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LA RIFORMA PROTESTANTE - MARTIN LUTERO

PROTESTANTESIMO - MARTIN LUTERO
 

II. IL TEMA DELLA PREDESTINAZIONE IN LUTERO 1) La rottura con Roma: Il fine dell'azione di Lutero non fu tanto di riformare la vita della Chiesa e del clero, quanto piuttosto di correggerne la dottrina. L'oggetto principale dei suoi attacchi non furono perciò, quantomeno in primo luogo, le 'deformazioni' (sia a livello pratico che religioso) del cattolicesimo medievale, ma il cattolicesimo stesso, in quanto esso tradiva secondo lui il vero messaggio evangelico.1 Il punto di maggiore attrito, sul piano dottrinale, tra la teologia di Lutero e quella della Chiesa cattolica era legato, in ultima analisi, alla diversa soluzione data dalle due parti al problema del libero arbitrio umano (molto più a questo, in realtà, che non al discorso sull'interiorità della fede, o all'idea che la salvezza potesse essere ricevuta solo per volontà di Dio). Se questo secondo ambito di concetti, infatti, non poteva più essere messo in discussione da chiunque desiderasse definirsi cristiano (e ciò dal momento che il dibattito di S. Agostino contro i seguaci di Pelagio aveva estirpato la possibilità stessa di atteggiamenti autoredentori in seno all'ortodossia cristiana), il primo punto invece - cioè quello riguardante la gratuità della salvezza, ed il fatto che essa non dipendesse in nessun modo dai meriti umani - nonostante fosse stato già ampiamente testimoniato da autori come S. Paolo e S. Agostino, aveva subito nel corso del medioevo una sorta di 'censura' ad opera dell'ortodossia cattolica (ovviamente per ragioni pratico educative). 2 Quel che rimaneva quindi del discorso di Agostino sulla Grazia era essenzialmente, nella teologia medievale (come si è ampiamente dimostrato nel capitolo precedente) l'idea soggettiva di patto, la quale, richiamandosi al concetto di libero arbitrio umano, implicava come logica conseguenza la rimozione degli aspetti predestinanti del discorso agostiniano. Secondo tale idea infatti, l'uomo poteva liberamente sollecitare l'opera della propria redenzione da parte del Signore, anche se non era assolutamente in grado di redimersi con le proprie forze. Anche il fatto, forse, che un concetto tanto importante come quello della predestinazione venisse passato sotto silenzio, riportò l'interesse del riformatore su di esso, inducendolo così a riaffermarne la centralità. E fu proprio questa riaffermazione, ciò che determinò la rottura vera e propria tra la teologia di Lutero e la tradizione cattolica medievale. Il dibattito sostenuto da Lutero contro Erasmo da Rotterdam, a proposito della libertà dell'arbitrio umano (1524-1526), può quindi essere considerato, nell'arco di tutta la sua carriera, come quello di maggiore importanza. Esso infatti da una parte costituì un valido motivo per chiarire le ragioni dottrinali della propria avversione contro la chiesa di Roma e, contemporaneamente, gli fornì l'occasione di esporre le proprie idee in merito alla predestinazione umana. Il Servo arbitrio inoltre fu, tra gli scritti del riformatore, il solo che questi considerasse, assieme al Catechismo, veramente degno di essere ricordato dopo la propria morte 3: e ciò perché egli vi esponeva (già a partire dal titolo) l'unico vero e irrimediabile motivo di frattura con la teologia corrente: l'incapacità dell'uomo di 'entrare in contatto con Dio' con le sue forze naturali, e il limite quindi del dominio della sua volontà alla sola dimensione terrena. 1 Cfr. R. Bainton, La Riforma protestante, op. cit., p.37, dove si legge: "Lutero in effetti fu assai meno eloquente, circa le infrazioni correnti, di quanto non lo fosse il suo contemporaneo Sebastiano Brandt, il quale così si lamentava: la barca di S. Pietro - è in preda al fortunale:/ahi, che la navicella - non debba finir male. (...) Ma il grido di Lutero non fu una rampogna contro la ciurma; bersaglio delle sue critiche era la navicella. "Altri - diceva - hanno attaccato la vita, io attacco invece la dottrina"." 2 In merito a questo secondo aspetto dell'eredità di S. Agostino, si può leggere un'affermazione di James Atkinson, il quale afferma che, nonostante la Chiesa cattolica non avesse mai accettato integralmente la dottrina agostiniana, "la grande acutezza e il profondo paolinismo di Agostino, resi più efficaci da una potente percezione spirituale e da una profonda esperienza religiosa, diedero praticamente la loro impronta alla teologia occidentale." (J. Atkinson, op. cit., p.40) 3 Cfr. F. De Michelis Pintacuda, l'introduzione a Servo Arbitrio di M. Lutero, ed. cit., p.7. 2) Il dibattito con Erasmo: Quella tra Erasmo e Lutero fu, nella storia della cultura occidentale, una disputa importante. Essa infatti affrontò il problema - che successivamente si pose di nuovo più volte nella cultura moderna - della libertà dell'uomo. Questo dibattito, tuttavia, ebbe la propria origine in fattori in gran parte estrinseci alla volontà dei due contendenti. Il motivo che spinse l'umanista a scrivere il suo De libero arbitrio nel 1524, non fu infatti tanto una scelta personale, quanto piuttosto la forte sollecitazione subita ad opera delle autorità ecclesiastiche.1 E' un fatto indubitabile che tra queste due figure, Erasmo e Lutero, sussistessero delle profonde affinità di vedute: entrambi lottavano contro la deformazione della dottrina cristiana, che inclinava verso una nuova forma di 'idolatria' (in quanto era ormai incentrata in gran parte sul culto dei santi e delle reliquie, anziché sul messaggio del Vangelo e di Cristo). Entrambi poi denunciavano - seppure in modi differenti - gli interessi 'poco spirituali' del clero, e valorizzavano gli aspetti interioristici della fede cristiana, quali si trovavano espressi già negli scritti di molti dei Padri e capostipiti della Chiesa. (E non è un caso che l'umanista affermasse, in una lettera, di aver insegnato ciò che Lutero stesso insegnava, seppure "in modo meno selvaggio, e con meno paradossi"2.) Tuttavia proprio una somiglianza così marcata - quantomeno sui punti appena citati - prestava il fianco all'accusa, rivolta ad Erasmo da parte di molti cattolici, di appoggiare copertamente l'azione di riforma di Lutero.2bis Inoltre la ritrosia dell'umanista a prendere delle posizioni nette in favore di qualsiasi schieramento o fazione, non poteva non destare (soprattutto dopo la svolta degli anni venti, ovvero col dilagare in Europa della Riforma luterana) dei forti sospetti agli occhi di molti contemporanei: ragione per cui egli veniva spesso tacciato di segreta complicità con l'avversario. In una situazione tanto tesa perciò, anche Erasmo (pur così geloso della propria intimità e indipendenza da ogni fazione politica) si trovò costretto dalle circostanze ad esprimersi, come già avevano fatto in molti prima di lui, contro Lutero, implicitamente col ricatto di venire altrimenti estromesso dalla Chiesa cattolica. Il tema che l'umanista scelse di trattare nel suo saggio contro Lutero, fu lo stesso che alcuni anni prima gli era stata consigliato da Enrico VIII d'Inghilterra: ovvero l'esistenza del libero arbitrio 3. E' interessante poi ricordare come il riformatore stesso accogliesse con gratitudine e con piacere la proposta di dibattito fattagli da Erasmo, ringraziandolo per "essere andato subito al nocciolo della divergenza, anziché perdere tempo in sciocchezze come papato, indulgenze e purgatorio."4 Il tema sollevato dall'umanista infatti, portava alla luce la vera e più profonda ragione di discordia tra Lutero e i cattolici. a) il Libero Arbitrio d'Erasmo: La posizione assunta dall'umanista in merito al problema della libertà dell'uomo nel determinare il proprio destino oltreterreno, se da una parte ricalcava (come si cercherà di mostrare più avanti) la posizione presa in generale dai teologi delle scholae, dall'altra però può esser vista come una manifestazione della sorgente temperie culturale, critica e moderna. Nonostante l'avversione spesso manifestata da Erasmo nei confronti della filosofia medievale, la sua posizione su questo specifico problema si potrebbe infatti facilmente accostare a quella degli scolastici. Come tale Lutero la combatteva ("Hai frenato il mio spirito e la mia irruenza, e mi hai reso fiacco ancora prima di iniziare. E questo per due ragioni. Innanzi tutto per il tuo modo di scrivere, con costante e mirabile venerazione, (...) sicché io non posso irritarmi nei tuoi confronti. In secondo luogo per via del caso o di un destino avverso, per cui in una questione tanto importante non dici nulla che non sia già stato detto; anzi, dici ancor meno e attribuisci di più al libero arbitrio di quanto abbiano fatto i sofisti [ossia gli scolastici]"5.) Tuttavia, l'atteggiamento di fondo assunto dall'umanista di fronte a questo problema, era per certi versi estremamente differente da quello di quei teologi. Se infatti essi si ponevano di fronte a una tale questione con reverenza e paura, Erasmo al contrario l'affrontava con una sorta di sfrontata ironia. A differenza dei primi, molto propensi a evidenziarne le implicazioni drammatiche per l'homo viator, Erasmo si mostrava decisamente più incline a minimizzarne la portata. Il suo scritto iniziava come segue: "Tra le non poche difficoltà che si presentano quando ci si accosta ai testi sacri, forse nessuna è un labirinto più inestricabile di quella che riguarda il libero arbitrio. E' una questione che ha già messo alla prova l'acume degli antichi filosofi, e poi dei teologi, sia del passato che odierni, ma con più fatica, mi pare, che frutto."6 Sin dal principio, dunque, egli si preoccupava di manifestare verso il problema trattato un certo scetticismo, basato essenzialmente sul carattere aporetico di esso (ricalcando, in tal modo, la posizione assunta dall'umanista Lorenzo Valla nel suo Dialogo sul libero arbitrio del 1439). In linea con un tale atteggiamento, egli passava subito dopo ad esaminarne le implicazioni di natura pratica: ed asseriva quindi la dannosità insita nel porsi 'simili dilemmi'. Scriveva infatti: "Così vi sono errori che creano meno problemi a nasconderli che a sradicarli. Paolo sa la differenza tra il lecito e l'utile. Diciamo il vero: la verità non è giovevole a qualsiasi persona, o in qualsiasi momento, o in qualsiasi modo."7 Il suo punto di vista ruotava attorno all'esigenza di fondare una 'morale naturale' che favorisse la convivenza civile tra gli uomini. In quest'ottica si inquadrava la risposta - di carattere tutto umanistico - data da Erasmo all'interpretazione scritturale luterana, risposta incentrata sull'idea della responsabilità individuale. ("E ancora, immaginiamo che sia vero, secondo un determinato punto di vista, quel che Agostino scrisse in un suo libro, cioè che Dio opera in noi le cose buone e cattive, e che sempre in noi premia le sue opere buone e punisce quelle cattive: a quanti questa idea spalancherebbe la strada per comportarsi da empi, se diffusa?"8) La posizione d'Erasmo era fondata, dunque, più che su una convinzione di carattere religioso e teoretico, essenzialmente su considerazioni pratiche (e anche in questo, peraltro, egli si avvicinava alla posizione presa nel suo dialogo dal Valla). Un'altra sua profonda convinzione, come si è detto, era poi quella dell'inutilità stessa del porsi tale questione, la cui soluzione avrebbe dovuto, a suo avviso, essere rinviata (come molte altre, per altro) al giorno del giudizio. Si legge infatti poco più avanti: "Preferirei infondere la convinzione che la vita e l'intelligenza non vanno consumate in questo tipo di labirinti, piuttosto che riuscire a confutare, o a confermare, una sola asserzione di Lutero."9 A partire da queste premesse, estremamente deboli da un punto di vista teorico (ma è necessario ricordare come Erasmo "non fosse un teologo sistematico, e non avesse propensione a formulare i [propri] fundamenta in articoli numerati"10), l'autore passava poi ad analizzare sia le motivazioni a favore, che quelle a sfavore del libero arbitrio. La sua indagine tuttavia non si fondava unicamente sull'analisi dei testi biblici, ma al contrario teneva conto pure delle risposte che erano state date a questo problema da varie eminenti personalità della cultura occidentale. E ciò tuttavia non al fine di sostenere una tesi specifica, attraverso una critica di tali posizioni, ma piuttosto per dimostrare la natura ambigua e sfuggente (aporetica) del problema. A questo proposito Erasmo usava, all'interno del proprio testo, la metafora dell'antro Coricio, per simboleggiare quegli aspetti della Maestà divina che, in quanto manifestazioni