitare l'autarchia. Prima della pubblicazione, un secolo dopo, dei tre importanti libri di agricoltura di Varrone, una legge agraria del 111 a.C. sanciva la trasformazione ad uso privato dell'agro pubblico, mostrando quindi la necessità di ampliare i contratti di locazione coi coloni. Varrone venne incontro all'esigenza di ricchissimi latifondisti che praticamente avevano come unico scopo di vita quello di campare di rendita, senza preoccuparsi eccessivamente della conduzione agricola di un'azienda, che sempre più si trasformava in una tenuta sfarzosa. Molti senatori, convinti che il frumento poteva anche essere importato dall'Africa o dalla Sardegna, e il vino dalla Grecia, cominciarono ad acquistare ingenti mandrie o greggi da affidare a schiavi-pastori, che le guidassero nella transumanza verso l'Adriatico o il Tirreno. Ma investivano anche nell'allevamento del pesce in piscine artificiali, o dei volatili nelle voliere, o in conigli e pollame. Cesare stabilì addirittura che 1/3 dei pastori doveva essere libero. Queste figure di lavoratori favorivano sempre più forme contrattuali molto vantaggiose. L'agronomo Columella, contemporaneo di Seneca, scrisse un nuovo trattato di agricoltura in cui fa chiaramente capire che la pratica dell'affitto può dare ottimi risultati. Catone infatti non aveva assolutamente prevista la possibilità di affidare a coloni dei lotti adiacenti alla villa, in cambio di un canone in denaro. I coloni, che sfruttavano alcune strutture presenti nella villa, come il forno e il mulino, si potevano rendere disponibili nei periodi dell'anno in cui era necessario l'impiego di manodopera supplementare, p.es. nella stagione della vendemmia. Queste forme contrattuali di lavoro si rendevano particolarmente indicate là dove le proprietà erano troppo lontane per poter essere ispezionate frequentemente, oppure per quelle terre che si trovavano in zone insalubri, dove i latifondisti preferivano mettere a repentaglio la vita dei coloni che non quella degli schiavi comprati sui mercati. Il passaggio dalla schiavitù al servaggio (che in questo momento si chiama "colonato") caratterizzerà la nascita della formazione feudale. Bibliografia AA.VV., Vita quotidiana nell'Italia antica, Ed. Mondadori (a cura di S. Moscati) M. I. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, ed. La Nuova Italia, Firenze 1980 M. I. Finley, L'economia degli antichi e dei moderni, ed. Laterza, Roma-Bari 1977 F. De Martino, Storia economica di Roma antica, ed. La Nuova Italia, Firenze 1979 L. Capogrossi - Colognesi (a cura di), L'agricoltura romana. Guida storia e critica, ed. Laterza, Roma-Bari 1980 A. Carandini, Gli schiavi in Italia, ed. Nis, Roma 1988 H. Mielsch, La villa romana. Architettura e forma di vita, ed. Giunti, Firenze 1999 R. Turcan, Vivere alla corte dei Cesari, Firenze, Giunti 1991 I SINDACATI DELL'EPOCA E LE CATEGORIE DELL'ANTICA ROMA I "collegi" e i "sodalizi" della Roma antica, formati da persone associate da comune funzioni, arti o mestieri, a difesa dei propri interessi, sotto la protezione d'una divinità tutelare, erano una sorta di corporazione o, se si preferisce, di sindacato. Ma mentre i magistrati e i sacerdoti di ogni livello erano raggruppati in collegi ch'erano veri e propri uffici statali e non persone giuridiche, le associazioni più numerose e movimentate furono invece quelle di mestiere: tessitori, medici, maestri, scultori e pittori, letterati e attori, flautisti, orefici, carpentieri, tintori, cuoiai, conciatori, fabbrivasai, fornai, mercanti, battellieri, mulattieri e tanti altri. Ogni tipo di associazione civile o religiosa, sottoposta alla sorveglianza dei censori e tenuta al mutuo soccorso, nominava i propri amministratori, teneva una cassa comune, alimentata dalle quote dei soci e regolata da apposite leggi romane, e aveva una propria sede dove riunirsi a consiglio, specialmente in periodo elettorale. Queste associazioni cominciano ad avere vita difficile quando le contraddizioni sociali della Repubblica diventano acute, determinando ad un certo punto la necessità di una svolta autoritaria di tipo "imperiale". Nei primi 225 anni della Repubblica vi furono cinque grandi manifestazioni popolari che scossero le fondamenta del sistema antagonistico romano, senza però pervenire a una soluzione veramente democratica. In origine le proteste della plebe per la negata soluzione dei problemi socio-economici presero il nome di "secessione": un autentico sciopero generale consistente in un ritiro in massa dalla città, accompagnato da un giuramento di reciproco aiuto per tutta la durata della protesta. Con la prima "secessio" del 494 a.C. fu ottenuta la creazione di un piccolo numero di magistrati popolari: i "tribuni difensori della plebe", che discutevano provvedimenti da presentare in senato. Poco dopo l'istituzione fu soppressa. Le forze al potere avevano fatto in modo di vanificare l'opera dei tribuni, in quanto gli organi elettivi davano ai cittadini ricchi un potere elettorale assai superiore a quello dei non abbienti. Gli stessi candidati al consolato venivano scelti nelle proprie file dai senatori che esercitavano il controllo sui voti e promuovevano, con grosse somme, corruzione elettorale e clientelismo. Da notare che nonostante le leggi delle XII Tavole consentissero ai "collegi" di darsi dei regolamenti che non contenessero norme in contrasto col diritto dello Stato, la classe al potere attuò comunque arbitrarie e sanguinose repressioni. Peraltro, il popolo, costretto a combattere tutte le guerre, in patria era oppresso e ridotto in schiavitù a causa dei debiti contratti dalle famiglie per vivere; debiti gravati dall'usura, grossa fonte di reddito per l'aristocrazia senatoria e i cavalieri. Non solo, ma esistevano anche enormi sproporzioni tra i compensi che i generali elargivano agli alti ufficiali e ai soldati semplici. Dopo la campagna di Pompeo in Asia, agli alti gradi andarono 4 milioni di sesterzi a testa (qualcosa come 8 milioni di euro), mentre ai soldati soltanto 6.000 sesterzi (cioè circa 12.000 euro). (1) Il sacrificio dei soldati era praticamente divorato dai debiti contratti dai parenti rimasti in patria. Dal III secolo a.C. ogni guerra serviva esclusivamente ad arricchire le classi al potere e i generali, i quali infatti, non tenuti a rendiconto, potevano anche vendere i prigionieri ai mercanti di schiavi. Questo costante afflusso di manodopera a buon mercato fu un'altra delle cause che mandò in rovina operai, artigiani e contadini. Le proteste popolari venivano generalmente soffocate nel sangue. Silla, generale arricchito e senza scrupoli, marciò su Roma e procedette a un massacro senza precedenti, segnando praticamente la fine virtuale della Repubblica (non a caso eliminò subito il tribunato della plebe) e riesumando la dittatura sine die. Contro i difensori della forza-lavoro si imbastirono trame di ogni tipo, infangando la loro moralità e quella delle loro famiglie, considerandoli veri e propri nemici pubblici della patria, della religione, della libertà e della proprietà privata. Nel 58 a.C. il tribuno della plebe, Clodio, ristabilì i "collegi", lottò a favore della libertà di associazione e di decisione popolare, chiese leggi frumentarie democratiche. Quando mise sotto controllo la pratica religiosa che dall'osservazione del cielo rilevava presagi funesti per le assemblee popolari, secondo i desideri del potere che sfruttava la superstizione popolare, fu subito tentato contro di lui un attacco per sacrilegio, argomento questo di forte suggestione sulle masse. Ma la plebe gli restò fedele (per "plebe" bisogna intendere gli artigiani, gli operai specializzati, i bottegai, i piccoli commercianti). Clodio riuscì a far passare una legge che condannava all'esilio chiunque avesse fatto uccidere un cittadino romano senza la regolare sanzione del popolo. Ne fece le spese Cicerone, che aveva fatto trucidare i seguaci di Catilina. Ma già un anno dopo per decreto dei comizi Cicerone poté rientrare in patria, pronunciando quattro discorsi contro i clodiani. Poi, con l'aiuto di Catone Minore, fece in modo che il tribuno Milone, in una rissa sulla via Appia, uccidesse a tradimento Clodio e sterminasse altri suoi parenti. Nel 52 Cicerone assunse la difesa di Milone, ma inutilmente, perché la folla lo costrinse a fuggire. L'astuto Giulio Cesare si renderà ben presto conto che sarebbe stato impossibile trasformare la Repubblica in un Impero dittatoriale senza l'appoggio delle masse. Ecco perché costrinse i ricchi ad assumere una certa percentuale di uomini liberi, in luogo degli schiavi, e inviando veterani e civili disoccupati in nuove colonie occidentali e orientali. Lo stesso Cesare e poi Augusto riorganizzeranno i "collegi" restringendone il numero. Marco Aurelio consentirà alle associazioni l'accettazione di lasciti, e Alessandro Severo darà un certo impulso alle corporazioni. Con Diocleziano e Costantino i "collegi" diverranno addirittura obbligatori e saranno trasformati in caste senza uscita. ==================================== IL SISTEMA TRIBUTARIO DELL'ANTICA ROMA Il sistema tributario dell'antica Roma 1. Il fisco in epoca romana: funzionamento ed evoluzione - 2. L'amministrazione del denaro pubblico: i soggetti e le problematiche connesse alla loro individuazione - 3. Generalità sul sistema tributario romano - 4. Il tributum e le altre forme di imposizione diretta - 5. Il vectigal: le imposte indirette - 6. Prospetto riassuntivo del bilancio di Roma imperiale 1. Il fisco in epoca romana: funzionamento ed evoluzione L'analisi dei complessi fenomeni che, visti nel loro insieme, ci danno l'immagine di un popolo, degli usi e costumi, in una parola della "mentalità" di esso, non potrebbe dirsi completa senza lo studio della sua produzione giuridica. Infatti il panorama delle leggi vigenti nell'ambito di una comunità in un determinato periodo storico è lo specchio fedele degli orientamenti e delle scelte da questa compiute nei vari settori della vita sociale. A maggior ragione si ritiene che non possa prescindersi da siffatta indagine "storico-giuridica" se il nostro interesse è rivolto ai popoli dell'antichità, dal momento che molto spesso la traccia più evidente che testimonia dell'esistenza di un popolo è proprio il sistema legislativo da questi introdotto ed in molti casi lasciato in eredità ai posteri. I Paesi di area culturale latina, il nostro in maniera particolare, ne sono eloquente esempio: la struttura del diritto privato moderno in Italia come in Francia, in Spagna e nei Paesi latino americani (1), ha un enorme debito di riconoscenza con i corrispondenti istituti del diritto privato romano. Ugualmente importante per una corretta visione d'insieme è lo studio dei fenomeni di natura economica, ovvero l'osservazione dei fatti economici relativi alla produzione, alla circolazione ed al consumo dei beni, nonché alle scelte economiche operate dai soggetti nell'ambito di una certa comunità: per cui non può non essere considerato il risultato dell'intervento dei pubblici poteri nei fatti economici della collettività, inteso come attività finanziaria rivolta al prelievo di ricchezza dalle private economie per il soddisfacimento dei pubblici bisogni. Siccome poi lo studio delle istituzioni economiche deve essere anzitutto e particolarmente uno studio