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LA RIFORMA PROTESTANTE - GIOVANNI CALVINO

PROTESTANTESIMO - GIOVANNI CALVINO
 

1 Martin Luther, Opera omnia, ediz. Wittembergae Lufft., 1545, tomo II, p.23: Nihil de aeternis & coelestibus bonis loquor, quibus beati fruuntur in visione clara Dei, aut saltem de eis in fide loquor, & qua ratione nobis possunt esse comprehensibilia. Ita hoc spectrum est Ihesus Christus Rex glorie resurgens ex mortuis, [sicut idem fuit septium spectrum malorum passus, moriens & sepultus. Hic licet videre summum cordis nostrum gaudium, & stabilia bona. Nihil hic prorfus malorum, quia Christus resurgens ex mortuis, iam non moritur, mors illi ultra non dominabitur. Hic est caminus charitatis & ignis Dei in Zion, ut Isa. Dicit: Christus enim natus est nobis, non solum autem, sed & datus est nobis.] Qua re resurrectio eius mea est, & omnia, quae per resurrectionem operatus est. [Et (ut Apostulus Roma. S. Exuberantissime gloriatur) quomodo non omnia donavit nobis cum illo?] 2 M. Lutero, Commento alla lettera ai Romani, ed. cit., p.230, scolio 300. 3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.53-55 "Vogelsang motiva il diverso inquadramento di Gerson e Tauler con il fatto che Gerson - come Bernardo e Bonaventura - resta aderente all'ascesa mistica per mezzo di Cristo incarnato (per Christum) invece che in Cristo (in Christum), ecc." ; invece su Schwenckfeld, cfr. p. 55. 4 Da Martin Lutero, Commento a Romani, ed. cit., pag. 229, scolii 299 e 300 (5,2 Paolo). 5 Vi è infatti una notevole differenza tra la concezione degli autori del XIV e XV sec. e quella ad esempio di un autore come Bernardo di Chiaravalle (XII sec.): come si intende mostrare più avanti. 6 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.56, dove si legge: "La vera mistica non è considerata dubbia o impossibile, ma 'spesso molto pericolosa e un mero trucco del demonio... Chi vuol essere sicuro, farebbe meglio ad evitare simili speculazioni'. Anche nell'ultima fase della sua evoluzione dunque, Lutero non mette all'indice [per la sua propensione verso l'alta mistica] Gerson; esorta piuttosto i suoi ascoltatori a leggerlo (e con lui altri autori simili), ma - sic et non! - con una restrizione simile a quella che Gerson aveva formulato nei confronti di Bernardo: lo si deve leggere cum iudicio." 7 La versione latina recita: Denique raptus ille non accessus vocatur (citato in H. A. Oberman, op. cit., p.37). 5) La tradizione della teologia mistica in Lutero Il rapporto di Lutero con l'alta mistica (cioè con la mistica speculativa cattolica) può essere considerato parte di un argomento più vasto, in quanto si inserisce come un aspetto particolare nella sua personale rielaborazione dei temi delle correnti mistiche precedenti. La relazione che il riformatore intrattenne con queste ultime infatti, non fu soltanto negativa. Si può dire poi, che alcuni movimenti particolari esercitarono un'influenza più consistente sul suo pensiero. Essi - secondo recenti indagini storiografiche - furono: quello della teologia negativa, originata dallo Pseudo-Dionigi; quello che possiamo definire come 'movimento della mistica romanica'; ed infine quello della tradizione tardo-renana (di cui Taulero fu il capostipite).1 La conoscenza delle idee di queste tre correnti lo portò ad illuminare alcuni nodi essenziali della sua spiritualità, contribuendo quindi a dare forma al suo sistema teologico. Inoltre, data l'importanza per la sua formazione della figura di Taulero (nonché di un altro autore della corrente eckhartiana, conosciuto come 'Anonimo Francofortese'), è parso opportuno dividere questo paragrafo in due diverse sezioni: una dedicata alla relazione di Lutero con la mistica dionisiana e romanica, ed un'altra dedicata invece alla relazione con la mistica renana. a) la mistica di Dionigi e quella di Bernardo di Chiaravalle: a' - la teologia apofatica di Dionigi l'Aeropagita: Anche se S. Agostino, tra i pensatori cristiani, fu quello che lo segnò più profondamente, Lutero entrò in contatto diretto con altri autori.2 Tra questi (che vengono citati nelle sue opere con valenze a volte positive e a volte negative, ovvero secondo la metodologia critica medievale del sic et non) troviamo Dionigi l'Aeropagita ed alcuni mistici dionisiani. Il rapporto che Lutero intrattenne con questa corrente mistica e teologica si potrebbe dividere, lungo l'arco di tutta la sua vita, in due momenti differenti: il primo, che terminò tra il 1519 ed il 1520 e fu contraddistinto dall'adesione positiva a tale corrente, o almeno ad alcuni temi di essa (soprattutto a quelli 'apofatici'); e il secondo, che iniziò appunto col 1520, durante il quale il riformatore si allontanò da essa (anche se l'influenza positiva esercitata da quelle idee rimase salda anche nel periodo maturo del suo pensiero.)3 Il percorso di questa influenza, si può riassumere col dire che nel primo periodo di essa (cioè in quello che arriva fino al 1520 circa) Lutero si interessò prevalentemente agli aspetti 'apofatici' di tale filosofia, mentre in quello successivo si scontrò con le componenti mistiche di essa. A testimonianza dell'interesse giovanile del riformatore per la teologia dionisiana, si può citare uno scolio del 1514 al Sal. 64, nel quale si legge: "Come la via positiva verso Dio è imperfetta - sia nell'apprensione, che nell'espressione -, quella negativa è invece perfetta. Per tale ragione Dionigi ricorre spesso alla parola 'hypér', perché è necessario semplicemente andare oltre ogni pensiero ed entrare nell'oscurità assoluta."4 Egli dunque, in questi anni, riprendeva da Dionigi l'idea della assoluta inconoscibilità di Dio per l'uomo naturale (cioè attraverso il proprio intelletto). In merito invece al successivo rifiuto di questo autore, e più in particolare degli aspetti mistici e ascetici della sua filosofia, può essere utile leggere un brano scritto alcuni anni più tardi (tra il 1518 e 1521, nelle Operationes in Psalmos) di commento al Sal. 5, nel quale si legge: "Questo percorso è definito dai teologi come un inoltrarsi nelle tenebre, un ascendere oltre l'ente e il non ente. In verità, non so se essi comprendano se stessi, se attribuiscano questo [percorso] ad atti volontari e liberi piuttosto che alla croce, e pensino di sostituire il dolore della morte e dell'inferno. Ma la Croce è la nostra unica teologia."5 Come emerge chiaramente da questo brano, il riformatore diffidava molto della possibilità di un'ascesi (quale appunto quella prospettata da Dionigi) che giungesse fino alla conoscenza della natura oscura di Dio. Una tale diffidenza inoltre era dovuta anche al fatto che - data la sua natura mistico-intellettuale - tale esperienza poteva facilmente sostituire, tra le pratiche religiose, quella carnale e umana della passione di Cristo e della Croce. Questo ci fa capire come il discorso sulle tenebrae o sulla caligo, proprio dello Pseudo-Dionigi, venisse in realtà ripreso al fine di rafforzare la distanza tra le due dimensioni - anziché (come avveniva, appunto, nella teologia dello Pseudo- Dionigi) come base di un percorso individuale finalizzato alla riunificazione umana con la trascendenza. Ma attraverso tale idea egli chiariva anche un altro aspetto fondamentale della propria visione: quello secondo cui non solo per i non credenti Dio rimanesse totalmente oscuro, ma anche per i fedeli. Ad essi non restava infatti che di vivere semplicemente 'al riparo di Dio', vale a dire sotto la sua ala protettrice 5, come mostra ad esempio un passo del commento a Rom. in cui si legge: "Oggi esistono molti che (...) una volta ricevuta la fede attraverso il battesimo, ancora vogliono piacere a Dio con la propria persona, senza bisogno di Cristo: invece sono necessari l'uno e l'altro, cioè avere fede e possedere insieme e per sempre il Cristo come mediatore di tale fede. Dice il Sal. 90: 'Chi abita al riparo dell'Altissimo, rimarrà nella protezione del Dio del cielo': in questo caso la fede costituisce l'abitacolo, e Cristo dà la protezione e l'aiuto." Cristo e la fede si ponevano, quindi, come un riparo o una protezione dalla natura insostenibile per l'uomo del divino, e i credenti stessi vivevano perciò all'ombra della divinità (in umbraculo), anziché nella sua luce. E più avanti, ancora nello stesso paragrafo, Lutero scriveva: "Qui [Paolo, Ad Rom. 5,2] vengono toccati [nel senso di 'punzecchiati' o colpiti] coloro che secondo la teologia mistica si sforzano di penetrare nelle tenebre interiori, escludendo le immagini della passione di Cristo". L'idea del rapporto negativo con la divinità si traduceva perciò in quella di un rapporto positivo con la sua rivelazione.6 Ciò che dunque Lutero rifiutò della teologia di Dionigi, fu essenzialmente l'idea di una possibile riunificazione dell'uomo a Dio, oltre a quella (che ad essa era connessa) dell'affermazione della libera volontà umana. Egli d'altra parte manteneva comunque, nel proprio pensiero, l'aspetto negativo (apofatico) della teologia dello Pseudo-Dionigi, eliminandone ovviamente le implicazioni mistiche ed ascetiche. Tuttavia, nonostante il debito contratto con questo autore, il giudizio che Lutero diede su di lui (quantomeno nella fase già matura della sua opera) fu nettamente negativo, come si legge infatti nella Cattività Babilonese (1520), laddove dice: "Dionigi è il più pernicioso; egli platonizza, più che cristianizzare: non vorrei che il credente perdesse tempo con le sue elucubrazioni."7 b' - la teologia mistica di Bernardo di Chiaravalle: Il termine 'mistica romanica' viene qui adoperato in riferimento a tutta una serie di autori che si possono far rientrare pienamente nella categoria della mistica medievale occidentale. Citando Heiko A. Oberman (che a sua volta si rifà ad uno studio di Vogelsang) si potrebbe dire che Lutero "della mistica romanica elogiò l'accentuazione del Cristo incarnato e la considerazione della mistica come esperienza, e non come dottrina [ossia della mistica non speculativa]; rimproverò invece ad essa la mancata considerazione delle tentazioni spirituali, nonché la mistica erotica e l'obbiettivo di un'unione mistico-estatica con il verbo non creato".8 Il pensiero della tradizione romanica quindi, nonostante fosse prevalentemente di natura umile od affettiva, non coincideva ugualmente su molti punti con quello del giovane Lutero, che era invece più di matrice tedesca o renana (come si mostrerà più avanti). L'influsso, in ogni caso, che Lutero ricevette da questa corrente fu decisamente più consistente di quello ricevuto dallo Pseudo-Dionigi. Gli autori che presumibilmente egli conobbe in modo diretto, all'interno di essa, furono: Ugo e Riccardo da San Vittore, S. Bonaventura, Jean Gerson, Bernardo di Chiaravalle.9 Tra essi, inoltre, quelli che lasciarono un segno più profondo su di lui furono gli ultimi due, e di essi in special modo il secondo. L'influsso di Bernardo di Chiaravalle e di Gerson (il quale si considerava il discepolo e il continuatore del pensiero di Bernardo 10), non venne mai dimenticato o misconosciuto dal riformatore, che non a caso li ricordò anche in tarda età. Ciò che Lutero riprese del pensiero di Bernardo, fu essenzialmente l'aspetto di avversione e di rifiuto verso la dialettica - in quanto implicante l'idea di un rapporto col divino strutturato 'razionalmente' -, assieme alla considerazione della centralità della Croce: vale a dire del valore dell'humilitas e della conoscenza di sé (s'intende chiaramente, non per come noi crediamo naturalmente di conoscerci, ma per come lo facciamo attraverso la fede, cioè come Dio stesso ci conosce: peccatori). Assieme a questi due, egli riprese anche il tema della Grazia che Dio impartisce agli umiliati e agli afflitti, e quello della meditazione sulle ferite di Cristo, intesa come la dimensione propria dell'esistenza del cristiano. Della teologia mistica di Bernardo di Chiaravalle, Lutero raccolse dunque nel corso dei suoi studi (soprattutto di quelli da lui svolti in giovane età, quando lesse ad esempio il suo commento al Cantico dei cantici) essenzialmente gli aspetti penitenziali ed una certa avversione o diffidenza di fondo verso l'alta mistica. La somiglianza poi tra questi due pensatori, riguardo ad alcuni punti di vista personali, fu tale che Lutero (in un'opera del 1519, dedicata appunto alla meditazione sulla passione di Cristo) citò Bernardo come "l'esempio di un uomo che fece esattamente ciò che lui stesso aveva raccomandato di fare: ovvero che intese l'esperienza della passione di Cristo da parte del fedele, come il ricordo delle colpe da lui accumulate verso Cristo e, in tal modo, anche del giudizio che pendeva sulla propria persona".11 Il punto centrale della visione del mistico francese stava - non a caso - nell'idea che ogni cristiano dovesse prendere atto, prima di tutto, che Cristo non era morto per l'umanità in genere ma proprio per le sue colpe particolari, e inoltre che la Chiesa e i suoi singoli membri dovevano conformarsi non alla Maestà di Cristo, ma piuttosto alla sua umiltà e alla sua mitezza. Il discorso di Bernardo tornava così all'idea dell'impossibilità per l'uomo di conoscere il vero volto di Dio già in questa vita, e alla necessità quindi di fermarsi semplicemente alla sua 'immagine' o al suo 'dorso' (come scrive nel suo articolo G. S. Tomlin: "the 'back' of God" [Es. 33.22-33]): ovvero alla sua sofferenza e alla sua umiltà. La somiglianza tra questi due autori, insomma, era tale da far quasi pensare, almeno su certi argomenti, ad una ripresa del primo da parte del secondo.12 Solo su un tema, che fu centrale peraltro nella polemica che il riformatore sostenne contro i teologi cattolici, questi si discostò nettamente dal suo maestro: vale a dire su quello della possibilità di una cooperazione tra uomo e Dio nell'ascesi di fede. Il motivo infine della familiarità del nostro autore con il pensiero e con la spiritualità di Bernardo di Chiaravalle, fu inoltre essenzialmente la popolarità di cui quest'ultimo godé all'interno di vari contesti, sia religiosi che culturali, del tardo Medievo (Lutero difatti potrebbe averlo studiato tanto in monastero, quanto nel corso della lettura universitaria della Canonis Misse expositio di G. Biel).13 Ma se è un fatto accertato che del pensiero di S. Bernardo Lutero accolse nella propria teologia l'aspetto - in entrambe fondamentale - di humilitas, non si può dire per questa ragione che, da parte degli altri autori della tradizione romanica, egli avesse subito un'influenza altrettanto significativa. Soltanto nei confronti di Jean Gerson infatti, egli nutrì una considerazione simile a quella che ebbe per Bernardo di Chiaravalle: e ciò anche per la vicinanza di questo secondo mistico ad alcuni temi spirituali da lui largamente condivisi. Come ci ricorda Oberman (nel passo già citato in apertura di paragrafo), nella mistica pienamente cattolica - anche laddove non vi era un'eccessiva insistenza sull'unione dell'uomo col Verbo increato, come appunto in Bernardo di Chiaravalle - non era comunque presente una sufficiente considerazione per le tentazioni spirituali.14 Tale considerazione all'opposto, si affacciava sia in Gerson (di cui il riformatore aveva affermato che era "l'unico ad aver scritto sulle tentazioni spirituali"), sia - come si vedrà qui avanti - negli autori renani più tardi. Era proprio quest'ultimo argomento, infatti, a costituire uno dei principali motivi di separazione tra Lutero e la mistica romanica. b) la mistica tedesca: Nel folto gruppo di correnti mistiche delle quali venne a conoscenza, quella che senza dubbio il riformatore sentì più vicina a sé fu la corrente dei Renani. Oltre che a motivi di natura