dell'assoluta trascendenza ed ineffabilità di Dio, sfuggivano totalmente alla comprensione dell'uomo. Si legge infatti che "negli scritti divini ci sono alcuni aspetti reconditi, nei quali Dio non volle che noi ci addentrassimo troppo, e, se cerchiamo di approfondire, volle che quanto più approfondiamo, tanto più ci immergiamo nella nebbia, affinché riconosciamo anche in questo modo che la maestà della sapienza divina è imperscrutabile e constatiamo la debolezza della mente umana. Come avviene per la grotta Coricia, - lo racconta Pomponio Mela - la quale, al principio, invoglia e attira per la sua gradevolezza, ma poi, chi entra più in fondo viene preso da un sacro orrore, e la maestà del nume che lì abita lo ricaccia indietro."11 E ancora, più avanti: "A questo proposito sento dire: A che serve un interprete dove la Scrittura è tanto chiara? Ma se è tanto chiara, perché uomini eccellenti vi brancolarono per tanti secoli (...) e in una cosa poi, che è tanto importante?"12 L'atteggiamento di fondo assunto da Erasmo sin dall'inizio del suo saggio era, quindi, fondamentalmente di scetticismo e di diffidenza verso l'argomento stesso che si accingeva ad affrontare (un atteggiamento analogo, in questo senso, a quello del precursore Lorenzo Valla, il quale nel proprio scritto affrontava con titubanza la questione propostagli dal suo interlocutore, in ragione della difficoltà nonché della fondamentale insolubilità di essa.) Tuttavia la posizione che l'umanista prendeva sul tema del libero arbitrio, nonostante la sua profonda indecisione, ricalcava nelle sue linee di fondo (come si intende dimostrare qui di seguito) quella comune alla maggior parte dei teologi del Medioevo. La sua trattazione iniziava col considerare le varie posizioni che erano state prese dagli antichi e dai moderni su "quanta sia la forza del libero arbitrio in noi dopo il peccato". Pur nella loro varietà, esse erano secondo lui essenzialmente riconducibili a tre tipi: a) quella di chi "rifiutava gli estremi della disperazione e della sicurezza, e voleva stimolare l'uomo alla speranza e all'impegno" e che quindi "dava più peso al libero arbitrio"; b) quella - del tutto opposta - di coloro che "sostenevano che tutte le opere, per quanto buone moralmente, erano detestabili agli occhi di Dio, poiché non provengono dalla fede e dalla carità verso Dio"13; c) ed infine una versione intermedia, da lui approvata e sostenuta, che veniva esposta nella parte rimanente dello scritto. Mentre la prima posizione (attribuita a Pelagio e, in una versione attenuata, a Scoto Eriugena) era secondo lui "eccessivamente orientata in favore del libero arbitrio", la seconda invece (ricondotta a S. Agostino e a S. Paolo) gli appariva troppo rigida. Tuttavia per riconciliare quest'ultima col proprio punto di vista, Erasmo ne dava la seguente spiegazione: "Sant'Agostino e i suoi seguaci, considerando quanto dannoso sia per la vera religiosità che l'uomo confidi nelle proprie forze, sono più inclini a dar peso alla grazia. Paolo la sottolinea dappertutto. E perciò nega che l'uomo soggetto al peccato possa orientarsi a correggere la sua vita, (...) a meno che non sia spinto per opera divina".14 In altri termini, Erasmo giustificava una tale visione predestinante con l'idea che fosse finalizzata ad abbassare le pretese umane, incoraggiando l'uomo a attribuire quanto più possibile il bene a Dio anziché a sé, ma evitando comunque di deresponsabilizzarsi. Teoricamente quindi, Erasmo asseriva che "la legge indica cosa Dio voglia, fissa la pena se non obbedisci e il premio se obbedisci. Ma lascia la facoltà di scegliere alla volontà (...), libera ed orientabile in entrambe le direzioni." Il tutto veniva giustificato con l'osservazione che "se la volontà non fosse stata libera, non sarebbe stata imputabile per il peccato, poiché il peccato cessa di esistere se non sia stato volontario (...)".15 A proposito di questa visione, alcuni studiosi hanno osservato come Erasmo propendesse "piuttosto a ridurre l'onnipotenza divina, che a indebolire [anche lontanamente] le fondamenta religiose dell'etica cristiana."16 Tralasciando di descrivere le molteplici distinzioni che egli metteva in atto per delineare una linea di continuità tra i due opposti piani della grazia e della natura, nonché tra quelli di paganesimo e cristianesimo (distinzioni come, ad esempio, quella tra grazia generale e particolare, o tra grazia operante e preveniente16bis), possiamo concludere questa analisi citando un'immagine particolarmente pregnante, adoperata da Erasmo per descrivere la condizione umana. Egli paragonava la ricerca, da parte dell'uomo, della Grazia divina, ai tentativi fatti da un bambino per imparare a camminare, mentre il padre che lo incoraggia e lo aiuta rappresenta il Padre celeste: "Il padre, che ha un bambino ancora incapace di camminare, quando cade lo rialza, aiutando ogni sforzo del piccolo, e gli presenta davanti un frutto: il piccolo si agita per arrivare, ma ricadrebbe per la debolezza delle membra se il padre non stendesse la mano per sostenerlo e non sorreggesse il suo muoversi. (...) Il piccolo non poteva alzarsi se il padre non l'avesse sostenuto, non avrebbe visto il frutto se il padre non glielo avesse mostrato, non poteva avanzare se il padre non avesse aiutato costantemente i suoi passi, non poteva toccare il frutto se il padre non gliel'avesse dato in mano. Che cosa qui potrà mai attribuirsi al bambino? Eppure qualcosa ha fatto. Non ha però motivo di vantarsi delle sue capacità, perché deve tutto al padre."17 La posizione dell'umanista quindi, era fondamentalmente sfavorevole alle idee di Lutero, nonostante egli riconoscesse l'onestà e la buona fede dell'uomo. Erasmo non avrebbe mai potuto accettare il radicalismo del riformatore, che svalutava totalmente il ruolo della volontà umana nel determinare il destino individuale, e quindi metteva in discussione la stessa dignità umana. Si legge infatti, poco più avanti: "Questa posizione [quella di Lutero] pare attribuire apertamente a Dio crudeltà e ingiustizia, affermazione che ripugna del tutto ad orecchi religiosi."18 La visione di un Dio totalmente incomprensibile agli uomini nelle proprie scelte morali, non poteva essere approvata da un uomo che aveva fatto della pace il valore fondamentale della propria vita e il principio stesso della sua visione cosmica. Anche se dunque, Erasmo e Lutero avevano "un campo di impegno comune, sul quale si trovavano ad essere contrastati dagli stessi nemici, quello del rinnovamento culturale e della purificazione dei costumi ecclesiastici"19, essi erano tuttavia separati da un notevole divario quando si trattava di intendere la natura del divino e del rapporto uomo-Dio. b) il Servo arbitrio di Lutero: L'importanza del testo che Lutero aveva scritto in risposta ad Erasmo risiedeva nel fatto di contenere un'esposizione sia della sua concezione teologica, sia dei veri motivi del suo rifiuto della teologia cattolica. Il riformatore inoltre, nel ribattere alle affermazioni dell'umanista, riteneva di rispondere anche alle principali critiche di tutti i suoi avversari, poiché la teoria esposta da Erasmo rifletteva - quantomeno dal punto di vista di Lutero - i punti salienti della visione comunemente accettata tra i cattolici. Ciò trova conferma in molti passi del testo, all'interno dei quali Erasmo veniva associato a quelli che Lutero definiva sofisti: i filosofi e i teologi della tradizione scolastica ("tu e tutti i sofisti fatevi avanti (...), il fatto che per molti [ossia per voi, cattolici] una grande quantità di punti rimangano oscuri accade (...) per la cecità o la debolezza d'intelletto di quanti non compiono il minimo sforzo per vedere la più chiara delle verità."20) Oltre che una disputa tra Umanesimo e Riforma sul tema della dignità umana (come viene spesso stigmatizzata), la diatriba tra i due autori può essere quindi vista come lo scontro tra due punti di vista antitetici. Il nostro teologo riteneva di difendere in essa il vero messaggio del Vangelo, contro tutti i corruttori della sua purezza e al di là di ogni 'categoria culturale' (teologi scolastici o umanisti). La sua discussione verteva essenzialmente sui seguenti punti: la fede, la chiarezza delle Scritture, e la forza del libero arbitrio dopo il peccato originale - ovvero su quei punti problematici che sarebbero virtualmente rimasti gli stessi, molto probabilmente, se al posto d'Erasmo vi fosse stato un qualsiasi altro interlocutore cattolico. I motivi che il riformatore contrastava nel suo saggio erano dunque quelli tradizionalmente difesi della dottrina avversaria: la capacità umana di influenzare il giudizio di Dio, la fede come propria della volontà umana anche prima della vera grazia 20bis, ed infine l'oscurità di alcuni passi della Scrittura (si ricordi che Lutero contestava le letture anagogiche, morali, ecc. del Medioevo, in favore di una comprensione letterale del testo sacro). Lo scritto del riformatore seguiva passo a passo, confutandoli, i vari sviluppi del Libero arbitrio d'Erasmo, portando alla luce contemporaneamente la concezione teologica di Lutero. Tralasciando (come del resto si è già fatto per l'opera d'Erasmo) l'analisi dei moltissimi passi scritturali su cui si appuntava la discussione, si intende qui riassumere ciò che emerge dallo scritto nel suo insieme. La prima critica sollevata da Lutero riguardava l'atteggiamento scettico assunto dal suo avversario nei confronti della Scrittura: non spettava al cristiano, secondo il riformatore, sollevare dei dubbi, ma piuttosto fare affermazioni nette. Si legge difatti, nel paragrafo iniziale del primo capitolo (L'analisi della prefazione d'Erasmo): "tu mi rimproveri (...) l'ostinazione nel fare affermazioni [ pervicacia asserendi ]. In questo tuo libro dici di aver così poco gusto per le affermazioni che più facilmente inclineresti a posizioni scettiche ogniqualvolta ciò ti fosse concesso dall'inviolabile autorità della sacra Scrittura e dai decreti della Chiesa. (...) E' questa la disposizione d'animo che preferisci". Tuttavia, prosegue Lutero, "è indegno di un cuore cristiano non essere attratto dalle affermazioni; un cristiano deve al contrario compiacersene, altrimenti non è un vero cristiano."21 Il tema dell'affermare con sicurezza inoltre, rimandava ad una seconda idea, estremamente forte all'interno della sua visione: l'evidenza dei passi scritturali. Si legge così, poco più avanti: "Quale cristiano terrà così poco conto dei precetti della Scrittura e della Chiesa, da dire [come fa Erasmo]: 'sia che capisca, sia che non capisca'? Ti sottometti e tuttavia non ti importa nulla di capire o di non capire. Maledetto, al contrario, il cristiano che non sia sicuro e non capisca ciò che gli è prescritto; del resto, come potrà credere in ciò che non capisce?"22 Per il vero cristiano quindi, il testo Sacro doveva, per Lutero, essere assolutamente chiaro e privo d'incertezze nel suo contenuto, mentre tale non poteva essere per i falsi cristiani (ad esempio per quelli che egli chiamava 'sofisti'). L'autore, insomma, teneva a ribadire come Dio rimanesse effettivamente sconosciuto in se stesso, ma non ammetteva alcuna debolezza conoscitiva riguardo alla Scrittura: come abbiamo già visto nel precedente capitolo, la distinzione tra Dio rivelato e Dio oscuro era secondo Lutero fondamentale (perciò egli scriveva nel Servo arbitrio: "Dio e la Scrittura sono due cose distinte, proprio come (...) il Creatore e le Creature di Dio. Nessuno dubita che in Dio ci siano molte cose nascoste, che noi ignoriamo. (...) Ma che nella Scrittura ci siano certe cose nascoste e che non tutte siano accessibili, è stato sicuramente diffuso dagli empi sofisti attraverso la cui bocca tu parli."23) Oltre che su quello della libertà e della predestinazione, dunque, vi era tra i due autori, un profondo dissidio anche sul tema della chiarezza interiore: l'atteggiamento titubante di Erasmo in materia di fede, si scontrava infatti con l'ostentata sicurezza nel fare affermazioni di Lutero. E se per il primo un eccesso di chiarezza avrebbe significato una mancanza di considerazione per il mistero divino, per il secondo invece ciò che costituiva una vera empietà era proprio l'indecisione dottrinale. Il rapporto dell'uomo con la fede non era perciò, secondo quest'ultimo, esprimibile attraverso l'immagine (usata da Erasmo) della caverna coricia, come è detto esplicitamente in questo passo: "A nulla vale ciò che tu adduci a proposito dell'antro coricio. Le cose non stanno così nelle Scritture. Tutto quel che riguarda la somma maestà non si trova in qualche luogo appartato; al contrario