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LA BANCA NAZIONALE DEL REGNO DI SARDEGNA

IL LIBERAL PROTEZIONISMO DI CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR
 

4.1 La storiografia ci presenta la Banca di Sconto di Genova come l’ottava
maraviglia del mondo, ma alla partenza essa non ha niente di prodigioso. E’
una piccolissima banca d’emissione realizzata su un modello marsigliese.
Quanto, poi, alla sua consistenza patrimoniale, essa era alquanto modesta se
confrontata con altre istituzioni creditizie del tempo, quali, ad esempio, il
Banco delle Due Sicilie, che in quegli anni emetteva fedi di credito per quasi
duecento milioni (lire sabaude), o la Cassa di Risparmio di Milano, che
registrava 120 milioni depositi (lire sabaude). Sarà il corso successivo della
storia, con l’Italia una e indivisibile, a conferirle un ruolo centrale nell’economia
nazionale, e saranno le sue mene, propriamente intrallazzistiche, a bloccare sul
nascere ogni tentativo della mercatura meridionale di dotarsi di un sistema
creditizio concorrente con quello toscopadano, cosa che in parole povere
avrebbe significato metterlo in ginocchio. Bisogna anzi dire che in uno Stato
fintamente nazionale, nella cui parte alta sono nati prima i capitalisti e poi il
capitale, la fasulla banca nordista, con i suoi inenarrabili brogli, fu la vera
levatrice del sistema italiano, in cui l’efficienza della sezione dominante è
impossibile senza l’inefficienza della sezione coloniale; un fenomeno singolare,
che forse non ha riscontri nel mondo civile e sul quale le storie patrie
preferiscono sorvolare per motivi evidenti.
L’impulso a creare una banca d’emissione sul modello francese venne da
Raffaele De Ferrari, sedicente duca di Galliera, che si era arricchito a Parigi,
dove gestiva, fra l’altro, l’appalto della nettezza urbana (Sereni**, pag. 162).
Questi viene presentato dalla mitologia capital-patriottica come un uomo
d’affari moderno e persino generoso. In verità, oltre che un capitalista di
successo, il sedicente duca fu anche un gran trafficone. Come tutti gli uomini,
onesti o disonesti che siano, amava la sua città e prima di morire le regalò 20
milioni - a quel tempo una cifra da far impallidire un re – per l’ingrandimento
del porto. Secondo l’autore di un’opera che, fra l’altro, descrive con molta
efficacia la nascita dell’industria genovese, De Ferrari fu il primo presidente
della società proprietaria della Banca di Genova (Gazzo, pag. 26). Secondo
altri, per esempio l’autorevole Di Nardi, non appare tra i fondatori [1] . E’
tuttavia facile vedere la sua impronta stampata in controluce nell’agile,
disinvolta e moderna conduzione della banca.
Vivendo altrove, i suoi affari genovesi erano delegati a persone di cui aveva
stima e fiducia. Fra queste vi era Carlo Bombrini che, secondo alcuni autori,
diresse la Banca di Genova sin dal primo momento. E’ costui l’uomo che ci
interessa; un personaggio ingombrante, sulla cui opera gli storici patri
preferiscono non approfondire. A unità fatta sarà uno dei più grossi profittatori
del regime liberal-cavourrista, il regista e il primo attore del carnevale bancario
messo in scena ancor prima che Cavour morisse; e anche uno dei più vivaci
nemici e affossatori dei fratelli meridionali; un uomo nefasto, che va
considerato come una grande sciagura per il Sud italiano.
Gli anni intorno al 1845 segnarono un’inversione nell’andamento dei prezzi.
A livello mondiale si stima che, scesi tra il 1820 e il 1844 di oltre il 30 per
cento, risalissero di oltre il 20 per cento entro 1858. Sotto la spinta della
domanda crescente di derrate agricole, i numerosi Stati in cui era divisa la
penisola italiana videro crescere la loro partecipazione al commercio mondiale.
Per tal motivo l’iniziativa di Galliera ebbe subito un buon successo fra i
mercanti genovesi. Erano mesi in cui gli importatori cittadini andavano
accumulando scorte di grano e necessitavano, quindi, di finanziamenti.
Sopravvenuta, però, una breve crisi, per non liquidare in perdita le partite in
magazzino, ebbero bisogno di altri capitali. Presto le azioni della Banca, del
valore nominale di lire mille, arrivarono ad essere quotate sopra le 1.500 lire.
Gli osannatori delle virtù norditaliche affermano che essa superò la congiuntura
sfavorevole senza subire perdite; che, anzi, i suoi promotori e azionisti
lucrarono ottimi dividendi (Di Nardi, pag. 14); una cosa della quale sarebbe
ingenuo dubitare. Ciò suscitò invidia ed emulazione a Torino.
A quel tempo le due città non si amavano. Genova non dimenticava il ruolo
di capitale finanziaria e marinara che aveva tenuto nell’economia mondiale; un
ricordo divenuto più amaro dopo che il Congresso di Vienna (1814-1815)
l’aveva consegnata, mani e piedi legati, ai rustici Savoia. D’altra parte la Città
viveva ancora di traffici navali e di commerci, sebbene su una scala non
paragonabile a quella dei secoli precedenti. La cattività sabauda, insieme alla
non spenta vitalità e all’esigenza di non essere politicamente separata da
Milano, contribuirono a farne il focolaio forse più vivace del moto unitario,
specialmente della corrente repubblicana. Ma, per ironia delle cose, furono
proprio le ambizioni sabaude a fare di Genova la città che, assieme a Roma e a
Milano, ha tratto maggior profitto dall’unificazione italiana. Intorno al 1845, i
suoi armatori, i padroni dei suoi cantieri, i suoi mercanti e banchieri, celebri in
altri tempi, si sentivano soffocati a causa della preferenza che l’Impero
asburgico accordava a Trieste. La stessa Milano era costretta a preferire
Venezia alla più vicina Genova. Tuttavia, come Palermo, Napoli, Livorno, anche
Genova era piena di mercanti, di case finanziarie e di fabbricanti stranieri, che
ne animavano la vita. La città contava numerosi opifici, specialmente per la
fabbricazione del cotone, della carta, del sapone e nel settore che oggi
diremmo metalmeccanico. E tuttavia niente che potesse dirsi moderno. In
occasione di una riunione degli scienziati italiani, tenuta al Palazzo Ducale, nel
settembre del 1846, un giornale scrisse che “la lamentela è generale…
macchine non ce ne sono e non abbiamo chi le sappia usare. Quel che si può
avere viene dall’Inghilterra, ma si aggiunge tanta è la spesa che per erigere
uno stabilimento si richiedono egregie somme…” (Gazzo, pag. 50). Le vicende
successive dimostrano, però, che se mancavano le macchine moderne, non
mancava la gente informata e non mancavano le professionalità e quei talenti
che pochi anni dopo sapranno assimilare le tecnologie avanzate di cui si
deprecava l’assenza.
Torino è invece una media città capitale [2] della provincia agricola italiana.
Si è già annotato che appare più francese che italiana. Alle le sue spalle non ci
sono splendori rinascimentali. L’agricoltura piemontese conta principalmente su
un surplus, la seta greggia, che viene collocata prevalentemente a Lione.
Assieme alla contiguità geografica, è questo un altro motivo che spinge la
classe padronale subalpina a guardare più alle città francesi, specialmente a
Parigi, che alle rinsecchite città padane, sebbene molto più vicine. Come
dappertutto nell’Italia insubrica, dove il surplus economico è collegato a una
monocoltura d’esportazione - la seta – l’uniformità produttiva, più che unire,
allontana economicamente e culturalmente le realtà locali.
Trapiantata di qua delle Alpi, l’antica organizzazione feudale savoiarda
s’era evoluta verso un’avveduta borghesia aristocrateggiante di tipo terrieromilitare;
unico esempio del genere nell’Italia della decadenza. Però, dopo la
Restaurazione, tra i rivoluzionari e i reazionari - che c’erano in Piemonte come
dovunque - va inserendosi un variegato gruppo di patrioti, chi moderato, chi
conservatore, fra cui figurano Gioberti, Rosmini, Balbo, d’Azeglio, i quali
guardano alla Francia come a un modello da copiare in tutto o in parte.
Fatta di tutt’altra pasta, Genova mal sopporta il giogo torinese: il suo
irredentismo è forte. Per addomesticarlo, nel 1848, i Savoia si spinsero fino a
farla bombardare; una cosa che non deve sorprendere, in quanto consona allo
stile forcaiolo dei loro re e dei loro generali/gendarmi, come si constaterà in
appresso nel Napoletano, a Palermo e dovunque nell’infelice Sud,
disinvoltamente consegnato dal padronato siculo e napoletano alla dirigenza
speculatrice toscopadana.
La Banca di Sconto, Depositi e Conti Correnti di Genova parte nel 1844 con
un capitale di quattro milioni di lire e va avanti con alquanta prudenza.
Sebbene l’atto costitutivo approvato dal governo sabaudo le permetta di
emettere biglietti nel rapporto di tre a uno (di riserve metalliche), quindi fino a
12 milioni, i biglietti fiduciari effettivamente messi in circolazione ammontano
solo a 1,5 milioni nel 1845, a 4, 2 milioni nel 1846 e a 8,65 milioni nel 1847.
Cavour, modernizzatore convinto, ma non ancora ministro, critica tale
prudenza sul suo giornale (Cavour* pag. 302 e sgg.). In sostanza, la Banca di
Genova si piglia tre anni di rodaggio per cominciare a utilizzare la facoltà
accordatale di emettere moneta fiduciaria, e lo fa in modo contenuto, fino a 8
milioni, nel rapporto di 2 a 1. D’altra parte, il governo di Torino è
estremamente prudente in materia monetaria (Bachi**, pag. 902) dopo la
brutta esperienza fatta dai piemontesi durante le lunghe guerre napoleoniche,
allorché la moneta cartacea aveva sofferto una spaventosa svalutazione. E’
quindi immaginabile che fosse poco incline a offrire larghi spazi ai biglietti
bancari. Per giunta il Piemonte agricolo mostra d’avere circolante a sufficienza
per la commercializzazione dei suoi prodotti, e solo al momento della
campagna dei bozzoli si avverte qualche scarsità di numerario (Bachi**,
ibidem) - si può immaginare - gonfiata ad arte dalle case bancarie cittadine.
La svolta creditizia andò a premere non tanto sulla produzione agricola,
quanto sul giro commerciale e sulla fantasia di chi aveva delle idee, ma non il
capitale necessario per realizzarle. Nel 1848, la circolazione metallica
complessiva del regno sardo, secondo una valutazione di Cavour, si aggirava
intorno ai 120-150 milioni, secondo altri sarebbe stata di 200 milioni circa
(Romeo*, vol. II, p.174). Rispetto a questa cifra, la circolazione cartacea
rappresentava una percentuale del quattro per cento circa. Le emissioni della
banca genovese s’impennano, fino a raggiungere il rapporto di 5 a 1 (di
riserve) solo nel 1848, allorché il governo piemontese si preparava alla guerra
con l’Austria. In cambio di un prestito allo Stato di 20 milioni, la Banca di
Genova viene autorizzata a non convertire le banconote in circolazione: circa
31 milioni, di cui 20 milioni emessi per decreto regio, senza alcuna copertura.
E’ il cosiddetto corso forzoso. L’espressione non significa soltanto che la Banca
non era tenuta a convertire i biglietti, ma anche che chi aveva contratto un
debito poteva pagarlo con cartamoneta ed esserne liberato. Nella pratica le
cose non andarono così semplicemente. A livello della gente comune, la
moneta metallica rimase l’unica a essere usata. La banconota penetrò, invece,
a un livello più alto, quello degli operatori economici. Ho già ricordato che da
almeno cinquecento anni la circolazione cartolare del dare e dell’avere
attraverso lettere di credito, cambiali, tratte, mere scritture contabili,
permetteva ai banchieri e ai grossi mercanti di fare, nei rapporti reciproci, un
uso parecchio modesto del metallo coniato. Ai banchieri, ai mercanti, agli
industriali servivano invece due cose: che la fiducia si istituzionalizzasse
(rimando al passo di Pellegrino Rossi, prima riprodotto) e che i rapporti
fiduciari coinvolgessero anche chi stava su un gradino più basso. Ancora oggi
esiste una categoria di piccoli e medi imprenditori, che ruota intorno ai grossi
come le falene intorno alla lampada. Alla Fiat l’hanno definita l’indotto. Ma non
sempre si tratta di satelliti che ricevono luce e calore da un solo, grande
pianeta. A volte sono operatori indipendenti, la cui mediazione consente ai
maggiori imprenditori di entrare in relazione (indiretta) con la produzione
reale e con il consumo reale [3] .
L’oro innalzava a padrone chi lo aveva in mano. Idealmente, il banchiere
stava sotto il redditiere, titolare del deposito. Il passaggio dal numerario alla
cartamoneta capovolgeva la padronanza. La carta liberava il banchiere dalla
dipendenza verso il padronato terriero. La catena della moneta fiduciaria
allargava il suo potere di comando. Con un biglietto che riscuotesse la fiducia
dei piccoli e medi operatori, i grossi avrebbero potuto moltiplicare il loro giro
commerciale. Non solo. Avrebbero scaricato anche una parte dei costi su chi
stava sotto.
Al tempo di Cavour, il giro delle banconote fiduciarie, estraneo al grosso
pubblico, dovette ristagnare nel rapporto tra imprese maggiori e medi
operatori, loro caudatari. E fu sicuramente a questo livello, non riuscendo la
banconota a penetrare più in basso, che il metallo guadagnò un aggio sulla
carta. In parole povere, chi possedeva 100 lire oro era, a seconda del corso,
come se avesse 105, 110, 120 lire.
Dal lato dei grossi imprenditori, la fiducia mostrò la sua gran virtù. Fin
quando la moneta metallica fosse circolata fra la gente, i finanzieri avrebbero
fatto i loro affari con i denari degli altri. Nel mondo contemporaneo, la cosa
corrisponde a un progresso. Ciò spiega come la Superba, che da più di un
secolo viveva in splendid isolation, si riaprì alla progettazione del futuro
(Gazzo, pag. 56).
Un effetto opposto, la sfiducia, si ebbe nel settore del piccolo commercio
che prese a rallentare in modo preoccupante, sicché, nel 1851, il governo
decise di revocare il corso forzoso. Nel frattempo la Banca di Genova aveva
messo radici nel suo ambiente. Il corso forzoso aveva favorito la circolazione
dei suoi biglietti. Si trattava di biglietti da 1000, da 500 e da 250 lire, come
dire da sei, da tre e da un milione e mezzo attuali; cifre di cui la gente
comune neppure sentiva parlare a quel tempo, quando un chilo di pane
costava pochi centesimi di lira. E ciò nonostante gli affari della Banca furono
ottimi, segno chiaro che il mondo degli affari aveva fame di credito.
Tab. 4.1 Banca di Genova. Operazioni attive e utili prima della fusione con
la Banca di Torino
Lire piemontesi