squisitamente 'nazionalistica', una tale preferenza era dovuta alla forte affinità di fondo che egli avvertiva nei confronti delle idee della loro scuola teologica. Non a caso infatti, Giuseppe Faggin, nel libro che dedicò a questi autori (Meister Eckhart e la mistica tedesca protestante), ne parlò collocandoli in un ambito già pre-luterano. Non è certo se il riformatore avesse letto direttamente gli scritti di Eckhart (né tantomeno degli autori che lo precederono), ma è sicuro che egli conobbe due autori posteriori: Taulero (si conservano infatti le glosse che Lutero scrisse alla sua opera) ed il Francofortese (un anonimo cavaliere Teutonico della fine del XIV sec., di cui rimane un libro che ebbe un ruolo determinante nella sua formazione, considerato da lui come espressione esemplare della spiritualità tedesca come tale). Entrambi erano in ogni caso discepoli e continuatori della mistica eckhartiana, anche se mescolavano la lezione del loro maestro con quelle tendenze all'abbassamento della mistica (di cui si è parlato all'inizio del presente capitolo), che si erano ampiamente diffuse nella cultura del tardo Medioevo. Scrive difatti Giuseppe Faggin, nel saggio sopra citato, che "dopo Eckhart il misticismo speculativo discese dalle vette dell'astrazione e si adeguò sempre più alle esigenze della vita morale e religiosa, o si dissolse nell'intensità del sentimento".15 Nonostante questo ridimensionamento delle audacie speculative di Eckhart nella teologia mistica, i temi fondamentali del suo pensiero rimasero inalterati anche presso i discepoli "come interna ossatura di una teoria della salvezza".16 E' possibile dunque scomporre tale influenza in tre punti differenti, e strettamente connessi fra loro: l'idea di passio, ovvero del dover 'patire' la nascita di Dio nella propria interiorità, annullandosi totalmente; l'idea della resignatio ad infernum e quella della vicinanza della disperazione e del dolore (prope desperatio), che implicavano un'assoluta adesione dell'uomo alla volontà divina, oltre che l'immanenza del peccato e della disperazione nella sua dimensione. La mistica renana introduceva allora un elemento nuovo (o che quantomeno non era mai stato asserito prima così esplicitamente) all'interno della spiritualità cristiana. Tale era, precisamente, l'idea dell'annullamento totale di sé. A testimonianza dell'importanza di una tale componente all'interno della corrente mistica dei Renani, si può leggere ad esempio l'inizio della Teologia tedesca, ove (non a caso) si trova una citazione da San Paolo: "Quando giunge il perfetto, si getta via l'imperfetto e il frammentario", e che prosegue poco più avanti spiegando la caduta d'Adamo come segue: "Si dice che Adamo sia caduto e andato in perdizione per aver mangiato la mela. Ma io dico che ciò avvenne per il suo attribuirsi, per il suo 'io' e 'me' e simili. Se avesse mangiato anche sette mele ma non vi fosse stata appropriazione, non sarebbe caduto." E' dunque l'egoità in questa visione - ovvero la resistenza del sé - a costituire il vero impedimento alla salvezza. Si legge infatti di seguito: "In questa restituzione e rimedio [di Dio] non posso o non devo fare assolutamente nulla, se non un puro patire, in modo che Dio soltanto agisca ed operi, ed io subisca lui, la sua opera e il suo volere."17 Le implicazioni di questo rinnegamento da parte dell'individuo della propria volontà personale, consistevano essenzialmente nelle idee espresse negli altri due punti: da una parte cioè nella rassegnazione dell'individuo a qualsiasi decisione divina (resignatio ad infernum), e dall'altra nella lotta continua (prope desperatio) di quest'ultimo contro il 'sé', ovvero contro l'egoità, la cui manifestazione risieeva appunto nelle tentazioni. Queste ultime, dunque, assumevano un significato non più soltanto carnale - ossia di semplice ostacolo al raggiungimento della santità -, diventando il segno della perdurante peccaminosità dell'uomo, e quindi della costante necessità di 'superarsi' o di trascendersi, per 'fare posto' a Dio. A proposito dell'importanza delle tentazioni nella vita spirituale del cristiano, Lutero diceva infatti, in un suo discorso a tavola del 1531: "se Dio odiasse i peccatori, non avrebbe certo mandato suo figlio per loro. Odia soltanto quelli che non vogliono essere giustificati, coloro che non vogliono essere peccatori. Tentazioni come queste [e le tentazioni in generale] ci giovano moltissimo e non sono, come sembrano, perdizione, ma insegnamento, ed ogni cristiano rifletterà che senza le tentazioni, non può conoscere Cristo. (...) Coloro che come noi provano tali tentazioni, devono abituarsi a sopportarle, perché questo è il vero cristianesimo. Se Satana non mi avesse tanto perseguitato, io non avrei saputo essere tanto nemico a lui, né (...) fargli tanto danno. (...)"18 Riguardo poi all'idea di passio (e a quella connessa del rinnegamento di sé), un tale aspetto della teologia dei Renani potrebbe essere visto anche come una prima formulazione del concetto luterano di humilitas. Quest'idea di passio (ovvero della totale passività dell'uomo coram Deo), che era largamente presente nella teologia renana, implicava che - per rinascere - l'uomo dovesse prima di tutto morire a se stesso: e non nel senso di un perfezionamento o di un pentimento, ma in quello più radicale di annullarsi totalmente. A testimonianza del legame tra Lutero ed i Renani, e in particolare Taulero, su quest'ultimo tema dell'essere salvati - ma, secondo Lutero, solo per opera di Dio - dal rinnegamento di se stessi, si può leggere lo scolio 229 del Commento a Rom., laddove egli dice: "come Dio solo è in se stesso veritiero, giusto e potente, così vuole essere anche fuori di sé, e dunque in noi, per venire glorificato. (...) Allo stesso modo Dio vuole che come l'uomo, al di fuori (cioè alla presenza di Dio), è bugiardo, ingiusto, debole, tale diventi anche dentro di sé, e quindi si confessi e si riconosca qual è davvero. Così Dio, con il suo uscire (diciamo così), ci fa entrare in noi stessi e mediante la conoscenza di sé ci comunica quella di noi stessi. Poiché se Dio per primo non uscisse per diventare veritiero in noi, noi non potremmo entrare in noi stessi e riconoscerci bugiardi e ingiusti."19 Era quindi secondo lui una decisione esclusivamente divina quella per cui l'uomo riceveva, attraverso il rinnegamento di se stesso, la conoscenza della propria natura e quella della giustizia di Dio. Tuttavia, tra i due punti di vista, sussisteva anche una profonda differenza. Nonostante infatti la presenza del tema dell'annullamento di sé nella visione di Taulero, quest'ultimo continuava (seguendo il classico discorso cattolico sulla Grazia) a confidare nella capacità umana di preparare l'azione divina in se stessi: cosa che ovviamente entrava nettamente in contrasto con la visione del riformatore, secondo il quale tale processo era dovuto esclusivamente alla Grazia divina. Scrive a riguardo il Faggin, che "Taulero è ben lontano dall'affermare l'assoluta passività umana di fronte a Dio; la nudità che egli esalta [quella dell'anima umile] dev'essere conquistata dall'uomo con un eroico distacco da tutto ciò che è personale e finito; il Gëmute [l'impulso naturale verso il Bene o verso Dio] deve trasformarsi da vago impulso in coscienza perfetta del fine."20 Come accadeva dunque anche nei confronti degli autori precedentemente considerati, la negazione radicale del libero arbitrio umano costituiva (pure nei confronti di Taulero) un elemento di separazione radicale! Passando al tema eckhartiano della resignatio ad infernum, ovvero della 'rassegnazione all'inferno' (nel caso che Dio così avesse deciso per l'anima), come manifestazione di una fede dell'individuo sincera e spassionata in Dio, anche quest'ultimo era un argomento che si ritrovava in Lutero. Sempre nel Commento a Rom. (9,3) infatti, si legge: "Sono le persone che si offrono di compiere la volontà di Dio tutta intera, fosse anche di andare all'inferno e alla morte eterna, purchè Dio lo voglia e il suo disegno si compia fino in fondo: loro davvero non cercano il proprio interesse. Bisogna dire però che, se si conformano con tanta purezza al volere di Dio, è impossibile che nell'inferno ci restino".21 A questo tipo di fedeli egli contrappone, poco dopo, coloro che invece "amano Dio per amore di concupiscenza, ovvero per la loro pace e per sfuggire all'inferno": coloro cioè che lo amano per i propri fini (partendo dall'idea che la carità debba essere ordinata, e che si debba partire da se stessi). Bisogna notare tuttavia che quest'ultimo tema finiva per assumere anche un risvolto differente all'interno del pensiero di Lutero. Secondo il suo discorso infatti, la salvezza era ottenuta essenzialmente attraverso la certezza della propria dannazione, e non attraverso la rassegnazione alla possibilità di essa. In ogni caso, l'apporto dato dal riformatore a questo concetto non fu di particolare rilevanza: entrambe le visioni, infatti, ponevano essenzialmente l'accento sull'accettazione della propria miseria - anziché sulla possibilità di trascenderla. Un ultimo elemento infine, che accomunava questi diversi indirizzi teologici, era la considerazione, come abbiamo già visto, dell'importanza delle tentazioni (prope desperatio) nella vita di fede. Mentre l'orientamento classico tendeva a mettere in secondo piano, nella vita di fede, la lotta dell'anima contro le tentazioni (e, di conseguenza, anche a soffermarsi maggiormente sull'aspetto successivo: l'ottenimento del perdono e la purificazione dal peccato), i mistici renani al contrario - soprattutto quelli più tardi - valorizzavano maggiormente il momento della ricerca attiva della purezza. Come scrive Giuseppe Faggin, parlando di Taulero: "l'al di là è [da lui] invocato ad integrare un'umanità non ancora satura di divino e a riconfermare l'infermità della nostra natura. Questo richiamo, in un misticismo come quello eckhartiano, tutto rivolto a esaltare l'autosufficienza della vita divinizzata, avrebbe l'aspetto di un semplice ossequio esteriore ad un dogma; non in Taulero o nella Teologia tedesca, ove il fondamentale teocentrismo dell'Eckhart perde un po' alla volta del suo luminoso ottimismo e accoglie in sé con sempre maggiore comprensione le istanze del male, del dolore, dell'errore, giungendo a proclamare la necessità e la divinità delle interiori angoscie del giusto."22 Il motivo della presenza costante del peccato, e quindi anche della vicinanza della disperazione, del dover essere cioè sempre in stato d'allerta nei confronti delle tentazioni (ovvero pronti a contrastarle), si fa così sempre più pressante come motivo teologico negli sviluppi del pensiero renano, soprattutto dopo Eckhart. E infatti da una concezione meramente unologica come quella di quest'ultimo, che implicava l'assorbimento dell'individuo nell'abisso della Deità (ovvero in quell'Uno assoluto, che precede le stesse Persone divine), seppure per il tramite di Cristo 23, si passò al contrario nella fase più avanzata del pensiero renano ad una maggiore attenzione verso il tema della lotta contro il peccato, ovvero contro le tentazioni sempre in agguato. Il nostro autore, inoltre, appariva molto più propenso a prendere atto della presenza di questo tema di prope desperatio, che non di quelle componenti di 'alta mistica' che pure permanevano nei pensatori tedeschi (nonostante, come si è visto, tali componenti avessero subito un notevole ridimensionamento negli autori più tardi). Ciò essenzialmente (come si è già mostrato in precedenza) a causa del tipo di lettura che ancora studente aveva fatto di questi autori: il contesto culturale scolastico in cui era avvenuta la sua formazione aveva infatti profondamente influenzato il suo approccio ad essi. Possiamo concludere questo discorso, con un giudizio dato da Lutero in merito ai propri predecessori ed ispiratori renani (ed in particolare all'Anonimo Francofortese). Al termine della prefazione del 1518 dell'edizione della Teologia tedesca, si legge infatti: " Troveremo così che i teologi tedeschi sono senza dubbio i teologi migliori. AMEN. " 1 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.42: "Erich Vogelsan ha distinto in base a un elenco di autori mistici (presumibilmente) noti a Lutero - Dionigi l'aeropagita, Ugo e Riccardo di San Vittore, Bernardo, Bonaventura, Gerson, Brigida di Svezia, Tauler, il 'Francofortese' - tra 'mistica aeropagitica', 'mistica romanica' e 'mistica tedesca'." 2 Su questo argomento del rapporto del riformatore con il pensiero di Agostino, si legga tutta l'introduzione di Giancarlo Pani a: M. Lutero, Lezioni sull'epistola ai Romani, ed. cit. 3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.47. 4 H. A. Oberman, op. cit., p.44. La versione latina recita: Namque sicut affirmativa de Deo est via imperfecta, tam intelligendo quam loquendo: ita negativa est perfectissima. Unde in Dionisio frequens verbum est 'Hyper', quia super omnem cogitatum oportet simpliciter in caliginem intrare. 5 Ivi, p.45: Versione latina: Hunc ductum theologi mystici vocant in tenebras ire, ascendere super ens et non ens. Verum nescio an seipsos intellegant, si id actibus elicitis tribuunt et non potius crucis, mortis infernique passiones significari credunt. Crux sola est nostra theologia. - Sul vivere in umbraculo, ovvero al riparo di Dio: cfr. H. A. Oberamn, op. cit., pag.44-47. 6 M. Lutero, Comm. ad Rom., ed. cit., p.228-229, scolio n.299. 7 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., p.330; cfr., inoltre, Franz Posset: 'Deificatio' in the German Spirituality of the Late Middle Ages and in Luther: An Ecumenical Historical Perspective, in: Archiv fur Reformationgeschichte, 1993, n.84, p.110. - Sugli influssi positivi dello Pseudo-Dionigi sul pensiero di Lutero, vedi invece H. A. Oberman, op. cit., pag. 43 ss. 8 Ivi, p.42. 9 Cfr. infra, p.80, n.1. 10 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.48. 11 Cfr. G. S. Tomlin, op. cit., p.32: "Towars the end of the work, he cites Bernard as an example of one who did exactly as he is reccomanding, namely allowing the passion to remind him of the effect of his sins upon Christ, and thus the judgment hanging over him." 12 Riguardo al discorso complessivo sull'influenza del pensiero di Bernardo su Lutero, cfr. G. S. Tomlin, op. cit., pag. 31-37, III: Luther and Bernard of Clairvaux. 13 Ivi, p.35: "The human soul is able to collaborate with God in this work (...)" 14 Cfr. H. A. Oberman, op.cit., p.52. 15 Cfr. G. Faggin, op. cit., p.293. - Per avere un'idea della natura speculativa del pensiero mistico di Meister Eckhart, si può leggere il volume di A. De Libera, Introduzione alla mistica renana, Milano, Jaka Book 1994, p.184, dove si parla della Pr 77: ""Io" [...] vuol dire che non esiste distinzione tra Dio e tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose; egli è rispetto ad esse più interno di quanto esse non lo siano a se stesse. Semplicemente "Io" significa prima di tutto per lui quello spazio che è più interno a Dio di quanto egli non lo sia a se stesso, quando l'Uno apparso nel supposito del Padre è messo in Immagine nel Verbo eterno. In altre parole in quanto nome dell'essere-Lui stesso, "Io" designa "la nuda purezza dell'Essere di Dio che è in se stesso". / "Io" è dunque per l'uomo la designazione di ciò verso cui deve andare, non solo 'spogliandosi' lui stesso di tutto, ma anche spogliando Dio di tutti i veli che lo ricoprono: divenire "Io" nella conversione è il solo scopo della conversione: "Tu devi totalmente staccarti dal tuo essere-tu e fonderti nel suo essere-Lui (...) così da poter tu comprendere eternamente con Lui il suo essere originario increato e il suo nulla senza nome". Il fine della mistica eckhartiana era, dunque, una conversione totale dell''io' soggettivo nell''Io' Assoluto, ovvero nella stessa Deità (cioè in quello spazio che "è più interno a Dio di quanto egli [Dio] non lo sia a se stesso (...)", ovvero più interiore della sua stessa natura trinitaria.) 