di fenomeni giuridici, si comprende come solamente attraverso la storia giuridica possa ricostruirsi una storia economica, nel particolare contesto degli ordinamenti statali dell'antichità, che è poi l'oggetto della nostra indagine (2). Questo alla luce del fatto che la storia del diritto insegna appunto a chiarire il contenuto di alcune nozioni, riuscendo a mettere in evidenza il nesso che collega il fatto finanziario ad altre ricerche di natura sociologica. Anzi, l'esame delle origini e dello sviluppo dei fatti finanziari serve anche per spiegare alcuni importanti aspetti della storia dei popoli, non sempre messi altrimenti in luce opportuna (3). Non deve sembrare argomentazione di pura dottrina o vana pretesa avente finalità di sola cultura, il voler ricostruire l'ordinamento tributario dei popoli antichi: fin dai tempi più remoti la storia ha saputo guadagnarsi il ruolo di vera e propria scienza (4), il cui apporto è sempre stato ritenuto fondamentale per comprendere i fenomeni del presente attraverso lo studio del passato. Anche l'analisi degli ordinamenti positivi vigenti nei Paesi come il nostro, nei quali l'esperienza del passato giuoca un ruolo di primo piano, non può prescindere dalla storia remota e recente delle medesime istituzioni: anche perché nella ricerca dei fatti e delle idee del passato spesso si trovano le idee per l'avvenire. Per questa ragione la conoscenza degli eventi storici della finanza costituisce una preziosa fonte per la ricerca scientifica, dalla quale potrebbero trarre notevole giovamento numerosi problemi di teoria e pratica finanziaria. A sostegno di ciò valga la considerazione che all'assetto odierno del sistema impositivo ed al concetto stesso di tributo come oggi lo intendiamo si è giunti attraverso un lento cammino, le cui tappe rappresentano momenti fondamentali per l'evoluzione dell'ordinamento statuale nel suo complesso: per questo motivo lo studio delle origini e delle fasi rudimentali che hanno segnato lo sviluppo del sistema tributario e delle istituzioni finanziarie risulta assai vantaggioso anche per la comprensione di tutto il diritto pubblico dell'antichità (5). Ancora oggi è possibile individuare in quasi tutte le legislazioni vigenti l'esistenza di istituti finanziari che prendono spunto da istituti omologhi introdotti nell'antichità, trasformati ed adeguati ai mutamenti delle condizioni socio-economiche avvenuti nel corso dei secoli, magari dimenticati per lunghissimi periodi, poi riscoperti e ripristinati con pochi aggiornamenti tecnici, che ne lasciano sostanzialmente immutata l'originaria struttura economico-giuridica. A maggior ragione in un Paese come il nostro, dalle grandi tradizioni nel campo della produzione giuridica in generale ed in cui molta attenzione viene dedicata a tutte le sfaccettature del diritto tributario in particolare, può risultare oltremodo interessante una rilettura delle diverse vicende dell'ordinamento statuale attraverso la storia finanziaria, mostrando le connessioni che legano situazioni di prosperità e di difficoltà economica alle alterne vicende di politica tributaria. In buona sostanza la ricerca delle condizioni economiche e finanziarie in cui vissero i popoli antichi può rivelarci alcuni aspetti della loro vita che altrimenti rimarrebbero nascosti e farci conoscere le cause prime e determinanti della loro grandezza e della loro decadenza. Inoltre i fatti finanziari, visti alla luce delle leggi e degli ordinamenti, sono intimamente connessi alla storia sociologica dei popoli, allo stato attuale ancora tutta da scrivere. 2. L'amministrazione del denaro pubblico: i soggetti e le problematiche connesse alla loro individuazione Volendo trattare in maniera sistematica gli aspetti salienti della struttura amministrativa di Roma antica, in modo particolare con riferimento all'ambito che più ci interessa, quello dell'amministrazione delle pubbliche finanze, non può prescindersi da una dettagliata analisi dei soggetti preposti alla gestione del denaro pubblico attraverso le varie epoche della storia romana. Nel periodo della monarchia l'amministrazione finanziaria dovette senza dubbio seguire le stesse norme del diritto in generale che conferivano al re tutti i poteri, nella sua qualità di capo dello stato e dell'esercito, tra cui il diritto di imporre tassazioni e di gestire i fondi riscossi (6). Ebbene, tale gestione era stata affidata dal re a due funzionari chiamati "questori", la cui origine è antichissima e precede la nomina di tutti gli altri magistrati: essi avevano il compito di raccogliere il pubblico denaro, di conservarlo e di erogarlo secondo gli ordini ricevuti (7). In questa fase della storia romana il pubblico tesoro si divideva in due sezioni: la prima conservava il patrimonio dello stato e vi confluivano i proventi delle terre concesse da Numitore a Romolo e da questi ai cittadini, cui si aggiunsero in seguito i proventi delle terre conquistate con le prime guerre; la seconda sezione comprendeva i beni privati del re, quelli che nel diritto moderno sono considerati "beni della corona", ovvero il complesso della proprietà privata del sovrano ed i beni a lui spettanti per effetto della spartizione del bottino di guerra, nella sua qualità di comandante in capo delle truppe. In epoca repubblicana il luogo dove era custodito il denaro pubblico veniva chiamato aerarium (8) e si trovava presso il tempio di Saturno. La cassa era ripartita in tre sezioni. Nella prima fu accumulato tutto l'oro destinato alle spese per l'imminente guerra che la repubblica si preparava a fronteggiare contro i Galli: la raccolta ebbe inizio sin dal tempo in cui questi ultimi incendiarono Roma, in segno di promessa agli dei che la grave onta sarebbe stata lavata, anche a costo di esaurire tutto l'oro posseduto dai cittadini. La seconda sezione era destinata a ricevere le somme riscosse in applicazione della vicesima manumissionum (9), mentre la terza raccoglieva i proventi delle imposte annue riscosse su tutto il territorio della repubblica e nelle province. Quest'ultima sezione svolgeva funzioni di vera e propria tesoreria, amministrando il denaro necessario a fronteggiare le spese dell'esercito e le esigenze di tutti gli altri servizi pubblici: l'erogazione di fondi aveva luogo su ordine del Senato e, in epoca successiva, su designazione del popolo, cui fu concessa tale prerogativa sul finire dell'era repubblicana, per effetto di una legge del tribuno Clodio (10). Il denaro amministrato dalle prime due sezioni raramente veniva speso, ragione per la quale esse erano chiamate sanctiora aeraria; la terza sezione, che viceversa aveva tutte le caratteristiche di dinamicità di una moderna tesoreria dello stato, finì col dare origine a pesanti deficit di bilancio, cui si dovette far fronte con mezzi straordinari di entrata. Il problema storico relativo all'ordinamento finanziario del periodo imperiale è intimamente connesso a quello riguardante le innovazioni di natura giuridica introdotte da Augusto con l'avvento del principato: questioni alle quali sono state fornite varie soluzioni interpretative ad opera degli studiosi. È noto come il passaggio dalle istituzioni repubblicane al principato sia avvenuto sul piano costituzionale senza apparenti rotture nette: obiettivo di Augusto era quello di mantenere, almeno formalmente, il rispetto per la tradizione repubblicana, intervenendo però nella gestione dei pubblici affari col preciso intento di imporre la definitiva affermazione di un regime autoritario ed il successivo avvento della monarchia assoluta. Una dimostrazione di questa politica sono gli accordi raggiunti col Senato nel 27 a.C., in base ai quali il territorio dell'impero veniva diviso in province senatorie ed imperiali: il patto forniva un elemento territoriale alla supremazia militare del principe, giustificando il suo imperium, ma sanciva al tempo stesso la posizione di inferiorità del Senato e la sua subalternità rispetto alle iniziative politiche del princeps. L'assetto così definito costituirà la base dell'ordinamento amministrativo degli anni successivi: il principio sul quale si fondava la divisione consisteva nel fatto che il principe assumeva il controllo delle province che necessitavano di una difesa militare, mentre rimanevano sotto il controllo del Senato i territori che non avevano bisogno di stanziamenti legionari. L'evoluzione in senso monarchico del regime è sottolineata dalla tendenza ad estendere sempre più l'amministrazione diretta dell'imperatore sul territorio, visto che le province via via conquistate passavano automaticamente sotto il controllo del principe (11). La politica augustea di lento ma graduale passaggio verso una forma di governo assoluto si manifesta, anche e soprattutto, nell'evoluzione degli organi dell'amministrazione finanziaria interessata da innovazioni non di poco conto. L'aerarium populi Romani, che durante la repubblica costituiva in pratica la cassa centrale dell'ordinamento finanziario, continua a svolgere una funzione abbastanza importante perché nella sua prospettiva legalitaria Augusto, che anche in questo campo si ispira al principio del rispetto formale per la tradizione della repubblica e del Senato, lo considera come una struttura che andava mantenuta proprio in segno di continuità con le istituzioni repubblicane (12). Ma la conquista del potere si manifesta anche con la creazione di un ordinamento finanziario parallelo imperniato sulla figura del principe, nonché col ridimensionamento del ruolo e dell'autonomia delle istituzioni ereditate dal periodo precedente. Da questo punto di vista anche l'aerarium, pur senatoriale, andava controllato e progressivamente ridimensionato a favore dell'organizzazione finanziaria incentrata sul princeps. L'imperatore si riserva quindi un potere di controllo sull'aerarium, che effettivamente esercita sia con interventi diretti, sia attraverso il richiamo allo ius referendi, vale a dire la facoltà di pronunciarsi in Senato su questioni di politica finanziaria; col passare del tempo, gli imperatori più attenti ai problemi dell'amministrazione cercarono di accentuare il controllo della burocrazia imperiale sull'aerarium: in questa direzione operarono Claudio, Nerone, Vespasiano, Settimio Severo. Un'innovazione determinata dalle circostanze si presenta la creazione dell'aerarium militare, una risposta dell'imperatore all'annoso problema dei veterani. Infatti la sistemazione dei soldati per mezzo di assegnazioni coloniarie, mentre da un lato rischiava continuamente di sconvolgere l'assetto agrario dell'Italia, dall'altro mostrava tutti i suoi limiti, se si considera la scarsa propensione dei militari stessi all'idea di finire i propri giorni lavorando la terra in regioni lontane ed incolte. Fu lo stesso Augusto, verso il 13 a.C., a proporre al Senato di sistemare i veterani in congedo non più con assegnazioni di terre, bensì con la corresponsione di premi in denaro: obiettivo che egli raggiunse nel 6 d.C., proprio con l'istituzione di tale cassa autonoma, alimentata non solo grazie ai proventi di nuovi tributi (13), ma anche in virtù di elargizioni dirette dell'imperatore stesso. Alla direzione erano preposti tre praefecti di rango pretorio, scelti tramite sorteggio e formalmente indipendenti sia dal Senato che dal principe: ma è