- 1845 1846 1847 1848 1849*
Operazioni attive:
sconti + anticipazioni
Totale
34.332.000 52.946.000 38.657.000 42.976.000  
Cartamoneta in
circolazione
1.513.000 4.216.000 8.644.000 21.180.000  
Riserve auree
dichiarate
1.121.800 1.438.000 6.624.100 5.361.200  
Utili dichiarati 29.000 91.000 99.000 150.000 426.000


Fonte: Di Nardi, pag. 14 e sgg.
* Nel '49 la Banca di Genova cessa, per diventare, dopo la fusione con la
Banca di Torino, Banca Nazionale degli Stati Sardi
Nel poco tempo in cui fu solo genovese, la Banca compì operazioni attive che
stettero mediamente sui quaranta milioni annui, più il prestito di 20 milioni allo
Stato, che al tasso del 2 per cento le rese le lire quattrocentomila segnalate in
tabella per l’anno 1849. Poco per una grande città portuale in quella fase di
espansione del commercio marittimo. Pochissimo a confronto con le operazioni
attive che il Banco delle Due Sicilie effettuava negli stessi anni [4] .
Pochini sembrano anche gli utili dichiarati dalla Banca di Genova. Trenta
milioni, prestati al tasso del 5 per cento [5] , danno un milione e mezzo di utile
lordo, partendo dal quale, per quanto pesanti possono essere i costi, è ben
difficile scendere fino a 90 mila lire. Meno della metà di quel che incassava la
famiglia Cavour vendendo il riso prodotto nella sola tenuta di Leri. Pautassi
(pag. 316) indica cifre diverse da quelle sopra segnate [6] . Evidentemente
Bombrini teneva una contabilità in nero. Non sembri avventato il sospetto: chi
ha attentamente curiosato fra le sue cifre - per esempio la Commissione
Parlamentare d’Inchiesta sul corso Forzoso - ha toccato con mano che il vino di
quella botte dava allo spunto.
La tabella consente di rilevare che il moderno capitalismo genovese nasce
già scaltrito in una materia, il falso in bilancio, che sarà, poi, nell’Italia
toscopadana, una delle arti più consone al genio della stirpe. Il falso si rileva
con un ragionamento a contrario. Le trattative condotte da Carlo Bombrini, per
conto della Banca genovese, e da Camillo di Cavour per conto della Banca
torinese, durarono ben due anni a causa del fatto che i padroni genovesi
pretendevano una valutazione di lire 1.400 per ogni azione conferita. Ora, se ci
prendiamo la briga di spargere 90.000 lire di utili su 4000 azioni da lire mille
(totale 4 milioni di lire), avremo che ogni azione frutta un dividendo di lire
22,5, su mille versate o da versare, comunque messe a rischio; in sostanza
l’investimento avrebbe dato un profitto del 2,25 per cento. Una cosa credibile
solo nel paese degli asinelli. Capita qualche volta che io creda agli storici
italiani, ciò nonostante nessuno di loro riuscirà mai a convincermi che a
Genova i capitalisti fossero tanto fessi. E che ancor più fessi fossero i capitalisti
torinesi - e fra loro Cavour - che accettarono di conferire alle azioni della
Banca genovesi un premio di lire 250 (Marchetti, pag. 34). Un’azione, valutata
il 25 per cento in più, solo qualche anno dopo l’emissione, prefigura un
dividendo di almeno il 10 per cento, e non del due per cento, come si
pretende. Peraltro, anche tale percentuale va elevata perché, non essendo
stata versata che una quota del capitale azionario, le lire impegnate non erano
mille, ma solo 500.
Sulle prime, il prestito chiesto dallo Stato alla Banca di Genova spaventò i
soci e l’opinione benpensante della Città; ci volle qualche tempo perché gli uni
e l’altra si rendessero conto che il governo sabaudo, non sapendo affrontare da
sé la situazione finanziaria creata dalla guerra, regalava ben venti milioni,
sottratti alla gente, a chi s’era deciso ad arrischiare forse un decimo di tale
cifra, in sostanza il capitale già versato. E per sovrappiù regalava anche una
specie di rendita a chi metteva di suo nient’altro che le spese tipografiche.
Certo nessuno meglio dei genovesi aveva sperimentato l’inaffidabilità di re e
imperatori, ma le condizioni economiche dello Stato piemontese, sebbene
appesantite dalle spese di guerra, non lasciavano prefigurare un crac. D’altra
parte, se i cittadini sabaudi non conoscevano la storia delle banche di
emissione francesi e inglesi, sicuramente la conoscevano i padroni della Banca
di Genova, e la storia insegnava che in nessun caso di crac bancario del
passato gli azionisti avevano pagato più della quota azionaria [7] , avendo
sempre preferito lasciare tale onore al pubblico.
Come accennato, il corso forzoso dei biglietti dalla Banca di Genova portò a
un incremento della circolazione monetaria di circa il 10 per cento. Ma ciò
assume un senso solo in relazione ai movimenti della retrostante speculazione.
4.2 La Banca d’emissione di Torino nacque per merito di Cavour non ancora
ministro, il quale seppe volerla politicamente e realizzarla rischiando di tasca
propria. Infatti investì nell’operazione 160 o 180 mila franchi, suoi e di alcuni
suoi amici, lucrando, nel breve volgere di un anno, circa 40 mila franchi (tra il
25 e il 20 per cento dell’investimento). Prima che le trattative fra i fondatori si
avviassero concretamente, pare che Cavour fosse chiamato a vincere le
resistenze dei vecchi banchieri torinesi, che non volevano novità in casa loro,
meno che mai un potere capace di sovrastarle.
L’idea di creare a Torino una banca d’emissione portò alla luce del sole anche
il conflitto latente tra i produttori e i finanzieri. In passato, i produttori e gli
esportatori di seta avevano ottenuto dallo Stato prestiti a buone condizioni.
L’erario sabaudo aveva delle eccedenze di liquidità e, come è ancora costume
in tutti gli Stati, aiutava un settore portante delle le esportazioni nazionali.
Venuto meno, dopo la sconfitta di Novara, l’aiuto del pubblico erario, i setaioli
aspiravano ad avere una partecipazione nella costituenda banca. Oltre tutto
erano gli operatori più interessati al credito, in quanto tra l’avvio della
produzione e la realizzazione del valore passavano lunghi mesi, dovendo essi,
secondo la pratica commerciale del tempo, prima acquistare la materia prima
(le uova della farfalla, la foglia dei gelsi, il combustibile etc.), quindi anticipare
i salari, poi collocare la merce e alla fine attendere che il cliente pagasse.
I grossi finanziari e i banchieri, però, non volevano che la pecora che essi
tosavano si mischiasse con i pastori. Pare che Cavour prendesse le difese dei
setaioli, ma se lo fece, dovette tuttavia darsi per vinto. Alla società per azioni,
che si costituì per dar vita alla Banca di Torino, parteciparono solo dieci
persone e case bancarie, autoselezionatesi tra gli operatori più ricchi. Fra i
dieci anche Cavour [8] . La presidenza toccò al banchiere Giovanni Nigra,
fratello del ministro delle finanze.
Già prima che si andasse dal notaio, il governo chiese anche alla nuova
banca un prestito di 20 milioni, offrendo in cambio la facoltà di emettere
biglietti per un importo pari. I soci non si mostrarono alieni dal lucrare sulle
difficoltà che la guerra perduta creava allo Stato. A questo punto, però, i
milioni in circolazione sarebbero diventati 20+20+12+12 = 64. Ciò apparve
preoccupante a Cavour, il quale temette che un eccesso di carta in circolazione
avrebbe incrinato la pubblica fiducia, con la prospettiva d’una caduta del corso
dei titoli e forse anche di un’inflazione (Marchetti, pp. 25 e 29; Di Nardi, p.
19); una preoccupazione conforme al rango patrimoniale del conte, che egli
esternò sul suo giornale. Ma i suoi articoli non spaventarono chi allora era al
governo [9] , cosicché, tra il 1849 e il 1850, la circolazione cartacea toccò i 51
milioni.
L’esistenza della Banca di Torino fu breve. Ad opera del duo Bombrini-
Cavour si arrivò faticosamente alla fusione con il prototipo genovese. Rosario
Romeo* (II, pag. 352) osserva che i due s’intesero subito. Al colto aristocratico
i mercanti piacevano, e a ancor più gli speculatori. Egli stesso lo era stato. Il
disegno politico che concepiva adesso, da ministro, era vasto. Bombrini lo capì.
Capì anche che non poteva non secondarlo, sebbene il rischio non fosse di poco
conto: la guerra all’Austria. La Francia e l’Inghilterra, le due grandi potenze
navali, che esercitavano una pesante egemonia in tutto il mondo affaristico,
non accettavano che l’Italia rimanesse quella che la Restaurazione aveva