16 G. Faggin, op. cit., p.293. - Le idee fondamentali della teologia di Eckhart erano: a) l'idea della 'scintilla' dell'anima o vunkelin (versione eckhartiana della 'sinderesi' di Alberto Magno), ossia il luogo dell'anima "ove Dio vive solo" e attraverso cui l'uomo, vivendo in se stesso può "ritornare ad essere l'immagine [di Dio] e così perdersi nella Deità" (A. De Libera, op. cit., p.192); b) l'idea della lotta del cristiano (homo viator) per il raggiungimento della perfezione e per la conversione attraverso il Cristo. ("Fissandosi in se stesso, l'uomo esteriore [corpo e anima] fa dunque uscire l'uomo interiore [lo spirito] dal Fondo dell'Unità, lo obbliga a estrinsecarsi nel pensiero esteriore, costringe l''Io' [Dio] a dichiararsi nella finzione dell''io' [l'individualità empirica]. (...) L'anima e il corpo devono rendersi perfetti nell'essere personale di Cristo, esso stesso uno di sostanza con l'essere sostanziale della Deità, perché è tramite Cristo che lo spirito può fissarsi in Dio": A. De Libera, op. cit., p.198). Questi temi: la conversione e la 'sinderesi' (che in Taulero si chiama Gëmute), rimangono invariati nello sviluppo del pensiero dei discepoli eckhartiani. Un cambiamento, invece, avviene sul piano della concezione dell'esperienza mistica. Per Eckhart quest'ultima è "ontologica e non psicologica o, a fortiori, affettiva. Essa non è ad alcun livello radicata in una teoria del soggetto." In altri termini, l'esperienza mistica non è vista come interna al soggetto (e quindi di natura affettiva), ma è oltre il soggetto stesso - poiché con essa questo si annulla completamente: "L'Immagine [ovvero l'anima come Immagine della Deità] si scopre come Immagine, l'anima non vive più della sua propria vita, essa è tutt'intera nascosta nel suo essere Immagine": ciò significa che non è Dio ad essere nell'anima, poichè "nell'unione è Dio stesso che trova in se stesso il luogo della sua operazione sull'anima" (De Libera, op. cit., pp.186-191). Quest'ultimo aspetto, oggettivo, che comporta la "conversione all'interiorità transpersonale dell'Essere" (De Libera, p.184), verrà attenuato - come si vedrà più avanti - nella visione dei suoi discepoli, i quali rafforzeranno le componenti affettive e carnali del discorso eckhartiano, ponendo in secondo piano (ma non eliminando) quelle più alte. 17 Anonimo Francofortese, Libretto della vita perfetta, Roma, Newton-Compton 1994, pp.25-26. 18 Martin Lutero, Discorsi a tavola, ed. cit., pp.34-35. 19 M. Lutero, Commento all'epistola ai Romani, ed. cit., p.158. 20 G. Faggin, op. cit., p.306. 21 M. Lutero, Commento a Rom., ed. cit., p.137. 22 G. Faggin, op. cit., p.305. 23 Cfr. Alain De Libera, Introduzione alla mistica renana, ed. cit.: si veda il capitolo su Meister Eckhart, in particolare a p.194: "Questa scintilla rifiuta tutte le creature e non vuole se non Dio nella sua nudità, qual è in se stesso. Non le bastano (...) le tre Persone nella misura in cui restano nella loro singolarità." IV. POLITICA ED ECCLESIOLOGIA NELLA TEOLOGIA DI LUTERO 1) Dipendenza del discorso politico dal discorso teologico Come si è mostrato precedentemente, Lutero cominciò a sviluppare un proprio personale pensiero nel periodo dell'insegnamento presso l'università di Wittenberg (che iniziò nel 1509): quello cioè immediatamente successivo alla fase conventuale all'interno dell'Ordine degli eremitani di S. Agostino (nel quale egli era entrato nel 1505). Le sue prime ricerche intorno ai testi biblici si collocarono infatti, per quanto riguarda il primo ciclo di commenti ai Salmi, negli anni dal 1513 al 1515; mentre nel periodo immediatamente successivo, cioè tra il 1515 ed il 1516, egli portò a termine la sua fondamentale elaborazione del commento dell'Epistola ai Romani di S. Paolo. Fu attraverso tale elaborazione che, secondo molti studiosi, Lutero pose le basi stesse della propria visione teologica: sono in molti difatti a considerare un tale commento come il primo documento della Riforma. (E anche se una tale affermazione non è immune da critiche, è comunque un fatto accertato che quest'opera costituì un momento essenziale nella formazione della sua visione cristiana). Dopo una tale elaborazione, iniziò l'impresa politica. Fu nell'anno successivo (il 1517) che si collocò l'affissione delle 95 tesi, ovvero di quello che fu il suo primo attacco esplicito contro le istituzioni e le pratiche della Chiesa cattolica, nonché l'atto d'inizio a livello politico della stessa Riforma protestante. Appare chiaro, già da questi brevi cenni storici, come anche gli aspetti più propriamente politici o d''azione' della vicenda del riformatore, discendessero più o meno direttamente dai motivi che animavano il suo pensiero teologico. (Come si può capire dal fatto che l'affissione delle tesi fu dovuta proprio alla scoperta di tali motivi: fu in base ad essi infatti che egli ritenne doveroso l'attacco contro l'istituzione di Roma).1 Per tale ragione, la reale portata delle idee politiche di Lutero non può essere compresa veramente senza analizzarne il legame con i concetti di natura più propriamente teologica. Si intende, in questo capitolo, affrontare l'analisi degli aspetti principali della visione sociale di Lutero alla luce della loro relazione con il valore cristiano dell'humilitas. 1 Come conferma della tesi della derivazione delle idee politiche di Lutero da quelle teologiche, cfr. Kurt-Victor Selge: La Chiesa in Lutero, p.15 (in AA.VV.: Martin Lutero, Milano, Vita e Pensiero 1984), dove si legge: "La rottura col sistema papale è stata in un certo senso una conseguenza del contenuto positivo del messaggio cristiano di Lutero. Non si può dire seriamente che il 'no' di Lutero non sia stato contenuto almeno implicitamente, come possibilità di sviluppo, già nel suo messaggio positivo così come egli lo aveva esposto fino agli anni 1517 e 1518." 2) Visione politica del riformatore Per inquadrare le radici della visione politica ed ecclesiologica di Lutero, è indispensabile mostrare come essa fosse l'applicazione, in sede pratica e civile, delle idee già analizzate nei capitoli precedenti sulla relazione tra Dio ed uomo. Se difatti tali idee delineavano un rapporto essenzialmente negativo tra le due dimensioni - quella immanente e quella trascendente - logica conseguenza ne era il fatto che l'uomo (tanto a livello individuale, quanto a livello collettivo) non potesse aspirare in questa esistenza ad un'elevazione o ad uno stato di vicinanza a Dio. Questo discorso inoltre - come si intende mostrare qui di seguito - non era privo di implicazioni anche ad altri livelli, dal momento che comportava una revisione radicale delle idee politiche più diffuse all'interno delle correnti scolastiche medievali. Secondo l'impostazione scolastica più 'classica' (si pensi, ad esempio, alle teorie politiche di Tommaso d'Aquino) il tessuto sociale era diviso secondo una rigida gerarchia, all'interno della quale l'importanza di ciascuna classe dipendeva fondamentalmente dal suo grado di prossimità al principio divino (principio dal quale derivava, come noto, l'antico conflitto tra il papa e l'imperatore): maggiore era la vicinanza a Dio, maggiore era l'importanza del ceto in questione rispetto agli altri, e quindi anche il diritto politico che godeva su di essi. Nella visione delineata invece da Lutero - e, successivamente, anche dagli altri riformatori -, non essendo possibile in alcun modo (come si è visto) postulare l'esistenza di una 'scala umana' verso il cielo, e quindi di differenti gradi di prossimità a Dio, l'intera comunità civile era riportata ad un unico livello: cioè al livello terreno. La società degli uomini era perciò una realtà di per sé conclusa, avente in se stessa il proprio principio e il proprio fine, non tendente verso alcuna realtà trascendente. In questo senso essa veniva interpretata dal riformatore secondo una concezione che possiamo definire 'organicistica': era vista cioè come un organismo o un corpo dotato di una propria struttura e di un proprio funzionamento interni, quindi di una vita autonoma. Ciò è dimostrato chiaramente dal seguente passo, tratto dall'Appello alla nobiltà tedesca del 1520, nel quale si legge: "Cristo non ha due corpi né due specie di corpi, l'uno secolare e l'altro religioso. Proprio come [all'interno della comunità umana] (...) preti, vescovi o papi, non si distinguono dagli altri cristiani per altezza o dignità, ma per essere deputati per amministrare la parola di Dio ed i sacramenti (...), così come l'autorità secolare ha in mano la spada e le verghe, onde punire i malvagi e proteggere i buoni." Il discorso sociale di Lutero quindi, si fondava sull'idea secondo cui la comunità di Cristo fosse il "corpo di Cristo stesso", e che "ciascuno dovesse essere utile e servire agli altri con l'opera sua e il mestiere, sì che insomma tante opere diverse tutte concorressero ad un unico fine (...); giusto come avviene delle membra del corpo, dove ciascuna è d'aiuto alle altre."1 Lutero, inoltre, riprendeva all'interno dei suoi scritti la classica visione tripartita medievale, secondo la quale la società si divideva in tre classi distinte: gli orantes (il clero), i milites (i soldati, con funzione difensiva) ed infine i laborantes (la manodopera). Si legge infatti, sempre nell'Appello alla nobiltà tedesca, che "l'autorità secolare è tenuta a difendere le leggi e a proteggere gli innocenti, come si legge in San Paolo (...). Ecco perché al papa e ai suoi si dice: Tu ora; all'imperatore e ai suoi: Tu protege; e ai comuni mortali infine: Tu labora; intendendo non già che spetti a ciascuno pregare proteggere e lavorare, perché se uno esercita il proprio ufficio ciò è già tutta preghiera, protezione e lavoro; tuttavia ciascuno ha il suo compito specifico." 2 Tuttavia in tali scritti emergeva anche, nei confronti delle concezioni più propriamente medievali, un elemento di novità: se infatti il ruolo dei laborantes nella società (in quanto lavoratori semplici) rimaneva per forza di cose invariato, al contrario quello delle altre due classi veniva in un certo senso invertito. Nella teoria scolastica infatti, la casta militare assolveva il ruolo di semplice 'braccio armato' del clero (e la società era dominata - quanto meno teoricamente - dall'autorità morale della Chiesa, alla quale di diritto spettava sempre l'ultima parola in fatto di decisioni). Tutt'al contrario, nella concezione politica di Lutero, era proprio l'autorità civile e militare a dover assumere l'onere - ma anche e soprattutto il privilegio - di comandare sul resto della società. Come si è già letto a proposito dell'unità dei cristiani nel corpo di Cristo, Lutero sosteneva infatti che: "proprio come coloro che sono chiamati ecclesiastici, sarebbe a dire preti, vescovi o papi, non si distinguono dagli altri cristiani per altezza o per dignità, ma per essere deputati ad amministrare la parola di Dio ed i sacramenti, e questo è il loro compito, così l'autorità secolare ha in mano la spada e le verghe, onde con esse punire i malvagi e proteggere i buoni", mente "un fabbro, un calzolaio o un contadino, (...) ha il compito ed il mestiere della sua corporazione (...)"; e proseguiva poi coll'asserire che, per logica conseguenza, "essendo l'autorità terrena preordinata da Dio per proteggere i buoni e punire i malvagi, si deve lasciare che l'opera sua penetri indisturbata in tutto il corpo della Cristianità, senza guardare in faccia a nessuno, sia esso papa, vescovo, prete, monaco, monaca o quello che si vuole". 3 In questa concezione dunque, il ruolo di autorità prevalente all'interno dello Stato spettava al principe - anziché al clero, al vescovo o al papa. Un secondo aspetto proprio della visione politica del riformatore, consisteva poi nell'idea secondo cui, in quanto espressione diretta della stessa volontà divina, l'assetto dello Stato (con la sua strutturata tripartita, nella quale alla classe militare spettava il compito di mantenere l'ordine sociale) dovesse quasi sempre essere mantenuto per quello che era, contro ogni tentativo di sovvertimento da parte di qualsiasi soggetto sociale. Nella sua visione, insomma, lo status quo sul piano politico doveva venire considerato, quale che esso fosse, come l'espressione della volontà trascendente di Dio, e in quanto tale essere anche rispettato e mantenuto. Sebbene infatti Lutero riconoscesse a tutte le classi che componevano la comunità civile il diritto di protestare contro le ingiustizie subite dal potere secolare (ragione per cui egli aveva inizialmente riconosciuto la giustezza delle richieste dei contadini, prima che queste sfociassero negli anni venti nella violenza esplicita), ciò nonostante non riconosceva loro il diritto di turbare con la sedizione l'ordine sociale. Non era lecito in altri termini, da parte delle classi inferiori, imporre con la forza le proprie motivazioni a quelle superiori. Le prime potevano soltanto tentare di cambiare la volontà delle seconde, rispettandone tuttavia le decisioni. Quest'ultimo principio, che trovava il proprio fondamento in un'esigenza molto forte di stabilità e di ordine sociale, comportava che tale ordine dovesse essere - quasi sempre - mantenuto e rispettato per se stesso, e mai essere alterato con la forza e la violenza. L'unica possibilità di trasgredire a un tale obbligo di sottomissione risiedeva nel mancato rispetto, da parte della più alta autorità civile - come (ovviamente) da parte di qualsiasi altra - nei confronti della Verità rivelata e della fede cristiana. Se difatti secondo tale visione, di tipo rigidamente gerarchico, spettava al principe (in quanto autorità preposta dal Signore alla difesa dell'ordine) il diritto di pronunciare l'ultima parola sulle pene da infliggere ai sudditi, tuttavia, per le medesime ragioni, nemmeno a quest'ultimo era consentito di andare contro l'autorità della Scrittura. Solo un atto di trasgressione di questa portata quindi, avrebbe potuto giustificare (ed anzi avrebbe richiesto) una reazione della società nel suo complesso contro l'autorità del principe, ovvero il diritto di una 'sedizione'. Si legge infatti a questo proposto, nello scritto Sull'Autorità secolare, che i prìncipi sono "carcerieri e carnefici di Dio; e la sua collera li impiega per castigare i malvagi e mantenere una pace esteriore", e che "piace alla sua [di Dio] volontà che appelliamo 'Graziosi signori' quei carnefici, che cadiamo ai loro piedi e che siamo loro soggetti con ogni umiltà, ma solo finché non vanno troppo oltre il loro mestiere, sì da voler essere pastori piuttosto che carnefici." 