fuor di dubbio che questi, pur non avendo alle sue dirette dipendenze tali funzionari responsabili della gestione della nuova cassa, potesse comunque disporre dei fondi ad essa relativi, nella sua qualità di comandante in capo dell'esercito cui queste somme erano destinate. È la conferma di una tendenza ben precisa della politica imperiale, rivolta, da un lato ad accrescere il potere del principe ed il controllo di fatto su ogni aspetto della vita pubblica, dall'altro ad evitare sul piano del diritto un brusco capovolgimento dell'assetto istituzionale consolidatosi dopo secoli di esperienza repubblicana (14). Per ciò che riguarda la creazione ad opera di Augusto di una amministrazione finanziaria centrale gestita direttamente dall'imperatore e contrapposta all'aerarium, controllato dal Senato, si manifestano problemi interpretativi non di poco conto, perché le fonti non testimoniano in modo chiaro quale fu il momento di origine degli organi imperiali e quali i loro progressivi poteri. La tradizione letteraria ottocentesca avalla un rapido passaggio ad un nuovo ordinamento fiscale fin dai primi periodi dell'impero, individuando un fiscus considerato come emanazione dell'amministrazione centrale dell'imperatore, attivo fin dall'inizio del principato e contrapposto all'amministrazione tradizionale delle finanze controllata dall'aerarium, di influenza senatoria (15). Studi più recenti (16) propendono per una soluzione "graduale", secondo la quale anche nel campo dell'organizzazione fiscale il passaggio dalle istituzioni di origine repubblicana al nuovo ordinamento introdotto da Augusto sarebbe stato lento, per cui gli organi tradizionali avrebbero convissuto a lungo con quelli imperiali, per finire progressivamente svuotati dei loro primitivi compiti ad opera di questi ultimi. In effetti le risultanze delle fonti in nostro possesso, nella fattispecie le stesse parole di Augusto (17), menzionano accanto all'aerarium il solo aerarium militare ed il patrimonium meum; inoltre Svetonio (18) parla delle singole casse delle province (fisci), ma non accenna all'esistenza di una cassa centrale unitaria. Tali testimonianze mettono in luce il punto focale della questione in tutta la sua problematicità e lasciano ritenere che non si possa parlare della creazione, sotto il principato augusteo, di una struttura centrale dell'amministrazione finanziaria, per quanto debba riconoscersi almeno la presenza di tutti i presupposti necessari a tale scopo (19) dovuti all'esigenza di elaborazione e di aggiornamento del rationarium imperii, sorta di bilancio generale dell'impero, di cui ancora Svetonio (20) testimonia l'esistenza già al tempo di Augusto. Da qui la conclusione che l'evoluzione di tale processo di sviluppo dell'organizzazione burocratica sia presumibilmente maturata già sotto Tiberio o comunque sotto gli imperatori della dinastia Giulio-Claudia: è quanto viene desunto dall'uso del termine fiscus da parte di Seneca (21) e Plinio (22). Altro problema che merita di essere discusso e di cui sono state fornite soluzioni contrastanti, riguarda la natura giuridica delle istituzioni della finanza imperiale, i rapporti con gli organi dell'amministrazione senatoria e l'inquadramento delle situazioni di diritto privato riferibili all'imperatore. La tesi tradizionale, fatta propria dalla letteratura classica, considera il fiscus come proprietà privata del principe e colloca i rapporti di diritto pubblico a lui facenti capo sullo stesso piano dei suoi affari privati (23). La letteratura più recente (24) analizza la questione sotto un diverso punto di vista: infatti, stante la frammentarietà e la scarsa precisione delle fonti in nostro possesso, l'apparente commistione delle situazioni giuridiche di diritto pubblico con gli affari privati dell'imperatore viene valutata nel contesto della progressiva sostituzione del princeps al popolus come centro di riferimento delle situazioni di diritto pubblico, concetto che richiedeva inevitabilmente la fusione delle entrate personali dell'imperatore con le altre e la pressoché identica tenuta delle spese, vista la necessità di un controllo continuo da parte di Augusto dei cespiti di entrata ai fini dell'attuazione pratica della sua politica (25). In effetti la natura giuridica del patrimonium del principe, del quale Augusto tiene a sottolineare l'origine e verosimilmente anche il carattere privatistico, presenta complessi e delicati problemi, riconducibili ad una struttura burocratica consolidatasi col tempo e da ritenersi pienamente realizzata solo a partire dall'inizio del II secolo. Si può quindi concludere che la posizione del principe rispetto al fiscus non possa essere assimilata in maniera superficiale all'alternativa "pubblico-privato": vale a dire che la semplice applicazione delle categorie giuridiche a noi familiari, in epoche in cui queste erano ben lungi dall'essere elaborate, può risultare comodo, ma non proficuo. In epoca tardo-imperiale l'assetto dell'amministrazione finanziaria appare ormai consolidato: l'originaria contrapposizione tra organi della finanza senatoria ed istituti dell'amministrazione imperiale, corrispondente alla divisione dei territori dell'impero in sfere di influenza, viene progressivamente svuotata di significato in connessione con l'accentramento nelle mani del principe di tutta la gestione della cosa pubblica. Di conseguenza, una volta unificata l'amministrazione delle province per effetto di un processo di assimilazione che può ritenersi compiuto con Alessandro Severo, unico fu pure il tesoro dello "Stato", ed in esso confluivano i cespiti di entrata di qualunque natura, riscossi in ogni parte dell'impero. Iniziava così un processo di burocratizzazione dell'amministrazione finanziaria che raggiunge il suo apice sotto Costantino, il quale istituisce il Comes sacrarum largitionum, un organo che aveva funzioni ed attribuzioni di un moderno Ministro delle Finanze: infatti la sua attività era rivolta alla regolamentazione ed all'esecuzione delle varie norme che disciplinavano la riscossione dei tributi nelle diverse parti dell'impero (26). La descrizione degli organi della finanza dell'antica Roma, per quanto sintetica ed essenziale, mostra l'indissolubile legame degli istituti dell'amministrazione finanziaria con le vicende politico-economiche della civiltà romana, viste nella loro evoluzione dai primordi dello Stato monarchico fino ai fasti dell'organizzazione imperiale, ed offre la dimostrazione di come anche nel settore delle pubbliche finanze Roma abbia rappresentato la più alta espressione del pensiero giuridico dell'antichità. 3. Generalità sul sistema tributario romano Secondo le moderne concezioni dottrinarie, le imposte dirette colpiscono una manifestazione immediata di capacità contributiva, ovvero il patrimonio o il reddito delle persone soggette alla potestà finanziaria dello Stato; viceversa quelle indirette colpiscono una manifestazione mediata di capacità contributiva, come lo scambio delle ricchezze od il consumo (27). Orbene, i Romani conoscevano due grandi categorie di imposte: il tributum ed il vectigal; la prima colpiva i cittadini sulla base di liste (census), adoperate anche per scopi elettorali e come ruoli d'imposta per la riscossione (28), la seconda raggruppava tutte le rimanenti entrate dello Stato, comprese quelle demaniali (29). Pertanto solo idealmente e per comodità di trattazione è possibile stabilire una distinzione tra i due generi di imposizione con riferimento al periodo romano: tanto è vero che con il termine vectigal venivano spesso indicati tributi che secondo le moderne classificazioni rientrerebbero tra le imposte dirette (30). Quindi nell'ambito dei vectigalia vengono annoverate diverse contribuzioni versate all'erario a vario titolo, che possono essere analizzate solo se adoperiamo come metro di valutazione le moderne concezioni finanziarie. 4. Il tributum e le altre forme di imposizione diretta Nel periodo più antico della storia di Roma, al tempo della monarchia, l'imposizione diretta si basava su una prestazione personale che veniva corrisposta pro capite, e quindi finiva col gravare più pesantemente sui meno abbienti. Le origini del tributum vanno fatte risalire all'istituzione del censo ad opera del re Servio Tullio, il quale conosciute così le possidenze dei cittadini impose il pagamento di una somma proporzionata alle sostanze dichiarate, da pagarsi nelle contingenze di guerra: la quota era fissata dal Senato in ragione della spesa necessaria (31). Servio Tullio, istituendo il tributo per censo sulla base del catasto, introducendo quindi il criterio della proporzionalità dell'imposta dovuta sulla base della ricchezza posseduta, diede avvio ad una vera e propria rivoluzione in ambito socio-economico (32). In effetti agli albori della storia di Roma la richiesta di contribuzioni di questo genere era legata ad eventi di carattere straordinario, come appunto le necessità connesse ai conflitti. La trasformazione del tributum in imposizione ordinaria si realizza progressivamente prima del 167 a.C. (33), anno della vittoria di Roma sulla Macedonia: il prelievo assume i caratteri innegabili di un'imposta diretta in senso moderno, avente cioè il presupposto nell'esistenza stessa della persona, nel patrimonio o nel reddito. Per quanto riguarda i soggetti obbligati, in un primo periodo il tributum gravò sulle colonie romane, sulle civitates sine suffragio e sui municipia; erano esentati gli abitanti della città di Roma, i Latini che possedevano immobili in Roma e gli alleati che fornivano contribuzioni volontarie (34). Questa distinzione di natura territoriale, in base alla quale i cives erano privilegiati rispetto agli abitanti delle province via via conquistate, riveste non poca importanza nel successivo sviluppo dell'ordinamento amministrativo romano, con particolare riferimento all'ambito di studio che ci interessa. Infatti nel periodo della repubblica le province erano divise in stipendiariae e tributariae, comprendendo nella prima categoria quelle assoggettate al pagamento dello stipendium, vale a dire un'imposta costante per ogni anno e, nella seconda categoria quelle che pagavano la decima, ovvero un'imposta pari al dieci per cento del valore dei prodotti del suolo. Quando poi fu abolita la riscossione della decima, la contribuzione fondiaria fu detta indifferentemente tributo o stipendio e venne a cadere, di conseguenza, la distinzione delle terre in stipendiarie e tributarie. Da quel momento in poi ogni forma di contributo in denaro, nonché l'imposta pagata in natura dai proprietari delle miniere, venne ricompresa nella categoria del tributum; viceversa si disse "annona" la contribuzione effettuata in natura dagli altri proprietari. Il tributo e l'annona venivano compresi anche nella generica espressione di indictio. Tecnicamente, il meccanismo impositivo funzionava in maniera abbastanza semplice: ciascun cittadino pagava il tributum in base al patrimonio risultante dal census, che considerava come base imponibile il reddito agrario, il reddito dei fabbricati ed alcuni elementi accessori ritenuti indicatori di ricchezza (pertinenze dell'immobile, schiavi, animali, attrezzi da lavoro, ecc.). L'imposta gravava in ragione di una percentuale compresa tra l'uno ed il tre per mille dell'imponibile (tributum simplex, duplex, triplex) (35); la riscossione era affidata ai tribuni aerarii nel periodo più antico, successivamente ai questori sulla base di titoli esecutivi (36). Nel 184 a.C. Catone il Censore decuplicò la stima degli oggetti di lusso e degli schiavi aventi un valore superiore a diecimila assi, fissando tuttavia il tributum al tre per mille (37); i patrimoni inferiori ai quindicimila assi furono esentati dal pagamento: coloro che si trovavano al di sotto di tale soglia si definivano capite censi, vale a dire "censiti solo per la persona", mentre coloro che vantavano fortune di valore superiore erano considerati locupletes, ovvero "ricchi". Dopo la vittoria sulla Macedonia, con l'afflusso di ricchezze nelle casse dello Stato conseguente alla conquista delle province orientali, il tributum non fu più richiesto, senza essere tuttavia abolito ufficialmente: sembra peraltro che l'imposta sia stata ristabilita sotto il consolato di Irzio e Pansa nel 43 a.C., in maniera transitoria secondo alcuni (38), definitivamente secondo altri (39). Una serie di innovazioni radicali interessa l'ordinamento finanziario in epoca imperiale. Il passaggio dal regime repubblicano a quello imperiale determinò infatti una generale evoluzione di tutte le strutture burocratiche, in modo particolare del sistema fiscale. La ristrutturazione del comparto delle entrate era, peraltro, resa necessaria dalla forte espansione della spesa pubblica, tendenza evidenziata fin dal principato di Augusto, al quale, anzi, sarebbe attribuita la paternità delle innovazioni più importanti: il tributum deve dunque ritenersi abolito in attuazione di tali cambiamenti, perché questa forma di contribuzione non risulta più attestata nel periodo imperiale. Con la revisione del settore delle entrate si introduceva anche il principio dell'uniformità del diritto tributario nella penisola, con alcune modifiche al sistema impositivo rivolte a distribuire il carico fiscale in modo da far sostenere gli oneri maggiori alle province esterne all'Italia. Queste, infatti, nel primo periodo dell'impero erano prive del diritto di cittadinanza, privilegio mai esteso ai territori conquistati dalla repubblica nel loro complesso e concesso soltanto a porzioni limitate del territorio, proprio in considerazione del fatto che ciò comportava ripercussioni sensibili nel campo tributario. L'indirizzo dunque fu quello di scegliere una soluzione intermedia, estendendo tale diritto per gradi e sempre in occasione di miglioramenti della situazione del tesoro; il processo può ritenersi concluso solo con la riforma dell'imperatore Caracalla, che concesse la cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell'impero. Ma non fu soltanto l'estensione del diritto di cittadinanza a dare impulso all'enorme sviluppo del sistema tributario che si riscontra nel periodo imperiale: più in generale anche l'intero comparto delle spese, che aveva peraltro già segnato una netta ascesa verso la fine della repubblica, raggiunse sotto l'impero livelli tali da determinare il ricorso all'individuazione di nuovi cespiti di entrata (40) e conseguentemente l'allargamento della sfera d'azione della politica tributaria. Almeno in un primo periodo, gli effetti dell'ondata riformatrice non toccarono i territori delle province, che rimasero soggette al pagamento dello stipendio o decima (41): tuttavia in epoca repubblicana esso era preteso dalle sole terre dei provinciali (42), mentre ne erano del tutto esentati i cittadini romani e con la crescita delle esigenze pubbliche tale principio finisce con l'essere disatteso e furono gradualmente tassate anche le terre dei cittadini romani situate in Italia. Ciò premesso, giova ricordare che la politica innovatrice promossa da Augusto immette nel panorama tributario alcuni nuovi cespiti di entrata: la capitatio terrena, la capitatio humana, la lustralis collatio. La capitatio terrena, vale a dire una vera e propria imposta fondiaria introdotta dall'imperatore, non ebbe però una rapida e simultanea applicazione in Italia e nel resto del territorio imperiale. Essa fu estesa per gradi partendo dal suolo italico fino alle altre province, anche se, con riferimento alla tecnica impositiva, non intercorrevano grandi differenze tra i suoli italici e quelli provinciali, perché il tributo colpiva i terreni indipendentemente dalla qualità del proprietario: per questo la situazione non muta con la Costituzione di Caracalla che, come accennato, concedeva la cittadinanza romana a tutte le province dell'impero, poiché in virtù di essa fu uguagliata la condizione delle persone e non delle cose, e quindi le terre continuarono ad essere colpite dall'imposta senza riferimenti alla qualifica del proprietario. La capitatio terrena, come ai tempi del re Servio Tullio, aveva come base il catasto: Augusto si preoccupò di compiere questa opera colossale, che venne completata in trent'anni con la compilazione materiale del catasto e la redazione dei relativi regolamenti censuari. Il risultato del lavoro fu addirittura tradotto visivamente mediante la riproduzione affrescata di una mappa dei territori conquistati, che l'imperatore fece dipingere sotto il portico di Ottavia affinché l'estensione e le risorse dell'impero fossero a tutti note. Inoltre ogni governatore ricevette la descrizione della regione amministrata, curata in ogni particolare, perché risultasse più facile e rapida l'applicazione delle norme tributarie via via emanate. Nello stesso tempo Augusto fece compilare per tutto l'impero il registro delle persone, come in tempi moderni avviene per l'anagrafe, con l'indicazione dei beni mobili ed immobili, del bestiame, degli schiavi e dei coloni da ciascuno posseduti. Sulla base delle indicazioni fornite dal catasto fu pertanto possibile stabilire l'intera proprietà fondiaria dell'impero: infatti le terre venivano misurate e divise in un certo numero di particelle, ognuna delle quali era assoggettata ad una determinata classe di imposta. Ogni particella era detta caput, mentre la relativa tassa veniva chiamata capitatio: i registri che contenevano le liste dei contribuenti erano detti capitastria, da cui poi il termine catastrum ad indicare il catasto (43). Il catasto serviva appunto a determinare la base imponibile della capitatio terrena: l'aliquota non era fissa, ma stabilita di anno in anno tramite un editto imperiale; tuttavia il tasso raggiungeva spesso livelli così elevati da costringere i contribuenti ad abbandonare le proprie tenute (44), anche perché non di rado l'imposta principale veniva gravata di centesimi addizionali. Soggetto obbligato al pagamento era chiunque avesse il semplice possesso dei terreni; il versamento andava effettuato nel luogo ove i terreni risultavano trascritti nel catasto. Elemento fondamentale dell'imposizione erano le denunce, obbligatorie in caso di atti traslativi della proprietà o del semplice possesso dei beni, ai fini delle necessarie variazioni catastali (45). Anche per questo motivo, se nel corso del periodo finanziario, chiamato indictio, si verificava una notevole riduzione del reddito, il contribuente poteva fare ricorso al censitor, funzionario preposto all'esecuzione delle rettifiche, per vedersi riconoscere una riduzione dell'imposta in ragione della diminuzione del valore del fondo; procedimento analogo veniva seguito d'ufficio nel caso opposto di un miglioramento di valore, che dava luogo ad un aumento dell'aliquota. Altra imposta assai onerosa fu la capitatio humana, che gravava sui proprietari terrieri in ragione dei servi rustici e dei coloni da essi impiegati: questi uomini, per le istituzioni del tempo, erano ritenuti cose immobili per destinazione e la tassazione può, per certi aspetti, essere assimilata a quella parte del tributo per censo che, ai tempi di Servio Tullio, doveva essere pretesa con riferimento ai servi, di cui era obbligatorio dichiarare il possesso (46). Nel complesso ed articolato sistema tributario romano era prevista anche un'imposta mirante a colpire il reddito, impropriamente chiamato "profitto": tuttavia, come è dato di comprendere dalla panoramica che stiamo tentando di delineare, in un regime finanziario facente leva essenzialmente sull'imposizione reale e soprattutto fondiaria, come era appunto quello dei Romani, un tributo così congegnato ebbe poco successo, anzi fu al centro di non poche proteste (47). L'imposta era diretta a colpire i profitti dei mestieri e del commercio e fu nota con la denominazione di lustralis collatio, dal periodo in cui maturava il debito verso lo Stato, appunto il lustro. L'ammontare corrispondeva alla cinquantesima parte dei guadagni realizzati nel quinquennio dal contribuente ed era dovuta da commercianti, artigiani, facchini e lavoratori in genere, comprendendo nella categoria tutti coloro che esercitassero un mestiere od una professione o comunque compissero atti di commercio (48). Agli effetti della determinazione della base imponibile erano valutati anche tutti i beni o le attrezzature che il contribuente aveva acquistato nel corso del quinquennio con i frutti del proprio mestiere, senza esenzioni di sorta. In ogni provincia ed in ogni città era regolarmente tenuto un registro dei commercianti e degli artigiani, continuamente aggiornato: l'imperatore fissava il carico che quella determinata zona era tenuta a versare, quindi l'onere era ripartito fra tutti i contribuenti. 5. Il vectigal: le imposte indirette Dal quadro appena tracciato emerge chiaramente come per il periodo più antico della storia di Roma e durante l'epoca repubblicana il ricorso a misure di imposizione di carattere diretto fosse dettato da esigenze finanziarie di natura straordinaria, in modo particolare conseguenti ad eventi bellici. Risulta allora evidente come il bilancio delle entrate dello Stato romano facesse leva soprattutto su prelievi di tipo indiretto, che vengono indicati genericamente come vectigalia. Il termine vectigal assume diverse accezioni nell'ambito del diritto pubblico romano. L'etimologia ne farebbe risalire l'origine al verbo veho (49), dal momento che la prima applicazione dell'imposta era relativa al trasporto delle merci e alla conduzione del bestiame al pascolo (vectigal alabarchiae) (50); ciò non toglie che il termine indicasse anche il prodotto di pagamenti in natura dovuti dai possessori di ager publicus e, successivamente, dai proprietari di beni immobili situati nelle province (51). In seguito vennero designate come vectigalia tutte le entrate provenienti dal demanio statale, quindi i canoni pagati dai gestori di foreste, miniere, saline (52), nonché in linea generale le imposte la cui riscossione era affidata alle societates publicanorum; spesso poi il termine vectigal nella sua più ampia accezione era usato ad indicare tutte le entrate dello Stato, ed impropriamente anche nel senso di tributum. Il panorama delle imposte indirette appare quindi ben più vasto rispetto a quanto osservato a proposito del tributum e comprende, fra le più importanti contribuzioni: - imposizione daziaria; - centesima rerum venalium; - quinta et vicesima venalium mancipiorum; - vicesima manumissionum; - imposizione mineraria; - imposte di successione (vicesima hereditatum). Fin dai tempi più antichi le contribuzioni indirette che garantivano il gettito