stabilito. E neppure i lombardi, i liguri, gli emiliani, lo accettavano Tuttavia
Bombrini non fu un patriota, meno che mai il patriota che gli storici ci
raccontano, ben sapendo di raccontare fandonie. In appresso, morto Cavour,
l’Italia una e indivisibile precipita in un’indicibile confusione, a causa di
un’eredità politica ambigua e dannosa, fatta di ambizioni campate in aria e di
concrete ingordigie municipali. In tale clima, il vero volto del banchiere
genovese si mostra senza orpelli. E’ il volto di un ladro, di un profittatore del
regime inaugurato dallo stesso Cavour. Vedremo in appresso in quali occasioni
e con quali atti ed espedienti ricatta i governi e il parlamento. Che questo lupo
fosse prima una pecora, è ben difficile credere. Quel che si può dire è che la
storiografia italiana in nessun caso è altrettanto falsa, quanto a proposito di
tale fosco personaggio.
La nuova società prese il nome di Banca Nazionale degli Stati Sardi, con una
sede a Genova e un’altra a Torino, la quale fu alquanto attiva, in quanto, tra il
governo e la nuova banca si realizzò una forte contiguità, quasi una
confusione. La Banca divenne il braccio finanziario di Cavour, oltre che l’unica
banca autorizzata all’emissione. Nacque “una fraternità, non sempre
opportuna e nitida, fra il Tesoro e la banca, la prima pagina nella dolorosa
ampia storia di anormalità nel nostro regime monetario” (Bachi, pag. 56.
Grassetto del redattore).
In verità, la commistione non fu voluta da Bombrini, ma da Cavour. Il
contesto è oltremodo chiaro. Raffaele De Ferrari avvia la banca per rianimare i
commerci marittimi della sua amata città, prospettandosi anche dei buoni affari
personali; un doppio risultato che s’inquadra perfettamente nella logica dei
meccanismi capitalistici. Avviata la Banca di Genova, anche Torino vuole una
banca. Ma tolto Cavour, i torinesi non sono ancora mentalmente attrezzati per
gestire una banca d’emissione. Cavour capisce che bisogna agganciasi ai
genovesi. Mentre si tratta la fusione tra una realtà già attiva e una ancora da
calare in terra, scoppia la prima guerra cosiddetta d’indipendenza. I ministri di
Carlo Alberto perdono la testa e non si rendono conto di possedere le risorse
necessarie per portare avanti le operazioni militari, cosicché, con il volto
burbero del padrone armato di sciabola, vanno ad accattare venti milioni
presso i sudditi genovesi. Si può facilmente immaginare la scena: “Tu,
Bombrini, non ci rimetterai niente di tasca tua, saranno i genovesi a pagare,
dando oro e argento in cambio di carta”.
Contro i cantastorie dell’Italia unita, un punto va ribadito: il governo di
Torino appioppa ai genovesi, e non ad altri, un donativo d’oro monetato.
Genova vorrebbe resistere. Cavour, non ancora ministro, ma già leader
sabaudo della corrente riformatrice, incontra Bombrini, gli impartisce una
convincente lezione di storia economica e bancaria, e se ne fa un alleato. La
Banca di Genova si adatta a sbarcare a Torino, ma lo fa solo dopo che i
magnati taurini le rifondono [10] la metà dei milioni prestati allo Stato.
Qualche tempo dopo Cavour diventa ministro, e nel 1852 presidente del
consiglio dei ministri.
Come è noto, con Cavour il progetto di mettere il Piemonte alla guida del
movimento risorgimentale, che era di Carlo Alberto e che Vittorio Emanuele
ereditava, subisce un’evoluzione. Sul re non si discute, tanto più che ha dietro
di sé un esercito e che si è impegnato a farlo combattere, ma il fine vero del
risorgimento, che emerge chiaramente con la conquista d’Italia, non è
l’espansionismo sabaudo. E’ l’emancipazione della borghesia toscopadana degli
affari, che il predominio austriaco tagliava fuori dal moto borghese promosso
dall’Inghilterra e dalla Francia. E’ il governo del paese, attraverso la formula
costituzionale e parlamentare [11] . Cosicché per il leader della borghesia
speculatrice nazionale, l’indipendenza nazionale, il governo dello Stato e degli
affari del padronato emergente s’intrecciano così indissolubilmente che l’unità
nazionale si trasformerà in un autentico disastro per le classi popolari,
comprese quelle padane.
Restringendo il discorso ai problemi monetari e del credito, persino per la
storiografia unitaria è incontroverso che Cavour usa la banca d’emissione per
risucchiare oro dalla circolazione, sebbene non avesse reso esplicito il progetto
al parlamento da cui traeva la sua forza politica. “Si trattava…di rastrellare il
risparmio, di convogliarlo verso il pubblico erario, facendo tuttavia in modo che
il mercato non soffrisse del prelievo, ma anzi se ne giovasse…”(Pautassi, pag.
335).
“Fra le misure atte a irrobustire la finanza e l’economia piemontese Cavour
includeva anche il rafforzamento della Banca Nazionale. Il 24 maggio 1851
presentò infatti un disegno di legge che autorizzava la Banca a raddoppiare il
suo capitale da 8 a 16 milioni (cosa che sarebbe servita a dare impulso
all’emissione per altri 24 milioni, ndr), e che conferiva ai suoi biglietti il corso
legale (cioè un potere liberatorio nei pagamenti, ndr), imponendole in pari
tempo l’obbligo di istituire due succursali a Nizza e a Vercelli e di assumere le
funzioni di cassiere dello Stato” (Romeo* II, pag. 505).
In pratica il compito della Nazionale era quello d’incassare numerario dai
debitori dello Stato e di pagare con biglietti i creditori. Cavour non ottenne il
richiesto corso legale e incontrò una fiera resistenza da parte della sua stessa
maggioranza anche sulle altre proposte. La partigianeria di Rosario Romeo mi
alleggerisce il lavoro, liberandomi dall’onere di ulteriori argomentazioni. Per
Cavour “il corso legale era solo una concessione necessaria per indurre la
Banca all’aumento del capitale (che poi portò non a 16 ma a 32 milioni, ndr) e
per mettere in tal modo mezzi più estesi al servizio del commercio, e, in caso
di necessità, a disposizione dello Stato […] Si trattava insomma di una misura
volta a mobilitare il risparmio del paese […] Cavour era piuttosto dell’opinione
che Peel (l’autore del Banking Act del 1844, ndr) avesse ecceduto nel senso
della ‘centralizzazione bancaria’, conferendo alla banca centrale una eccessiva
preminenza. Il problema della regolazione dei flussi monetari restava ai suoi
occhi di minore rilievo rispetto a quelli fondamentali del sostegno al
commercio e al Tesoro” (ibidem, p. 506).
Secondo gli storiografi, i senatori non capirono il valore del progetto. Al
contrario i resoconti parlamentari mostrano che essi – ancora acerbi quanto
all’immoralità sostanziale che presiedeva al funzionamento del sistema
capitalistico - avvertirono lo stridore dell’idea cavouriana; la quale era poi
questa: la Banca Nazionale acquistava lo status di banca pubblica, senza però
essere tenuta a sottostare al governo, al parlamento e tanto meno a una
coerente disciplina in materia monetaria.
Dopo i seri interventi di Carlo Alberto a favore dell’agricoltura – e nonostante
la guerra perduta - l’economia piemontese andava piuttosto bene. Inoltre il
liberismo cavouriano e la facilità del credito rianimarono le esportazioni
agricole. Gli esportatori e i contrabbandieri piemontesi si spingevano in
Lombardia per acquistarvi seta, che riesportavano in Francia. Era quindi
difficile per i membri del parlamento - anche per quelli di loro che avevano
affari all’estero - capire perché Cavour volesse disordinare tutto, dare slancio
alla spregiudicatezza e all’immoralità negli affari attraverso un eccesso di spesa
pubblica e la conseguente inflazione monetaria.
Tra 1848 e il 1858 il Regno sabaudo registrò una sensibile inflazione dei
prezzi espressi in valori cartacei. Quando si parla di Cavour e del Piemonte, la
parola inflazione non si può pronunziare, come al tempo del Duce non si
poteva sputare per terra, nonostante che i fazzoletti fossero scarsi in tasca alle
persone. Neanche Romeo ha il coraggio di scrivere la parola inflazione.
Utilizzando però le cifre che egli fornisce sul rapporto tra quantità e valore
delle importazioni e delle esportazioni (Romeo* III, p. 372), si ricava che in un
solo anno la svalutazione della lira piemontese toccò una cifra compresa tra il
17 e il 18 per cento. Le reazioni furono allarmate. Il 15 maggio 1858, alla