è presentato ed esposto nelle piazze stesse e in pubblico. Cristo ci ha aperto la mente, affinché comprendiamo le Scritture."24 Il punto di vista di Lutero insomma, si poneva, già dall'introduzione, come antitetico rispetto a quello dell'umanista: anziché ad un pensatore scettico e moderno, egli somigliava piuttosto (per la perentorietà delle proprie affermazioni) ad un teologo medievale. L'altro argomento trattato nel testo era, ovviamente, quello della libertà umana. In quanto vero motivo della disputa, ne costituiva anche il tema fondamentale. Non si potrebbe però comprenderlo correttamente senza aver prima considerato gli argomenti precedenti: dal momento che essi ne sono, per così dire, l''humus' o il presupposto concettuale. La distinzione tra coloro che capiscono e coloro che non capiscono la sacra Scrittura (nonostante la semplicità di essa), vive sull'idea che alcuni individui - a differenza di altri - abbiano ricevuto il dono della fede. Una tale distinzione era così netta, proprio in quanto non era contemplata alcuna possibilità di una zona intermedia, come quella di coloro che si sforzavano di avvicinarsi a Dio. Se la fede era soltanto un dono divino dunque, per tutti coloro che ne erano sprovvisti (e che non erano nemmeno sulla strada per trovarla) essa doveva rimanere come un puro vocabolo privo di senso - o al quale, tutt'al più, era possibile attribuire un significato puramente esteriore. Perciò, se da una parte vi erano gli illuminati, dall'altra vi erano invece gli accecati. Si legge difatti che "la chiarezza della Scrittura è duplice, come è duplice anche l'oscurità: una esterna posta nel ministero della Parola, l'altra collocata nella conoscenza del cuore. Se hai inteso parlare della chiarezza interna, nessun uomo può scorgere neppure uno iota nelle Scritture, se non possiede lo spirito di Dio; tutti [i non illuminati] hanno il cuore oscurato, sicché, per quanto dicano (...) della Scrittura, in realtà non ne comprendono o conoscono alcunché."25 Poiché tutto ciò avveniva, secondo il riformatore, per una decisione divina presa ab aeterno: ovvero in un modo predestinante ("per il cristiano è prima di ogni altra cosa necessario e salutare sapere che Dio non ha alcuna conoscenza in forma contingente, ma che prevede, prestabilisce e compie ogni cosa con immutabile eterna e infallibile volontà (...)"), ne derivava di conseguenza che il libero arbitrio umano non potesse in alcun modo esistere ("(...) Il libero arbitrio è completamente abbattuto e distrutto da questo fulmine"26). Lo scritto di Lutero proseguiva poi col mostrare da una parte la coerenza interna della Scrittura (e inoltre, contemporaneamente, anche avvalorando la tesi dell'inesistenza del libero arbitrio), e dall'altra mettendo in evidenza le contraddizioni insite nella posizione erasmiana. Se lo stesso Erasmo infatti riconosceva la natura infinita di Dio e degli attributi divini, non era capace però - per ragioni da lui non meglio precisate - di trarne le dovute conseguenze. "Non sei tu, o mio Erasmo, colui che ha affermato poco prima che Dio è infinitamente giusto e misericordioso? Se questo è vero, non ne segue che sia anche immutabilmente giusto e misericordioso? Come in eterno la sua natura non viene mutata in alcun modo, così neppure la sua giustizia e misericordia. Ciò che è detto riguardo alla giustizia e alla misericordia è necessario che venga detto anche riguardo alla scienza, alla sapienza, alla bontà, alla volontà e a tutti gli attributi divini."27 La contraddizione fondamentale che egli rimproverava all'umanista, era: "predichi che debba essere insegnata la volontà immutabile di Dio, ma vieti di conoscere la sua immutabile prescienza!"28 Il punto di vista d'Erasmo cadeva perciò non sulle premesse (dal momento che anche la ragione naturale, secondo Lutero, era in grado di cogliere il concetto dell'onnipotenza divina), ma piuttosto quando ne doveva trarre le logiche ed inevitabili conseguenze. Il riformatore metteva a nudo poi l'inconsistenza di tutta una serie di distinzioni (non soltanto erasmiane)29 escogitate per riuscire in qualche modo a mitigare e ad attenuare l'idea della potenza divina, onde far spazio all'arbitrio umano. La stessa posizione d'Erasmo, per la quale l'imputabilità della colpa richiedeva la libertà d'azione, veniva brutalmente contraddetta: "a questo punto la Diatriba obbietterà sottilmente: dicendo 'se vuoi salvare' [Eccli. 15,14-17], il passo dell'Ecclesiastico mostra che è insito nella volontà dell'uomo osservare oppure non osservare i comandamenti. Quale significato avrebbe altrimenti, dire a qualcuno che non possiede volontà: 'Se vuoi'? (...) Rispondo: queste sono argomentazioni della ragione umana, la quale è solita profondersi in simili prove di saggezza. Per cui ci tocca discutere non già con il passo dell'Ecclesiastico, bensì con la ragione umana; è lei infatti che interpreta la Scrittura di Dio in base alle proprie deduzioni (...) e la conduce dove le pare. E noi lo faremo con fiducia e volentieri, poiché sappiamo che dalla sua bocca non escono che idiozie e assurdità, soprattutto quando comincia ad esibire la sua saggezza nelle cose divine."30 E' la ragione naturale, quindi, che sentendosi onnipotente non contempla nemmeno la possibilità che possa esservi un'altra logica dei fatti. Ma in realtà, ciò che si dovrebbe ascoltare è, secondo lui, il semplice discorso scritturale. In tal caso ci accorgeremmo che una richiesta non implica sempre la possibilità di una risposta adeguata: "Se, in primo luogo, domando com'è possibile provare che ogniqualvolta si dica: 'Se vuoi , se fai, se ascolti', ciò significhi o comporti l'esistenza di una volontà libera, la ragione umana dirà: perché così sembra esigere la natura delle parole e l'uso del linguaggio tra gli uomini. Essa pertanto misura le cose e le parole divine in base all'uso e alle cose umane. Che cosa c'è di più perverso, dato che le une sono celesti e le altre sono terrene? Così facendo mostra la propria follia, dal momento che su Dio non ha che pensieri umani."31 Il significato della legge, perciò, non poteva stare altro che nel mostrare all'uomo la sua incapacità di operare bene: "Se ora Dio si comporta nei nostri confronti come un padre con i suoi figli, per mostrare a noi ignari, la nostra impotenza; oppure, come un medico onesto, ci fa conoscere la nostra malattia; o ancora, ci insulta come suoi nemici che resistono orgogliosamente al suo consiglio e, ponendoci dinanzi le sue leggi (con le quali raggiunge questo fine nel modo migliore), ci dice: 'fa, ascolta, osserva', oppure 'se ascolti, se vuoi, se fai' - bisognerà allora concluderne che possiamo fare liberamente tutto questo, o, in caso opposto [quello reale: l'impotenza di fare], che Dio si prende gioco di noi a giusto titolo, se siamo suoi fieri nemici [poiché non possiamo obbedire]? Perché non trarne piuttosto la seguente deduzione: Dio ci tenta per condurci attraverso la legge alla conoscenza della nostra impotenza, se siamo suoi amici; oppure ci insulta e si prende gioco di noi, se siamo suoi nemici?"32 La legge quindi, non poteva in quest'ottica rendere l'uomo giusto e pio, ma soltanto mostrargli la propria corruzione, come l'impossibilità di liberarsi da essa: la funzione delle leggi era dunque portare l'uomo a disperare di sé, avendo un valore di puro ammonimento. ("Noi, d'altro canto, ripetiamo che questo passo dell'Ecclesiastico non difende affatto quanti sostengono il libero arbitrio, bensì li combatte tutti. La deduzione: 'Se vuoi, allora puoi' non è infatti ammissibile; questa espressione, come ogni altra simile, deve invece intendersi quale ammonimento rivolto all'uomo circa la sua impotenza, che egli, nella sua ignoranza e superbia, non sarebbe in grado né di riconoscere né di sentire senza questi avvertimenti divini."33) Ma, come abbiamo detto, oltre a dimostrare la linearità e la semplicità delle Scritture (anche se per fare ciò, era necessario prima di tutto far piazza pulita delle molteplici aggiunte che la ragione naturale vi apportava), Lutero dimostrava come la posizione erasmiana fosse in profonda contraddizione pure con se stessa. Egli sosteneva infatti che il suo avversario, tentando di affermare l'esistenza di un libero arbitrio 'debole' (ovvero bisognoso del soccorso della Grazia divina), non si accorgeva di ricadere in una posizione semplicemente pelagiana: "Ora, [Erasmo,] se neghi ai pelagiani il diritto di dedurre che l'uomo è in grado di osservare i comandamenti, essi a loro volta - molto più correttamente - ti negheranno la validità della deduzione che l'uomo sia capace di impegno e di sforzo [questa era, appunto, la posizione di compromesso assunta da Erasmo]. Se poi contesti loro il libero arbitrio nella sua validità, essi ti contesteranno allora la piccola parte che ne è rimasta; non puoi infatti attribuire a una sola parte ciò che hai negato al tutto. Pertanto, qualunque cosa tu abbia detto contro i pelagiani, i quali (...) attribuiscono tutto al libero arbitrio, noi a maggior ragione la diremo contro questo impegno, così modesto, del tuo libero arbitrio."34 In conclusione, Lutero affermava che fossero possibili solo due atteggiamenti, tra loro opposti: il primo, dettato dalla ratio naturale, secondo il quale le leggi divine dovevano implicare da parte dell'uomo una capacità d'osservanza totale (era la tesi dei pelagiani); l'altro invece, che costituiva uno scandalo per la ragione, secondo il quale opere e meriti non erano possibili. Il fatto che l'Evangelo sostenesse in più punti ed esplicitamente questa seconda tesi, non significava però che l'uomo naturale fosse in grado di comprenderla. Il fatto poi, che alcuni individui avessero elaborato delle posizioni intermedie (come quella d'Erasmo, ad esempio) non significava che esse fossero, in sostanza, differenti dalla prima. Il riformatore giungeva a concludere in modo perentorio, che l'uomo era sempre peccatore, e che non poteva fare altro che riconoscere come proprio un tale stato di peccato - e anche questo solo per iniziativa divina. Opponendosi all'idea della libertà dell'uomo coram Deo, egli allora si opponeva non solo ad Erasmo, ma a tutta una lunga tradizione esegetica (della quale quest'ultimo si poneva, anche se da umanista, come continuatore) che l'aveva preceduto: quella appunto dei teologi scolastici. 1 Cfr. R. Bainton, Erasmo della cristianità, op. cit., p.155: "Se Erasmo voleva restare nella Chiesa cattolica doveva restare scrivere contro Lutero (...)". 2 Ivi, p.154. 2bis A proposito della personalità di Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig (nel bellissimo libro che gli ha dedicato) sintetizza così il significato della sua figura storica: "Missione e ragion di vita di Erasmo fu sintetizzare armonicamente i contrasti con spirito di umanità. Era nato per conciliare, ovvero, per dirla con Goethe che a lui fu simile nel rifuggire dagli estremi, era una 'natura comunicativa'." (S. Zweig, Erasmo da Rotterdam, Milano, Bompiani 2002). 3 Cfr. R. Bainton, Erasmo, op. cit., p.150. 4 Ivi, p.159. 5 M. Lutero, Servo arbitrio, op. cit., p.72. 6 Erasmo, Libero arbitrio, op. cit., p.3 7 Ivi, p.9. 8 Ivi, p.10. 9 Ivi, p.11. 10 R. Bainton, Erasmo, op. cit., p.159. 11 Erasmo, Libero arbitrio, ed. cit., p.6 (Si noti poi la contaminazione di classico e cristiano, data dall'uso dell'immagine di Pomponio Mela, autore latino del I d.C.) 12 Ivi, p.13. 13 Ivi, pp.22-23. 14 Ivi, p.23. 15 Ivi, p.21. 16 R. Bainton, Erasmo, ed. cit., p.123. 16bis Ma per qualche indicazione, cfr. infra, n.20bis, p.41. 17 Ivi, pp.75-76. 18 Ivi, p.77. 19 F. De Michelis Pintacuda: introduzione a Servo arbitrio, ed. cit., p.17. 20 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.85. 20bis Erasmo sosteneva infatti che fosse rimasta all'uomo una grazia naturale, per quanto minima, da cui egli poteva ripartire per conquistare la grazia speciale (originaria): "dato che grazia significa beneficio, si potranno distinguere tre o, se preferisci, quattro grazie. La prima è quella innata, che è stata corrotta ma non distrutta dal peccato, e che alcuni chiamano anche influsso naturale. Questa è comune a tutti, anche a coloro che persistono nel peccato: infatti, possono liberamente parlare (...) aiutare un povero, leggere i libri sacri, ascoltare un sermone, ma tali azioni - secondo l'opinione d'alcuni - non li portano affatto alla vita eterna. Non mancano, tuttavia, altri i quali sostengono che (...) l'uomo progredisce con le buone azioni di questo tipo fino ad essere preparato per ricevere la grazia, e per sollecitare verso di sé la misericordia di Dio. (...) Questa prima grazia, poiché è comune a tutti, non la si chiama grazia, benché in realtà lo sia." Il passo continua poi con l'elenco delle altre forma di grazia: particolare, od operante: riguardo ad essa egli diceva che "Dio non fa mancare a nessuno questa seconda grazia" e che stava "alla nostra decisione di associarle la nostra volontà [naturale]; ed infine quella cooperante, che aiutava "a portare avanti quel che si era intrapreso." (Erasmo, Libero arbitrio, ed. cit., pp.24-25). 