maggiore erano i dazi di importazione ed esportazione e il dazio sul sale. I dazi doganali, conosciuti sotto il nome di portoria (53), erano applicati in maniera non molto dissimile da quanto avviene nelle moderne legislazioni: obiettivo era colpire i prodotti di largo consumo e di speculazione commerciale, mentre erano previste esenzioni a favore dei prodotti destinati all'agricoltura, ai privati ed al soddisfacimento dei bisogni della propria famiglia. Già durante il periodo della repubblica i dazi trovarono una sempre più vasta applicazione, in considerazione del crescente volume dei commerci e dell'ampliamento del territorio sottoposto al controllo dello Stato (54); tuttavia, come conseguenza del notevole gettito dei tributi provinciali e del ricavato dei bottini di guerra, la Legge Caecilia, proposta dal pretore Q. Cecilio Metello nel 60 a.C., promosse la sospensione dell'imposizione daziaria (55), che però Giulio Cesare fu costretto a ripristinare per alimentare le risorse dell'erario, che trovò esaurito all'indomani delle guerre civili (56). Le frontiere dell'impero furono in un primo tempo circondate da una triplice linea di dogane. Alcuni prodotti erano assoggettati al veto per l'esportazione: tra questi in primo luogo il ferro grezzo e lavorato per le armi, i cereali, l'olio ed il sale, considerati merce preziosa ed evidentemente strategica; se importati, gli stessi prodotti erano colpiti da imposte speciali: Roma era infatti importatrice di numerosissimi prodotti, che davano luogo ad imponenti traffici con tutto il mondo allora conosciuto (57). I dazi erano applicati con fortissime aliquote ad valorem calcolate sul prezzo di acquisto dei beni espresso in una dichiarazione; il tasso era variabile a seconda della provenienza della merce, dal venti per cento sui prodotti della Gallia al cinquanta per cento sui prodotti siciliani, con una media del quaranta per cento. Esenzioni erano inoltre accordate a favore degli instrumenta itineris, cioè dei mezzi di trasporto, comprese le bestie da soma, i carri e gli attrezzi destinati all'agricoltura. Molto si è discusso sulla questione se il sistema dell'imposizione daziaria avesse scopi protezionistici oltre che fiscali (58). Si è obiettato (59) anzitutto che le fonti in nostro possesso non consentono di avvalorare simili ipotesi; e poi mancherebbe la ragione economica di un qualsiasi meccanismo di protezione, perché l'impero non poteva annoverare alcuna attrezzatura od organizzazione, seppure allo stato embrionale, che possa definirsi come industria nazionale, da difendere dalle mire espansionistiche di industrie straniere. Si sa per certo che la produzione industriale non era tenuta in alcuna considerazione dai Romani, che anzi la riservavano alle fatiche di umili artigiani, i quali peraltro nessuna difesa avrebbero potuto ottenere per le loro merci contro l'invasione delle mercanzie estere, in considerazione della loro scarsa posizione sociale e della assoluta ininfluenza nella gestione del potere governativo. Afferma in proposito il Di Renzo (60) come "il portorium non fu presso i Romani che una imposta di circolazione, esso non ebbe altro scopo che fornire entrate all'erario ed anziché favorire il commercio, con la sua istituzione si vennero a creare ostacoli, col separare le province le une dalle altre per la creazione di numerose barriere doganali e con ingombranti posti di blocco sulle vie, sui ponti e sui canali per la riscossione dei diritti di pedaggio". In effetti la politica doganale, che pure conobbe momenti di saggia e razionale organizzazione attraverso una avveduta e coerente tariffa, fu esposta, verso gli ultimi secoli, all'arbitrio degli imperatori, provocando effetti deleteri su tutta la politica commerciale. Difatti la bilancia commerciale fortemente deficitaria per Roma, fenomeno dovuto all'eccessiva importazione di generi per lo più voluttuari e costosissimi, non venne corretta mediante una saggia quanto energica politica di repressione delle cause del disavanzo, poiché le casse dello Stato non potevano privarsi di una fonte di entrate cospicua e certa, come i dazi che gravavano sui prodotti importati. Lo squilibrio valutario che ne conseguiva aveva come risultato l'avvilimento delle iniziative economiche e quindi il dilagare di pericolose situazioni di indigenza, da cui la crescente impossibilità di pagare le tasse proprio nel momento in cui lo Stato richiedeva i maggiori sacrifici e si affannava nella ricerca infruttuosa di nuove risorse. Nell'ambito dell'imposizione indiretta, un posto di primo piano spetta inoltre alla centesima rerum venalium, in tutto simile alla imposta generale sulle entrate, in vigore nel nostro Paese fino alla riforma fiscale dei primi anni Settanta. Il tributo fu introdotto da Augusto dopo la guerra civile sul modello di imposizioni analoghe esistenti in Egitto prima della conquista (61). Come il nome stesso indica, l'imposta gravava nella misura dell'uno per cento del valore di tutti i prodotti venduti al mercato (62). Durante il principato di Tiberio, il popolo chiese con insistenza l'abolizione della centesima, istanza negata dall'imperatore poiché i relativi introiti rappresentavano il maggior sostegno dell'aerarium militare. Successivamente, sulla scorta della conquista della Cappadocia, ridotta a provincia nell'anno 17, si consentì ad una riduzione dell'aliquota pari a mezzo punto percentuale (63); Caligola nell'anno 38 l'abolì completamente, ma i suoi successori la ripristinarono ben presto e rimase in vigore per tutta la durata dell'impero. Una variante dell'imposta appena descritta colpiva il commercio degli schiavi e prendeva il nome di quinta et vicesima venalium mancipiorum, corrisposta da chi acquistava lo schiavo. Ciò fino all'avvento dell'imperatore Nerone, il quale dispose che passasse a carico del venditore. Osserva Tacito (64) che il peso del tributo finiva comunque per ricadere sul compratore, visto che il venditore non mancava di tenere conto del carico impositivo in sede di determinazione del prezzo della transazione. Al tempo di Augusto, l'aliquota era fissata nella misura del due per cento del valore dello schiavo, ma Nerone la fece elevare al quattro per cento; successivamente si mantenne attorno a valori medi del tre per cento. Altra imposta indiretta sugli schiavi fu la vicesima manumissionum (65), introdotta fin dal 357 a.C. e destinata all'aerarium sanctius come riserva annua per le esigenze straordinarie: dell'applicazione di tale tributo si rinviene traccia sino a Macrino, mentre scompare ogni testimonianza dopo il 218. L'importanza strategica delle miniere venne compresa appieno e valorizzata da Augusto: sua cura principale fu quella di ripristinare non solo l'escavazione delle miniere abbandonate, ma anche di incentivare in ogni modo qualsiasi nuova iniziativa nel settore. In un primo momento i proprietari delle miniere e gli imprenditori degli scavi erano assoggettati ad una contribuzione diretta sulla proprietà o sull'attività mineraria, secondo il medesimo regime fiscale che regolava la proprietà fondiaria, in virtù del principio secondo il quale il proprietario della superficie lo era anche del sottosuolo, usque ad profundum. I contribuenti erano tenuti anzitutto al pagamento in natura (vectigal metallorum) che, a discrezione dello Stato, poteva essere convertito in un pagamento in denaro secondo una valutazione sulla base del prezzo di mercato del prodotto. Viceversa, nei momenti in cui il governo aveva forti necessità di minerale metallico, in modo particolare per usi bellici, il proprietario era obbligato a cedere l'intera produzione. Tuttavia non appena l'industria privata ebbe consolidato la propria organizzazione produttiva, si svegliarono gli appetiti degli imperatori, che si decisero a stabilire il monopolio dello Stato sulle miniere, se non legalmente, nella maggior parte dei casi almeno nei fatti, costringendo i produttori a vendere il minerale al governo. In un modo o nell'altro, gli imperatori finirono pertanto con il concentrare nelle loro mani il possesso di quasi tutte le miniere, di cui cedevano l'esercizio a privati imprenditori (conductores metallorum) dietro il pagamento di un canone, oppure le facevano gestire in economia dallo Stato a mezzo di speciali procuratori (productores metallorum), operazione che risultava però sempre più onerosa per le casse pubbliche rispetto alla gestione dei privati. Sottolinea il Bouchè Leclerq (66) come nell'ultimo periodo dell'impero lo Stato finì per abbandonare anche il regime di monopolio, ricorrendo ad un mezzo di sfruttamento più comodo, ovvero accordando ai procuratori la facoltà di cedere sul posto al miglior offerente il diritto di escavazione delle miniere per un periodo variabile da cinque a dieci anni, dietro la corresponsione di un canone fisso. L'attività mineraria dei Romani proseguì fervidamente fino a quando le ricchissime miniere della Spagna e della Grecia produssero immensi tesori senza richiedere troppi sacrifici, ma quando le vene metalliche troppo vicine alla superficie si esaurirono essi, non essendo in possesso delle tecnologie per scendere più a fondo nel sottosuolo, abbandonarono cospicue ricchezze considerando esauriti cicli che forse erano appena all'inizio."Sicché l'industria mineraria chiuse ben presto le sue fertili bocche, proprio nel momento in cui maggiore era il bisogno per lo Stato di nuove e maggiori fonti di ricchezza (...), concorrendo non poco alla decadenza dell'economia romana (67)". Nel campo delle imposte di successione Augusto introdusse profondi e radicali mutamenti all'ordinamento esistente, regolando la materia per mezzo della Lex vicesima hereditatum et legatorum. Il tentativo di introdurre un'imposta del cinque per cento sulle successioni, appunto vicesima hereditatum, era stato compiuto dallo stesso Augusto insieme ad Antonio nel 40 a.C., ma la forte opposizione del Senato fece fallire il progetto. Dopo la vittoria ottenuta nelle guerre civili e sotto l'assillo della necessità di nuove entrate per le accresciute esigenze dello Stato, Augusto riuscì nell'intento, non senza la difficoltà di nuove resistenze e sotto la minaccia dell'introduzione di altri e più gravosi tributi. La legge stabiliva il principio dell'intervento del diritto fiscale nell'arricchimento di un cittadino per effetto della morte di un altro cittadino ed in seguito in ogni accrescimento di ricchezza dovuto comunque a cause indipendenti dal soggetto beneficiario. Osserva il Di Renzo (68) che "il decadimento del senso di attaccamento alla famiglia e la rilassatezza dei costumi portarono i Romani nel vezzo di nominare loro eredi, più che i congiunti, liberti e cortigiane. La legge, perciò, prevedeva molte agevolazioni nel caso di successione legittima, mentre era quasi confiscatrice per le successioni testamentarie". Le norme di esecuzione della legge sulle successioni furono emanate con la Lex Papia Poppea, che non ci è pervenuta nel suo testo originale, ma di cui conosciamo le disposizioni grazie allo studio dei giureconsulti che la commentarono. Stabiliva la legge che in caso di morte dell'erede o del legatario quando il testatore era ancora in vita e dopo la formazione del testamento, la disposizione testamentaria doveva ritenersi "caduca" e la quota dei beni che ne formava il contenuto doveva essere devoluta alle casse pubbliche; stesse conseguenze derivavano in caso di morte o perdita dei diritti civili dell'erede o del legatario, dopo la morte del testatore ma prima che venisse aperto il testamento. Inoltre, se ad un celibe venivano assegnati nel testamento beni in misura superiore a quanto fissato dalla legge, la parte eccedente il limite veniva incamerata dallo Stato, così come qualunque legato o quota ereditaria devoluta a favore di persona indegna. In alcuni periodi i proventi relativi a questa imposta arrivarono a rappresentare il venti per cento delle entrate totali del tesoro: fra i motivi che indussero l'imperatore Caracalla ad estendere la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell'impero vi fu certamente quello di incrementare gli introiti derivanti dalle successioni. 