camera il deputato Roberti di Castelvero poté affermare che lo Stato sabaudo
aveva speso negli anni precedenti un miliardo e duecento milioni; una cifra
sonante, anzi da bancarotta per una formazione politica le cui entrate annuali
stavano sui 130 milioni. Lo stesso deputato denunziò il fatto che la rendita era
scesa alla metà, 53 lire, rispetto alle cento nominali (Romeo, ivi) e l’aggio
dell’argento e dell’oro sulle banconote toccava punte intorno al 10 per cento. Il
tutto avvalorato dal confronto tra i salari pagati dalla fabbrica napoletana di
Pietrarsa che, al cambio, stavano fra le lire 2,50/3,00, e i salari pagati
dall’Ansaldo di Genova, che stavano intorno alle lire 5,00. Ai dati dell’onorevole
Roberti di Castelvero si può aggiungere che l’inflazione era confermata dal
fatto che intorno all’Ansaldo si registrava (e si lamentava) una notevole
disoccupazione, provocata dalla scarsità di commesse, mentre le commesse
statali e quelle estere – comprese quelle piemontesi - consentivano alla
fabbrica di Pietrarsa di non avere lavoro operaio di riserva.
L’oro dei suoi concittadini e la volatilità della banconota bombrinesca
servivano a Cavour per mettere in evidenza la leggerezza dello Stato liberale -
la facilità di ottenere profitti; esperienza da opporre alla pesantezza delle
dinastie esistenti in Italia e del paternalismo asburgico, che ficcavano il naso
negli affari di tutti. Ma quello di Cavour era solamente un bluff, perché la civiltà
industriale è fatta di produzione e produttori, e non di speculatori. E tuttavia un
bluff riuscito per chi si mette dall’angolo visuale degli speculatori toscopadani,
come i loro cattedratici corifei.
Come accennato l’opposizione parlamentare, che era l’eco della generale
opposizione dei piemontesi verso le disinvolte operazioni finanziarie e
monetarie di Cavour, fu vivace e persino vincente sul punto del corso legale.
Tuttavia gli oppositori non seppero offrire alternative pratiche. Ciò permise al
ministro di aggirare l’ostacolo. L’anno prima era stata votata una legge che
autorizzava l’emissione di 18 milioni di obbligazioni dello Stato. Non si era
provveduto, però, a metterle in vendita. Cavour escogitò un passaggio che
poté apparire rivolto a piccola cosa. Ottenne che non si procedesse attraverso
un’asta pubblica, come di regola, ma che i titoli fossero affidati per la vendita
alla Nazionale (Pautassi, pag. 335). Ottenne anche che la Nazionale fosse
autorizzata a finanziare lo Stato fino a quindici milioni e che istituisse un fondo
di due milioni per agevolare l’apertura di banche di sconto. Ovviamente essa
aprì un conto intestato al Tesoro e prese a effettuare i pagamenti ordinati dal
tesoro con le proprie banconote. Era la strada maestra per immetterle in
circolazione e per consentire a Bombrini di assorbire l’oro e l’argento in
circolazione.
Cavour usò strumenti antichi sia nel campo diplomatico sia in quello militare.
Nel campo economico e monetario adottò invece strumenti moderni, ma non
per una moderna politica economica. Il suo fu un indirizzo antiquato e tale che
avrebbe portato i Savoia alla bancarotta, se la conquista d’Italia non li avesse
improvvisamente arricchiti. Nel 1859 i sudditi sabaudi si ritrovavano uno Stato
piegato dai debiti [12] , senza che le industrie liguri e piemontesi fossero in
condizione di varare un piroscafo o di costruire più di due locomotive all’anno.
Ma pare che la fortuna aiuti gli audaci, e anche i giocatori che bluffano. Difatti,
il conto, lo pagheranno le regioni annesse.
4.3 Il corso forzoso, decretato da Carlo Alberto nel 1848 in previsione
della guerra con l’Austria, fu revocato nel settembre del 1851. Subito la
circolazione cartacea, che era salita a 51 milioni, scese a 35 milioni, non
discostandosi da questo livello fino al 1858, allorché fu nuovamente imposto il
corso forzoso. Tale staticità, più che stabilità, mostra che il biglietto
convertibile non ricevette da parte del pubblico quella trionfale fiducia che la
storiografia va scodellando. Certamente il biglietto non concretizzava una
comodità per la gente. I soli alleati della banca d’emissione erano i grossi
mercanti che, accettando un prestito in moneta fiduciaria, risparmiavano sul
tasso d’interesse, meno alto rispetto al prestito di numerario. D’altra parte lo
stesso taglio dei biglietti (lire 1.000, 500 e 250) chiarisce abbondantemente
che la banconota della Nazionale sarda non era destinata all’uso di gente che
guadagnava poche lire al giorno.
Nonostante che i pagamenti del Tesoro avvenissero attraverso la Banca
Nazionale - con la conseguenza che i biglietti venivano praticamente imposti a
chi riceveva danaro dallo Stato - la pubblica sfiducia induceva i prenditori di
cartamoneta a non aspettare molto per andare in banca a farsela cambiare. La
cosa fu resa ancor più pesante dal fatto che in Piemonte avevano corso sia
l’oro che l’argento, in un rapporto legale correlato al valore intrinseco di
trent’anni prima, che era di circa 1 a 15 [13] . Ciò espose le finanze piemontesi
a difficoltà notevoli. Accadde, infatti, che nel corso degli anni cinquanta arrivò
in Europa l’oro delle nuove miniere canadesi e australiane. Il valore
commerciale dell’oro in termini d’argento si abbassò, cosicché chi prendeva
monete d’argento al prezzo ufficiale guadagnava la differenza con il prezzo
commerciale del metallo (in linea di massima una lira ogni quindici lire). Le
monete d’argento, che erano di taglio minore, cominciarono a essere
trattenute e la loro circolazione si rarefece. Tuttavia il governo non modificò il
valore intrinseco delle monete. Quattro monete da 5 lire in argento rimasero
pari a una moneta da 20 lire in oro. Gli speculatori si fecero avanti e presero a
dare un qualche premio al fine di rastrellare l’argento. Il quale veniva, poi,
spedito in Francia, certamente dai privati più ricchi e dagli speculatori, per
acquistare oro. Portato in Piemonte, l’oro otteneva altro argento. In tal modo,
tonnellate d’argento partirono dal Piemonte verso la Francia e quintali d’oro
vennero acquistati in Francia per il cambio con l’argento.
La particolare vicenda rende difficile una equilibrata valutazione del
gradimento che la banconota bombrinesca riceveva in Liguria e in Piemonte. E’
invece attestato che Bombrini continuò ad importare oro contro la contraria
opinione degli azionisti della sua Banca. Certo non ho altra prova che la logica
comune, ma nessuno mi toglie dalla testa che il massimo speculatore del
differenziale tra i coni d’oro e quelli d’argento fu proprio Bombrini. Non hanno
altra ragionevole spiegazione le enormi importazioni d’oro da parte della Banca
Nazionale, né il fatto risaputo e attestato che nell’effettuare il baratto (così era
detta comunemente la conversione della carta in numerario) la Banca non
dette mai moneta d’argento (Atti II, pag. 202).
Durante la crisi ciclica caduta a metà degli Anni Cinquanta, il governo
concesse a Bombrini di abbassare la riserva metallica al 5 per 1, per i primi 30
milioni di emissioni, restando in vigore il rapporto di 3 a 1 oltre i 50 milioni.
Nonostante la più favorevole disciplina, la Nazionale tenne più riserve del
richiesto. Solo nel 1857-8 esse scesero sotto il minimo preteso dalla legge. Per
far fronte alla richiesta di cambio, la Banca parve svenarsi. Nel corso di alcuni
anni importò metalli in misura notevolissima, del tutto maggiore della
circolazione media dei biglietti. Evidentemente a Bombrini conveniva mostrasi
pronto a convertire i suoi biglietti in ogni momento. D’altra parte, dare oro e
incettare argento costituiva un’operazione alquanto proficua. Ovviamente le
importazioni d’oro non venivano pagate con altro oro e neppure in biglietti, ma
riscontando presso i banchieri parigini le cambiali dei suoi clienti, cosa che
comportava la perdita di una parte del lucro e una grave soggezione alla
finanza straniera. In mancanza di quanto sopra, la Nazionale sarebbe stata
costretta a cedere sé stessa, come accade - nei romanzi - alle fanciulle in
pericolo, per salvare la pelle. Comunque i numeri ci danno un quadro molto più
efficace della vicenda.
Tab. 4.3a Quadro riassuntivo delle operazioni della Banca Nazionale del
Regno di Sardegna
(Le cifre dopo la virgola indicano milioni di lire)