21 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.77. 22 Ivi, p.81. 23 Ivi, p.84. 24 Ivi, p.85. 25 Ivi, p.86. 26 Ivi, p.95. 27 Ivi, p.95. 28 Ivi, p.96. 29 Lutero confuta anche la distinzione scolastica tra necessità condizionale (necessitas consequentiae) e necessità assoluta (necessitas consequentis): cfr. M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.97. 30 Ivi, p.203. 31 Ibidem. 32 Ivi, p.204. 33 Ivi, p.208. 34 Ivi, p.207. 3) Le origini dell'idea della predestinazione: Nell'anno in cui scriveva il suo Servo arbitrio (1525), Lutero aveva ormai da tempo consolidato il proprio concetto di predestinazione. L'affermazione di tale concetto tuttavia, non essendo un'eredità degli studi - fatti all'università o nel chiostro - dei vari autori medioevali (quantomeno per il modo in cui essi venivano affrontati), aveva richiesto prima un lungo periodo di incubazione attraverso la riflessione personale. Sebbene non sia possibile per noi conoscere con certezza le tappe di una tale ricerca, si può tentare di ricostruire i fattori che furono alla base di essa. In primo luogo, bisogna sottolineare l'azione di coloro che svilupparono un'idea della giustizia divina analoga - o quantomeno simile - a quella di Lutero: quindi, ovviamente, l'influenza di S. Paolo e di S. Agostino. In secondo luogo, è necessario analizzare il rapporto tra Lutero e quei pensatori che, attraverso il suo curriculum di studi, ebbero un peso maggiore sulla sua formazione culturale (tra i quali, come noto, preponderante fu l'influenza dell'occamista Gabriel Biel). Si cercherà infine, di riassumere quelle che furono le motivazioni più profonde del riformatore, nell'affermare la sua idea di servo arbitrio dell'uomo. a) il concetto agostiniano della giustizia: a'- il contesto in cui avvenne lo studio di Agostino: Lutero avvertiva una profonda affinità di vedute nei confronti di S. Paolo e S. Agostino (come tra l'altro ci dimostra il fatto che, all'interno del suo Servo arbitrio, il primo di questi due autori fosse quello più ampiamente citato, seguito immediatamente dal secondo.)1 L'interesse del tutto particolare nutrito da Lutero era legato: sia alla comunanza di vedute su temi come la predestinazione, il peccato radicale e intrascendibile dell'uomo, la natura totalmente interiore della fede; sia ad altri elementi più personali (come una marcata tendenza verso l'introspezione) od esistenziali (quali il fatto di considerarsi tutti e tre dei 'convertiti').2 Con Agostino poi, egli condivideva anche una concezione simile della storia: questa infatti era vista da entrambi come un processo degenerativo, ovvero come un avvicinamento graduale al momento della redenzione finale.3 Lo studio che egli fece di questi pensatori, non può però essere inteso nella sua reale portata senza tenere conto del contesto in cui avvenne. Il fatto, ad esempio, che il periodo di maggiore influenza di Agostino si situasse proprio nella fase di formazione del suo pensiero definitivo - ossia tra il 1513 (anno del primo ciclo di commenti ai Salmi; seguito dalla fondamentale interpretazione della Lettera ai Romani di S. Paolo del 1515-16) e il 1525 - ci dimostra chiaramente il ruolo centrale che quest'ultimo svolse nello sviluppo della sua fisionomia spirituale di Lutero.4 Il primo avvicinamento a quest'autore avvenne quasi certamente durante il periodo trascorso nell'Ordine degli Eremitani di S. Agostino (O.E.S.A.) - dato il particolare obbligo di venerazione e di conoscenza qui professato per il santo fondatore.5 Ma anche nel periodo successivo, quello wittenberghense (iniziato nel 1509), Lutero si interessò molto ad Agostino. In questa seconda fase, molto probabilmente fu determinante l'influenza dello Staupitz (il vicario generale degli Agostiniani in Germania, con cui Lutero ebbe un rapporto molto stretto) - anche se è un fatto certo che entrarono in gioco anche fattori più personali, che ci rimandano alla stessa scoperta dell'idea del sola gratia. L'interesse per S. Agostino e per S. Paolo, in questo periodo, fu stimolato in gran parte dal fatto che Lutero vedesse nei due autori una fonte di chiarimento di alcune sue intuizioni personali in merito alla natura del rapporto Dio-uomo, nonché un sostegno autorevole alla propria avversione verso alcuni atteggiamenti (intellettualistici e volontaristici) della tarda Scolastica. La rivoluzione che il riformatore attuò, già a partire dai primi anni del suo insegnamento universitario, consisté infatti essenzialmente in un recupero originale del pensiero di Paolo e di Agostino - recupero concepito soprattutto in funzione anti-scolastica.6 Per quanto riguarda in particolare S. Paolo (che Lutero interpretava sempre sulla scorta del Padre della chiesa: da lui ritenuto suo interpres fidelissimus 7), il rapporto che egli ebbe con i suoi scritti fu chiaramente più stabile e meno soggetto a cambiamenti di quello che intrattenne con l'altro pensatore. E' appurato difatti che la predilezione che Lutero nutrì verso di lui - in quanto per primo aveva posto esplicitamente l'accento sul tema della predestinazione - non venne mai alterata né messa in discussione durante tutta la sua vita. A testimonianza dell'interesse che Lutero nutrì verso queste figure della cultura cristiana, e del significato che esse ebbero per lui, si può citare questo passo (tratto da una lettera del 1516, scritta all'amico Johannes Lang) in cui si legge: "In questa università la nostra teologia e Sant'Agostino, per merito di Dio, conquistano sempre più spazio, senza nessun contrasto. Aristotele, rivolto ormai a una prossima e irrimediabile rovina, perde ogni giorno più terreno. Le lezioni sulle Sentenze, inopinatamente diventano sempre più gravose: e non c'è più nessuno che possa sperare di aver uditori se non professi questa teologia: cioè la Bibbia, o Sant'Agostino, o qualche altro dottore della Chiesa."8 a"- l'idea di Agostino: In un suo recente articolo 9, Alister E. Mc Grath sottolinea il divario che divide la formulazione di S. Agostino del concetto di giustizia, dalle concezioni diffusesi successivamente tra i teologi medievali (che pure ad Agostino si richiamavano). Mc Grath inoltre mostra come, in realtà, la prima patristica cristiana in occidente avesse ripreso la concezione laica della giustizia propria della cultura romana (la quale, nella formulazione datane da Cicerone, suonava: iustitia est reddere unicuique quod suum est): il primo autore cristiano che si era distaccato in modo radicale da una tale definizione, era stato per l'appunto S. Agostino. La differenza esistente tra il concetto ciceroniano o romano di giustizia e quello sostenuto dal Padre della chiesa era radicale. Per Cicerone e per i latini, infatti, il concetto della iustitia (che consisteva in un'equa distribuzione dei premi e delle punizioni) aveva una natura essenzialmente umana, e si collocava in un contesto civile. (Scrive infatti, nel suo articolo, A. Mc Grath che "il punto fondamentale in queste definizioni [ciceroniane] della giustizia era l'idea di dover dare ad ognuno ciò che gli era dovuto", e più avanti che "l'interpretazione ciceroniana della iustitia era prima di tutto secolare: essa doveva esser definita innanzitutto come ciò che era stato deciso attraverso la legge [ius], che periodicamente veniva stabilita in base al consenso giuridico [iuris consensus] - ovvero in base a ciò che la stessa comunità civile decideva essere giusto"9bis). Agostino invece esprimeva una concezione del tutto diversa, che rifletteva la sua visione di un Cosmo gerarchicamente ordinato, e all'interno della quale la giustizia umana non poteva che essere l'emanazione dello stesso Principio divino, il quale la elargiva secondo una sua volontà libera ed ineffabile. Nella visione veramente agostiniana quindi, Dio distribuiva la grazia e la salvezza eterne secondo un proprio criterio (trascendente), e perciò anche in modo totalmente incomprensibile per l'uomo. Egli poneva così la vera giustizia - da lui distinta dalla quella strettamente civile - al di là delle possibilità umane: cosa peraltro in linea con ciò che egli stesso affermava nel dibattito contro Pelagio. La somiglianza tra quest'ultima idea di giustizia, nonché tra quella di S. Paolo (espressa, ad esempio, nell'Epistola ai Romani), e la visione di Lutero è evidente. Tutti e tre questi autori infatti - oltre ad intendere la giustizia come un dono del tutto gratuito - basavano la propria idea sulla convinzione della natura assolutamente corrotta della volontà dell'uomo (la quale perciò rendeva necessario l'intervento divino). Ciononostante, il percorso attraverso cui il riformatore arrivò alla propria definizione della iustitia, fu molto più tortuoso di una semplice riscoperta della definizione che abbiamo appena analizzato: esso non fu, in altri termini, dovuto semplicemente ad una rilettura dei testi di Agostino e di Paolo. b) l'influenza di Gabriel Biel: Ancora Mc Grath sottolinea infatti come, nel corso del Medioevo, l'idea della presenza del libero arbitrio nell'uomo ritrovasse gradualmente parte del vigore che aveva perso ad opera di S. Agostino. Si è già mostrato, ad esempio, come la posizione che Erasmo assunse riguardo a questo problema ricalcasse fondamentalmente quella, assai diffusa, secondo cui Dio salvava solo "gli uomini di buona volontà": ovvero coloro che si impegnavano attivamente nello sforzo di suscitarne la pietà e la misericordia. Un tale discorso, nel contesto in cui il riformatore si trovava a vivere, era portato avanti dalla penna di Gabriel Biel, un filosofo occamista degli ultimi anni del quattrocento. L'importanza particolare della sua teoria, per la comprensione dell'agostinismo radicale di Lutero, consiste dunque nel fatto che essa fu "il retroterra concettuale a partire dal quale, per ammissione generale, poté sorgere il cambiamento di Lutero nella formulazione dell'idea della giustificazione."10 Lo sforzo dottrinale compiuto dal Biel fu in gran parte quello di ripristinare il contenuto delle varie dottrine occamiste, con particolare attenzione per quelle teologiche.11 Egli si mantenne su quelle posizioni 'semipelagiane' che erano state sostenute dal filosofo inglese (il quale asseriva che fosse necessaria la collaborazione della volontà umana con la Grazia divina, per ottenere la salvezza), in aperta polemica con le tesi sostenute negli stessi anni da altre correnti occamiste. Biel sosteneva un'idea del rapporto Dio-uomo, secondo cui tra il Creatore e le creature doveva esistere un patto finalizzato alla salvezza umana. Alla volontà del Signore si attribuiva una natura retributiva (ovvero ragionevole e comprensibile dalla mente dell'uomo), anche se ciò veniva di fatto a dipendere da una libera decisione divina. La sua era, quindi, un'ennesima soluzione di compromesso tra la definizione antica (quella di Cicerone e di Aristotele) che poneva i contraenti del patto su uno stesso piano, e individuava in esso la base stessa della giustizia, ed un'altra (d'origine invece agostiniana) che la concepiva come un possesso esclusivo di Dio. Per mitigare l'ottimismo insito nella sua visione, Biel ricorreva all'asserzione che l'uomo non potesse sapere se aveva fatto o meno quel che era nelle sue possibilità (cioè il facere quod in se est), e che dovesse aspettare per esserne certo di conoscere lo stesso giudizio divino (da cui l'affermazione: difficilius est scire se habere illam dilectionem).12 Nonostante si possa dire che il preteso ottimismo di Biel (ed in generale dei teologi dell'ultima Scolastica) fosse in gran parte il prodotto di una distorsione operata dai riformatori religiosi, come ad esempio Lutero e Melantone 13 (a causa della posizione polemica che questi ultimi assumevano nei confronti della cultura scolastica), resta comunque il fatto che tali teorie riflettessero uno spirito estremamente diverso rispetto a quelle del riformatore tedesco. Fu proprio la visione 'intermedia' sostenuta da Biel, infatti, a irritare Lutero. Scrive Maria L. Picascia che, secondo Lutero, "lo sforzo operato da Biel per contenere Occam entro l'alveo dell'equilibrio e della convergenza fra poteri umani di salvezza e iniziative divine di