6. Prospetto riassuntivo del bilancio di Roma imperiale (69) Le entrate: Come è dato di comprendere, la moderna pretesa del pensiero scientifico moderno di procedere alla classificazione rigida delle forme impositive in vigore nell'ordinamento tributario dell'antica Roma incontra non poche resistenze quando ci si trova di fronte ad entrate che è difficile inserire in qualcuna delle ripartizioni moderne. La distinzione a suo tempo fatta per comodità di trattazione tra vectigal e tributum trova in ultima analisi il suo logico fondamento unicamente nella maniera di percezione dell'imposta: quella di tipo diretto sulla base di liste riportanti il nome e l'età del civis romanus sui iuris, nonché l'ammontare delle sue sostanze; quella di tipo indiretto in occasione dello scambio o del consumo della ricchezza. Nella seconda parte passeremo ad esaminare più dettagliatamente una delle imposte su cui faceva perno l'intero ordinamento tributario romano. Col. t.SFP Dott. Ernesto Nardo Ten. Dott. Diego Falciani Note (1) Cfr. Schipani S., La codificazione del diritto romano comune, Giappichelli, Torino, 1996: esiste una continuità del sistema romanistico con il diritto moderno, e l'autore individua le linee guida del fenomeno attraverso lo studio dei rapporti tra il Code Napoleon e la codificazione successiva in Europa e nei Paesi latino-americani, da cui risulta sempre presente il patrimonio della tradizione. (2) Cfr. Di Renzo F., La finanza antica, Giuffrè, Milano, 1955. (3) Cfr. Alessi G., Appunti intorno all'importanza della storia del diritto per l'indagine finanziaria, in Studi dedicati ed offerti a F. Schupfler , Bocca, Torino, 1898. (4) Dobbiamo ai grandi storiografi dell'antica Grecia, Erodoto e Tucidide, la concezione della storia come scienza da cui trarre gli insegnamenti necessari per il futuro attraverso lo studio degli avvenimenti del passato e degli errori commessi nelle circostanze più diverse: il complesso delle vicende umane appare agli occhi dello storico sotto forma di un ciclo continuo, in cui determinati fatti tornano certamente a ripetersi nella loro struttura essenziale, per cui la conoscenza del passato risulta indispensabile per poter adeguare le scelte future. (5) Cfr. Ciccotti E., Lineamenti dell'evoluzione tributaria del mondo antico, introduzione al V volume della biblioteca di storia economica, Milano, 1921. (6) V. Di Renzo F., Il sistema tributario romano, Napoli, 1949, p. 37. (7) I questori svolgevano anche altre mansioni, come quella di vendere all'asta le spoglie del nemico, di conservare i senatoconsulti e le insegne militari per consegnarle alle milizie in caso di guerra, nonché di fornire alloggio agli ambasciatori. Il re Servio Tullio, nella riforma apportata all'ordinamento finanziario, non trascurò di affidare a questi funzionari anche compiti di rilevamento statistico: sull'argomento, vedasi Di Renzo F., op. ult. citata, p. 182. (8) Il termine deriverebbe da aes, ovvero la moneta di bronzo usata in quei tempi, che indicava per traslazione anche il denaro versato nelle casse pubbliche (Di Renzo F., op. ult. citata, p. 182). (9) Trattasi di forma di imposizione di tipo indiretto di cui si tratterà più avanti, parlando del bilancio complessivo dello stato. (10) V. Di Renzo F., op. ult. citata, p. 183. (11) Sull'argomento, vedasi De Martino F., Storia della costituzione romana, IV, Napoli, 1974, p. 487 ss.; AA.VV., sotto la direzione di Talamanca M., Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, p. 475 ss.; Tondo S., Profilo di storia costituzionale romana, IV, Milano, 1993, p. 201 ss.; Crifò G., Lezioni di storia del diritto romano, II, Bologna, 1996, p. 57 ss. (12) Augusto non tralascia l'aerarium, ma anzi compie sforzi di notevole entità per migliorarne il funzionamento, istituendo i praefecti aerarii scelti dall'ordine senatorio; tra i suoi successori, Tiberio nomina commissioni senatorie per la gestione della cassa, mentre Claudio ritorna ai questori, da lui stesso nominati ed in carica per tre anni; solo Nerone è in grado di proporre una soluzione che durò a lungo, istituendo due praefecti aerarii Saturni, di nomina imperiale, provenienti da coloro che avevano ricoperto l'incarico di pretore. (13) Si tratta della vicesima hereditatum, l'imposta sulle eredità e della centesima rerum venalium, l'imposta sulle vendite pubbliche che sono parte della riforma impositiva voluta da Augusto, per cui vedasi il capitolo successivo. (14) Vedi Mommsen T., Römisches Staatsrecht, II, Leipzig, 1887, nella traduzione francese Droit public romain, vol. 5, p. 306: l'autore sottolinea, tra l'altro, l'elasticità della gestione di questa cassa secondo il volere dell'imperatore, che di fatto poteva disporne: "Les sommes versées à la caisse militaire devaient servir en première ligne à récompenser les vétérans sortant de l'armée; mais il est plus que vraisemblable qu'il n'y avait aucun contrôle à ce point de vue et que les "praefecti" tenaient purement et simplement les fonds mis sous leur administration à la disposition de l'autorité militaire, c'est à dire du prince. Ce second trésor central de l'empire était donc en fait une sucursale du fisc impérial". (15) Si tratta della tesi elaborata da Marquardt J., De l'organisation financière chez les Romains, in Manuel des antiquités romaines, traduzione francese di Albert Vigié, Paris, 1888, p. 388 ss.: "De même que le populus est considéré comme le représentant légal de l'aerarium, le représentant legal du fiscus est l'empereur" (...). Lo studioso attribuisce proprio ad Augusto la creazione di due casse distinte, una facente capo al Senato, l'Aerarium Saturni, e l'altra all'imperatore, il fiscus, in coerenza con la corrispondente suddivisione dei territori dell'impero in "sfere di influenza" senatoria ed imperiale. (16) Vedasi nella fattispecie la prospettiva di Masi e Mazza, in AA.VV. sotto la direzione di Talamanca M., op. cit., p. 493 ss. (17) Res gestae. (18) Vita Augusti, 101, 6. (19) Vedi supra, n. 22. (20) Vita Augusti, 28. (21) Sen., 4, 39, 3. (22) Naturalis Historia, 18, 11, 114. Comunque, anche dubitando di tali conclusioni, Masi e Mazza propugnano la tesi dell'esistenza di un ordinamento finanziario imperiale centralizzato almeno per l'epoca successiva alla fine della dinastia Flavia, suffragandola con prove certe, che testimoniano come parallelamente allo sviluppo del fiscus venga accentuata l'attribuzione ad esso di entrate in precedenza pertinenti all'aerarium: - Tacito (Annales, 2, 48) afferma che i bona vacantia spettano al fisco, presumibilmente già sotto Tiberio; - Marco Aurelio e Lucio Vero (D, 49. 13. 3. 19) riconoscono l'attribuzione al fisco della metà del tesoro non solo se rinvenuto in luogo di proprietà del fisco stesso, ma anche in qualsiasi altro luogo che non appartenga allo scopritore o ad altro soggetto privato; - Gaio (2, 285) testimonia la corresponsione dei caduca al fisco, con particolare riferimento ai fidecommessi disposti a favore di peregrini, già per l'età di Adriano, poi generalizzata da una Costituzione di Caracalla, in Ulp. Tit., 17, 2; lo stesso fenomeno si osserva riguardo ai bona damnatorum, all'applicazione delle pene pecuniarie, alle entrate relative ai dazi doganali ed alle stesse entrate relative alle province senatorie. Una visione sostanzialmente concorde è quella del De Martino, op cit., p. 909 ss. La linea di sviluppo dell'ordinamento finanziario imperiale tracciata dall'autore trae le premesse dalla sottrazione al Senato della disponibilità delle risorse provenienti dalle province imperiali, che inizia con l'età augustea e pone le prime basi per un nuovo ordinamento della finanza. Opponendosi tuttavia alla definizione di una data certa cui far risalire l'assetto delle istituzioni imperiali, l'autore prudentemente afferma, stante la scarsa precisione delle fonti, che il processo storico di formazione del concetto unitario del fiscus era in corso fin dai primi imperatori della casa Giulio-Claudia e verosimilmente si concluse sotto i Flavi, risultando interamente compiuto alla fine della loro dinastia; nel corso di questo processo di formazione del fiscus, l'assetto dei poteri facenti capo al principe andò via via aumentando, pur essendo definito nella sua fisionomia generale già sotto Augusto. Circa il problema dell'esistenza di una amministrazione finanziaria di livello centrale, il De Martino non si sente di stabilire se fin dall'inizio vi fossero uffici centrali di contabilità o di coordinamento dei conti dell'impero. Esistono tuttavia indizi positivi: il fatto stesso che Augusto abbia lasciato il "breviarium imperii" induce a ritenere che potesse disporre di "rationales", uffici di cui risulta l'esistenza già sotto Tiberio, con maggiore sicurezza al tempo di Claudio. Sotto tali imperatori e poi sotto i Flavi, mentre continua il processo di sottrazione all'erario di alcuni suoi proventi per trasferirli all'amministrazione imperiale, sorgono casse speciali in Roma destinate a raccogliere le entrate di province importanti. Il De Martino considera quindi pressoché certa l'esistenza di una amministrazione fiscale unitaria sotto i Flavi, anche se rimane dubbio se sia stata anche allora costituita una cassa centrale unica ovvero solo in epoca successiva. Il problema della natura giuridica del fiscus è risolto nel senso di conferire ad esso il significato di organo dell'ordinamento imperiale, individuato come complesso unitario delle finanze imperiali, con il medesimo ruolo rivestito dall'aerarium nell'ordinamento repubblicano: così come ai tempi della repubblica titolare del diritto è lo "Stato", mentre i magistrati ed il principe, nelle loro rispettive sfere di competenza, hanno un mero potere di disposizione dei beni. (23) Un'interpretazione dell'organizzazione fiscale imperiale che considera il fisco proprietà privata dell'imperatore è quella del Mommsen: "la caisse impériale, le fiscus Caesaris, ou, selon le langage devenu plus tard usuel, le fiscus tout court, est la propriété privée du prince" (Mommsen T., op. cit., p. 293 ss.). L'autore si basa fondamentalmente su un passo di Ulpiano, contenuto in D, 43, 8, 2, 4, in cui si dice che "res fiscales quasi propriae et privatae sunt", e sulla Historia Augusta, dove allo stesso modo si parla di fiscus privatus e dei debitori del fisco come privati debitores (Scriptores Historiae Augustae, Vita Hadriani, 7). Secondo l'opinione dello studioso tedesco, i beni privati del principe ed i beni dello Stato messi a