Anni A
Banconote in
circolazione
(Media
nell'anno)
b
Riserve
metalliche
(Media
nell'anno)
c
Importazione
di metalli
b+c Fuga di
argento
nell’anno.
Ipotesi
minimale
Esubero
di met. su
banconote
Operazioni
attive (Sconti
anticipazioni)
1852 34,7 16,5 24,9 41,4   6,7  
1853 36,2 14,7 27,6 42,3 26.7 6,1  
1854 31,6 13,8 27,2 41,0 28,5 9,4  
1855 36,8 14,8 62,1 76,9 26,2 40,1  
1856 35,2 14,1 60,2 74,3 62,8 39,1  
1857 32,5 10,1 53,3 63,4 64,2 30,9  
1858 39,8 12,1 36,2 48,3 51,3 8,5  


Fonte: Di Nardi, passim
La tabella è gonfia di dati. Nelle prime due colonne sono riportate le cifre
relative alla circolazione, che non avverte sensibili modificazioni, e alle riserve,
che tendono a calare, probabilmente in connessione con la crisi monetaria.
Nella colonna “c” sono indicate le importazioni di metallo, anno per anno.
Siccome la circolazione si mantiene stazionaria, la maggiore importazione che
si registra a partire dal 1855 si spiega o con il fatto che chi ha ricevuto in
pagamento della carta si affretta allo sportello della Banca per barattarla con
numerario e molto probabilmente con il fatto che Bombrini specula
sull’argento, o ancora con entrambe le cose. La colonna b+c è la somma tra le
riserve tenute dalla Banca Nazionale a copertura delle emissioni e le
importazioni di metallo. Non occorre altro per evidenziare il completo
fallimento dell’impresa bancaria a livello tecnico. Essa deve tenere più oro di
quanto abbia biglietti in circolazione. In Inghilterra un’azienda del genere
l’avrebbero buttata nel Tamigi, senza pensarci su due volte. Accanto alle
precedenti, l’incongruenza ha ancora un’altra possibile spiegazione: Bombrini
gioca la sue carte puntando tutto su Cavour e sulla guerra che la Francia
inevitabilmente dovrà fare all’Austria, se Napoleone III vuole restare in arcioni.
La tab. 4.3b riporta i datti forniti dallo stesso Bombrini circa il vorticoso
baratto delle banconote presso gli sportelli della banca d’emissione. Da quel
che accadde in Piemonte tra il 1851 e il 1858 il lettore può farsi già un’idea di
quel che sarebbe accaduto da lì a poco nell’Italia una, in mano a gente come
Cavour e Bombrini.
Tab. 4.3b Tempo di circolazione di una banconota del Regno sard

  1851 1852 1853 1854 1855 1856 1858 1
Giorni di circolazione
media nell’anno
986 312 277 201 146 104 102  
Tasso di fiducia 100 32 28 20 15 11 10  


Fonte: Di Nardi, op. cit., p.25
Basta un solo sguardo ai dati per rendersi conto che in Piemonte la
cartamoneta proprio non va. La vita di una banconota perde 884 giorni di
circolazione su 986 dal momento in cui è abolito il primo corso forzoso al
momento in cui è decretato un nuovo corso forzoso. Il tasso di fiducia, che
meglio sarebbe chiamare di sfiducia, fatto pari a 100 all’inizio del periodo,
cade a 10 alla fine del settennio. A stare ai fatti, la Banca Nazionale è più
vicina al fallimento che al successo. La salveranno soltanto gli eventi politici e
la copertura dei bersaglieri. Anche qui vorrei rilevare lo sfacciato
atteggiamento della storiografia, che non solo omette di evidenziare
l’evidenza, ma rivolta la frittella e addebita all’immaturità dei sudditi sabaudi il
fiasco di una singolare banca privata, la quale appioppa alla gente, in cambio
dell’oro, biglietti politicamente benedetti, ma che non hanno corso legale e
che non godono di fiducia alcuna.
Questa è la verità, e non le stupidaggini che ha scritto in difesa di Bombrini
il professor Di Nardi, nella più accorsata trattazione sulle banche neo – italiane
d’emissione
La confusa attività della Banca Nazionale volta a inghiottire quella forma di
risparmio nazionale, che era la moneta metallica, andò sicuramente a beneficio
della speculazione, come si ricava da un documento posteriore: gli Atti
dell’Inchiesta Parlamentare sul corso forzoso (1867/68). Esso riguarda la
ripartizione degli sconti effettuati dalla Nazionale nell’anno 1860.
Quell’anno, circa 158 milioni di sconti vennero così ripartiti:
Tab. 4.3c Banca Nazionale nel Regno d’Italia
Ripartizione degli sconti secondo la categoria dei clienti

Banchieri e stabilimenti di credito 84% (98,6 milioni)
Industriali 12% (13,5 milioni)
Proprietari  4% (4,7 milioni)