4 Tuttavia, nonostante questo fortissimo senso dell'ordine sociale e la conseguente chiusura di fondo del suo pensiero (per altro mitigata, in alcuni documenti posteriori, da affermazioni di segno opposto 5), il discorso politico espresso da Lutero nei testi ai quali si fa qui riferimento (cioè quelli scritti tra il 1520 ed il 1525) aveva anche implicazioni che potremmo definire più 'moderne'. Secondo tale visione infatti (improntata, come s'è visto, all'idea di un rispetto quasi assoluto per l'autorità civile), dal momento che la società umana era un organismo di per sé concluso - ossia un 'corpo' - le cui parti per poter esistere dovevano interagire tra loro, alla base di essa si doveva porre un principio di uguaglianza secondo cui ciascuna classe aveva il compito di assolvere una propria specifica missione, non godendo perciò di alcun diritto 'intrinseco' che la ponesse al di sopra delle altre. La sua concezione conteneva dunque, in questo senso, anche elementi di modernità, dal momento che poneva tutte le componenti su un identico piano: cioè come aventi tutte - almeno da questo particolare punto di vista - pari diritti e pari doveri. Un altro aspetto su cui pare opportuno soffermarsi, è che la visione teologica di Lutero (la quale stava alla base della sua visione politica) non comportasse, pur essendo caratterizzata da un'impostazione fortemente teocentrica, un'interpretazione di tipo teocratico del potere civile, finendo piuttosto per favorire la formazione di organismi politici di tipo statalistico e laico. La visione luterana della Chiesa e della sua vera natura (fondata sui testi biblici, e sul periodo cristiano delle origini) lo rendeva difatti contrario all'idea di conferirle qualsivoglia potere di tipo politico: ciò perché egli la intendeva - come si vedrà - essenzialmente come un'entità puramente spirituale. 1 Martin Lutero, Scritti politici, Torino, U.T.E.T. 1949, p.133. 2 Ivi, p.162. 3 Ivi, pp.133-134. 4 Ivi, p.426. 5 Cfr. Martin Lutero, Discorsi a tavola, ed. cit., p.99: 679-5 (1531-1535), dove si legge: "le leggi sono superiori al tiranno, perciò si è tenuti più alle leggi che al tiranno." 3) Il rapporto tra lo Stato e la Chiesa: L'opinione di Lutero in merito al rapporto tra lo Stato e la Chiesa non rimase - come molti sanno - identica nel corso del tempo. Tuttavia si può dire anche che Lutero avesse, riguardo a quest'argomento, posto già nel primo periodo della propria attività (e più precisamente nei primi anni del terzo decennio), alcuni concetti che sarebbero rimasti virtualmente immutati nel corso di tutta la sua vita. Il rapporto tra Stato e Chiesa, all'interno del suo pensiero e della sua opera, può quindi essere affrontato da due differenti punti di vista: uno più storico, ed un altro invece più propriamente 'teorico'. Nel presente capitolo ci si propone di approfondire soprattutto questo secondo aspetto (e ciò dal momento che si vuole analizzare la derivazione delle idee sociali e politiche da quelle teologiche). In esso passeranno quindi in secondo piano i molteplici fattori, contingenti e pratici, che determinarono alcuni 'assestamenti' in tale visione - anche se è sembrato necessario non escludere del tutto neanche questi ultimi. La concezione politica di Lutero trovava il proprio fondamento dottrinale nell'idea, espressa con molta chiarezza nello scritto Sulla libertà del cristiano, secondo cui se da un lato "il cristiano è un libero signore sopra a tutte le cose e non soggetto a nessuno", dall'altro però egli "è anche servo di tutte le cose e soggetto ad ognuno". Ciò in quanto "ha una duplice natura: spirituale e corporale", ragion per cui mentre "secondo lo spirito è chiamato uomo spirituale, nuovo ed interiore; secondo la carne ed il sangue [è chiamato] uomo corporale, antico ed esteriore." 1 Nonostante, secondo il riformatore, il cristiano attraverso la fede fosse libero nello spirito, rimaneva tuttavia anche - in quanto creatura terrena - prigioniero della carne: e ciò comportava la coesistenza nella sua persona di una componente assolutamente libera e non soggetta ad alcuna legge, e di un'altra ancora schiava del peccato, da sottomettere e guidare perciò attraverso la spada del potere temporale. A una tale dualità corrispondevano, nella società, due opposti istituti: l'uno appunto di natura spirituale, l'altro di natura materiale e fisica. Tali istituti corrispondevano ovviamente alla Chiesa e allo Stato. E dal momento che queste due entità corrispondevano a opposte realtà, presenti entrambe nella natura umana - anche se non comunicanti, proprio per il fatto di essere radicalmente differenti -, tali entità finivano per guadagnare l'una rispetto all'altra un'indipendenza pressoché assoluta. Il rapporto che il riformatore poneva tra loro, allora, era prima di tutto un rapporto di reciproca autonomia: Stato e Chiesa si differenziavano a suo avviso sia per scopi, sia per intima natura. E l'azione specifica di ciascuno dei due istituti doveva avvenire indipendentemente da quella dell'altro. L'unica possibilità di interazione tra di essi risiedeva in un controllo e in una possibile correzione reciproca: e ciò nel caso che l'uno dei due travalicasse i limiti strutturali della propria azione. Vi era però un altro problema che restava irrisolto nel rapporto tra i due istituti. Esso consisteva nella difficoltà di stabilire il modo in cui, all'interno di una coscienza realmente cristiana (e non tale soltanto in virtù dell'appartenenza a un certo ambito religioso e culturale), la sottomissione all'autorità della Chiesa potesse coesistere con quella allo Stato. Nel trattato del 1523, Sull'autorità secolare, in cui veniva approfondito quest'ultimo problema, Lutero si soffermava innanzitutto sulla risposta che a tale difficoltà avevano dato i teologi cattolici, visti come i sostenitori della tesi secondo cui la morale cristiana costringesse all'assoluta non violenza soltanto coloro che aspiravano alla santità vera e propria, ma concedesse una condotta più libera a coloro che si accontentavano di vivere un'esistenza retta: ovvero di essere molto più semplicemente dei 'buoni cristiani'. Due differenti gradi di approssimazione alla santità, quindi, allo scopo di conciliare tra loro due tipi di affermazioni contrarie (seppure entrambe presenti nel Vangelo) come ad esempio quella di Paolo (Rom. XIII): "Sia ciascuno sottoposto all'autorità [secolare] (...) poiché non vi è autorità se non posta da Dio", e quella, di natura del tutto opposta, che suonava come: "non contrastate ai mali; anzi se qualcuno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra" (Matth. V, 38). Il problema era insomma per Lutero quello di definire il modo in cui potessero coesistere, nella dottrina e nella condotta dei cristiani, due atteggiamenti così radicalmente opposti tra loro: l'uno versato alla pace, e l'altro che invece non rifiutava la possibilità della guerra. La soluzione 'conciliante' che si è appena vista, e che si basava essenzialmente sull'idea che quello della non violenza dovesse essere inteso più come un 'suggerimento' che come un ordine divino, non soddisfaceva Lutero per una ragione essenziale: cioè che Cristo, secondo lui, aveva "imposto la sua dottrina [della non violenza] con tanta fermezza da non tollerare che essa venisse trasgredita neppure in una sillaba," e che quindi aveva "condannato all'inferno quanti non amano i loro nemici" 2. Era perciò necessario fornire una spiegazione differente del problema, dal momento che "la parola di Cristo è comune a tutti, perfetti e non perfetti." 3 Per comprendere la risposta che a un tale problema dava il riformatore, è indispensabile - di nuovo - rifarsi alla sua antropologia dualistica, basata su una rigida separazione tra l'anima e il corpo: cioè tra la dimensione antropologica della libertà e quella della necessità. Come nel singolo uomo secondo lui convivevano due opposte nature (l'una spirituale e l'altra carnale), nella società umana dovevano coesistere di conseguenza due opposte morali: quella dello spirito (che implicava la più assoluta libertà interiore), e quella del corpo (che implicava invece la sottomissione dell'individuo all'autorità civile). Le opposte nature di questi due tipi di morale parevano così contrarie tra loro, da rendere del tutto impossibile la coesistenza in un unico individuo. Per risolvere questo apparente conflitto, era necessario dimostrare da una parte che e come il vero cristiano poteva esercitare violenza su altri uomini rimanendo ciò nonostante cristiano, e dall'altra mostrare la necessità delle leggi e della sottomissione (anche violenta) ad esse di tutti gli individui componenti lo Stato. Soffermiamoci dapprima sul secondo di questi problemi, ovvero su quello inerente la necessità stessa della legge. Lutero affermava, sulla scorta soprattutto di S. Paolo, che la legge non era tanto la fonte della giustizia, quanto piuttosto un 'baluardo' o una barriera contro il peccato, un mezzo utile sia per acquisire consapevolezza di esso, sia per reprimerlo. In questa seconda accezione, era necessario secondo lui che le leggi venissero prese in considerazione dall'autorità secolare: quest'ultima infatti doveva trovare in esse essenzialmente un mezzo di repressione dell'ingiustizia, non certo un 'lievito' per la giustizia. A questo proposito il riformatore citava appunto S. Paolo, quando questi ad esempio diceva: "Non al giusto è posta la legge, sibbene all'ingiusto" (Tim. I, 9), e commentava così: "così Paolo interpreta la spada temporale, e dice che non è di terrore alle buone opere, ma alle malvagie". Egli basava quest'ultima affermazione essenzialmente sulla constatazione che "se uno volesse reggere il mondo secondo il Vangelo e abolire il diritto e la spada secolare, sostenendo che, essendo tutti nel mondo battezzati e cristiani, tra i quali il Vangelo non vuole né legge né spada, tutto ciò non è necessario, (...) scioglierebbe lacci e catene alle bestie feroci, cosicché potrebbero sbranare e dilaniare chiunque. (...) I malvagi, sotto nome di cristiani, abuserebbero della libertà evangelica per esercitare la loro impurità." 4 La necessità della spada temporale risiedeva quindi nella caduta dell'uomo attraverso Adamo nel peccato, e nell'irredimibilità di quest'ultimo. L'altro problema teologico a cui si doveva dare soluzione, era quello di dimostrare come quei due precetti divini espressi più volte nel Vangelo (l'uno a favore della pace, e l'altro a favore dell'obbedienza al potere temporale e quindi implicitamente anche della lotta armata e della violenza), non fossero tra loro in contraddizione. Lutero sottolineava come Cristo non avesse mai portato la spada e non ne avesse istituita alcuna nel suo regno ("perché egli è il re dei cristiani e, senza bisogno di leggi, regna solo per mezzo dello Spirito Santo" 5), ma ciò non lo induceva ad asserire che i cristiani, in quanto appartenenti a questo regno, non dovessero assolutamente usare le armi. Nonostante la legge fosse per essi una cosa del tutto superflua (come si può leggere ad esempio nel trattato sull'autorità secolare: "gente così non ha bisogno né del diritto, né della spada", e "se tutti nel mondo fossero veri cristiani e veri credenti, allora non sarebbero più necessari principi, re, signori, spada, né diritto" 6), tuttavia in certi casi era dovere degli stessi cristiani, anche se solo su ordine del principe, di impugnare le armi. E la ragione di ciò stava nel fatto che "dal momento che un vero cristiano è sopra la terra non per se stesso, ma per il prossimo suo e lo serve per una disposizione del suo spirito, egli compie anche ciò di cui non ha bisogno, ma che è necessario ed utile al prossimo suo", infatti "la spada è una necessità molto utile in tutto il mondo", ragione per cui "il vero cristiano si sottomette al reggimento di essa, protegge ed onora l'autorità, (...) compie tutto quello che può e che l'autorità esige, affinché sia mantenuta la pace." 7 Il vero cristiano, insomma, non doveva esimersi dalla guerra secondo Lutero soltanto per amore degli altri - non ovviamente per amore della violenza. Infatti, se egli avesse scelto la via della diserzione, questi ultimi avrebbero potuto trovare nel suo comportamento un pretesto per disubbidire all'autorità secolare ("(...) anche loro non vorrebbero più tollerare alcuna autorità, sebbene non cristiani"). 7 Cristo, se ne doveva concludere, non era contrario a che i veri cristiani lottassero con la spada: essi infatti dovevano agire in modo da non aver bisogno della forza, ma non dovevano ritrarsi qualora essa avesse avuto bisogno di loro. ("Cristo non dice: Tu non devi servire né essere soggetto all'autorità, bensì: 'Non contrastare al male', come se dicesse: Vivi in modo da soffrire ogni cosa, affinché non tu abbia bisogno della forza che ti aiuti o serva e ti sia d'utile o di giovamento, ma al contrario sii tu ad aiutarla e proteggerla, tu ad esserle d'utile e giovamento. Io voglio che tu sia assai più alto e nobile che non saresti se avessi bisogno della forza; invece deve essa avere bisogno di te." 8) A partire dal discorso che si è fatto, è ormai chiaro come per il riformatore il compito della Chiesa fosse quello di predicare e diffondere la parola di Cristo, mentre compito dell'autorità secolare fosse quello di vigilare sulla condotta dei componenti della società terrena. Il ruolo della prima era così (quantomeno in primo luogo) quello di ammaestrare le anime, mentre quello della seconda era di sorvegliare i corpi: la loro indipendenza reciproca era perciò in tale modo nettamente segnata, contro ogni pretesa d'influenza dell'uno sull'altro (quale quella del papa sull'imperatore). La visione luterana del rapporto tra Stato e Chiesa si poneva quindi come un baluardo alla conflittualità tra i due poteri. Si può dire inoltre che il conflitto tra questi due istituti, venisse risolto da Lutero togliendo qualsiasi potere politico e mondano al secondo, e che egli giustificasse tale scelta col fatto che "il reggimento dei preti non è né autorità né potestà, ma è un servizio ed un ufficio", e che essi "non sono superiori o migliori degli altri cristiani, e perciò non possono imporre alcuna legge", dal momento che "il loro reggimento non è che esercitare la Parola di Dio per guidare i cristiani e sopraffare l'eresia". 9 Da questa posizione (pur se molto generale e teorica) si può dire che Lutero non si allontanò mai, anche se non bisogna dimenticare - come già si accennava all'inizio di questo paragrafo - che essa venne integrata, nel corso della vicenda successiva agli anni tra il 1520 ed 1523 (quelli cioè in cui videro la luce gli scritti politici qui analizzati), da atteggiamenti e da scelte che ne specificarono la modalità di attuazione, sviluppandola in favore dell'autorità e del potere dello Stato e a scapito dell'indipendenza stessa della Chiesa. I fatti che spinsero il riformatore in una tale direzione furono quelli che videro il sorgere di alcuni movimenti rivoluzionari, che trovavano nella sua figura un modello di riferimento, dichiarandosi 'prosecutori' della sua stessa riforma religiosa. 10 Come noto, il riformatore misconobbe e combatté tali movimenti che, oltre a fare della sedizione uno strumento per l'imposizione delle loro ragioni, erano colpevoli secondo lui di voler realizzare già in questa vita una libertà che poteva essere propria soltanto dello spirito ormai distaccato dal corpo e dalla condizione carnale. 11 Se difatti anche nello scritto citato Sull'autorità secolare del 1523, egli aveva sostenuto la supremazia sociale del potere civile e militare (pur senza dimenticare di sottolinearne le mancanze e i soprusi: definendo ad esempio i nobili tedeschi "rozzi bestioni" che non vogliono riconoscere di "non avere alcuna potestà sulle anime" 12), negli scritti posteriori invece, in conseguenza delle sedizioni dei contadini, Lutero finì per schierarsi 'anima e corpo' contro questi ultimi ed in favore dei primi. Molti storici del XX secolo parlano perciò, di un ripiegamento di Lutero su posizioni conservatrici dal 1525 in poi - ripiegamento dovuto alle ferite che gli furono inferte dall'esperienza della sedizione contadina, e a un conseguente allentamento in lui della tensione rivoluzionaria. 