sua disposizione non tanto si confondono, quanto piuttosto si considerano facenti parte di un tutto unico sul piano dei diritti patrimoniali e dei diritti di successione: l'esistenza di tale indissolubilità è dimostrata anzitutto dall'impossibilità pratica di distinguere la successione nei beni dalla successione al trono. Quanto poi allo studio del carattere e del funzionamento del fisco imperiale, Mommsen osserva che gli affari pubblici e gli affari puramente privati del principe sono collocati in linea di diritto sullo stesso piano: se è vero che il patrimonium principis rimane distinto, dal punto di vista della gestione amministrativa, dal resto delle res familiares (e non poteva essere altrimenti, visto che la fortuna ereditaria del principe non poteva adattarsi al modello di amministrazione a dipartimenti di entrate tipico dei beni pubblici), è altrettanto vero che la contrapposizione tra patrimonium e res privata principis, da una parte, e fiscus, dall'altra, fa riferimento al solo titolo di acquisizione ed alla modalità di amministrazione, non anche all'individuazione del soggetto di diritto. Ancora prima il Marquardt, op. cit., p. 392 ss., facendo risalire ad Augusto l'origine del patrimonium Caesaris, afferma che già sotto questo imperatore tale cassa aveva assunto la fisionomia giuridica di patrimonio privato del principe, mentre il fiscus, che appare ugualmente nella sua diretta disponibilità, si distingueva per la sua natura pubblica: a parte questa differenza, si può concludere a giudizio dell'autore che le due casse risultassero indistinte nella pratica, essendo entrambe a disposizione dell'imperatore. (24) Tra gli studi recenti spicca la visione del De Martino, op. cit., p. 909 ss., che non giudica convincenti le testimonianze addotte dal Mommsen per i seguenti motivi: - il testo di Ulpiano, ammesso che sia genuino, risale all'epoca dei Severi, quando si era accentuato il carattere monarchico del regime, e non afferma che il fisco è res privata, ma che le res fiscales "quasi propriae et privatae sunt", allo scopo di giustificare l'esclusione dell'interdetto "ne quid in loco publico vel itinere fiat" ed ammettere la competenza in via esclusivamente amministrativa dei prefetti a decidere le eventuali controversie; - il testo della Vita Hadriani non definisce i debitori del fisco privati debitori del principe, ma usa il termine nel senso di privati contribuenti; è un testo tardo, non giuridico, e non può assurgere al valore di una definizione di carattere tecnico; - Tacito, parlando dei bona damnatorum, non considera il fisco un bene privato, ma semplicemente contrappone il fisco all'erario; negli altri testi si riferisce all'amministrazione di res suae o familiares. Per ciò che riguarda la trasmissibilità ereditaria, nulla autorizza a credere che gli imperatori nei loro testamenti disponessero anche delle res fiscales: il fatto che essi usassero trasmettere i loro beni privati ai discendenti, ricorda il De Martino, non dimostra che tali beni si unissero con quelli fiscali, come invece vuole il Mommsen. (25) Tra le diverse prospettive, la soluzione fornita da Orestano alla questione dei rapporti tra fiscus ed aerarium e tra fiscus e princeps, che abbiamo visto essere ampiamente dibattuta, merita di essere riportata. Egli analizza il problema della personalità giuridica del fiscus in relazione alla personalità dello "Stato", per cui il riversarsi nel fiscus di competenze e di cespiti prima spettanti all'aerarium rappresenta il profilo concreto del progressivo sostituirsi del princeps al popolus come centro di riferimento di relazioni pubbliche. L'autore pone in connessione le esigenze che provocarono, o almeno favorirono, la formazione del fiscus con il novus ordo instaurato da Augusto e con la conseguente necessità che egli aveva del controllo di entrate e cespiti che gli garantissero la prosecuzione della sua politica: ciò comportava inevitabilmente la fusione delle sue entrate personali con le altre e la pressoché identica tenuta delle spese. Da qui la commistione tra patrimonio privato del princeps e risorse pubbliche. L'esame delle fonti non si rivela tuttavia sufficiente a fugare tutti i dubbi. Svetonio, nel citare le ultime volontà di Augusto, precisa che nel breviarium totius imperii era indicato, oltre al numero ed alla dislocazione degli uomini e delle armi, anche quantum pecuniae in aerario et fiscis et vectigaliorum residuis esset (Aug. 101, 6). Ciò conduce Orestano ad affermare che, se anche la dialettica interna dell'età imperiale esclude che certe riforme dell'organizzazione romana possano essere attribuite alla volontà di un solo principe, comunque è altrettanto arbitrario negare all'età augustea l'inizio della trasformazione finanziaria. L'errore, a giudizio dello studioso, è tentare di risolvere questioni come la soggettività o la personalità giuridica del fisco utilizzando prospettive dogmatiche ignote all'esperienza romana, affermazione che racchiude l'importantissimo contributo fornito dall'autore. Comunque, l'impiego del termine fiscus con significato unitario da parte di autori come Seneca e Plinio il Vecchio (Sen. de ben. 4, 39, 3: sponsum descendam, quia promisi; sed non, si spondere me, in incertum iubebis, si fisco obligabis (...); 7, 6, 3, Caesar omnia habet, fiscus eius privata tantum ac sua, et universa in imperio eius sunt, in patrimonio propria; Plinius, Naturalis Historia, 6, 22, 84: Anni Ploclami, qui maris Rubri vectigal a fisco redemerat, libertus; 12, 25, 113: seritque nunc eum - scil. balsamum - fiscus) fa ritenere che già intorno alla metà del sec. I d.C. la coscienza sociale si fosse resa consapevole della contrapposizione sostanziale, anche se non ancora dichiarata formalmente, tra le due istituzioni. Così come non è dato di cogliere i particolari cronologici dell'istituzionalizzazione del fiscus quale ufficio finanziario dell'ordinamento imperiale, al pari si ignorano i momenti precisi in cui determinati cespiti siano passati dall'aerarium al fiscus: mentre si sa che i caduca in certi casi venivano attribuiti al fisco già sotto Adriano, è incerto se l'attribuzione al fisco dei bona vacantia, dei tesori, dei bona damnatorum, delle pene pecuniarie e dei proventi dell'ager publicus risalga a prima dei Severi o sia stata attuata da questa dinastia. Certamente a quel punto l'istituto appare sufficientemente consolidato, come attestano gli scritti di alcuni giuristi, primi fra tutti Paolo e Callistrato. Sul problema della natura giuridica del fiscus e sui rapporti col patrimonium e la res privata, in contrapposizione con le opinioni espresse da altri studiosi, rivolte all'applicazione di rigidi schemi logici, capaci di soddisfare le aspettative di un giurista moderno, ma poco aderenti alle categorie di pensiero del mondo dell'antichità romana, Orestano intende cogliere il cuore del problema nel lento svolgersi di un processo di assestamento che toccava nel vivo ogni fibra della società, legandola sempre di più alla persona prima che alla figura del princeps: il centro di riferimento di relazioni giuridiche di interesse generale è individuato nel passaggio dal popolus romanus al princeps, che l'autore segnala come tratto fondamentale per comprendere la portata del sistema istituzionale introdotto da Augusto. Orestano riconosce al Mommsen il merito di aver interpretato le fonti senza svalutarne il senso, ma fallendo nel tentativo di sistemarle giuridicamente: lo studioso tedesco, a suo parere, costruisce la sua visione in maniera troppo rigida sulle categorie del diritto privato. Le numerose testimonianze da cui risulta che il princeps in quanto persona era titolare del fiscus sono presenti durante tutto l'arco del regime imperiale e su questa considerazione si fonda il convincimento di Orestano: Augusto nelle res gestae non ha mai distinto i suoi averi personali da quelli di cui disponeva in quanto princeps, per cui acquistano valore le testimonianze posteriori (Plinio il Vecchio e Svetonio) che usano il termine fiscus per riferirsi alla sostanza privata di Augusto. La chiave è nel sottile gioco di termini per cui il princeps è al tempo stesso la res publica e res publica egli stesso, parte del bene comune: fatto che giustifica anche la titolarità dei beni man mano sottratti all'aerarium e ricompresi nel fiscus, senza più distinzione tra essi e quelli provenienti dalla fortuna personale dell'imperatore. Questa prospettiva conduce l'autore a ritenere che il rapporto interno princeps-fiscus era al di fuori dell'alternativa pubblico-privato, a dispetto degli sforzi di coloro che hanno inteso ricondurre i poteri del princeps sul fiscus alle tradizionali categorie privatistiche del dominium. In questo senso l'affermazione ulpianea, Contenuta in D.3.6.1.3, che le res fiscales quasi propriae et privatae sunt ha il suo accento logico nel quasi, che ha dunque valore chiaramente equiparativo, di perinde ac si, non quello dell'avverbio italiano "quasi": non si tratta di una qualificazione giuridica impropria, di cui il quasi sottolineerebbe il carattere approssimativo, ma di equiparazione delle res fiscales alle privatae, quindi non di completa assimilazione, allo stesso modo per cui il princeps, quantunque il suo potere sia personale, non è un privatus qualsiasi. L'equiparazione tra fiscus e patrimonium principis dimostra che la contrapposizione si risolveva in una mera distinzione di partite contabili (Orestano R. Il problema delle persone giuridiche nel diritto romano, Torino, 1968, p. 232-262). Altri studiosi sono invece convinti dell'esistenza di autonomi rapporti di natura privatistica riconducibili all'imperatore e distinti dall'esercizio del potere di natura pubblica. In particolare Masi e Mazza, op. cit., p. 496 ss., analizzano la posizione del principe rispetto al fisco, emblematica perché da quanto finora detto la titolarità dei rapporti ad esso riconducibili deve necessariamente imputarsi al principe in quanto tale. Ebbene, la conclusione nega che il binomio principe-fisco possa essere assimilato all'alternativa pubblico-privato: ad esempio, i luoghi appartenenti al fisco (in fisci patrimonio) non si possono classificare come pubblici a detta di Ulpiano (D.43.8.2.4), poiché "res fiscales (...) quasi propriae et privatae principis sunt". Si badi bene: quasi propriae et privatae, affermazione da cui sembra doversi desumere che le res fiscales non soltanto non vengono considerate res publicae, ma pur essendo equiparate alle cose propriae et privatae, queste ultime sono una categoria ancora diversa. Allora, secondo gli autori, la distinzione tra i rapporti riferibili al principe in quanto tale ed i rapporti a lui pertinenti sotto un profilo esclusivamente privatistico è anche ammissibile, ma rileva solamente su un piano formale, ed è materialmente impossibile trasferirne gli effetti in una prospettiva sostanziale: "la caratterizzazione della "ratio" in questione come "privata" (ovvero anche come "propria e privata") non ha tuttavia, a quanto è dato ritenere, implicato per i beni che vi rientrano un regime differenziato, rispetto a quelli riferiti invece al "fiscus" o al "patrimonium". E questo è vero se si pensa che le caratteristiche dell'alienabilità e della illimitata disponibilità da parte del principe sui beni appartenenti alla ratio