Quel dare danari a banche fasulle a Italia fatta, giustifica ampiamente l’idea
che, a maggior ragione, li elargiva senza alcuna prudenza quando era il
presidente del consiglio a incoraggiarlo. Ciò chiarito, la domanda a cui ci
toccherà rispondere è come le banche beneficiarie impiegassero il ricavato dei
risconti.
4.4 In ogni studio che si rispetti, Cavour viene presentato come un
appassionato e ardito sostenitore del libero commercio. La sua fede liberista si
era formata nell’ammirazione del padronato inglese, che offriva, non senza un
secondo fine, tale specchietto per le allodole all’ammirazione e all’imitazione
degli attardati padroni del resto d’Europa. Nell’empireo della civiltà britannica,
il liberismo commerciale è glorificato dall’idea di una classe padronale dedita a
riorganizzare su basi più attraenti il suo dominio sulle popolazioni nazionali e
su quella mondiale. L’idea aveva come fondamento pratico un impero
governato con rara ferocia e una tale ingordigia da far impallidire il ricordo del
propretore Verre. Siccome i padroni credono d’essere gli eletti della natura o
della volontà divina, o di tutti e due, il nostro Benzo, asceso a Benso e anche a
Conte, dette credito a all’albionico suggerimento e, divenuto ministro, riuscì a
convogliare intorno a sé il consenso proprietario per fare il disastro chiamato
Italia. Fatta l’Italia, il liberismo venne imposto agli altri italiani per diritto di
conquista. Benché imposto alla nazione tutta, restò, tuttavia, una mera
proclamazione di principio proprio per quelle industrie, come la compagnia di
navigazione Transatlantica, che pur beccandosi più di un milione di aiuti
governativi l’anno non riuscì a sottrarsi al fallimento (Roncagli, pag. 7), o
come l’Ansaldo, allattata prima dalla Banca Nazionale e in appresso e senza
soluzione di continuità dalla Banca d’Italia vita natural durante. Il sistema degli
aiuti sottobanco fece i suoi primi passi sotto il grande ministro. Dopo la sua
morte si estese a tutto l’area toscopadana, con la copertura attiva e fattiva
della Banca Nazionale del Regno e delle banche sue caudatarie, e in appresso
sotto le ali della Banca cosiddetta d’Italia.
Per quanto un liberismo protezionista possa apparire una contraddizione in
termini, una cosa teoricamente ridicola, Cavour riuscì a realizzarlo come
codicillo dell’espansionismo sabaudo e poi ad imporlo come reale
discriminazione all’interno della nazione.
Mai un sistema economico nazionale ha potuto percorrere la strada
dell’industrializzazione senza sottoporsi a un periodo d’avviamento, durante il
quale i costi del rodaggio sono scaricati sui consumatori nazionali. Di regola ciò
avviene attraverso l’adozione di tariffe protettive che colpiscono le merci estere
in entrata. Era quanto chiedeva, appellandosi al governo di Carlo Alberto,
l’industriale Taylor, che aveva fondato a Genova, con i soldi dello Stato, la
futura Ansaldo: “Noi siamo lontani dal sollecitare il Regio Governo ad
accordarci permanentemente una siffatta protezione. La domandiamo solo per i
primi anni dello Stabilimento, perché siamo persuasi che senza di essa non
sarà possibile che si sviluppi in questi Regi Stati il ramo dell’industria che
proponiamo di introdurre considerandolo ormai indispensabile” (Gazzo, pag.
77). Creare un’industria significa scontare il rodaggio. Valerio Castronuovo (cit.
pag. 190) riporta le parole di un imprenditore tessile, risalenti al 1830. “Il
principio dello stabilimento di una manifattura in un paese, ove non esistette
mai, è stato difficile…”. L’alternativa al protezionismo è il fallimento delle nuove
aziende.
Esiste, tuttavia, una scorciatoia, un modo per aggirare la difficoltà. Esso è
rappresentato dal sostegno statale all’industria nascente. Cavour, si afferma,
temperò il suo liberismo; in effetti adottò un doppio indirizzo, liberista e
insieme protezionista. Che fu poi il credo di quella borghesia padana degli
intrallazzi che governò l’Italia in prima persona o la fece governare dai suoi
servili missi dominici. Si tratta, in buona sostanza, di un cobdenismo per i fessi
napoletani e di un colbertismo con i soldi dello Stato per gli straitaliani. Sotto
Cavour, il governo sabaudo divenne un potere “assai prodigo, assai costoso. La
prodigalità sembrò la via migliore per contribuire al progresso industriale e
commerciale del paese [sabaudo], per dare impulso allo spirito di associazione
ed accrescere la produzione della ricchezza e il generale benessere (Giuseppe
Prato, Annali di economia, citati da Gazzo, pag. 161. Grassetto del redattore).
E ciò va anche bene, anzi benissimo, ma diventa una rapina quando – sul
modello inglese – i costi vengono addossati agli altri, mentre l’industria di casa
propria viene sfacciatamente assistita e finanziata sottobanco.
Il protezionismo dall’interno nasce tra il 1851 e il 1853. L’esempio più
vistoso si ebbe con l’assegnazione – per decisione di Cavour - dell’Ansaldo a
Bombrini, in modo che la mandasse avanti con i soldi della Banca Nazionale.
Un caso clamoroso di malaffare, in quanto Bombrini si mise in tasca il lucro e
girò le passività al popolo italiano. Ovviamente l’operazione si allargò ad altre
aziende, sempre con la tecnica delle scatole cinesi bancarie, che
nascondevano la protezione. La creazione industriale veniva pagata da una
banca di sconto, le perdite che questa accettava di subire venivano scontate
dalla Nazionale; e le perdite della Nazionale dal popolo dei contribuenti.
Tuttavia - a mio avviso - il protezionismo dall’interno non rappresenta un
errore pratico e politico del liberista Cavour. Con questo sistema il costo dello
sviluppo industriale non è caricato sulle merci al momento del consumo, ma
sulla fiscalità generale. Il costo dell’avviamento industriale si distribuisce sulla
collettività. L’errore consistette invece nella sua convulsa applicazione, nello
spreco di risorse per creare un clima industriale, anziché direttamente le
industrie, come avevano fatto e facevano i Borbone di Napoli. Ma, a Cavour,
serviva più la pubblicità che la produzione. La mela che voleva cogliere non era
di qua del Ticino, ma di là: la Lombardia, che il regime napoleonico aveva
rianimato e modernizzato, le basse terre bagnate dal Po, il Veneto e lo sbocco
in Adriatico, i Ducati emiliani, la Toscana. Se non avesse mirato alla pubblicità
e fosse stato più serio, sicuramente avrebbe impiegato molti più anni. Però,
invece che indebitare i sudditi sabaudi importando binari e materiale rotabile
dall’estero, si sarebbe impegnato a far progredire la siderurgia e la meccanica
ligure-piemontese, come da più parti gli veniva suggerito. Forse avrebbe fatto
gli stessi debiti, ma sicuramente avrebbe messo le basi per attività serie e
durature.
Personalmente giudico condannabile il fuoco liberista con cui Cavour portò il
Regno subalpino sull’orlo del fallimento. E sono convinto sulla base della coeva
esperienza tedesca, che non fosse, il modello liberista, il solo madrigale adatto
ad attrarre verso il Piemonte le simpatie del padronato italiano. Ma non reputo
condannabile la protezione all’industria, aperta o dissimulata che sia.
L’industrialismo protetto dall’interno assumerà il carattere di una sopraffazione,
di una malandrineria, solo quando - fatta l’Italia - le industrie liguri,
piemontesi e lombarde saranno avvantaggiate dalla benevolenza del governo e
della banca centrale, e nello stesso momento le industrie siciliane e napoletane
si ritroveranno condannate a rispettare i sacri principi della libertà degli
scambi.
Un governo, come quello piemontese e come, poi, quello italiano, che si
metta alla guida della rivoluzione industriale, deve necessariamente spianare i
passi alla formazione delle singole industrie, specialmente all’industria di base.
Uno dei modi normali per farlo sta nel sovvenzionarle, direttamente o
indirettamente. In effetti l’industria moderna non nasce gratis. La società che
se ne avvantaggia deve pagare dei costi, spesso molto alti. E Cavour accettò
di pagarli, anche se poi la montagna non partorì neppure il classico topolino.
Alla prudentissima politica di modernizzazione dei monarchi italiani,
preoccupati che novità troppo rapide potessero scuotere le basi dei loro troni,
egli contrappose un’azione rivolta a far uscire dal bozzolo del ruralismo il
padronato piemontese. Ma non ce la fece. Costruì soltanto degli abili
speculatori e profittatori di regime. Mentre a Napoli i Borbone puntavano sulla
cosa - sulla fabbrica, sull’impianto moderno - investendoci parecchio, Cavour,
seguendo una sua inconsistente fantasia, puntò sugli uomini, mirò a covare i
capitalisti, a fabbricare i fabbricanti.
L’inevitabile contraddizione tra libera iniziativa e intervento statale, in cui
Cavour cadde, fu subito notata e teorizzata. “La prima causa [di ciò] sta nel
sistema in cui ci siamo lanciati, mossi dal desiderio di favorire le imprese di
grandi lavori […] lo Stato ha detto che certe imprese non possono mancare di
rendere un frutto non ordinario; lo ha detto, proteggendole a differenza,
dividendone la spesa e i rischi, accordando dei privilegi, garantendo un discreto
interesse. L’attività naturale dei capitali se ne sentì stimolata. I valori oziosi si
affrettarono a lanciarsi nella nuova direzione. Altri, che non sarebbero stati
oziosi, abbandonarono la linea su cui s’eran posti. Una porzione lasciò la terra
o l’opificio per andare alla Borsa; un’altra lasciò le sete e si diede allo sconto;
una terza venne dall’estero; una quarta fu creata sulla parola…(Francesco
Ferrara, citato da Romeo* II, pag. 519). L’economista siciliano, adottato dal
Piemonte sabaudo, era troppo autorevole per aver peli sulla lingua, e parlò
esplicitamente di protezionismo dall’interno. E però Ferrara non capiva che non
si trattava di un problema di euristica economica. Un capitalismo morale e
gratuito esiste solo nei libri che trascurano la storia, le vicende effettive.
La capitale della nuova morale fu Genova. Anzi, bisogna dire che molta parte
della buona riuscita della doppiezza cavouriana si deve al fatto che Genova, la
città che meno si era ruralizzata nel corso della decadenza italiana, si trovasse
inclusa nel perimetro statale del Regno sabaudo. Con il suo spirito di
speculazione e in conseguenza del fatto che Cavour voleva aiutarla a inserirsi
nel contesto sabaudo, Genova divenne l’epicentro del singolare rinnovamento
italiano, che, prima d’approdare all’ufficialità del protezionismo parassitario e
successivamente alle elargizioni democristiane, conobbe una fase trentennale
di disinvolto saccheggio dell’erario, di piratesca gestione della banca, di
fallimentare dissipazione del patrimonio pubblico, insomma quello che ai tempi
nostri si chiama tangentismo o intrallazzo, però elevato a una potenza
talmente alta da portare la nazione allo stremo, senza peraltro fabbricare i
fabbricanti, cosa per la quale bisognerà aspettare le rimesse degli emigrati,