13 E' difatti accertato che, a partire da quegli anni, si ebbe un lento consolidamento della Chiesa luterana (attraverso l'appoggio dell'autorità dei principi territoriali tedeschi, che avevano aderito alla riforma) in qualità di istituzione pubblica e quasi 'statale' - oltre che in opposizione alle altre Chiese riformate, che si andavano sviluppando con grande velocità soprattutto nell'Europa nord orientale, e in opposizione ai moti dei cosiddetti 'dissenzienti' (come ad esempio gli anabattisti di Muntzer, e le comunità guidate da Carlostadio). 14 1 Martin Lutero, Scritti politici, ed. cit., p.367. 2 Ivi, p.401. 3 Ibidem. 4 Ivi, p.404. 5 Ivi, p.406. 6 Ivi, p.401. 7 Ivi, p.407. 8 Ivi, p.408. 9 Ivi, p.430. 10 Alcuni studi degli ultimi anni, inoltre, sottolineano come il richiamo a Lutero non fosse l'unico (e forse nemmeno il più profondo) motivo che stava alla base di tali rivoluzioni. H. A. Oberman, ad esempio, nel suo saggio sulla Riforma protestante, sottolinea come tali sommovimenti fossero soprattutto il prodotto di rivoluzioni sociali attuate, in quegli stessi anni, nel contesto delle città: come cioè esse fossero un tentativo (a suo avviso impossibile) di estendere le libertà comunali anche alle campagne. - Cfr. H. A. Oberman: La Riforma protestante da Lutero a Calvino, ed. cit., p.153 ss. 11 Cfr. Alberto Bellini: Chiesa e Mondo in Lutero: la dottrina dei due regni (in AAVV, Martin Lutero, ed. cit.) a pag. 63-64; dove si legge: "Ora i due regni, ossia il regno del mondo e della grazia, per Lutero sono due modi in cui Dio regna: egli regna con la sua grazia, ma regna anche nel regno del mondo e della legge (...). In questo regno del mondo Dio regna, ma non sotto forma dell'amore, ma sotto la forma della legge, della collera e del giudizio, (...) questi due mondi per Lutero non si mischiano tra loro ma nemmeno si oppongono, perché in ambedue regna Dio (...)." 12 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., pag. 420. 13 Cfr. (ad esempio) Lucien Febvre, Martin Lutero, Roma-Bari, Laterza 1969; vedi p.239 ss. 14 Sul problema del rapporto tra Lutero e i 'dissenzienti' (antinomi e sacramentari), si legga: F. De Michelis Pintacuda, Onnipotenza divina e libertà umana in Lutero: la salvezza e l'etica, in: Potentia Dei: l'onnipotenza divina nel pensiero dei secoli 16. e 17., a cura di Guido Canziani, Miguel A. Granada, Yvez Charles Zarka, Milano, F. Angeli 2000, pp.56-62. L'autrice vi sottolinea che, mentre nel primo periodo dell'azione del riformatore (che terminò all'incirca nel 1525) il fine precipuo era stato di riaffermare l'onnipotenza divina (si pensi ad esempio al Servo arbitrio), in quello successivo - nel quale le istanze ecclesiastico-organizzative erano divenute sempre più pressanti - Lutero si era dedicato soprattutto alla fondazione di una salda concezione etica, riaffermando l'importanza del rispetto delle leggi e dello Stato: in quanto manifestazioni della volontà di Dio. Tale riaffermazione, infatti, si era resa necessaria per contrastare a livello dottrinale l'azione dei suoi nuovi avversari. L'autrice sostiene che, per affrontare questo secondo dibattito, Lutero 'rispolverò' l'antica distinzione scolastica tra la potentia absoluta (inerente per lui solo alla salvezza) e la potentia ordinata (inerente invece all'etica, ovvero all'ordine mondano) in Dio. Fu in questo periodo più tardo che si svolse, tra l'altro, il dibattito contro Muntzer e Carlostadio. 4) L'idea di Chiesa di Lutero: Il pensiero ecclesiologico di Martin Lutero si basava in gran parte sull'idea (oggetto dei precedenti capitoli) della dipendenza assoluta dell'uomo da Dio, soprattutto per quanto concerne il problema della salvezza personale. I concetti fondamentali di questo particolare ambito del suo pensiero, inoltre, dipendevano strettamente - come si mostrerà qui avanti - sia dai temi interioristici della fede e della predestinazione, sia per un altro verso dalle idee riguardanti l'organizzazione della società umana. a) la Chiesa invisibile: Secondo il pensiero di Lutero infatti, la Chiesa era prima di tutto una realtà spirituale, e quindi assolutamente immateriale: un "corpo mistico", anziché un istituto di natura sociale (quale era invece la Chiesa cattolica). Ciò era vero, secondo il suo punto di vista, per il fatto che soltanto Dio poteva dispensare la salvezza agli uomini: la Chiesa quindi - come espressione di quella grazia divina che l'uomo poteva soltanto ricevere - doveva essere una realtà del tutto interiore e spirituale, e in nessun modo legata agli aspetti concreti ed attivi dell'esistenza umana. La base di una tale visione ecclesiologica risiedeva innanzitutto nell'idea del rigido dualismo sussistente tra l'anima e il corpo: ovvero nell'idea secondo cui queste due dimensioni fossero rigidamente separate e non comunicanti tra loro (se non nella misura in cui il corpo 'corrompeva' l'anima, già deviata peraltro dall'eredità del peccato originale). In conseguenza di queste idee, Lutero intendeva la Chiesa soltanto come il "corpo di Cristo sulla terra": cioè come la "comunità spirituale" dei predestinati. Nel Servo Arbitrio, egli scriveva ad esempio che "la Chiesa è retta dallo Spirito di Dio", e che "Cristo resta con la sua Chiesa fino alla fine del mondo", distinguendo quella vera e spirituale che non poteva errare, dall'altra (carnale e terrena) che invece cadeva spesso in errore. Nello stesso testo, e poco più avanti, si legge come la Chiesa "sia la base della Verità", e come "sia impossibile che essa erri anche nel più piccolo articolo. E se concediamo che alcuni eletti siano rimasti nell'errore per l'intera loro vita, è necessario che prima di morire siano ritornati sulla retta via; perciò Cristo nel capitolo 8 del Vangelo secondo Giovanni dice - Nessuno li rapirà dalla mia mano -" 1. Questi ultimi dunque - cioè gli eletti - portavano in se stessi la fede in Cristo o nella redenzione della propria anima attraverso il suo sacrificio (anche se al tempo stesso erano, al pari di tutte le altre, creature terrene e carnali): da ciò veniva loro sia la salvezza, sia l'appartenenza alla vera 'Ecclesia'. La Chiesa cristiana inoltre non contemplava, secondo Lutero, in conseguenza della sua natura spirituale, una vera e propria gerarchia. Come comunità, consisteva in un insieme di persone rese uguali tra loro da un'unica fede e da una stessa rinascita spirituale: cioè dall'accettazione del giudizio divino sopra di sé, oltre che dall'atto 'passivo' di umiltà fedele a Dio. (Sottolineava infatti Lutero, in contrapposizione polemica con l'istituto romano, che: "Tutte le comunità del mondo ricevono il loro nome dal loro capo (...). Perché [la nostra] si chiama Cristianità? Perché dal nostro capo siamo detti cristiani e purtuttavia siamo ancora in terra? Con questo si vuol indicare che l'intera Cristianità, anche sopra la terra, non ha altro capo che Cristo [anziché il papa], poiché altro nome non ha che da Cristo.") 2 La comunità dei veri predestinati era insomma un''unità spirituale', del tutto priva di un ordine gerarchico al suo interno, dal momento che tutti i suoi componenti erano discepoli di Cristo: e ciò solo per la sua benevolenza. La Chiesa cristiana partecipava dunque della natura di Dio, ma soltanto nella misura in cui le era concesso di farlo: poteva quindi esser considerata come un'entità 'divinizzata', ma certo non come un'entità divina, rimanendo incapace di costituire di per sé un tramite attivo tra Dio e gli uomini. Emerge chiaramente, da un tale discorso, come l'idea di Chiesa di Lutero fosse radicalmente differente, anche da un punto di vista teorico ed ecclesiologico, rispetto a quella cattolica romana. Se quest'ultima difatti si poneva come un istituto creato con alcune strutture permanenti da Dio, e destinato a diffondere la sua Parola e a estenderne i benefici sulle masse (ragione per la quale essa pretendeva d'avere una natura intrinsecamente divina, dal momento che si riteneva capace di guidare le anime verso la salvezza), nella visione di Lutero al contrario la Chiesa si poneva come un'entità spirituale e invisibile, e quindi priva - almeno in prima istanza - di compiti istituzionali. Essa infatti aveva la sua base e la sua ragione d'essere nei singoli individui anziché nelle masse. Riguardo alla natura 'invisibile' della vera Chiesa - ovvero al fatto che essa restasse molto spesso sconosciuta agli occhi dei più - Lutero scriveva ad esempio nel Servo Arbitrio, in risposta ad Erasmo: "se Dio ha lasciato errare tutti quelli che tu menzioni - fosse pure nel corso di secoli e nonostante si trattasse di uomini eminenti per la loro scienza - da questo non deriva che egli abbia lasciato errare anche la propria Chiesa". E poco più avanti, portando un esempio concreto, ricordava come "ai tempi del profeta Elia l'intera comunità e ogni istituzione fosse precipitata a un tale livello d'idolatria che egli credeva di essere rimasto solo. Tuttavia mentre re, prìncipi e tutto quanto poteva dirsi popolo o Chiesa di Dio andava perduto, Dio si era nel frattempo riservato settemila uomini. Ma chi li vide o chi seppe che essi erano il popolo di Dio?" Il riformatore quindi, sulla base di questo discorso, chiedeva subito dopo: "Chi oserà ancora negare che Dio si sia riservata una Chiesa nel suo popolo, al di là dei personaggi prestigiosi (tu infatti consideri solo uomini di prestigiose funzioni pubbliche e di gran nome) e che, sull'esempio del regno israelita, abbia lasciato perire questi ultimi nel loro errore?" 3 La vera comunità dei cristiani dunque poteva, almeno in alcuni contesti, essere addirittura priva di qualsiasi ruolo istituzionale e di prestigio, e rimanere totalmente sconosciuta dalla massa e abbandonata a se stessa. Poco più avanti, Lutero stigmatizzava in questo modo la storia del mondo: "probabilmente nell'intero corso della storia del mondo, fin dall'origine, la condizione permanente della Chiesa di Dio fu proprio questa: che fossero indicati come popolo e santi di Dio alcuni che invece non lo erano; mentre altri - che vivevano come un piccolo residuo in mezzo ai primi - lo erano, ma non venivano chiamati popolo o santi". 4 La chiusura dunque, da parte sua, di fronte all'idea di qualsiasi tipo di popolarità o di ruolo pubblico per la vera 'Ecclesia', non avrebbe potuto essere più radicale: quest'ultima si poneva come una realtà totalmente spirituale, e perciò anche come del tutto sconosciuta alla maggioranza degli uomini (quantomeno a coloro che guardavano il mondo attraverso l'occhio carnale, anziché attraverso quello spirituale). b) la Chiesa visibile: Oltre al fatto di essere spirituale ed invisibile - e di essere prima di tutto una comunità di individui reciprocamente indipendenti, anche se legati tra loro da un'unica fede - la Chiesa di Lutero possedeva anche un carattere materiale: ossia concreto ed istituzionale. In quanto tale però, essa non poteva rimanere nascosta ai più: doveva manifestarsi pubblicamente. Si legge difatti più volte, nelle opere politiche, come "vi sia, oltre codesta [maniera interiore], anche un'altra maniera di parlare della Chiesa. Secondo questa, essa è un'adunanza in una casa o in una parrocchia o in un vescovado (...), nella quale adunanza valgono le manifestazioni esteriori, come cantare leggere o indossare la pianeta." 5 Il motivo dell'esistenza di questo secondo tipo di Chiesa stava nel fatto che la prima, quella legata allo Spirito, era portata naturalmente - in quanto espressione della grazia di Dio - verso la diffusione della gloria divina nel mondo: cioè verso la predicazione del messaggio della Rivelazione tra gli uomini, cosa per cui essa doveva ovviamente diventare pubblica. Anche l'istituzione cattolica (come si è già detto) si professava interamente versata nella predicazione ai laici del messaggio delle Scritture. Tuttavia, nonostante questa apparente convergenza, vi era tra le due istituzioni una profondissima differenza. Essa consisteva essenzialmente nel fatto che, secondo la visione di Lutero, la Chiesa dovesse diffondere il Vangelo non allo scopo di salvare attivamente l'anima dei fedeli, ma ritenendosi semmai un semplice strumento nelle mani di Dio: ovvero del tutto dipendente da lui, anche nell'opera di salvezza. In altri termini, non poteva avvicinare gli individui alla Grazia, ma al contrario doveva esser consapevole di costituire soltanto un mezzo o una manifestazione della volontà divina di risplendere nel mondo e anche, in parte, di redimerlo dal peccato. Un tale discorso emerge molto chiaramente dalla lettura dello scritto Sulla cattività babilonese della Chiesa di Roma (1520), che fu uno tra i più importanti trattati d'ambito politico ed ecclesiologico del riformatore. Vi si affrontava la questione del significato dei sacramenti nella Chiesa cristiana: Lutero sottolineava, come la funzione di questi ultimi non fosse quella di fornire la salvezza agli individui, ma piuttosto quella di esserne una manifestazione. Ciò perché i sacramenti avevano valore soltanto in quanto espressioni della fede interiore dei soggetti, anziché come opere buone o come meriti personali (secondo la lezione cattolica, che in conseguenza di questa visione si traduceva ad esempio nell'usanza delle messe a pagamento). Non era l'uomo quindi a salvarsi attivamente, poiché ciò era riservato a Dio. I sacramenti perciò non potevano che essere una manifestazione della fede interiore - o del percorso interiore che l'individuo compiva in direzione di essa. Si legge ad esempio sempre nella Cattività, al termine del discorso sul vero valore del sacramento dell'eucarestia, quanto segue: "concludiamo dicendo per chi la messa sia stata istituita e chi possa degnamente comunicarsi: soltanto quelli che hanno coscienza triste, afflitta, conturbata dall'errore. (...) Questo testamento di Cristo è un rimedio ai peccati passati, presenti e futuri, purché tu ti avvicini ad esso con fermissima fede e purché tu creda che ti viene concesso gratuitamente il beneficio di cui trattano le parole del testamento. Ma se non crederai, in nessun modo mai, con nessuna buona opera, potrai tranquillizzare la tua coscienza. La fede sola dà la pace della coscienza, l'incredulità è il solo motivo di affanno e di tormento." 