Grazia, era uno sforzo teologicamente compromissorio e debole."14 A partire da questa critica, il riformatore elaborò una propria dottrina soterologica. c) la salvezza secondo Lutero: La convinzione fondamentale, che pose Lutero in un forte contrasto con il suo maestro, fu quella della natura intrascendibile del peccato umano.15 A questo proposito, ad esempio, egli scriveva nel Servo arbitrio, parlando della condizione dell'uomo prima e dopo Adamo: "Se il primo uomo, quando era ancora assistito dallo Spirito, non poté volere con la sua volontà il bene che gli era stato presentato - vale a dire l'obbedienza - dal momento che lo spirito non glielo aveva accordato, che cosa mai potremmo compiere noi senza lo Spirito e una volta perduto il Bene?"16 Questo del male radicale era, come s'è detto, un tema d'origine agostiniana (anche se S. Agostino, ovviamente, lo affermava in un contesto culturale molto diverso), ed era inoltre la base stessa della teologia luterana dell'humilitas. Proprio questa convinzione inoltre, era ciò che lo spingeva a rifiutare una concezione di natura meramente distributiva della giustizia divina: egli, in altre parole, riteneva che se Dio doveva avere delle ragioni obbiettive per impartire la salvezza agli uomini, allora - dal momento che nessuno di loro poteva, in verità, anche solo desiderare autonomamente di superare il proprio stato di peccato - nessun uomo si sarebbe salvato.17 Chiaramente, una simile concezione della natura umana non poteva conciliarsi con quella precedentemente descritta e improntata al criterio dell'equità divina (ossia del: reddere unicuique quod suum est), dal momento che, per il riformatore, all'uomo non era data in alcun modo la possibilità di redimersi dallo stato di peccato, e quindi di soddisfare la condizione che sarebbe stata necessaria per ottenere la salvezza. La sproporzione che egli avvertiva tra le due opposte dimensioni: quella divina e quella umana, stava perciò a fondamento del suo rifiuto della teoria, cattolica e medievale, del patto tra Dio e uomo. Il concetto che Lutero aveva così elaborato, si opponeva nettamente a quello di Gabriel Biel. Quest'ultimo infatti, a giudizio del primo, propagandava un'idea della giustizia divina di natura attiva e razionale (activa seu formalis), ovvero semplicemente umana, poiché basata sul criterio dell'equità. Ma in termini teologici, la giustizia - data la natura trascendente di Dio - non poteva venire intesa come lo sforzo umano per allontanarsi dal peccato, bensì come un dono (ovvero una grazia) che veniva elargito dal Signore all'uomo per lenire la sua condizione di partenza. L'idea della necessità di un aiuto divino per poter superare - o meglio per attenuare - la condizione umana iniziale di peccato, veniva ampiamente richiamata nelle riflessioni personali del riformatore. Ancora in gioventù, per esempio (1516), Lutero parlava della sua nausea di fronte all'idea della iustitia come era intesa dai filosofi e dai giuristi: Inde (ut de me loquar) vocabulum illud 'iustitia' tanta mihi est nausea audire, ut non tam dolerem, si quis quis rapinam mihi faceret. Libentius audissem eum misericordem quam iustum. ("Dunque, per parlare di me stesso, quel vocabolo 'giustizia' mi dava una tale nausea nel sentirlo, che avrei preferito piuttosto subire una rapina. Provavo maggior piacere nel sentire dire che egli fosse misericordioso, piuttosto che giusto.")18 Molto chiara è poi la distinzione tra le due opposte forme di giustizia: quella umana e quella divina, nel Lutero della maturità (le cui riflessioni ci sono state tramandate dalle trascrizioni di amici e studenti, raccolte nel volume dei suoi Discorsi conviviali). Vi si legge infatti: "La scienza dei giuristi è una scienza del continuo e del divisibile e consiste tutta nel mezzo divisibile, ossia in quello fisico e non in quello matematico, e perciò è incerta e può resistere pochissimo a Satana", e "appunto in quanto scienza del continuo e divisibile (...) cogliere il giusto, ossia il punto matematico, è per essa impossibile". E concludeva poi col dire che la teologia e la giurisprudenza erano "due cose diverse, come il cielo e la terra; mentre una cosa sola è la giustizia, poiché un solo uomo è Gesù Cristo e chi lo raggiunge è giusto."19 Per il Lutero ormai maturo, quindi, la Giustizia era qualcosa di assolutamente distinto dal piano della ragione umana: come il cielo dalla terra! Mentre infatti la ragione era attiva e formale, e portava perciò inevitabilmente ad una giustizia che rifletteva la sua stessa natura (iustitia activa seu formalis), la vera Giustizia doveva essere esclusivamente ricevuta e passiva (iustitia passiva). Né fu un caso poi, che proprio la convinzione del riformatore - radicata profondamente nella sua conoscenza dei testi biblici - della profonda corruzione del genere umano, in seguito alla caduta del primo uomo, lo portasse fin da giovane ad avvertire una profonda avversione verso la concezione di un Dio che non volesse trattare l'uomo attraverso il valore del perdono. Egli ricordava infatti, ormai maturo, di essere stato ossessionato da questo problema: Quis enim potest eum [Deum] amare, qui secundum iusticiam cum peccatoribus vult agere? 20: dal momento che l'uomo non poteva risollevarsi dal peccato con le sue sole forze, la visione di un Dio giusto - vale a dire giudice - non poteva che portarlo a disperare della sua salvezza - come di quella di tutto il genere umano. Il motivo per il quale, dunque, Lutero rifiutò la soluzione del problema della salvezza proposta dal suo maestro Gabriel Biel, risiedé essenzialmente nel dato che quest'ultima "negasse all'uomo qualsiasi cosa che potesse risolversi in una sua giustificazione fin dalla base."21 Sulla base di una simile visione, egli - come molti altri riformatori dopo di lui - rivalutò molti aspetti, e in particolar modo quelli predestinanti, del pensiero di S. Agostino. Il pensiero di Lutero perciò, si può inquadrare come il ritorno ad un agostinismo radicale (che si era per altro perso - come mostra nel suo articolo il Mc Grath - già nei primi teologi scolastici del Medioevo). In quest'ottica perciò, non è fuori luogo parlare di un Lutero agostiniano, laddove la sua più grande scoperta (a partire dalla quale appunto egli si riavvicinò a molti temi dell'agostinismo) fu quella secondo cui "il concetto della giustizia non corrispondeva necessariamente né alla iustitia hominum, né alla iustitia Mosi."22 La rivoluzione del riformatore ruotò dunque principalmente, attorno al rifiuto di ridurre la iustitia Dei ad un semplice meccanismo retributivo (secondo il discorso dell'equitas divina, ossia del reddere unicuique quod suum est), e sfociò di conseguenza nella rivalutazione di una visione fideistica del rapporto dell'uomo con Dio. 4) Il significato della predestinazione nella teologia di Lutero: Il ruolo dell'idea della predestinazione umana coram Deo, era quindi quello di affermare la priorità assoluta del Creatore sulla sua Creatura. Contro la visione cattolica che (lasciandogli la possibilità di influenzare il giudizio divino) finiva per porre l'essere umano su un piano quasi paritario rispetto a Dio, ed eliminava quindi la trascendenza radicale del primo rispetto al secondo, il riformatore riaffermò sul piano dottrinale l'assoluta preponderanza del Principio sulla sua stessa creazione. L'idea, apparentemente illogica, di predestinazione (che suscitava nel suo stesso sostenitore, almeno in certi momenti, un radicale rifiuto 23) aveva in realtà, all'interno dell'economia del suo sistema, il senso di ribadire quella che era l'unica vera convinzione dell'uomo Lutero: ovvero la presenza avvolgente e onnipervasiva del Signore nelle vicende terrene. 1 In tale scritto S. Paolo viene citato 81 volte, S. Agostino invece 26. 2 cfr. Pani G. Introduzione a M. Lutero Commento alla lettera ai Romani, Genova, Marietti 1992, p.XXXIII. 3 Ivi, p.XXXII. 4 Cfr. M. Bendiscioli, L'agostinismo dei riformatori protestanti, in: Revue des études augustiniannes, Paris: Institut d'Etudes augustiniannes, 1955, p.238, n.1. 5 Cfr. G. Pani, op. cit., p.XLVI. 6 Ivi, pp.XLVIII-IL. 7 Ibidem. 8 Cfr. G. Pani, op. cit., p.IL. - Per il rapporto con S. Paolo: cfr. A. Agnoletto, Martin Lutero, Cuneo, Esperienze 1972, p. 87 ss: "Il paolinismo di Lutero". 9 Per il seguente paragrafo: cfr. Alister E. Mc Grath, Mira et nova diffinitio iustitiae: Luther and Scholastic Doctrines of Justification, in: Archiv fur Reformationgeschichte: internationale Zeitschrifte zur Erforschung der Reformation und ihrer Weltwiekungen, 1983, n. 74, paragrafo II, pp. 46-56. 9bis Cfr. A. E. Mc Grath, op. cit., p.40 ("Fundamental to these definitions of justice is the idea of giving someone his due"), e p.48 ("Cicero's understanding of iustitia is primarly secular: iustitia may be defined as what is determined by ius, which in turn is defined by the iuris consesus - i.e. what the community itself decides to be just."). 10 A. Mc Grath, op. cit., p.52. 11 Cfr. H. A. Oberman, Maestri della riforma, Bologna 1982, cap. 2, pp.46 e 48. 12 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.54. 13 Cfr. l'articolo di Lawrence F. Murphy, Gabriel Biel and Ignorance as an Effect of Original Sin in the Prologue to the Canonis missae expositio, in: Archiv fur Reformationgeschichte, 1983, n.74 (parte I), e 1984, n.75 (parte II), nel quale si mostra la riduzione (da parte dei riformatori, e nella fattispecie di Melantone) della teologia di G. Biel ad una semplice teologia 'anti-luterana', attraverso un'interpretazione poco fedele del suo pensiero. 14 Maria L. Picascia, Un occamista quattrocentesco: Gabriel Biel, Firenze, La nuova Italia 1979, p.49. 15 Il fatto che Lutero abbia combattuto le posizioni del suo maestro Gabriel Biel, non significa tuttavia che queste fossero di per sé sintonizzate su una frequenza pelagiana e volontaristica. La teoria di Biel infatti, di stampo occamistico, puntava al recupero dello spirito originario del maestro inglese, ed era perciò una "operazione di recupero e di 'restauro' di Occam secondo quella linea d'equilibrio tra merito e grazia" che altri occamisti invece (quali ad esempio Pietro d'Ailly) tendevano su certi punti a rimettere in discussione (loro sì con esiti pelagiani). Ciò non toglie tuttavia che la dottrina di Biel fosse destinata a diventare "inevitabilmente il terreno di scontro di Lutero con il testo di teologia a cui era stata affidata dalla schola la sua formazione" (M. L. Picascia, op. cit., p.49.) 16 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.208. 17 Inoltre, l'unico tentativo all'interno di quella concezione, di attenuare la sicurezza della salvezza - attraverso, come s'è visto, il motivo del non sapere se ne fossimo degni - lo induceva a disperare ancora di più riguardo ad essa, data la sua aprioristica convinzione negativa a questo riguardo. (Cfr. M. L. Picascia, op. cit., p.49.) 18 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.42. 19 M. Lutero, Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1969, p.55 ss. 20 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.42. 21 A. Mc Grath, op. cit., p.46; per esteso: "Any attempt to interpret iustitia Dei using a paradigm of iustitia as virtus reddens unicuique quod suum est can only lead to distress on the part of the sinner as he realises how there is nothing within him which can result in his Justification on the basis." 22 Ivi, p.42. 