trent’anni dopo.
4.5 A partire dalla sua ascesa a ministro, Cavour usò la banca bombrinesca
per inaugurare un clima speculativo e inflazionistico. La Banca Nazionale
prescelse un limitato campo di attività, mettendosi al servizio del tesoro e di
pochi grossi operatori economici, in particolare le cosiddette casse di sconto,
delle quali (il dato non è controverso) essa stessa e il grande ministro
promossero la nascita al fine di far crescere una classe di finanzieri (speculatori
del credito e della moneta). “Si trattava di anonime, dotate di capitali
inizialmente limitati; le quali, talvolta per espresse disposizioni statutarie,
intendevano dilatare le proprie operazioni riscontando il portafoglio” (Pautassi,
pag. 356), ovviamente presso la Nazionale. “Programmi così fatti rientravano
in pieno nel piano delineato da Cavour […] Di talune di esse è scomparsa ogni
traccia e quindi nulla si sa. Di altre è rimasto soltanto un ricordo vago”
(ibidem). Siamo alla speculazione stigmatizzata da Francesco Ferrara. La punta
di diamante del nuovo corso fu la Cassa del Commercio e dell’industria, nata
tra il 1852 e 1853. A fondarla furono quattro gruppi societari, due torinesi (la
ditta bancaria Mastregat & C. e la ditta bancaria Fratelli Bolmida & C.) e due
genovesi (la ditta di commercio Giovanni Rocca & Cugini fu Pietro Antonio e il
banchiere Luigi Ricci). I quattro gruppi sottoscrissero l’intero capitale di 8
milioni, suddiviso in 16 mila azioni da lire 500 cadauna. “Del valore di siffatte
azioni doveva essere versata soltanto una metà e siffatta metà era per di più
ripartita in rate” (ibidem, pag. 358). In sostanza, di proprio ci mettevano poco
più dell’Inno di Mameli. Da principio la Cassa fece buoni affari. Con un capitale
versato che, nella migliore delle ipotesi arrivava a quattro milioni, nell’anno
1854 effettuò sconti e anticipazioni per un totale di 87 milioni. “In portafoglio,
tuttavia, essa aveva effetti per sole lire 6.237.503” (ibidem) e 79 centesimi.
Tra capitale versato e cambiali, il tutto ammontava a dieci milioni, di cui ben
sei di crediti, come dire di denari futuri e incerti. Miracoli di Cavour! “Una
ventata di sconti e anticipazioni così fatta poteva tuttavia essere imprudente
[…] talune posizioni speculative non potevano essere mantenute. [La banca,
sicuramente,] doveva trovarsi a lottare con un certo immobilizzo, tanto più che
diversi effetti scontati erano sicuramente di comodo” (ibidem). Un’impresa di
questo tipo deve portare i libri sociali in tribunale: i creditori si dividono quel
poco che c’è, mentre gli amministratori varcano i cancelli di un carcere. Ma
questi signori erano dei patrioti, dei precursori dell’Italia una e indivisibile.
D’altra parte il creditore era uno solo, Bombrini, il quale giocava per conto del
grande ministro la partita di fabbricare i fabbricanti. Cosicché, invece di finire
in galera, gli amministratori decisero un aumento di capitale, e non lo fecero
versando i decimi ancora dovuti, ma incettando nuovi soci per altri otto milioni.
“Forse la piega che le cose stavano prendendo non era sufficientemente
tranquillante per i vecchi soci...” . A loro volta, i nuovi soci erano chiamati a
versare solo la metà delle lire cinquecento che costituivano il valore di ciascuna
delle sedicimila nuove azioni. Il governo non vide irregolarità in tale scorretta
procedura e ratificò la delibera (ibidem, pag. 359).
Evidentemente il duo Cavour-Bombrini si allargava fino a diventare…Cosa?
Qui il termine da impiegare dipende da un giudizio politico. Presso gli storici
sabaudi antichi e moderni, di destra, di sinistra e di ultrasinistra, l’espressione
consueta è la consorteria piemontese. Ma in termini di diritto positivo, per
qualunque ordinamento giuridico europeo anche in quel tempo, l’espressione
corretta sarebbe stata un’associazione a delinquere.
Quanto alla Cassa di Commercio e Industria, essa non solo decise, nel modo
più scorretto, un aumento di capitale (senza una preventiva riduzione del
capitale perduto), ma provvide anche a rifare il proprio statuto, nel senso di
poter assumere partecipazioni industriali. Nel 1855, gli sconti raggiunsero i 65
milioni, ma la Cassa aveva potuto costituire un fondo di riserva (e garanzia,
evidentemente) di ben 170.000 lire. Una beffa! In realtà niente era cambiato
dietro le sacre mura della banca. “Quegli immobilizzi che sembravano affiorare
sin dall’inizio della gestione si erano consolidati. Così la Cassa di Commercio,
durante la crisi che s’aprì nel ‘57 e si concluse nel ‘58, come si vedrà, dovette
attraversare un periodo della sua vita tutt’altro che facile” (ibidem, pag. 360).
Non siamo di fronte all’unico esempio di allegra finanza. A partire dal 1853 la
società piemontese prese a manifestare la sua ferma avversione alla politica
cavouriana. La popolazione si sollevò contro il taglieggiamento che l’inflazione
operava sui redditi minori. “Il 1853 fu un anno denso di sconvolgimenti e di
crisi: incominciò ad infierire il colera, i parassiti distruggevano le viti, il raccolto
fu cattivo, scoppiò una crisi commerciale. Conseguenza generale fu l’acutizzarsi
della miseria. La Valle d’Aosta fu teatro di gravi disordini, provocati dalle
imposte troppo onerose e dagli intrighi del clero (dicembre 1853)”, ma già due
mesi prima, “la folla, raccoltasi a Torino per dimostrare sotto la casa di Cavour,
mise in pericolo la stessa vita dello statista” (King, pag. 9)” . I carabinieri
spararono. L’esercito s’accampò alle porte della capitale. Ma non tutto era
addebitabile alle calamità. “L’eccesso di speculazione, favorito da un ampio
ricorso al credito da parte del governo, determinò alla fine di settembre una
forte caduta dei titoli di Stato alla Borsa di Torino…” (Candeloro IV, pag. 134).
La minaccia delle armi, i morti, la paura, alla fine calmarono il popolo e anche
i proprietari, che stavano a guardare con occhiuta preoccupazione. Qualche
anno dopo, nel 1857, arrivarono le ripercussioni di una crisi apertasi negli
Stati Uniti, il cui sistema bancario era ancor più allegro di quello cavouriano.
Nonostante la generosa edulcorazione degli storici, sta di fatto che alla crisi
esterna faceva da sfondo un moto di rigetto verso la politica inflazionistica
adottata dall’associazione a delinquere che governa il paese. La crisi investì
persino i profittatori del nuovo regime, i quali avevano concepito rosee
speranze. Come le altre banche, la Cassa aveva fatto vaste anticipazione,
accettando in garanzia azioni e obbligazioni al loro prezzo nominale, il cui
valore di mercato, però, calò fino a dimezzarsi e oltre. Con molta faciloneria,
aveva inoltre praticato una larga politica di sconti. Poi, per nascondere l’errore,
conteggiò come attivo le cambiali insolute. La Banca Nazionale, che nei
momenti di allegria non aveva visto e non aveva sentito, al momento delle
difficoltà diventò severa. Bombrini, temendo per sé, minacciò di tagliarle i
viveri. Ma evidentemente Cavour non fu d’accordo. Inoltre quelli della Cassa
dovevano essere particolarmente ostinati a volere la loro parte di bottino e alla
fine ottennero di uscire dalle difficoltà adottando il sistema illecito di incettare
danaro fresco fra il pubblico. Il capitale sociale venne aumentato da 16 a 40
milioni, ma questa volta in azioni da lire 250, in modo da liberare i vecchi soci
dall’obbligo di versare i cinque decimi non ancora versati. Il governo
cavourrista approvò. A non approvare furono i risparmiatori. Infatti, di nuove
sottoscrizioni, la Cassa ne ricevette ben poche. Disperati ma non domi,
sicuramente su suggerimento delle due menti patriottiche della newecomomy,
immaginarono di risolvere l’indicibile pasticcio procurandosi un
alleato a Parigi. Rothschild venne convinto a sottoscrive 64 mila nuove azioni,
per un importo interamente versato di 16 milioni.
L’accorto James Rothschil fu ingannato da due sensali rusticani, o s’ingannò?
Chi fa ricerca di prima mano dovrebbe saperlo, ma ovviamente tace in
omaggio al grande ministro, al rotondetto e astioso padre della patria. In luogo
della verità, la storiografia sabauda ci racconta la favoletta di un Rothschild
che, non riuscendo a collocare i titoli sul mercato francese, li vende su quello
subalpino, facendoli deprezzare ulteriormente. In buona sostanza, ci sarebbero
stati, a quel tempo, degli italiani così incuranti del danaro da acquistare a buon
prezzo, dagli agenti italiani di Rothschil, una merce che veniva svenduta ai
botteghini dalle borse di Torino e di Genova. Insomma neanche questa pezza
tiene. Io mi domando perché codesti signori non cambiano mestiere. A tenere
una casa di tolleranza si guadagna molto di più. Verosimilmente accadde che
Rothschild, fregato dal duo Cavour-Bombrini, restituì titoli a Bombrini, e che
questi li svendette sulle piazze liguri e piemontesi. Come logica conseguenza il
titolo andò a picco. Si può supporre, senza far violenza alla logica corrente, che
a questo punto Bombrini, non volendo farci le spese, si oppose a quanto
Cavour aveva deciso. Infatti convoco i soci di comando e ingiunse loro di
portare i soldi e ripigliarsi i titoli. Quelli della Cassa dovettero piegarsi. Su un
totale puramente teorico di 160.000 azioni emesse e collocate, la Cassa del
Commercio e dell’Industria, che aveva assunto anche la denominazione sociale
di Credito Mobiliare, registra nel bilancio 1856 l’acquisto di 16.570 titoli propri
e nel 1858 di 28.477 più 13.923 rastrellati a Genova. Totale 59 mila: più di un
terzo dell’intero.
“La crisi era inevitabile. Il Consiglio di amministrazione era lacerato da aspri
dissensi “ (ibidem, pag. 371). La liquidazione della società sarebbe stata la
soluzione logica. Tuttavia Cavour aveva bisogno di siffatti erogatori di
cartamoneta svalutata. In attesa di trovare l’uomo giusto, egli spedì Bombrini
in prima persona a far parte del consiglio d’amministrazione. Evidentemente i
contemporanei sapevano bene con chi avevano a che fare, cosicché 20 soci,
possessori di ventimila azioni pretesero un’inchiesta interna (Pautassi p. 372).
C’era di mezzo, però, la volontà di Cavour e la cosa finì a tarallucci e vino. Le
prodezze di questa strana banca raggiungeranno il parossismo qualche anno
dopo, quando a pagare saranno i cafoni di tutta Italia.
L’allegra finanza non è allegra per tutti. E’ definita allegra solo perché
qualcuno non bada a calcolare il rischio, un altro lucra profitti eccessivi e
immeritati, mentre i comuni mortali continuano a sgobbare, e qualche volta
anche a maledire Dio per averli messi al mondo. Di regola l’economia irreale,
astratta, cioè la finanza, arriva il giorno che deve fare i conti con l’economia
reale. Così avvenne per gli intrepidi bucanieri della Cassa del Commercio. La
tabella che segue mostra il tonfo delle sue azioni in tre anni di ardite
spedizioni.
Tab. 4.5 Corso delle azioni della Cassa del Commercio e
dell’Industria, futuro Credito Mobiliare alla Borsa di Genova