6 Anche riguardo agli aspetti più 'attivistici' del proprio compito (come, ad esempio, quello di impartire i sacramenti) la Chiesa luterana doveva quindi essere considerata fondamentalmente come 'non libera': in quanto guidata da Dio ed assolutamente incapace di autonome azioni di salvezza (per quanto irrisorie esse si volessero considerare). La vera 'Ecclesia' inoltre (cioè la comunità dei veri cristiani) non poteva essere conosciuta in modo certo se non dallo stesso giudizio divino - non quindi dagli uomini, almeno nell'attuale condizione terrena. Ciò implicava come conseguenza che l'istituto ecclesiastico terreno non potesse essere considerato con una certezza assoluta come la 'vera Chiesa di Dio', ma solo come la comunità di coloro che credevano o speravano di appartenere ad essa. A questo riguardo scriveva infatti il riformatore, nel Servo Arbitrio, che vi erano in un certo senso due distinte Chiese: una che esisteva secondo la fede, ed un'altra secondo la carità. "La carità - che pensa ogni bene di chiunque, che non è diffidente, che crede tutto e si aspetta dal prossimo solo il bene [I Cor. 13,4-7] - chiama santo [Rom. I,7 e passim] ogni battezzato e, se sbaglia, non v'è alcun pericolo; è infatti proprio della carità essere ingannata, dal momento che è esposta ad ogni uso e abuso da parte di chiunque, al servizio com'è di tutti, buoni, malvagi, fedeli e infedeli, sinceri e bugiardi. La fede invece non chiama nessuno santo, se non è dichiarato tale da un giudizio divino, poiché è proprio della fede non essere ingannata." La conseguenza di ciò inoltre, era che "mentre tutti dobbiamo considerarci reciprocamente santi in nome della carità, nessuno può essere dichiarato santo in nome della fede, come se il fatto che l'uno o l'altro sia santo fosse un articolo di fede." 7 c) conclusioni: La visione ecclesiologica di Lutero ci riporta allora, da un certo punto di vista, al discorso sulla predestinazione e sulla natura interiore della fede; da un altro punto di vista, invece, esso ci riporta a quello sulla società, secondo cui questa si organizza attraverso una molteplicità di classi, ognuna delle quali esercita un proprio ufficio particolare. Il primo punto, ovviamente, ci rimanda al tema della Chiesa intesa come corpo segreto (absconditus) di Cristo sulla terra, ovvero alla Chiesa come Spirito; l'altro invece a quello della Chiesa come l'insieme visibile dei 'presunti' uomini di fede, impegnati nel compito (anche sociale) di diffondere e di predicare la Parola, nonché di dare un buon esempio di comportamento al resto della società. In questo secondo senso, la Chiesa per lui era anche una realtà istituzionale: cioè un ministero o un officium, ma non - contrariamente alla visione cattolica - un sacerdozio. Tutti i suoi ministri quindi, erano sottoponibili al giudizio delle varie componenti della comunità cristiana (in quanto essi dovevano essere considerati dei 'funzionari', al pari di tutti gli altri) e le loro cariche, senza aver nulla di intrinsecamente sacro o di divino, erano revocabili come le altre. Se da un lato il sentimento della trascendenza e dell'ineffabilità di Dio - nella concezione teologica di Lutero - veniva a radicalizzarsi, dall'altro però esso rifiutava di attribuirsi ad organismi di natura umana, per quanto nobili e spirituali essi fossero. La Chiesa, in quanto istituto, diveniva allora una realtà puramente umana e laica; mentre in quanto comunità spirituale di persone destinate alla salvezza, diventava qualcosa di ineffabile e di assolutamente mistico (nel senso di 'nascosta' agli occhi dei più). Il concetto di Chiesa perciò si divideva nel suo sistema teologico tra due aspetti separati ed antitetici: da una parte vi era una Chiesa assolutamente spirituale (che non tendeva alla salvezza, perché era già in essa), e dall'altra ve n'era una, opposta, laica ed istituzionale (ed anche perciò provocatoriamente definibile come 'Chiesa di stato'). Anche in ambito ecclesiologico dunque - come peraltro in tutti gli altri campi del suo pensiero - Lutero poneva una netta separazione tra lo spirito e la carne, tra Dio e l'uomo. Non sussisteva infatti alcuna realtà intermedia tra la Chiesa spirituale e quella terrena. 1 Martin Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.151. 2 M. Lutero, Del papato romano (1520), in: Scritti politici, ed. cit., p.79. 3 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., pp.151-152. 4 Ivi, p.152. 5 M. Lutero, Del papato romano, in: Scritti politici, ed. cit., p.80. 6 M. Lutero, Cattività babilonese, in: Scritti politici, ed. cit., p.175. 7 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.155. 5) Le ragioni storiche del contrasto: Mentre finora si sono analizzate soltanto le ragioni teoriche del contrasto di Lutero con la Chiesa di Roma (ragioni che trovavano la propria origine nelle due differenti visioni dell'istituto ecclesiastico), è necessario riassumere qui avanti anche i motivi di natura più storica e contingente. Seppure, infatti, i due piani non possano essere rigidamente distinti tra loro (dal momento che i comportamenti pratici, ossia le scelte della Chiesa del tempo, dipendevano in massima parte dalle idee contenute nel diritto canonico), non bisogna dimenticare che la Chiesa del XVI secolo era ormai (come più volte fa notare, all'interno dei suoi scritti politici, lo stesso Lutero) un'istituzione corrotta anche rispetto alle sue leggi. A causa di tale 'scollamento' sussistente tra teoria e pratica, è allora possibile separare i temi ecclesiologici della disputa (che spiegano il contrasto su di un piano puramente 'teorico') da quelli storici (che lo spiegano invece da un punto di vista più di natura 'pratica'), e trattare i secondi separatamente dai primi. Un altro fattore, che induce a separare questi due tipi di problemi, è il fatto che all'insieme delle problematiche storiche appartenessero anche questioni d'ambito politico ed economico (le quali non rientravano quindi in quello più propriamente religioso o ecclesiologico). a) i fattori spirituali della ribellione: L'opinione che Lutero ebbe della Chiesa di Roma, ovvero del Papato, non rimase immutata nel corso del tempo. Subì anzi, ancora nei primi anni della sua opera di riforma (in particolare in quelli dal 1517 al 1521), una svolta sostanziale. Se infatti all'inizio della sua ricerca, egli aveva affermato la necessità di una riforma della Chiesa dall'interno (la sua speranza era di riportarla alle origini senza incontrare opposizioni invalicabili, e con la convinzione di ricevere il sostegno del papa stesso), dal 1520 in avanti si fece sempre più forte in lui l'idea che una tale istituzione si identificasse con l'Anticristo delle profezie bibliche, e che fosse quindi in realtà da combattere in modo assoluto. 1 Tale cambiamento di prospettiva, situato (come si è detto) attorno al 1520, avvenne quando il nostro autore si rese conto che non sarebbe stato possibile per lui agire con l'appoggio dell'autorità romana, e di come il papa stesso non fosse intenzionato per nulla ad assecondare una riforma in senso evangelico dello spirito e delle pratiche dei cristiani. Il sorgere di questa consapevolezza lo portò allora ad un'opposizione assoluta contro la Chiesa di Roma: a partire circa dal 1521, egli identificò definitivamente quest'ultima con l'Anticristo delle profezie. Le ragioni storiche del contrasto di Lutero con il Papato romano (in parte implicitamente già analizzate nei precedenti paragrafi) debbono però venire affrontate qui avanti in modo più esteso, tenendo conto della loro complessità. I fattori di tale avversione non sono facili da elencare in modo esaustivo. Essi coprono un arco molto vasto di problemi: da quelli di natura economica, a quelli politici e sociali, a quelli infine più specificamente religiosi. I testi che possono aiutarci maggiormente a comprendere questo aspetto del suo pensiero sono quelli di natura più spiccatamente propagandistica e politica (quali ad esempio La cattività babilonese della Chiesa di Roma del 1520, o l'Anticristo del 1521). Ciò che emerge da tali scritti è, in primo luogo, la primarietà della problematica religiosa all'interno della lotta che il riformatore sostenne contro l'istituzione romana: cosa che dimostra come la battaglia sostenuta da Lutero fosse essenzialmente finalizzata al rispetto del Vangelo. Come tale dunque egli la sostenne, ponendo in secondo piano, anche se non rimuovendoli, i fattori di natura più materiale. I motivi religiosi del contrasto furono inoltre principalmente la corruzione del messaggio della Scrittura da parte della Chiesa (cioè l'allontanamento dalla vera fonte della propria spiritualità) e la mondanizzazione del clero. Bisogna tuttavia precisare che le ragioni dell'avversione contro la Chiesa di Roma non furono tanto la ricchezza o l'abbassamento della tensione spirituale di quest'ultima, quanto piuttosto (almeno in primo luogo) gli effetti negativi di questi fattori sulla sua azione educativa. Secondo la visione del riformatore, la missione dell'istituto ecclesiastico doveva essere - ancor prima che caritativa - di natura predicativa (data ovviamente l'importanza maggiore della salvezza oltreterrena, rispetto alla vita terrena). Si legge dunque, a proposito dell'autorità romana, nell'Appello alla nobiltà tedesca del 1520, che "dal momento che un tale reggimento [quello del Papa] non solo è pubblico latrocinio, fraudolenza e dominio delle potenze infernali, ma è anche una rovina della Cristianità nell'anima e nel corpo, noi siamo tenuti a (...) combattere siffatta calamità e distruzione della società cristiana." 2 Mentre più avanti, nel punto DECIMO PRIMO, si può leggere: "Dove s'è mai visto un re che si sia fatto trasportare con una pompa e una mondanità pari a quella di colui che vuole essere il capo di quanti disprezzano e vogliono fuggire il mondo, cioè i cristiani? (...) E' già grave che il papa agisca così da stolto e folle, ma è davvero troppo se noi lo approviamo e lo tolleriamo." 3 Il fatto di maggiore gravità era infatti, più della superbia di cui il papa si rendeva capace di fronte a Dio, la tolleranza che verso questa manifestavano i cristiani stessi: ossia la loro acquiescenza davanti all'offesa fatta all'autorità suprema. ("Come può un cuore cristiano vedere con gioia che il papa, quando vuol farsi comunicare, se ne stia seduto come un nobile cavaliere, (...) come se il santo sacramento non fosse degno che il papa, un povero peccatore, si alzi in piedi a rendere onore al suo Dio? Quale meraviglia se Dio volesse affliggerci tutti, perchè sopportiamo, anzi elogiamo con i nostri prelati un tale disprezzo per Dio e di tanta superbia ci rendiamo complici con il nostro silenzio e le nostre adulazioni?") 4 Secondo la sua concezione quindi, era l'empietà diffusa nella maggioranza del popolo cristiano (che dilagava, a partire dal papa e dall'istituzione romana, tra gli stessi fedeli) il fattore primario contro cui era doveroso combattere. La ragione più profonda del contrasto con la Chiesa di Roma risiedeva - prima ancora che in fattori puramente politici ed economici, come la sua ricchezza e la sua potenza mondana - nel fatto che essa mancasse al proprio compito peculiare di educazione delle anime. Non era insomma la Chiesa come istituzione 'mondanizzata' ciò contro cui i cristiani dovevano sollevarsi, ma piuttosto l'empietà che essa diffondeva nel mondo cristiano. Quest'ultima idea emerge con particolare chiarezza dalla lettura di un brano contenuto nello scritto Sul papato di Roma (1520), nel quale si legge: "poiché vediamo che il papa è di gran lunga superiore agli altri vescovi, poiché certo non divenne tale per volere divino - anzi considero che pervenne a ciò non per benigno, ma per irato decreto di Dio, il quale tollera come piaga che alcuni uomini s'innalzino rendendo soggetti gli altri - io non voglio che alcuno combatta il papa, bensì che, renda pazientemente onore alla potenza del papa, proprio come se su di noi dominasse il Turco, perché in questo modo la sua potenza sarà per noi priva di danno" 5. Lutero sottolineava così il fatto che la lotta contro la tirannide romana doveva essere prima di tutto una lotta per la libertà spirituale, anziché contro la schiavitù materiale. E anche se una posizione tanto radicale non verrà più riformulata nelle opere politiche successive (ciò dal momento che la lotta contro il Papato acquisterà sempre di più col tempo una portata e un significato nazionali, e i fattori economici acquisteranno quindi un'importanza sempre crescente) essa mostra comunque quella che fu la motivazione di fondo originaria del riformatore. Il campo della questione, tuttavia, non si limitava soltanto al problema della ricchezza materiale della Chiesa - ovvero al fatto che per accumulare tale ricchezza, essa trascurasse di svolgere correttamente il proprio ruolo di educatrice attraverso la Parola. La questione al contrario, si estendeva anche ad un ambito più vasto di problemi. La Chiesa cattolica aveva infatti (anche secondo il giudizio di molti intellettuali contemporanei, tra i quali ad esempio Erasmo da Rotterdam) il demerito di alimentare un gran numero di pratiche devozionali - come, per esempio, i pellegrinaggi e le messe a pagamento - solo per il fatto che, seppur estranee allo spirito evangelico, ne incrementavano il carisma (a scapito di quello delle Scritture) di fronte ai fedeli e contemporaneamente la arricchivano. A questo proposito si possono leggere, tra i tanti possibili esempi, molti brani contenuti nell'Appello alla nobiltà tedesca, nei quali il riformatore elencava varie forme di arricchimento del clero, talvolta illecite anche rispetto alle stesse leggi canoniche, e alle quali corrispondevano quasi sempre credenze e riti non cristiani nella massa dei laici. Nel punto ventunesimo, ad esempio, Lutero raccomandava che fossero "demolite le cappelle nelle foreste e le chiese di campagna, anziché permettere che nuovi pellegrinaggi si compiano alla loro volta (...)." Ed esclamava: "Oh, qual conto difficile dovranno rendere i vescovi che permisero tali diaboliche istituzioni e ne ritrassero lucro! Avrebbero dovuto essere i primi ad opporvisi, e invece stimano essere quelle opere sante e divine, senza vedere che è il diavolo a fomentarle per rinfocolare l'avarizia e far sorgere una fede falsa e menzognera (...)". 6 In conclusione si può dire che la ragione primaria del contrasto di Lutero con la Chiesa cattolica fosse, prima che la mondanizzazione e la corruzione del suo clero, il bisogno di ripristinare una corretta concezione della spiritualità tra le masse dei credenti. Tuttavia, come si intende dimostrare qui di seguito, anche le motivazioni più di ambito economico e politico avevano un peso notevole nel contrasto. b) i fattori politici e materiali E' evidente infatti come i motivi politici ed economici della disputa fossero strettamente intrecciati con quelli religiosi. Le ragioni dell'arricchimento di Roma - e quelle del parallelo sfruttamento delle risorse della Germania, e in generale degli altri paesi europei - tendevano infatti quasi sempre a convergere con quelle del dissenso religioso. Per fare un esempio di tale convergenza, si può ricordare la pratica delle indulgenze, in quanto essa era sia uno strumento di arricchimento della Chiesa romana, sia una pratica devozionale superstiziosa ed anticristiana. Lo stesso si può dire poi della tendenza della Chiesa di Roma verso una continua estensione del numero dei vescovadi sulle terre cristiane, dal momento che ognuno di essi comportava delle entrate attraverso tasse, pellegrinaggi, e usanze consimili, ma al contempo provocava la spoliazione dei beni delle regioni su cui i primi venivano creati. Anche questa abitudine quindi, aveva secondo Lutero dei risvolti religiosi e - parallelamente - anche economici di tipo negativo per la nazione tedesca. Tuttavia, data la vicinanza e la reciproca implicazione di questi due diversi tipi di rivendicazioni (economiche e politiche, e religiose ed ecclesiologiche), esse non venivano viste mai separatamente nelle opere del riformatore. Le motivazioni religiose e riformistiche venivano a convergere con quelle finalizzate all'emancipazione del popolo tedesco dal dominio italiano: la lotta auspicata da Lutero era nel suo complesso una lotta santa della nazione tedesca per il superamento della tirannide (spirituale e materiale) esercitata su di essa dalla Chiesa papista. I fattori economici e politici, in altri termini, erano considerati come l'altra faccia di quella stessa 'tirannia spirituale' posta in atto sul popolo tedesco. Nonostante questa concomitanza di motivi però, è un fatto innegabile che le ragioni di natura sociale fossero molto differenti da quelle semplicemente religiose e spirituali. La lotta contro Roma era finalizzata sia alla purificazione della dottrina e delle pratiche cristiane, sia all'indipendenza e alla 'salute materiale' del popolo tedesco. Ai fattori meramente spirituali si affiancavano perciò quelli nazionali - anche se bisogna notare come questi ultimi, quantomeno per Lutero, avessero un'importanza decisamente secondaria rispetto ai primi. Non c'è dubbio, in ogni caso, che anche i fattori economici e politici detenessero un ruolo di particolare rilievo per il riformatore: in quanto manifestazioni della prepotenza romana essi dovevano secondo lui venire assolutamente ostacolati. Si legge a tale proposito, nell'Appello del 1520, che "neppure un Turco avrebbe potuto distruggere così le terre latine e calpestare il servizio divino. Ora che quelle sono state spremute fino in fondo, se ne vengono in terra di Germania; (...) ben presto le regioni tedesche somiglieranno a quelle latine. (...) Se ci mettessimo a fare lo stesso, creeremmo in un solo giorno 30 o 40 cardinali, (...) e ciò fino a che le città e le Chiese fossero ridotti a un deserto, per poi affermare che siamo vicari di Cristo, e che gli stolti e bonaccioni Tedeschi devono sopportare tutto ciò con buona grazia." 