23 Cfr. M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.288: "Pensare così di Dio è sembrato ingiusto (...); per questo, nel corso dei secoli, molti uomini eminenti ne sono rimasti scandalizzati. E chi non lo sarebbe? Io stesso più di una volta ne sono stato scandalizzato fino al più profondo abisso della disperazione". III. LA MISTICA IN LUTERO Uno dei fini dell'opera del riformatore fu (come si è dimostrato fin qui) quello di riaffermare in un ambito teologico la centralità e la trascendenza del Creatore rispetto alle sue creature, in contrasto con alcune tendenze e alcune pratiche religiose molto diffuse nel proprio tempo. Prova di questa intenzione sono le idee che abbiano analizzato sia nel primo che nel secondo capitolo: quella secondo cui l'uomo può raggiungere la propria salvezza solo attraverso il disperare di essa - ovvero attraverso l'humilitas -, e l'altra per la quale la grazia viene impartita esclusivamente in base ad una (libera) decisione divina. Questi presupposti infatti, all'interno del sistema teologico di Lutero, stavano a testimoniare la sproporzione esistente tra le due opposte dimensioni: quella umana e quella divina. Egli teneva inoltre a sottolineare come l'uomo, anche nella fede, rimanesse sempre e fondamentalmente una creatura terrena; e come, per tale ragione, non potesse ritenersi già al di fuori di quella condizione di peccato (ereditata da Adamo), che era propria anche di ogni altro uomo. Questa idea veniva espressa sinteticamente nella formula: simul iustus et peccator. Già queste prime considerazioni illustrano chiaramente come la visione del riformatore dovesse, per forza di cose, entrare in contrasto (almeno indicativamente) con le pratiche della mistica, cioè dell'elevazione dell'anima umana verso Dio: e soprattutto con l'esperienza più estrema di questo processo, nella quale l'anima arrivava a conoscere direttamente lo stesso Dio increato. Il motivo più profondo del contrasto con tale tradizione, stava appunto nel fatto che tali pratiche sopravvalutassero le possibilità umane naturali, in quanto prospettavano - già in questa vita - la possibilità di una riunificazione dell'anima umana con Dio, e quindi anche il raggiungimento di uno stato di beatitudine terrena: cosa ovviamente inammissibile per il riformatore. Nonostante queste differenze tuttavia, sarebbe riduttivo affermare che il rapporto del nostro con la precedente tradizione mistica fosse un rapporto semplicemente negativo o di 'rifiuto'. Al contrario infatti egli ne fu anche, sotto molti aspetti, positivamente influenzato. Si pone perciò la necessità di approfondire, qui di seguito, la relazione che egli intrattenne con tale tradizione. 1) Trasformazione della teologia mistica nel tardo Medioevo: Nel periodo tardo medievale (che coincise con la nascita e con lo sviluppo della filosofia occamista e della via moderna - in opposizione alla via antiqua) la tendenza che caratterizzò la cultura, all'interno delle scuole e delle università, fu sempre di più quella di restringere l'influenza di quelli che Oberman ama definire 'aristocratici dello spirito', ovvero degli autori mistici, sul curriculum di studio dei teologi.1 Questo fenomeno generale, che si può anche definire come un processo di 'democratizzazione della mistica' - e che caratterizzò più o meno tutta la letteratura religiosa del tardo Medioevo - comportò, come conseguenza, il fatto che ciò che si conservò e si tramandò nelle università di autori come Bernardo di Chiaravalle o di Ugo di San Vittore, fu prevalentemente l'aspetto più genericamente religioso del loro pensiero, anziché quello veramente mistico. Inoltre, sempre in questo stesso periodo, anche il movimento religioso e culturale della Devotio moderna (che, come noto, conteneva ancora al suo interno, nonostante la propria modernità, alcune componenti ascetiche e claustrali di ascendenza medievale) fu certamente diffidente, se non ostile, nei confronti delle pratiche della mistica vera e propria - quantomeno verso quelle più estreme.2 Come scrive Heiko A. Oberman, riassumendo efficacemente la situazione complessiva della cultura di quegli anni: "la via moderna e la Devotio moderna furono entrambe interessate più fortemente alla theologia affectiva che alla theologia speculativa, all'ascetica più che alla mistica, alla contemplatio acquisita più che alla contemplatio infusa."3 Una tale descrizione ci mostra chiaramente la ragione per cui in quel periodo, anche per uno studente di teologia come era Lutero, fosse estremamente difficile riuscire a formarsi una solida preparazione in materia di teologia mistica (cioè in quella disciplina che studiava in modo approfondito, e classificava, le esperienze mistiche).4 E, inoltre, se è vero che rimaneva pur sempre un certo margine di influenza per quelli che si possono chiamare gli 'aristocratici dello spirito' - ovvero per i veri e propri autori mistici -, è tuttavia un fatto appurato che la loro terminologia venisse, rispetto al passato, generalmente "conformata alla descrizione della vita del normale cristiano" (e resa quindi accessibile ad un pubblico più vasto, seppure in massima parte estraneo alle vere e proprie pratiche dell'ascesi mistica).5 Si può allora dire in modo sommario che, nel contesto culturale in cui il futuro riformatore si trovò a vivere, si stessero verificando due fenomeni paralleli, ed in un certo grado anche complementari: da una parte vi era la tendenza - della quale una tipica espressione fu per esempio la Devotio moderna - a sviluppare la teologia in un senso affettivo; dall'altra invece si era instaurato un processo di 'democratizzazione della mistica', che comportava l'abbassamento di quella tradizione ad un livello molto più accessibile alle persone comuni, ma che al tempo stesso ne snaturava i temi originari.6 Entrambi i fenomeni - l'uno situato a un livello religioso e popolare 6bs, l'altro a quello scolastico e universitario - furono accomunati dal fatto di spostare la problematica originaria di questo tipo di esperienze da un grado più alto verso un altro grado più accessibile e 'quotidiano'. Anche nell'opera di Lutero si riscontra un forte abbassamento della tensione che era stata originariamente presente nell'alta mistica, cioè nella vera e propria 'via mystica'. E' possibile quindi supporre che egli avesse subito, riguardo a questo aspetto particolare7 del suo pensiero (seppure certamente in modo indiretto e inconsapevole: cioè attraverso il proprio cursus studiorum), l'influenza del contesto religioso e culturale in cui era avvenuta la sua formazione - come attesta, del resto, anche il fatto che l'interpretazione che egli diede di vari autori appartenuti alle correnti mistiche medievali, fosse incentrata prevalentemente su temi genericamente religiosi o spirituali, anziché che sui temi originari della loro speculazione.7bs Un altro elemento che contribuì a rendere il rapporto del riformatore con questa corrente molto complesso e articolato, fu il fatto che la sua teologia (in quanto essenzialmente finalizzata ad una riforma generale della dottrina cristiana) si contrapponesse decisamente alla tradizione mistica: una tradizione alquanto 'elitaria'. Per tale ragione il riformatore, nonostante attestasse per se stesso, al pari di S. Paolo, l'esperienza del 'terzo cielo', non fondò mai la propria autorità teologica su questo tipo di illuminazioni (come fecero invece alcuni riformatori successivi), preferendo decisamente come sostegno per il proprio messaggio la semplice testimonianza delle Scritture, da tutti conosciute e del cui valore nessuno poteva dubitare. 8 1 Cfr. Heiko A. Oberman, La riforma protestante, ed. cit., cap. III, p.59-62. 2 Cfr. R. Bainton, Erasmo della cristianità, ed. cit., p.8: "Gerardo Groote di Deventer raggruppò attorno a sé seguaci dediti alla vita attiva e a quella contemplativa. (...) L'accento [nella Devotio Moderna] poggiava sulla pietà e sulla condotta. La pietà era caratterizzata da una commossa, lirica devozione a Gesù, con costante sforzo di tenersi sui suoi passi, piuttosto che di annegare la coscienza nell'abisso della deità." 3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.60. 4 E in special modo nel contesto universitario tedesco, dal momento che nelle università tedesche era particolarmente radicato un fenomeno di alleanza politica tra la via moderna e la Devotio moderna, contro gli esponenti della via antiqua. (Cfr. H. A. Oberman, I maestri della Riforma: la formazione di un nuovo clima intellettuale in Europa, Bologna, il Mulino 1982, I: Turris eburnea: l'università come punto d'osservazione, p.18 ss.) 5 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60. 6 Ibidem, cfr. n.65: "Francis Vandenbroucke ritiene che quest'epoca sia caratterizzata da 'le divorce entre theologiè et mystique'. E' vero che la teologia affettiva, per lo più critica nei confronti dei dibattiti in scholis, ebbe allora un impulso generale. (...) L'impulso della teologia affettiva e quella che chiamo democratizzazione della mistica sono due facce di una stessa medaglia." 6bs Sui caratteri della religiosità popolare del periodo tardo medioevale, cfr. G. S. Tomlin, The Medieval Origins of Luther's theology of the Cross; II: Luther and late medieval passion meditation, in: Archiv fur Reformationgeschichte, 1998, n.89, pp.23-24. 7 Riguardo a questo tema, ma non ad altri: le idee del valore delle opere e del libero arbitrio erano infatti molto vive proprio nella tradizione della meditazione devota sulle ferite di Cristo, la quale pure aveva, in qualche modo, contribuito alla formazione di Lutero, attirando la sua attenzione sul problema della riflessione sul sacrificio di Cristo. (Cfr. G. S. Tomlin, The Medieval Origins Of Luther's theology of the Cross, ed. cit., II: Luther and late medieval passion meditation, p.23 ss.) 7bs Sulla lettura e sull'interpretazione data da Lutero dei mistici medievali, cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60, dove si legge: "in riferimento a Tauler, proprio il fatto che per Lutero una determinata predica di quel teologo sia interamente radicata nella teologia mistica, ci fa capire come egli pensasse che [normalmente] non dovesse essere così": cioè che Taulero non fosse per lui principalmente un autore mistico. E più avanti (a p.62), a proposito dell'Anonimo: "Ad ogni modo la sostanza che Lutero desume dalla Teologia Deutsch non è certo mistica (...). Lutero considera questo scritto tipico di una 'teologia tedesca', ma non di certo di una 'mistica tedesca'." E, sempre di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero: un uomo tra Dio e il diavolo, Bari, Laterza 1987, p.174, dove si legge: "Lutero si mostra entusiasta di Johannes Tauler e della Deutsch Theologie [Teologia tedesca] (...): ma egli non li ha letti come prototipi del misticismo, ma come esempi di una teologia autentica, vissuta e vitale. Tauler è diventato per lui la guida nella ricerca di un'esistenza animata dalla fede"; e più avanti (p.179): "In Tauler e nella Deutsch Teologie Lutero ha trovato il linguaggio e il modello per descrivere in modo tangibile questa situazione di doppia esistenza [iustus et peccator]. L'anima, soggetta a gemere sotto i pesi e i peccati della creatura, è rapita nell'esperienza della gioiosa unione con Dio. Nel misticismo i gemiti e l'estasi indicano l'inizio e la fine del cammino, dal doloroso distacco dal mondo alla gioiosa unione mistica. Per Lutero 'i gemiti e l'estasi' sono i concetti, tradotti in esperienza, della simultaneità di pace e dolore (...) - 'simul gemitus et raptus'." (Ma per ulteriori approfondimenti, cfr. infra, p.88 ss). 8 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., pp.37-38. 2) La 'democratizzazione' della mistica in Lutero Prima di affrontare il tema della trasformazione della teologia mistica nell'opera del riformatore, è opportuno farsi un'idea generale di cosa fosse la mistica di origine tomista nel periodo scolastico. Una possibile schematizzazione delle tappe del processo che culmina nell'esperienza mistica vera e propria, ce la può fornire Ephraem Haendrikx.1 Per descrivere la mistica cattolica, Haendrikx compila un elenco dei gradi del percorso che conduce il credente fino alla visione beatifica. Essi sono secondo lui essenzialmente tre: la preghiera, a cui fa seguito la contemplazione acquisita, a cui fa seguito infine la contemplazione travasata. La dinamica del processo di risalita è strutturata in modo che, partendo da un'iniziale fase ascetica basata su un processo discorsivo, si passi poi ad un primo assaporamento della Verità, o ad una prima forma d'illuminazione divina. Questa, chiamata accessus, comporta una conoscenza soltanto sentimentale della natura divina, e corrisponde sotto alcuni aspetti alla conoscenza di Cristo nella teologia di Lutero. Mentre questa prima fase, chiamata anche grazia abituale, è accessibile a tutti i credenti attraverso la meditazione e la preghiera, la fase successiva invece è accessibile solo a pochi eletti. Quest'ultima, infatti, è quella che si considera come la vera e propria via mystica, in quanto comporta l'assorbimento dell'anima - totalmente recettiva e passiva - in Dio. Questo livello inoltre (definibile, secondo Oberman, come un'esperienza di alta mistica) non dipende assolutamente più dall'uomo, ragione per cui viene definito come un rapimento estatico (raptus). Esso si distingue dal precedente tipo d'esperienza per il carattere puramente spirituale e 'teoretico' dell'illuminazione, che lo pone al di là di qualsiasi esperienza semplicemente umana: ovvero carnale e emotiva. Questo secondo livello possiede perciò un carattere speculativo, che lo separa nettamente - anche da questo punto di vista - da quello precedente, ovvero dall'accessus. L'importanza di questa descrizione di Ephraem Haendrikx del percorso ascetico