privata, non si possono certo negare alle res fiscales; e comunque, se anche dimostriamo la tendenza ad isolare un complesso dei beni dei quali il principe potesse disporre senza limitazioni, e soprattutto senza intaccare il fiscus (il che non esclude, come ampiamente dibattuto, la sua legittimazione a disporre in modo pressoché assoluto anche dei beni riferibili a tale branca dell'amministrazione finanziaria), d'altro canto, non si riesce a distinguere sul piano pratico un settore privatistico da uno invece pubblicistico nei rapporti facenti capo all'imperatore. (26) Vedasi in proposito Di Renzo F., op. ult. cit., p. 196 ss: "Il grado di perfezione e di organizzazione razionale che raggiunse il Comes sacrarum largitionum, un vero ministero delle finanze e del tesoro, non aveva nulla da invidiare alla moderna organizzazione delle amministrazioni finanziarie. Le attribuzioni, infatti, affidate agli undici dipartimenti finanziari, in cui si divideva il Comitato, hanno molti punti di analogia con le funzioni e le attribuzioni demandate alle diverse direzioni generali dei nostri moderni ministeri delle finanze e del tesoro. Così lo "scrinium canonum" svolgeva funzioni che corrispondevano, presso a poco, a quelle esercitate dalla Direzione generale delle Imposte Dirette; lo "scrinium tabolarium" al servizio proprio del tesoro; lo "scrinium numerariorum" ai controlli sulle spese pubbliche esercitate, nella moderna legislazione, dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla Corte dei Conti; lo "scrinium aureae" al servizio che esplica la nostra Zecca. Per quanto riguardava l'organizzazione periferica dei servizi finanziari, in ciascuna comunità era istituito un apposito ufficio, nel quale si tenevano i ruoli di tutti i fondi esistenti nel territorio. La tenuta di questi ruoli era scrupolosa e rispecchiava fedelmente la situazione economica del contribuente e l'effettivo stato di consisitenza dei beni. In essi erano infatti indicati i nomi dei fondi, l'ubicazione, i fondi confinanti, l'estenzione, il numero e la natura delle piante (...), il numero dei servi ed infine l'indicazione del valore del fondo, secondo l'ultima dichiarazione fatta dal proprietario. L'imperatore, tenendo presente il ruolo generale delle proprietà, determinava ogni quinquennio il piano delle contribuzioni in generi ed in denaro, da doversi pagare in tutto il territorio dell'impero nel quinquennio successivo. Dal piano generale gli ufficiali del pretorio facevano i piani parziali per ciascuna provincia. Tali piani venivano poi pubblicati nei centri più importanti delle province stesse, quattro mesi prima dello scadere del termine per il pagamento della prima rata. Alla pubblicazione dei ruoli nelle province, seguiva la ripartizione delle contribuzioni per ciascuna città e, finalmente, tra i singoli proprietari (...)". (27) Sull'argomento, vedasi tra gli altri Graziani, Isitituzioni di scienza delle finanze, Torino, 1929, p. 345; Ranelletti, Natura giuridica delle imposte, in Le imposte dirette, 1898, p. 196; Vitta, Diritto amministrativo, Torino, 1954, p. 240; Tesoro, Classificazione giuridica delle entrate dello Stato, in Rivista politica ed economica, 1937, p. 32; (28) Vedasi Beloch J., Per la storia della popolazione nell'antichità, in Biblioteca di storia economica diretta da Vilfredo Pareto, p. 298. (29) Per una descrizione approfondita del sistema impositivo romano, vedasi anche Cagnat R., Ètudes sur les impôts indirects chez les Romaines, Parigi, 1882, p. V. (30) Basti pensare al vectigal alabarchiae, che essendo percepito in base alla scriptura del numero e della qualità dei capi di bestiame ammessi al pascolo, riveste l'indubbia forma dell'imposta fondiaria. (31) Attestazioni in LIV. 23, 31; 29, 15, 9; 39, 7, 4. (32) Il re Servio Tullio viene ricordato per l'importanza delle riforme da lui concepite nel campo del diritto tributario, la cui portata è paragonabile alle innovazioni introdotte da Augusto. Sull'argomento, vedasi Di Renzo F., Il sistema tributario romano, Napoli, 1949, p. 78; Guarini L., La finanza del popolo romano, Napoli, 1842; Lecrivain C., in Darenberg e Saglio, Dictionnair del antiquités grecs et romaines.. (33) V. Luzzatto G. I., La riscossione dei tributi in Roma e l'ipotesi della proprietà sovrana, atti del congresso di diritto romano di Verona, 1948. (34) Attestazioni in LIV, 22, 32, 2. (35) Attestazioni in LIV, 29, 15, 9; 39, 7, 4; 23, 31. (36) Sull'argomento vedasi, tra gli altri, Marquardt J., De l'organisation financière chez les Romaines, Paris, 1888, p. 221. (37) Plut, Cato Mai., 18. (38) Tra cui il Savigny, Romische Steuerverfassung, 1882. (39) Di questo parere il Rodbertus, Per la storia delle imposte romane da Augusto in poi, Jena, 1869. (40) Il Mommsen, pur non essendo in grado di stabilire l'esatta proporzione tra le entrate nella diretta disponibilità dell'imperatore e le spese da questi assunte in prima persona, è tuttavia convinto che Augusto abbia destinato alle pubbliche esigenze più denaro di quanto non ne abbia ricavato dall'amministrazione delle finanze: l'autore giunge a questa conclusione muovendo le premesse dal testamento di Augusto riportato in Svetonio, Vita di Augusto, 191, e da un passo degli Annales di Tacito, 14, 18 (Mommsen, Droit public romain, Parigi, 1888, p. 303). (41) Attestato da AUR. VIT., De Caesaribus, Cap. XXXIX. (42) Sull'argomento vedi anche: Burmann, Vectigalia populi romani, Leida, 1734; Di Renzo F., La finanza antica, Napoli, 1955; Grelle F., Stipendium vel tributum: l'imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II-III secolo, Napoli, 1963. (43) V.Di Renzo F., op. ult. cit., n. 3, p. 159. (44) Su questo punto vedi ancora Di Renzo, op. ult. cit., n. 3, p. 160: "Ad onta dei deleteri effetti di tale irrazionale politica tributaria, più volte incontriamo in tale periodo il manifestarsi di simili avvenimenti, che scuotevano profondamente gli elementari princìpi economici della proprietà e della ricchezza dei privati". (45) Severissime pene erano comminate a carico di coloro che omettevano le denunzie o le rendevano inesatte: nei casi più gravi, erano applicate persino la pena di morte e la confisca dei beni (vedi Di Renzo F., op. ult. cit., n. 3, g. 161). (46) Secondo il racconto di Livio, il catasto ordinato da Servio doveva contenere il nominativo di ogni cittadino e dei componenti della sua famiglia, il numero degli schiavi e degli animali che ognuna aveva presso di sé e la quantità di oro e di argento e degli oggetti preziosi posseduti (vedi Di Renzo F., op. ult. cit., n. 1, p. 78). (47) Il suo apparire provocò tali vivaci reazioni e tale impopolarità da indurre l'imperatore Onorio, nell'anno 395, ad abolirla come "vectigal miserabile prorsus, deoque invisum et barbaris ipsis indignum" (Di Renzo F., op. ult. cit., n. 1, p. 169). (48) Caligola non risparmiò da tale imposta nemmeno le meretrici ed i lenoni, facendoli rientrare latu sensu nella categoria dei commercianti (da Suet., Caligola, cap. XL). (49) Isid. Orig., 16, 18, 8. (50) Bonelli G., Le imposte indirette di Roma antica, in Studi e documenti di storia e diritto, 1900, p. 37. (51) Ampia disamina in Burmann, op. cit., p. 3 ss.; Marquardt J., op. cit.., p. 205; Cagnat R., voce portorium in Daremberg e Saglio. (52) Rif. D., 4, 16, 17. (53) Anche la parola portus è qualche volta usata come sinonimo di portorium, e non solo per indicare il tributo imposto in occasione del transito delle merci in un porto, come si potrebbe credere, ma allo stesso modo la si incontra nei possedimenti romani dell'interno dell'Africa (tratto da Di Renzo F., op. cit., n. 5, p. 120). (54) Già nel II sec. a.C. si ha notizia di portoria applicati a Capua, Pozzuoli ed alle foci del Volturno; barriere daziarie sorsero più tardi un po' ovunque, fornendo cospicue fonti di entrata alle casse dello Stato (LIV., II, 9; VELL. PAT., II, 6). (55) CIC. Ad Qu. Fr. I, 1, 11. (56) Suet. Caes., 43. (57) La bilancia commerciale di Roma era fortemente sbilanciata verso l'esterno: la città era destinataria di immensi traffici, che avevano ad oggetto l'approvvigionamento del grano (Tacito narra negli Annali come gli imperatori abbiano sempre avuto una costante preoccupazione per il controllo dell'Egitto, che poteva sempre affamare Roma), il commercio del vino, delle manifatture di lana (testimonianze arrivano dalla Historia Naturalis di Plinio), del papiro, del vetro, del lino, ed altre merci preziose per l'epoca. I traffici con le province erano quasi sempre passivi per Roma: quando il prezzo dei beni acquistati non poteva essere pareggiato dalle somme rimesse dai provinciali a titolo di tributi, si dava origine a forti trasferimenti di denaro verso le province, indispensabili per favorire gli investimenti in regioni lontane, ma anche per creare disponibilità monetarie destinate a ritornare a Roma sotto forma di tributi. È appena il caso di menzionare i vantaggi di cui le casse dello Stato godevano, per effetto di questi traffici, anche con riferimento all'applicazione dei dazi doganali (Di Renzo F., op. ult. cit., nota n. 5, p. 200 ss.). (58) Di questo parere il Marquardt, op. cit. (59) Da parte del Cagnat, Studio storico delle imposte indirette presso i Romani, Parigi, 1883 (traduzione italiana nel V volume della biblioteca di storia economica diretta da Vilfredo Pareto, p. 491 ss.). (60) V.Di Renzo F., op. ult. cit., n. 5, p. 119. (61) Dal sistema fiscale egiziano Augusto prese "a prestito" anche lo schema della riforma delle imposte di successione da lui varata e di cui vedasi infra. (62) Tac. Ann., 1, 78. (63) Tac. Ann. 2, 42. (64) Tac. Ann. 13, 31. (65) È noto che lo schiavo poteva essere liberato dal padrone per mezzo di una procedura detta manumissio, che poteva essere compiuta per atto pubblico o privato. A sua volta, la manomissione per atto pubblico poteva essere: - per vindictam, quando il padrone dichiarava solennemente innanzi al magistrato di concedere la libertà allo schiavo, secondo le formule previste dal diritto romano; - censu, ovvero facendo iscrivere a cura del censore il nome dello schiavo nella lista dei contribuenti ai fini dell'imposizione fondiaria, nel qual caso spettava al padrone garantire l'adempimento dell'obbligazione tributaria; - testamento, quando il padrone dichiarava libero lo schiavo nel proprio testamento. La manomissione per atto privato avveniva per mensam, ossia invitando lo schiavo a sedere alla mensa del padrone oppure inter amicos, quando alla presenza di cinque testimoni il padrone dichiarava di volere rendere libero lo schiavo. Sul punto, vedi anche: Burdese A., op. cit., p. 151 ss.; Palazzi e Untersteiner, La civiltà romana, Milano, 1931, p. 163 ss. (66) V. BouchÈ Leclerq, Manuel des institutions romaines, Parigi, 1886. (67) V. Di Renzo F., op. ult. cit., n. 5, p. 196; sul punto anche Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, Firenze, 1953. (68) V. Di Renzo F., Op. ult. citata, n. 5, p. 184. (69) Con riferimento al periodo augusteo: vedasi Garzetti A., Aerarium e fiscus sotto Augusto: storia di una questione in parte di nomi, in Athenaeum, studi periodici di letteratura e storia dell'antichità, Università di Pavia, 1953, dal quale è stato tratto il prospetto riassuntivo. (70) Ove attestato dalle fonti.

 
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