7 Come dimostra questo brano, i motivi nazionalistici erano per il riformatore un altro risvolto della lotta contro l'istituzione romana - pur essendo, in effetti, tali motivi virtualmente privi di motivazioni di natura religiosa. (Attraverso di essi, infatti, Lutero si faceva interprete di un malcontento diffuso tra la gente, causato dall'oppressione economica e politica.) 8 Se perciò il tema della prepotenza esercitata ai danni dello spirito cristiano, confinava ambiguamente con quello della tirannia esercitata nei confronti del popolo tedesco (e più in generale dei popoli europei, come scriveva lo stesso Lutero: "l'essere trattate a Roma tali faccende [ovvero alcune questioni secolari] arreca danni insostenibili a tutti i paesi" 9), resta il fatto indubitabile che tale ribellione implicava al suo interno due aspetti differenti: l'uno di natura spirituale, e l'altro di natura materiale. Si può inoltre notare come i motivi originari dello scontro - secondo il punto di vista di Lutero - fossero senza dubbio quelli spirituali e religiosi, e come soltanto successivamente si fossero ad essi affiancati quelli d'ambito nazionale (e ciò ovviamente anche per l'impulso dato alla Riforma da quelle forze politiche che lo avevano sostenuto nella sua azione). 6) Conclusioni Il pensiero politico di Martin Lutero fu quindi, almeno in massima parte, una conseguenza della sua visione teologica, la quale fu essenzialmente di stampo teocentrico. E' possibile perciò mostrare come i vari punti che compongono tale pensiero - tanto quelli sociali, quanto quelli riguardanti la struttura della Chiesa cristiana - dipendessero strettamente dall'idea dell'assoluta trascendenza del Creatore rispetto alle creature. Possiamo riepilogare brevemente i principali aspetti qui messi in evidenza. In merito alla visione luterana della società, si può osservare come l'idea dell'equidistanza di tutte le sue parti da Dio fosse la base stessa della concezione organica che egli aveva di quest'ultima. L'assoluta distanza di tutti gli uomini da Dio, comportava l'idea che la comunità degli uomini non potesse organizzarsi secondo una gerarchia culminante in una casta superiore rispetto alle altre (il clero) in virtù di una sua maggiore 'prossimità' al Principio divino. La società allora, doveva essere concepita nel suo insieme come un organismo autonomo: cioè 'sovrastato' dalla volontà divina, ma organizzato secondo una propria struttura e avente in se stesso il proprio inizio e il proprio fine. Riguardo al rapporto tra lo Stato e la Chiesa, è chiaro come la divisione della società tra diversi ordini - ognuno svolgente un proprio ruolo - comportasse come logica conseguenza una forte autonomia da parte dell'istituzione temporale (preposta al mantenimento dell'ordine sociale) rispetto a quella spirituale (il cui ufficio era invece quello della predicazione). D'altra parte è anche vero che, nella misura in cui esse erano due istituti mondani, la prima doveva godere di un certo vantaggio o predominio sulla seconda, dal momento che si configurava come garante della giustizia all'interno della comunità umana. Anche l'idea di Chiesa poi, risentiva profondamente della visione dualistica del riformatore, secondo la quale il corpo e lo spirito rimanevano rigidamente separati tra loro. Da una parte infatti, in quanto organismo sociale e materiale, la Chiesa doveva essere una realtà semplicemente terrena o 'apparente'; dall'altra invece, in quanto realtà spirituale, essa doveva essere considerata come 'non di questo mondo', ed anche quindi sconosciuta ad esso. Anche le motivazioni storiche del contrasto infine (facendo eccezione per quelle di natura esclusivamente nazionalistica o politica) trovavano la propria origine, nella visione di Lutero, nell''empietà' del clero cattolico, che pretendeva di porsi di fronte al resto della società come una realtà più divina che umana, e quindi anche di dominarla. Si può quindi concludere che l'opera del riformatore tedesco ruotò, nel suo complesso, attorno al bisogno di una riaffermazione radicale della trascendenza di Dio - in opposizione a una tendenza di segno opposto, molto diffusa e rappresentata materialmente, agli occhi del riformatore, dall'istituzione ecclesiastica romana. L'impostazione teocentrica del suo pensiero non viene quindi sostanzialmente smentita neppure da un'analisi degli aspetti politici di esso. 1 Cfr. Laura Ronchi De Michelis, Introduzione al volume di M. Lutero: L'Anticristo (Replica ad Ambrogio Catarino), Torino, Claudiana 1989, p.9, dove si legge: "Fino al 1520, alla promulgazione della bolla Exurge Domine, Lutero aveva nutrito una convinzione diversa e ai suoi occhi il pontefice aveva costituito un punto di riferimento preciso e autorevole, che egli pensava determinato nella difesa dell'Evangelo e per questo pronto a contrastare gli interessi terreni della curia. (...)" 2 Martin Lutero, Scritti politici, ed. cit., p.160-161. 3 Ivi, p.174. 4 Ivi, p.175. 5 Ivi, p.118. 6 Ivi, p.191. 7 Ivi, p.145-146. 8 Cfr. Lucien Febvre, Martin Lutero, Bari, Laterza 1969, p.102 ss (Inquietudini sociali), dove si legge: "Da tempo, tra Vistola e Reno, numerose erano le voci che si levavano per reclamare una riforma. Delusa per il fallimento successivo di tutti i piani d'organizzazione politica, l'opinione pubblica sembrava interessarsi alla riforma religiosa. E non poteva questa riforma fornire a tutte le potenze, grandi e piccole, che si dilaniavano in Germania, un terreno d'intesa relativamente facile? (...)" 9 M. Lutero, Appello alla nobiltà tedesca, in: Scritti politici, ed. cit., p.165. IL CALVINISMO Il fallimento della guerra contadina tedesca determinerà l'arretratezza economica e politica della Germania sino all'unificazione nazionale. Se in Germania ci fosse stato il calvinismo (non di Calvino, che era autoritario non meno di Lutero, ma dei suoi seguaci), forse la rivolta avrebbe avuto successo: si sarebbe formata la nazione, appoggiata dalla borghesia (che naturalmente avrebbe tradito il movimento contadino), e forse non sarebbe nato il nazismo, poiché la Germania, come altre nazioni calviniste (Francia, Olanda e Inghilterra) avrebbe partecipato subito alla spartizione coloniale del mondo (invece fu costretta a farlo, proprio come l'Italia dei genovesi e dei fiorentini, affidandosi a consorzi bancari e società finanziarie: i Függer, i Welsser ecc.). La borghesia europea preferì il calvinismo al luteranesimo anche perché esso faceva derivare l'autorità regia dalla sovranità popolare, ed accettava l'eventualità della resistenza armata nei confronti degli abusi del re. Il calvinismo arrivò sino a formulare le prime teorie contrattualistiche (naturalmente un calvinista al potere faceva ragionamenti opposti). La borghesia aveva bisogno di emanciparsi dalla feudalità aristocratica ed ecclesiastica. Il luteranesimo offriva, in questo senso, meno garanzie. Essendo una religione idealistica, esso era piuttosto favorevole a una sorta di compromesso tra borghesia e aristocrazia. Il luteranesimo, se avesse appoggiato con coraggio la causa dei contadini, sarebbe stato una religione molto democratica. Non avendolo fatto, esso ha finito col rappresentare sul piano teorico un ideale irrealizzabile (la stessa borghesia tedesca sarà tradita dalle forze feudali che avevano lottato al suo fianco contro Roma: quella borghesia che poi cercherà nel nazismo una forma di rivincita sociale). Il fallimento dell'ideale universale luterano ha fatto la fortuna del calvinismo che si è preoccupato di realizzare non un ideale valido per tutti, ma solo per la classe borghese. PREDESTINAZIONE E CALVINISMO Il concetto protestante di predestinazione è stato elaborato in conseguenza della manifesta incapacità del credente "cattolico" di risolvere i problemi sociali dal punto di vista "cristiano". La predestinazione al bene o al male viene accettata nel momento stesso in cui si rinuncia a porre nella libertà dell'uomo la responsabilità di un destino personale. Gli uomini fanno il "bene" o il "male" non perché lo vogliono -dice Lutero e soprattutto Calvino-, ma perché così li ha predestinati Dio, il quale si serve, nella sua imperscrutabile prescienza, del bene o del male per confondere i "reprobi" e rassicurare i "virtuosi". La predestinazione è stata poi laicamente riassorbita dalla filosofia hegeliana con il concetto di "necessità storica", che ha una valenza ottimistica, vicina alla provvidenza di matrice cattolica. Infatti, la differenza sostanziale tra provvidenza e predestinazione sta in questo, che mentre per la prima il male, in ultima istanza, viene reintegrato positivamente nel bene; per la seconda invece il male è irrecuperabile. Il calvinismo deve assolutamente tenere separati il bene dal male, se vuole dimostrare il proprio ottimismo. In fondo la predestinazione è un concetto religioso che vuole riflettere una situazione sociale basata sull'antagonismo di classe e sull'individualismo. "Fare il bene", nell'ottica calvinista, altro non può significare che "fare bene il proprio dovere", deciso a priori da dio, e in particolare il proprio "dovere professionale". Col concetto di predestinazione il pentimento è impossibile: chi sbaglia paga per sempre. Il pentimento serve per rendersi conto che non ci sono alternative, e non per poter cambiare vita. Anche se la sentenza di un tribunale condannasse un colpevole a un periodo determinato di carcere, la coscienza morale degli uomini lo condannerebbe in eterno. Chi tradisce la propria vocazione, non merita neppure di vivere. Moralmente infatti è già morto, benché fisicamente continui a vivere. Chi pecca contro dio non può essere perdonato. E per il calvinista "dio" coincide con l'ordine costituito. Dio è la coincidenza di essere e dover essere. Chi non si adegua è perduto, perché vuole porsi contro l'ordine naturale (e sovrannaturale) delle cose. Il calvinismo ha tolto all'uomo il libero arbitrio e ha trasformato la libertà nella necessità di obbedire a una realtà precostituita. Probabilmente questo modo di ragionare è stato usato anche dai cattolici romani controriformisti per difendere la loro confessione tardo-feudale, che non voleva neanche sentir parlare di egemonia politica della borghesia conseguente ai mutamenti sociali che già in Italia si erano da tempo verificati in direzione del capitalismo commerciale. Il calvinismo è andato a innestarsi in una pratica sociale (quella borghese) che spontaneamente e progressivamente si stava allontanando dall'esperienza del collettivismo cristiano (che nell'ambito del cattolicesimo-romano era fortemente contraddetta dell'autoritarismo politico del papato). Questa pratica spontanea aveva bisogno di darsi una legittimazione teorica che le permettesse di svilupparsi e diffondersi velocemente e in maniera consapevole. Senza il calvinismo il capitalismo non sarebbe mai nato come sistema produttivo-industriale, ma si sarebbe fermato allo stadio "commerciale" (mercantile), come avvenne nell'Italia cattolica. LUTERO E CALVINO Perché ha contribuito più Calvino che Lutero alla formazione dello "spirito capitalistico"? Qui non è questione della personalità dell'uno o dell'altro e neppure dei diversi ambienti in cui essi sono vissuti. Semplicemente è dipeso dal fatto che Calvino, in quanto discepolo "teorico-pratico" di Lutero, voleva portare a conseguenze più radicali le posizioni innovative di Lutero, che ebbe comunque il merito di aver dato per primo una risposta globale al cattolicesimo-romano. Questo atteggiamento è normalissimo nella storia del pensiero umano. Per tale ragione non si può affatto sostenere che Calvino abbia "tradito" Lutero. Ad un certo punto della storia europea, quelle aziende commerciali e industriali che avevano intrapreso la via del capitalismo considerarono inevitabile far propria, per meglio valorizzare i loro capitali, la decisione calvinista di radicalizzare le posizioni luterane. Anche la Germania, alla fine del sec. XIX, dovrà adeguarsi a questa necessità. Non si possono fare delle rivoluzioni culturali senza pensare alle loro conseguenze sociali e politiche. Da questo punto di vista ha un senso relativo sostenere che i fondatori del protestantesimo non potevano immaginare che la loro rivoluzione sarebbe stata "sposata" dal capitalismo. Forse non potevano immaginare fino a che punto il capitalismo avrebbe strumentalizzato la Riforma, ma non potevano ignorare che con le loro innovazioni si stava creando una religione molto diversa da quella cattolico-romana, una religione che avrebbe sicuramente avuto delle ripercussioni sul costume e sulla vita sociale dei credenti. Certo, all'inizio dell'impresa i riformatori avranno pensato di operare per il bene collettivo, ma già durante la loro esistenza essi si erano accorti che la Riforma conteneva in sé degli aspetti alquanto contraddittori (Lutero sterminava i contadini, Calvino bruciava gli "eretici"...). Forse erano ancora in tempo per tornare indietro. O forse, se l'avessero fatto, qualche altro riformatore avrebbe preso il loro posto. Se avessero potuto immaginare a quali nefaste conseguenze avrebbe portato il protestantesimo nell'ambito del capitalismo, essi probabilmente si sarebbero limitati a contestare le assurdità della chiesa cattolica, senza volerla sostituire con un'altra più estremista. Ma resta tutto da dimostrare che se essi avessero avuto veramente coscienza di tali conseguenze, si sarebbero limitati alla critica (ancorché profonda e radicale) del cattolicesimo-romano. Quando non si vedono alternative praticabili all'orizzonte, si preferisce rischiare il peggio pur di cambiare in qualche modo la società. Normalmente gli uomini preferiscono sopportare le conseguenze negative delle proprie idee innovative, piuttosto che vedere il lento deteriorarsi di un cronico immobilismo. Peraltro sul piatto della bilancia va anche messo l'atteggiamento ottuso della chiesa romana, che non sentiva ragioni di sorta, essendo da tempo abituata a lanciare scomuniche e anatemi. NOTE L'opera maggiore del calvinismo è L'Istituzione cristiana. Aspetti fondamentali: 1. la natura umana è troppo corrotta e incapace di libertà (la libertà di coscienza non ha senso, e Serveto che la sostiene finirà sul rogo); 2. la salvezza sta unicamente nella predestinazione. La predestinazione però non significa "fatalismo", perché è proprio nell'attività quotidiana che ciascuno mette alla "prova" la realtà o meno della propria salvezza, che però resta "assoluta", in quanto non può essere voluta dall'uomo; 3. la morale privata e pubblica deve essere molto seria e austera, e ferrea la disciplina, anche nel modo di vestire, di mangiare, di pregare, di ascoltare le prediche e in tutti i particolari della vita privata... Per chi non rispetta le regole sono previste ammende, penitenze pubbliche, prigione e roghi; la vita politico-civile deve conformarsi a questi principi; 4. la Bibbia è fonte e regola della fede; 5. esistono solo 4 uffici religiosi (non esiste una gerarchia ecclesiastica basata sul sacramento