tipico della teologia cattolica sta, ai fini della presente ricerca, nel fatto che - con la sua distinzione tra accessus e raptus - può essere utile per chi voglia comprendere il pensiero mistico-teologico di Lutero. Uuna tale schematizzazione difatti (pur avendo ovviamente un valore solo orientativo riguardo alla vera mistica cattolica) pone comunque in luce i principali aspetti della tradizione con cui il riformatore dovette confrontarsi, e ci aiuta a chiarire quelli che furono per lui i punti di dissidio con essa. a) l'accessus e il raptus in Lutero Se la mistica cattolica era divisa nei due gradi consecutivi dell'accessus e del raptus, la trasformazione che Lutero apportò a tale tradizione fu da una parte quella di ridurre a Cristo (ovvero all'accessus) il livello dell'elevazione mistica, e dall'altra di dare anche a questo livello il connotato del raptus, ovvero di un rapimento estatico dovuto esclusivamente alla volontà e all'iniziativa divina.2 Questo cambiamento d'altronde, era imposto dalla sua stessa visione teologica, se è vero che l'anima umana non poteva per essa raggiungere da sola la salvezza, ma soltanto riceverla come dono gratuito dallo Spirito divino (come si legge più volte nel Servo Arbitrio: "La Chiesa è retta dallo Spirito di Dio; i santi (...) sono condotti dallo Spirito di Dio. Cristo resta con la sua Chiesa fino alla fine del mondo"3. Se quindi, con questa interpretazione, egli univa da una parte due gradi o aspetti dell'ascesi che precedentemente rimanevano distinti, dall'altra rendeva l'esperienza mistica accessibile a tutti i credenti, in quanto limitata (nel grado di avvicinamento a Dio) al solo livello cristologico dell'accessus: ovvero a quello più umile e carnale. L'esperienza mistica dunque, non poteva più essere considerata, nella vita religiosa dei cristiani, soltanto come un risvolto o una pratica particolare (fondamentalmente distinta dalle altre), ma finiva al contrario per permeare in modo essenziale tutta la loro vita 4. Secondo Lutero, infatti, una simile condizione di elevazione dell'anima in Cristo era ciò che separava i veri credenti dai non credenti, la vera Chiesa dal mondo terreno - come si può capire facilmente da quanto egli scrive in Sulla libertà del cristiano, dove si legge: "Non soltanto la fede concede che l'anima divenga simile alla Parola divina e cioè ripiena d'ogni grazia, libera e beata, ma riunisce l'anima a Cristo, così come una sposa al suo sposo. Per codesta unione ne consegue, come dice Paolo, che Cristo e l'anima diventano un corpo solo."5 b) la mistica affectiva Lutero affermò, all'interno della sua teologia, l'importanza e la centralità dell'esperienza affettiva, ossia dell'accessus (già presente, come si è detto, nella tradizione cattolica) - in contrapposizione con l'esperienza puramente teoretica o speculativa, cioè di 'alta mistica' (che per i cattolici costituiva, come si è detto, il momento successivo all'accessus). E affermò inoltre come il legame del credente col Cristo consistesse in un 'vincolo d'amore', e che, in quanto tale, esso non potesse passare né attraverso la ragione, né di conseguenza attraverso la speculazione. Ciò che egli rifiutò della precedente tradizione, non fu perciò l'idea del rapimento estatico (raptus) dell'anima - assolutamente ricettiva e passiva -, in quanto tale rapimento era sempre e comunque necessario per l'esperienza mistica. Né in realtà egli rifiutò - quantomeno in modo assoluto - la possibilità di un superamento del livello terreno (cristologico) dell'ascesi: ovvero l'idea che l'unione mistica potesse andare oltre lo stesso Cristo incarnato. Ciò che egli negò con maggiore decisione, fu la possibilità di un'esperienza mistico-ascetica meramente spirituale e razionale: quest'ultima infatti, comportando l'assenza di qualsiasi componente umile od affettiva, veniva da lui riportata nell'ottica di una concezione ottimistica o gloriosa del rapporto dell'uomo con Dio. In merito a questo problema, si può leggere un passo tratto dal commento del 1517 alla Lettera agli Ebrei di Paolo: Sic psalm. 17 [11]: "Ascendit et volavit super pennas ventorum" id est contemplationes spirituum [gli spiriti sono i Cherubini, non gli uomini]. Quod nomen satis indicat. "Cherubin" enim interpraetantur "plenitudinem scientiae". Ideo et hic dicit "Cherubin gloriae", subindicans, quod alia sit sapientia Christi gloriosi et alia Christi crucifixi. Quia per hanc deprimitur caro, per illam elevatur spiritus. Porro in contemplacione gloriae Christi maxime omnium necessaria est prudentia spiritus, ne unius "faciem" secuti et alterius relinquentes in diversum rapiamur errorem.6 Questo passo illustra, come si vede, la contrapposizione tra il Cristo celeste e quello terreno e crocefisso - assieme a quella, complementare, tra le due forme di conoscenza che se ne possono avere: I) quella gloriosa, dei Cherubini e II) quella più propriamente umana, che è invece una conoscenza umile. Esso continua poi mettendo in guardia i lettori da un possibile errore di valutazione della propria esperienza mistica (diversum rapiamur errorem), dovuto alla sopravvalutazione di sé e, di conseguenza, alla sottovalutazione della trascendenza di Dio. L'autore dà ad intendere, infatti, che l'uomo molto difficilmente possa giungere a sperimentare il solo aspetto glorioso di Cristo; e sottolinea come, molto più spesso, sia lui invece ad ignorare deliberatamente gli aspetti umili e affettivi dell'esperienza mistica (unius faciem secuti, alterius relinquentes). La vera mistica non è perciò (salvo, come si vedrà più avanti, rare eccezioni) gloriosa, ma umile. E ciò è vero nella misura in cui essa rimane pur sempre legata - nonostante l'elevazione verso Dio - agli aspetti carnali e terreni della natura che la sperimenta. In conclusione, quindi, si può notare come quest'ultimo aspetto - consistente nella sottovalutazione dell'elemento di humilitas - fosse ciò che poneva Lutero in un più profondo contrasto con la pratica della mistica cattolica. 1 Ivi, pp. 40-41. 2 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.68, dove si legge: "La contrapposizione di accessus e raptus non rappresenta l'ultima parola: mentre Lutero da una parte respinge il raptus, dall'altra fornisce rilevanti indizi per cui l'accessus assume alcuni tratti che caratterizzano il raptus. (...)"; e, ancora di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero, ed. cit., p.174, dove si legge: "Se si leggono gli scritti giovanili di Lutero, ci si aspetta ad ogni momento l'esplicita adesione al misticismo. Il che peraltro avviene, ma in forme e toni del tutto diversi, senza avere come fine l'ascesa verso Dio." 3 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.155. 4 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.38: "Non è possibile considerare questa trama mistica un singolo aspetto della teologia di Lutero (...); si tratta piuttosto di una parte o di un elemento della sua concezione del Vangelo che permea la sua interpretazione della fede e della giustificazione, la sua ermeneutica, la sua ecclesiologia e pneumatologia." 5 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., p. 373. 6 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.67, n.87. 3) Il gemitus e il raptus La visione della mistica in Lutero era 'democratica' - dal momento che nella sua teologia una tale esperienza era comune a tutti i credenti -, ed umile o affettiva - cioè non speculativa, in quanto legata alla condizione terrena propria dell'uomo. La creatura decaduta e corrotta non poteva, secondo una tale visione, entrare in contatto diretto con Dio (il Deus nudus), ma solo con la parte che di esso gli si era rivelata (il Deus revelatus). Già nel 1515-1516, Lutero scriveva nel suo commento a Rom: "se egli [Dio] avesse agito in mezzo a noi, o lui direttamente o mediante degli angeli, saremmo stati presi dal panico. L'opera di Dio sarebbe stata impedita dallo sbigottimento. (...) Nemmeno Mosè riuscì a sopportare un tale spavento: la parola non si era ancora incarnata. (...) Ora invece essa è diventata piena di dolcezza e fatta di carne, e si consegna a noi attraverso la carne."1 Il principio dell'humilitas si dimostra così di nuovo (come già nei precedenti capitoli), di una importanza fondamentale all'interno del pensiero del riformatore, dal momento che informa di sé anche quest'altro aspetto della sua visione teologica. L'elevazione mistica dell'anima umana presuppone infatti, prima di tutto, la consapevolezza del proprio reale stato terreno, e la rassegnazione ad esso. In questo modo, al binomio di peccato e giustizia (iustus et peccator) si affianca qui anche quello complementare di gemitus e di raptus: è necessario infatti per il credente essere cosciente della propria condizione di peccato, per essere elevato per quanto possibile ad uno stato di beatitudine terrena.2 Come si è accennato precedentemente, anche nella teologia cattolica il tema dell'humilitas svolgeva un ruolo positivo, giacché guidava il soggetto nella direzione della meditazione e della preghiera, preparando in tal modo anche lo stadio successivo: quello della contemplatio acquisita (ossia il primo livello dell'ascesi mistica). In ogni caso tuttavia una tale attitudine era considerata, in sostanza, solo come uno stadio iniziale e preparatorio in vista dell'ascesi mistica vera e propria, piuttosto che come un elemento stabile di essa.3 Vi era, tuttavia, anche un altro punto che allontanava - e forse ancora più radicalmente - queste due differenti concezioni dell'esperienza mistica: ovvero la considerazione della condizione dell'uomo nell'elevazione in Cristo. Secondo una visione comune a molti autori cronologicamente vicini o contemporanei a Lutero, infatti, Cristo rappresentava essenzialmente il mezzo (o meglio l'ostium, ossia la porta) che Dio aveva fornito all'uomo affinché egli potesse allontanarsi dalla condizione di peccato e di degrado nella quale era costretto a vivere, e accedere quindi ad una condizione più felice 4: attraverso Cristo, in altre parole, ogni individuo poteva evadere dallo stato di dolore e di miseria dell'esistenza quotidiana.5 All'opposto, secondo la visione luterana, la stessa unio mystica con il Cristo non procurava gioia al fedele, bensì sofferenza. Essa difatti portava con sé un radicale cambiamento dell'orientamento dell'esistenza umana naturale (oltre ovviamente al sentimento positivo della propria rigenerazione interiore, che proveniva dalla fede). Il segno di questa trasformazione interiore non era però il semplice impulso verso la contemplazione mistica (che per il riformatore equivaleva ad un tendere anzitempo alla beatitudo coelestis), ma piuttosto quello verso l'emulazione del Cristo crocefisso attraverso la 'mortificazione della carne'. Si legge ad esempio nella Cattività babilonese della Chiesa, dove Martin Lutero parla del vero sacramento della penitenza: "Quanti si sono convinti di esser salvi e di aver dato a Dio soddisfazione per i propri peccati, solo per aver biascicato quattro preghiere imposte dal prete, pur non pensando minimamente di cambiar vita? (...) E perché dovrebbero pensar diversamente se altro non si insegna loro che questo? Non si pensa a mortificare la carne, non serve a niente l'esempio di Cristo, che assolvendo l'adultera disse: 'Va, non peccare più', imponendole la pena di mortificare la carne."6 In altri termini, lo stretto legame tra l'humilitas (o il concetto affine di gemitus) e la condizione del rapimento mistico dell'anima, implicava in primo luogo che nell'uomo vi fosse la consapevolezza della propria lontananza da Dio, e in secondo luogo vedeva in questa consapevolezza il presupposto per la salvezza futura, oltre a quello per il congiungimento mistico in questa vita con il Cristo crocefisso. Ma se il rapporto con Dio era in una tale visione essenzialmente di lontananza e di negazione, la vita del fedele non poteva più consistere - se non in minima parte - in una attività meramente 'contemplativa' e passiva: l'esistenza del cristiano trovava perciò proprio nel valore attivo del sacrificio la sua peculiare caratteristica e il suo sbocco reale. Oltre che una mistica 'popolare' ed affettiva, quindi, quella di Lutero si potrebbe classificare anche come una mistica che pone al proprio centro il valore dell'impegno e della sofferenza terrena: una mistica 'attiva'. La dimensione della religiosità all'interno della teologia luterana, in quanto presupponeva essenzialmente, da parte dell'uomo, la coscienza del proprio intrascendibile stato di peccato (e quindi anche del suo restare sempre e comunque 'ancorato alla terra'), portava il credente a rinunciare del tutto - o quasi - all'aspirazione verso un'elevazione mistica e metafisica della propria anima. Secondo Lutero, quindi, la vita di fede non portava il credente a emarginarsi dal mondo, ma - al contrario - lo induceva a 'radicarsi' in esso. Il sacrificio ritornava, così, ad essere la componente fondamentale nell'esistenza del cristiano: esso diveniva infatti il segno o l'immagine esteriore della sua accettazione - seppure da cristiano, e non come uomo privo di fede - della propria condizione terrena. Si legge ad esempio, già nel primo scritto esplicitamente polemico nei confronti dell'autorità romana, ovvero le 95 tesi, che "Gesù Cristo dicendo 'fate penitenza', volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza; questa parola non può intendersi nel senso di penitenza sacramentale (cioè confessione e soddisfazione, che si celebra per il ministero dei sacerdoti); non si intende però solo la penitenza interiore, anzi quella interiore è nulla se non produce varie mortificazioni della carne; perciò la pena dura finché permane l'odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè sino all'ingresso in paradiso." E più avanti, sempre nello stesso scritto, egli diceva: "La vera contrizione cerca ed ama le pene [...] Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero o fare un prestito a un bisognoso, che acquistare indulgenze [...] la carità nasce con le opere di carità e fa l'uomo migliore; occorre insegnare ai cristiani che chi vede un bisognoso e lo trascura per le indulgenze, merita non l'indulgenza del papa ma l'indignazione di Dio."7 Con tali espressioni, il riformatore intendeva ribadire la centralità del sacrificio e della conversione, posti in atto attraverso l'esercizio della carità, per l'ottenimento della salvezza, e sottolineare come in essi si dovesse vedere (in contrapposizione con la 'falsa sicurezza' delle indulgenze) il vero segno dell'unione dell'anima a Cristo. Inoltre, attraverso questa visione originale e innovativa della natura dell'esperienza ascetica, Lutero conciliava la propria formazione personale (incentrata in massima parte, come noto, sullo studio delle sacre Scritture) con la conoscenza (legata invece essenzialmente al suo curriculum di studi scolastico) della precedente tradizione mistica. Se tale tradizione infatti prospettava la possibilità di un'assorbimento del credente in Dio, il Vangelo al contrario poneva come tema principale l'impegno e il sacrificio dell'uomo in vista della salvezza, rimanendo quindi tendenzialmente (ove si eccettuino ovviamente alcuni - peraltro piuttosto rari - episodi, come ad esempio quello di Paolo) estraneo all'idea della riunificazione mistica dell'uomo a Dio.8 L'idea della necessità della sofferenza per l'ottenimento della grazia, infatti, tendeva secondo Lutero ad essere sostituita tra i suoi contemporanei dalla convinzione che bastassero, per ottenere la salvezza, le pratiche espiatorie prescritte dal clero, e assieme ad esse magari (e a loro integrazione) quelle mistico ascetiche. Egli, non condividendo questa impostazione, reagì perciò da una parte rendendo la mistica, all'interno della sua visione, qualcosa di ancora più essenziale per la spiritualità e per la fede cristiana, e tuttavia dall'altra interpretandola in un senso tendenzialmente pratico attivistico (anziché in quello, più tradizionale, estatico contemplativo). 1 M. Lutero, Lezioni sulla lettera ai Romani, Genova, Marietti 1992, scolio n.229, p.158. 2 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.86-87, dove si legge: "Excessus e raptus da una parte, gemitus dall'altra sono stati reclutati per illuminare la vita christiana. (...) La dimensione del gemitus scaccia i pericoli provenienti dalla theologia gloriae del raptus mistico. E le dimensioni excessus e raptus neutralizzano gli elementi sinergistici presenti nel tradizionale collegamento scolastico di synderesis e gemitus." (Su questo collegamento, cfr. infra, pp.29-30). 3 Nella visione pienamente medievale e monastica, infatti, l'umiltà veniva intesa come una preparazione alla fede, un'opera libera e volontaria in vista della grazia divina. Essa perciò, in tale visione, era ricollegabile al discorso sulla preghiera e sulla meditazione, che preparavano - come si diceva - l'incontro affettivo, ossia l'accessus, con il Cristo (cfr. infra, pp.67-68). 4 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66, n.81: Ipse Domine Iesus ait: 'Ego sum ostium, per me si quis introirit salvabitur' (citazione da Schatzgeyer). Più avanti, sempre Schatzgeyer, dice: Et alibi inquit discipulis: 'oportuit pati Christum et ita intrare in gloriam suam', ed infine: Converte ergo, o anima, quae ascensiones paras, converte sensus cordis tui in pulcherrimum, sonorosissimum, suavissimum, redolentissimum et amorosissimum obiectum, Iesum, vidilicet, Christum, verbum increatum, incarnatum et inspiratum. Contemplare eius pulchritudinem, quia splendor est patris et figura figura substatntiae eius. 5 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66 ss, dove si legge: "In un trattato di Schatzgeyer, che è cronologicamente vicino a Lutero (1501) e respira quel clima di spiritualità monastica che suscitò più tardi la collera del riformatore, Cristo non è affatto sminuito in nessun modo. Schatzgeyer sottolinea che 'esiste un solo cammino verso il cielo: attraverso la croce di Cristo'. Ciò desta l'amore e conduce al meraviglioso abbraccio di Cristo. Il vero cristiano si volge dall'amarezza di questa valle di lacrime alla luminosa bellezza di Cristo." (Si capisce quindi che l'unione col Cristo venisse intesa dall'autore più come un'esperienza 'gioiosa', che penitenziale). 6 Martin Lutero, Scritti politici, Torino, U.T.E.T. 1949, p.311. 7 Giuseppe Alberigo, La riforma protestante (origini e cause), Brescia, Queriniana 1977. 8 Cfr. Giuseppe Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca protestante, Milano, Fratelli Bocca 1946, p.5 ss: "Se il cristianesimo avesse un presupposto filosoficamente enunciabile, questo sarebbe dato dall'affermazione di una iniziale contrapposizione dell'anima a Dio: o, per adoperare un termine di portata filosofica, di una trascendenza assoluta. (...) Perciò, se esperienza mistica vuol dire unificazione di Dio e dell'anima (...) che elimini qualsiasi effettiva distinzione metafisica tra Dio e l'anima, il Cristianesimo non si può qualificare come fenomeno mistico." Riguardo all'opposizione che sussiste tra esistenza attiva ed esistenza contemplativa, il Faggin scrive: "L'antinomia tra vita attiva e vita contemplativa è nel Vangelo soltanto apparente e sta ad indicare, nei suoi due elementi realmente esistenti, i due aspetti concomitanti della vita spirituale: l'abbandono fiducioso in una verità rivelata e l'imprescindibile necessità dell'azione." Nelle Scritture quindi non c'è, secondo il giudizio dell'autore, uno spazio eccessivo per la vita puramente contemplativa. 4) L'alta mistica nella teologia di Lutero Nonostante la forte diffidenza del riformatore nei confronti di ogni forma di contemplazione o di 'esperienza estatica', non si può comunque affermare che egli negasse del tutto la possibilità di sperimentare anche forme più alte di ascesi oltre a quella meramente cristologica. E tuttavia questo secondo tipo di esperienze era ammesso, all'interno del suo sistema, soltanto come 'caso limite'. Una conferma della validità generale dell'impostazione cristologica della sua teologia mistica, ce la fornisce per esempio il paragrafo conclusivo del Tessaradecas consolatoria pro laborantibus et oneratis (ovvero le Quattordici consolazioni per gli afflitti e gli onerati), un'opera consolatoria del 1520 dedicata all'elettore Federico di Sassonia, in cui venivano elencati i sette mali ed i sette beni insiti nella condizione umana. Nell'ultimo capitolo, che trattava del bene supremo, Lutero iniziava subito con il dire: "Nulla posso dire riguardo ai beni eterni e celesti, dei quali si gloriano i Beati attraverso la visione chiara di Dio, ma quantomeno posso parlare di quelli che ci sono concessi attraverso la fede [ovvero: quelli che si possono conoscere attraverso di essa] e delle cose che ci sono comprensibili attraverso la ragione. Così questo settimo spettro è Gesù Cristo che risorge in gloria dai morti (...)"1. Il passo, che continuava poi con l'elenco dei beni sommi che la ragione e la fede preannunciano essere propri dei beati (ovviamente solo per merito del sacrificio di Gesù Cristo, come egli scriveva subito dopo: qua re resurrectio eius mea est, et omnia, quae per resurrectionem operatus est), ci dimostra chiaramente come secondo Lutero il credente non potesse accedere ad una visione chiara, ossia 'priva di veli', della natura divina già in questa vita, né dei beni e delle gioie connessi a tale visione. Questo brano ci riporta perciò all'idea, che come si sa ha un valore preponderante nella teologia mistica luterana, secondo la quale "essere rapiti non significa però comparire davanti a Dio nella fede"2. La ragione per cui non si può parlare - nonostante questo orientamento generale - di un vero e proprio rifiuto da parte di Lutero delle esperienze di 'alta mistica', risiedeva innanzi tutto nella sua convinzione di non poter limitare le scelte divine: ovvero, in questo ambito specifico, nell'idea che non fosse lecito escludere (quantomeno in modo assoluto) che Dio decidesse di elevare alcuni uomini fino alla contemplazione della propria natura increata. Ma questa considerazione comportava, inoltre, che la forte diffidenza del riformatore nei confronti delle pratiche che rientravano nella categoria dell'alta mistica, fosse da attribuire in realtà molto di più al modo in cui esse venivano intese e messe in atto dai suoi contemporanei, che non a quelle pratiche come tali. In sostanza infatti, l'elemento che spingeva Lutero a dubitare - almeno nella maggior parte dei casi - della validità di questo tipo di esperienze, stava nella loro pretesa di giungere troppo rapidamente alla conoscenza della natura trascendente di Dio, intendendo quindi l'unione col Cristo incarnato solo come un momento di passaggio (quando non, addirittura, come qualcosa che si potesse anche saltare) per accedere al livello più alto della contemplazione. In altre parole, l'elemento di separazione tra queste due visioni risiedeva nella tendenza di molti mistici cattolici (come ad esempio Schwenckfeld) a vedere il momento cristologico come un 'per mezzo di Cristo', anziché come un 'in Cristo': cioè a considerarlo non come una meta, ma soltanto come un punto di passaggio.3 A questo proposito, ad esempio, egli scriveva già nel 1516 - cioè prima ancora di iniziare la vera e propria battaglia per la riforma della dottrina cattolica - nel commento a Rom (5,2): "Chi è saggio, non apprezza tanto la luce [la fede] da non avere bisogno del sole [Cristo], ma desidera avere insieme e il sole e la luce. Questi dunque, che accedono a Dio mediante la fede e non anche mediante Cristo, in realtà se ne allontanano". E ancora più avanti: "Infatti di tutte le opere della fede la ragione è questa, diventare degni che il Cristo, con la sua giustizia, ci dia rifugio e protezione. 'Giustificati dunque dalla fede' e con i peccati rimessi 'abbiamo l'accesso a Dio e la pace', ma 'mediante Gesù Cristo Signore nostro'. [...] La parola incarnata è infatti necessaria innanzitutto per la purezza del nostro cuore: la quale, una volta realizzata, permette di essere rapiti misticamente per mezzo della stessa Parola increata."4 Ciò che, in realtà, allontanava la visione della mistica propria del riformatore da quella cattolica (in special modo dagli autori a lui contemporanei, o da quelli immediatamente precedenti)5 non era tanto l'idea di una possibile unione dell'uomo col Verbo increato, bensì soprattutto la tendenza - molto diffusa anche tra i più importanti autori mistici, come ad esempio Jean Gerson 6 - a sottovalutare il ruolo della rivelazione e del Figlio incarnato nell'ascesi di fede. L'elemento che poneva una maggiore distanza tra queste due visioni era, quindi, l'inclinazione dei suoi avversari verso la svalutazione degli aspetti penitenziali, in favore di quelli estatico-contemplativi dell'esperienza mistica. Non a caso infatti, nella conclusione del passo sopra citato, Lutero scriveva: "Quello che viene chiamato rapimento [raptus] non è [da intendersi però come un] accesso a Dio": sottolineando così la profonda distanza che correva tra l'alta mistica e l'esperienza più comune, che sempre la precedeva, dell'essere rapiti in Cristo (ovvero del raptus).7

 
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