dell'ordine): i pastori (che predicano e amministrano i sacramenti); i dottori (che tengono lezioni sulla Bibbia); gli anziani (che vigilano sul comportamento dei fedeli); i diaconi (che amministrano i beni). Il Concistoro (concilio) è formato da 6 pastori e 12 anziani laici; 6. il culto si riassume nella predica, la preghiera, il canto dei salmi. Quattro volte all'anno si distribuisce la Santa Cena. Si nega la presenza del corpo e sangue di Cristo nell'eucarestia, che è considerata come "cena spirituale" in cui Cristo nutre le anime restando lontano da esse. In chiesa non sono ammessi ornamenti o immagini. Non è prevista alcuna festa religiosa, ad eccezione della domenica; CALVINO E L'USURA Nell'opera di Calvino è chiarissima l'interrelazione tra capitalismo e protestantesimo, molto più che nell'opera di Lutero, il quale si limitò a porre le basi per un primato del singolo sulla chiesa: il singolo che vuol stare in un rapporto "assoluto", "immediato" col proprio Dio. D'altra parte non sarebbe stato possibile un "Calvino" senza Lutero. Quando si afferma che Calvino, rispetto a Lutero, ebbe preoccupazioni più "sociali", cioè di organizzazione della comunità civile, spesso si dimentica di precisare che Calvino volle essere il legislatore di una società tendente al capitalismo, mentre Lutero si limitava a considerare l'attività commerciale della borghesia come un aspetto della società feudale (cui bisognava dare più spazio, ma sempre entro i limiti del feudalesimo). La superiorità di Calvino, nei confronti di Lutero, va vista esclusivamente dalla prospettiva degli interessi economici della società borghese. Al di là di questo, Calvino resta un discepolo incapace di raggiungere le altezze del maestro Lutero. La superiorità del Calvino borghese è ben visibile laddove egli parla del prestito ad interesse. Si tratta appunto di una superiorità in relazione alla natura del profitto capitalistico, anche se, proprio per questa ragione, si tratta di una "inferiorità" rispetto al progetto iniziale della Riforma luterana d'infrangere il muro della tarda Scolastica, tornando, per così dire, allo spirito del cristianesimo primitivo. Per quanto -è bene ribadirlo- Calvino resti, in ultima istanza, il prodotto inevitabile del luteranesimo nella società borghese. Infatti il luteranesimo non rappresentò un'alternativa vera e propria alle contraddizioni antagonistiche del mondo feudale in dissoluzione, ma solo l'illusione di poter conciliare quelle contraddizioni nell'interiorità della coscienza religiosa (più o meno angosciata), salvo poi reprimere con la forza le insurrezioni di quelle masse popolari che volevano realizzare una liberazione anche nell'esperienza esteriore (sociale, economica, politica e culturale). In Germania il luteranesimo porterà alla filosofia idealistica, cioè al primato del pensiero non solo sulla vita sociale, ma anche su un particolare tipo di esperienza: quella della fede religiosa. * * * L'idealismo di Lutero, insostenibile, come tale, sotto il capitalismo, lo si nota, a proposito del tema dell'usura, laddove egli ammette il prestito a interesse solo da parte di chi, essendo incapace di far fruttare il proprio denaro, rischierebbe di finire in povertà. Lutero, in sostanza, era disposto ad ammettere una pratica borghese solo in una situazione proletaria! Era questa l'unica eccezione che ammetteva nel campo dell'usura. Cioè da un lato egli chiedeva "amicizia e aiuto spontaneo", dall'altro, rendendosi conto dell'utopia di tale richiesta, permetteva al povero (o a chi rischiava di diventarlo) di comportarsi come lo stesso borghese avrebbe voluto fare. Risultato di tutto ciò? Siccome diventava difficile stabilire un confine sicuro tra vera e falsa povertà (o rischio alla povertà), Lutero aveva bisogno dell'appoggio di un governo politico molto forte per tenere sotto controllo una classe, quella borghese, che rischiava di mandare in rovina, coi suoi traffici, tutte le classi feudali. In tal modo però i contadini (specie quelli poveri) venivano sfruttati due volte: dai nobili, anzitutto, nelle campagne, e dalla borghesia, nella vita di città. Melantone e Bucero, prima di Calvino, avevano cercato di uscire da queste incongruenze dettate da una coscienza religiosa che in teoria non voleva essere "medievale" e che in pratica non riusciva ancora ad essere "borghese". Melantone rese lecito l'interesse sul credito a motivo dei danni cui il creditore andava incontro nel caso di grossi prestiti effettuati per periodi troppo lunghi. Bucero riteneva che un interesse del 5% non recasse alcun danno al debitore. Sia l'uno che l'altro naturalmente stavano dalla parte della borghesia e cercavano di arrampicarsi sugli specchi per dimostrare la legittimità dell'usura. Melantone voleva far credere che esistevano borghesi disposti a fare grossi prestiti a tempo indeterminato. Bucero addirittura che un debitore costretto a versare un'aliquota minima d'interesse fosse meglio indotto a impegnarsi per risarcire il prestito. * * * Ma chi ha veramente posto le basi ideologiche per superare definitivamente l'interdizione canonica del prestito a interesse, prescritto sin dal Concilio di Nicea del 775, è stato Calvino. Egli parte -come si è soliti fare quando si vuole compiere una riforma che giustifichi il "peggio" (anche se per l'autore della riforma questo "peggio" appariva come un fenomeno "naturale" o "inevitabile")- dalla constatazione di un aspetto negativo: il divieto ecclesiastico dell'usura non ha mai impedito le ingiustizie socio-economiche. Non solo, ma quel divieto, di fatto, non è mai stato rispettato -diceva Calvino (e in questo non si poteva certo dargli torto)- neppure dalle autorità civili e religiose. Calvino infatti ricorda che la protezione dei vescovi, al pari dell'appoggio interessato del Duca di Savoia, avevano permesso, da secoli, a Ginevra la pratica del prestito a interesse. (Nel sec. XVI Ginevra era diventata un centro commerciale europeo di primaria importanza, dove la nuova classe mercantile e imprenditoriale aveva scalzato, economicamente, la piccola nobiltà e la corte del vescovo-conte). La seconda osservazione che Calvino fa è la seguente: se la società borghese sta diventando dominante, il cristianesimo deve tener conto di questa nuova realtà, e se fra le attività della società borghese vi è quella del prestito a interesse, il cristianesimo, se non vuole autoemarginarsi, cioè se vuole impostare con l'emergente borghesia un nuovo dialogo, deve necessariamente porsi il problema di come giustificare una prassi che vuole diventare "legge" a tutti i livelli. D'altra parte -diceva Calvino- "è una bestemmia contro Dio disapprovare la ricchezza": "la variabile mescolanza di ricchi e poveri" è determinata dalla provvidenza. Il cielo è aperto "a tutti coloro che hanno usato della loro ricchezza correttamente o che hanno sopportato la povertà con pazienza". E ancora: "l'ordine politico esige che ciascuno conservi ciò che è suo"; il comunismo -mai praticato dalla chiesa apostolica- trasforma "il mondo intero in una foresta di briganti in cui, senza contare e senza pagare, ciascuno piglia per sé ciò che può afferrare". Calvino prende dunque in esame la Bibbia, perché allora l'ideologia dominante era quella cristiana, e, per quanto riguarda il Vecchio Testamento, dice: 1) l'interdizione dell'usura era vietata presso la comunità ebraica, ma non nel rapporto degli ebrei coi pagani (cfr Es 22,25; Lv 25,35ss. e soprattutto Dt 23, 19s.); 2) gli ebrei erano costretti all'usura nei confronti dei pagani, perché questi la praticavano normalmente; 3) il divieto dell'usura non ha valore di "legge spirituale a carattere universale", in seno alla comunità ebraica, altrimenti non si sarebbero ammesse eccezioni, neppure nei confronti dei pagani. Si trattò dunque di una legge "gius-politica", avente un carattere storico limitato, non estensibile a realtà socio-economiche del tutto differenti. Nel Nuovo Testamento -dice Calvino- Cristo non si propone di regolare il prestito a interesse; egli non è contrario, in via di principio, a tale pratica (lo dimostra la "parabola dei talenti"), ma solo al fatto che in essa debba essere il povero a rimetterci. Cristo si limita a predicare l'amore universale e non impone delle leggi particolarmente severe ai suoi seguaci. Il comandamento evangelico "prestate senza sperare di ricevere"(Lc 6,35) non impedisce di esigere un interesse, poiché il suo scopo è soltanto quello di stimolare la spontaneità nel dare. Il consiglio che Cristo diede al giovane ricco: "Vendi tutto ciò che hai"(Mc 10,21), non andava certo interpretato alla lettera. Calvino, in pratica, fa questo ragionamento (peraltro abbastanza curioso, ma del tutto comprensibile in chiave "borghese"): nel mondo ebraico l'interesse era vietato solo fra ebrei, ma il cristianesimo, ammettendo dei princìpi universali, è superiore all'ebraismo, quindi l'interesse può essere ammesso! Egli naturalmente conosceva bene l'esegesi medievale del divieto deuteronomico, secondo cui Mosé aveva concesso agli ebrei il privilegio di praticare l'usura nel rapporto coi pagani, perché temeva che, non concedendolo, gli ebrei l'avrebbero praticata fra loro. Ma, mentre i teologi e canonisti medievali (a parte qualche autorevole eccezione) ne traevano la conclusione che, in virtù del cristianesimo, l'usura andava considerata illecita sempre e comunque (anche nei confronti dei non-cristiani); Calvino, proprio per la medesima ragione, mirava a giustificarla sempre e comunque, cioè anche all'interno della comunità cristiana. Egli cioè era convinto che la legge cristiana dell'amore avrebbe saputo impedire, in questo campo, ogni abuso; anche perché la vita comunitaria dei fedeli -secondo Calvino- andava in sostanza paragonata al commercio dei mercanti. Come infatti il denaro serve per mettere in comunicazione reciproca persone diverse, così vanno utilizzate le virtù del cristiano: "l'abilità con cui ciascuno esegue il dovere che gli è imposto e segue la sua vocazione, la capacità di fare ciò che è giusto, ecc.". * * * Il suo sofisma di partenza si basava su una distinzione che già nel Basso Medioevo alcuni teologi avevano fatto tra "usura" e "interesse". "Nella nostra lingua francese, il vocabolo "usura" è abbastanza in odio, ma gli interessi sono in voga senza difficoltà né scrupolo" (dice nel Commento sui cinque libri di Mosè). In pratica Calvino si era appropriato, svolgendole in maniera coerentemente borghese, di quelle considerazioni francescane che avevano portato alla nascita dei Monti di pietà. Istituzione, questa, che, nata in alternativa al fallimento della charitas nell'ambito della comunità cristiana, fu molto contestata da domenicani e agostiniani, perché con essa si chiedeva un "interesse" ai soggetti "bisognosi" di aiuto finanziario. I francescani replicavano che si trattava soltanto di una forma di risarcimento delle spese di gestione. Ma l'apporto specifico di Calvino è stato un altro. Egli fu il primo ad accettare l'idea (feticistica) che il denaro andava considerato come merce universale, dotata di vita propria, in grado di produrre altro denaro. Dopo aver costatato, amaramente, che il principio medievale della carità cristiana era venuto meno, Calvino pensò che era rimasto solo un modo per convincere il borghese a diventare "cristiano", pur restando "borghese": quello di assicurargli un interesse sui suoi crediti. E' stato così che il denaro è diventato più importante della proprietà della "terra". Col denaro infatti si potevano acquistare nei mercati urbani delle merci che con la terra non si potevano acquistare e che nella vita rurale non si sarebbero potute produrre. Il denaro è diventato tanto più "merce universale" quanto più sul mercato s'imponevano all'attenzione dei consumatori dei prodotti effimeri, non indispensabili alla sopravvivenza della classe lavorativa per eccellenza, quella contadina. Il vero sofisma di Calvino, quello assolutamente inedito, sta nell'aver distinto tra il profitto di soccorso o di consumo, destinato al povero o all'acquisto di beni di consumo, per il quale non è previsto alcun interesse, essendo esso improduttivo; e il prestito di produzione o d'investimento, non previsto dalla Bibbia, perché è un credito commerciale o d'impresa. Chi riceve del denaro in prestito e lo investe, deve pagare un giusto interesse. Il ragionamento, dal punto di vista borghese, è -come si può notare- perfettamente logico, ma appunto perché si era voluti assolutamente uscire da un'economia di autosussistenza, fondata sul valore d'uso, ovvero perché, nel democratizzare la vita rurale, abolendo il servaggio, si era preferito concedere ampia autonomia allo "spirito capitalistico" delle manifatture e dei commerci privati. * * * Naturalmente Calvino si rendeva conto che, potendo scegliere fra il concedere prestiti a un povero incapace di metterli a frutto, e il concedere gli stessi crediti a uno intenzionato a lavorare sodo, il borghese avrebbe sempre scelto la seconda alternativa. Egli dunque doveva escogitare un sistema per impedire che qualcuno potesse rivolgergli la seguente obiezione: chi potrebbe prestare senza interesse per soccorrere altri e non lo fa, col pretesto che col suo denaro può acquistare dei vantaggi con un buon investimento, è come se fosse un usuraio. I problemi di coscienza -come si può notare- avevano ancora un certo peso agli albori del capitalismo. Sapendo questo, Calvino si preoccupò di elencare una serie di restrizioni sul prestito a interesse (si preoccupò naturalmente solo di questo e non anche di come risolvere il problema della povertà): 1) nessuno può far di professione l'usuraio; 2) è vietato chiedere un interesse al povero; 2) il creditore non può pensare solo ai propri interessi; 4) l'interesse dev'essere equo, benché sia impossibile stabilire una regola oggettiva in base alla quale fissare un tasso uniforme; 5) l'interesse va chiesto solo se chi lo riceve ha ottenuto, dopo aver impegnato il prestito in un'attività produttiva, un guadagno superiore alle spese sostenute; 6) l'interesse dev'essere pubblico, perché bisogna controllare che non aumenti, in virtù di esso, il costo della vita. Occorre quindi un controllo statale. Tutte queste restrizioni sembrano volerci far capire che Calvino si assoggettò malvolentieri all'idea di dover concedere ampio spazio ai prestiti con interesse. In realtà egli lo fece con la convinzione ch'essi erano non solo legittimi ma anche indispensabili alla vita economica borghese. "E' chiarissimo -egli afferma- che agli antichi era proibita l'usura, ma dobbiamo riconoscere che ciò faceva parte della loro costituzione politica. Ne consegue che oggi l'usura non è illegale, purché non contravvenga all'equità a alla fraternità". In questo senso la sua opera segna una svolta epocale, un punto di non ritorno. L'usura non è più proibita come principio ma solo post-factum, cioè quando l'interesse richiesto diventa eccessivo. L'interesse prima proibito come principio ma tollerato in diversi casi particolari (uno era appunto quello dei Monti di pietà), ora diventa lecito come principio, nell'illusione che lo si possa proibire ogni volta che sembri contrario all'equità. Nota bibliografica G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, ed. UTET. G. Tourn, Calvino e la Riforma a Ginevra, ed. Claudiana. A. Biéler, L'umanesimo sociale di Calvino, ed. Claudiana. W.J. Bouwsma, Giovanni Calvino, ed. Laterza. A. Penna, S. Ronchi, Il protestantesimo, ed. Feltrinelli. R. Bainton, La riforma protestante, ed. Einaudi. M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, ed. Sansoni.

 
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