Anno  Massimo Minimo
1857 330 207
1858 283 152
1859 165 45


Fonte: Da Pozzo, p. 253
Ma per l’allegra finanza ligure-piemontese la scadenza non arrivò. Con la
seconda guerra cosiddetta d’indipendenza e con la svolta storica che ne
conseguì, il Piemonte riuscì a mettersi sotto degli impavidi e patriottici pagatori
delle cambiali altrui.
4.6 Due casse di sconto, una a Genova e l’altra a Torino, dotate ciascuna di
un minimo di un milione di capitale, furono istituite per legge, al fine di
promuovere gli affari (la speculazione). La stessa legge impegnava la Banca
Nazionale a riscontarne i valori. Vincenzo Pautassi (pag. 360) tratteggia un
profilo solo per quella di Torino, ma è quanto basta per entrambe.
“Questa nuova Cassa rientrava appieno nel piano delineato dal Cavour. Egli
aveva fatto ripetuti accenni sulla necessità di istituire delle Casse di sconto
durante le discussioni parlamentari che avevano accompagnato l’aumento di
capitale della Banca Nazionale. La loro istituzione, poi, era stata sanzionata
dalla legge che approvava l’aumento stesso, là dove si autorizzava la banca
medesima a concorrere con la somma di 2 milioni di lire, nella fondazione di
due Casse di sconto, da erigersi l’una a Torino e l’altra a Genova.
“La Cassa stessa era dotata di un capitale di 1 milione di lire, ripartito in 4
mila azioni da L. 250 ciascuna. Essa era autorizzata a scontare effetti di
commercio, muniti di due firme e con scadenza inferiore ai sei mesi. La Cassa
poteva inoltre concedere anticipazioni contro deposito di fondi pubblici e
privati, monete, paste d’oro e d’argento, nonché fare aperture di credito
“contro idonea cauzione personale o di altro individuo”. Parallelamente il nuovo
istituto poteva ricevere somme in conto corrente con e senza interessi;
comprare e rivendere paste e monete d’oro e d’argento, sia per conto proprio
ed altrui; effettuare incassi e pagamenti per conto di terzi. Infine la Cassa di
sconto doveva riscontrare tutti i valori del suo portafoglio ”. Lo schema era
dunque quello previsto dal Cavour, cioè quello di una Cassa strettamente
aderente all’istituto di emissione, in modo da costituirne quasi una pattuglia
avanzata”.
La nuova società bancaria ricevette scarsa considerazione da parte della
Banca Nazionale probabilmente perché fra gli amministratori c’era un certo
Farina, un ex deputato, avversatore di Cavour in materia di unica banca
d’emissione. Perciò la sua conduzione fu guardinga e lenta. Evidentemente
incontrava notevoli difficoltà a riscontare il portafoglio presso zio Carletto. I
tassi che pagava dovevano essere salati, perché i profitti, invece che crescere
con il crescere delle operazioni attive, decrescevano relativamente. Ma, alla
fine, l’ostilità le giovò. La prudenza e la circospezione portarono buoni clienti,
talché nel 1856 essa si spinse fino a raddoppiare il capitale sociale, portandolo
a due milioni, e poi nell’anno successivo a otto milioni. I depositi affluivano alle
sue casse, cosicché parve opportuno modificare anche lo statuto originario nel
senso delle partecipazione diretta nell’azionariato industriale. Dopo la morte
del grande ministro si fuse con il Banco di Sconto e Sete, uno dei più
industriosi divoratori dell’Italia una e indivisibile.
Inseguire anche sul versante industriale il tema del protezionismo
dall’interno sarebbe una probatio diabolica. Infatti venne creato sia a Genova
sia a Torino un meccanismo a scatole cinesi, una cosa che ai tempi nostri ha
un agevole collegamento con i non spenti fasti del rinnegato siciliano Enrico
Cuccia. E’ probabile che, nel sistema cavourrista, il grande ministro si limitasse
a dare l’input e che fosse poi il futuro governatore della Banca Nazionale nel
Regno d’Italia a coprire la banca minore a cui era stato demandato il compito
di assistere l’industria. D’altra parte l’industria sabauda continuò ad essere
poca cosa (Castronovo*, pagg. 1-159). Si sogliono ricordare lo sviluppo del
cotonificio a Genova, le crescenti importazione di seta lombarda per la
fabbricazione di organzini, il tentativo di fondare una compagnia di navigazione
e soprattutto il rilancio dell’Ansaldo, che divenne nei fatti un’industria di Stato.
Ciò nonostante il caso mostra un’evidente ambiguità. Infatti gli impegni che lo
Stato sardo aveva assunto con i banchieri stranieri lo portavano a preferire il
materiale ferroviario proveniente dall’estero a quello che l’Ansaldo avrebbe
potuto - si sostiene - fornire. Per il nostro discorso la cosa rilevante è che
l’Ansaldo fu un’industria di Stato, tale e quale le Officine di Pietrarsa [14] . Ma,
mentre l’Ansaldo continuò - ed ha continuato, poi, per altri 150 anni ad avere
aiuti statali, al contrario Pietrarsa che, tramontata indipendenza napoletana,
entrò in agonia sin dal primo dei suddetti centocinquant’anni e poco dopo
passò a miglior vita.
“Lo stabilimento più importante e per certi aspetti tipico tra quelli che allora
si svilupparono fu quello dell’Ansaldo di Sampierdarena. Il primo nucleo di esso
era stato costruito tra il 1846 e il 1849 dalla società Taylor e Prandi, sostenuta
da un prestito statale, la quale però nel ‘52 si era sciolta perché non aveva
avuto dallo Stato ordinazioni adeguate alla potenzialità dei suoi impianti ed
aveva ceduto lo stabilimento allo Stato stesso a sconto del suo debito. Con un
nuovo contratto lo Stato cedette allora lo stabilimento ad una società in
accomandita, formata da Carlo Bombrini, direttore della Banca Nazionale, dal
banchiere Giacomo Penco, dall’armatore Raffaele Rubattino e dall’ingegner
Giovanni Ansaldo, professore di geometria descrittiva all’Università di Genova,
che diede il nome (come paravento a quello di Bombrini, ndr) alla società e la
diresse nei primi anni. Cavour diede un forte appoggio alla nuova società, che
ebbe ordinazioni dalle ferrovie e dalla marina. Nel 1858 l’Ansaldo aveva già
480 operai e circa un migliaio nel 1861. Al momento dell’unità essa era
pertanto la più importante impresa siderurgico-meccanica italiana ed era in
grado di costruire locomotive…”( Candeloro, vol IV, pagg. 201 e 202) [15] .
Nell’apologetica genovese, l’Ansaldo ha lo stesso posto della Galleria degli
Uffizi a Firenze (Gazzo, passim). Ma la retrospettiva è falsificata
dall’espansione in età fascista. All’avvio, le cose non furono felici. Comunque,
la produzione di locomotive - non più di due all’anno - dopo la morte del
professor Ansaldo lasciò gradatamente il posto alla cantieristica e ai motori
marini, che il nuovo direttore, il palermitano Giuseppe Orlando, considerava
una produzione più impegnativa e lucrosa.
Tab. 4.6 Borsa di Genova - Quotazioni minime e massime dei titoli azionari

  Banca Nazionale Cassa Torino Cassa Generale Cassa Genova
Versate lire 500 su 1000 250 su500    
1856 1.154

1.510

531

925

275

303

 
1857 1.122

1.388

207

330

260

295

248

266

1858 1.248

1.388

152

283

225

285

210

250

1859 1.040

1.470

45

165

150

227

160

220


L’Ansaldo non era quotata in borsa. La Borsa di Genova, come tutte le borse
italiane dell’epoca, tranne quella napoletana, non potrebbe essere definita
un’istituzione milionaria. Tuttavia registrava qualche modesto movimento, che
è stato ricostruito da Da Pozzo e Felloni (cit.). Fermandoci al decennio
cavouriano, le imprese bancarie quota alla Borsa cittadina erano quattro. Tra il
1856 e il 1859, cioè prima della seconda guerra cosiddetta d’indipendenza,
tutti e quattro i titoli ebbero quotazioni calanti. L’augusta Banca Nazionale
perse quasi il 3 per cento, la Cassa di Torino perse l’82 per cento, la Cassa
Generale perse il 25 per cento, la Cassa di Genova perse il 17 per cento.
Un tempo, quando non c’era la televisione e la radio era ancora un comfort
da ricconi, giravano per i paesini, su carretti trainati da un asino, le pianole o
organini. Il padrone (si fa per dire) ruotava una manovella, la quale faceva
girare all’interno dello strumento un disco di rame pieno di buchi; il tutto
disposto in modo che il disco, ruotando, emettesse le note di una canzone. Era
sempre la stessa. Tutti imparammo il motivo e le parole. Tutti, anche i più
stonati, non facevamo che canticchiarla da mattina a sera. Allo stesso modo la
filastrocca di Cavour, grande ministro, e del Piemonte, maraviglia delle
maraviglie. Ma i genovesi di centocinquant’anni fa erano di ben altra opinione.
4.7 La tematica che vado affrontando non riguarda l’accademia, che in
Italia è al servizio delle classi egemoni (il Principe Capitalismo Padano) e
neppure la storia asetticamente intesa come passato remoto. E’ invece
presente politico, vivo e pulsante, storia finalizzata alla liberazione.
Il 1860 non è l’età della pietra. Pertanto temi come danaro, banca, credito
non dovrebbero costituire argomenti a sé stanti, riservati agli specialisti dei
rispettivi settori. Molto più delle sciabole e delle camicie colorate, erano già
attori primari sulla scena nazionale. Divulgarli non serve alla storia, serve al
presente.
Il passo che riporto appartiene a un autorevole mistificatore.
“Il 1859 è l’anno della 2° guerra d’indipendenza. Il 21 febbraio il governo
piemontese lanciò un prestito di 64,50 milioni di lire ed il 27 aprile, otto giorni
dopo l’inizio delle ostilità da parte dell’Austria, il governo svincolò la banca
dall’obbligo di cambiare in contanti i suoi biglietti, autorizzandola nel contempo
ad emettere biglietti da 20 lire per 6 milioni ed a concedere un mutuo di 30
milioni al Tesoro. Di questa facoltà non si avvalse il governo, che poté giungere
al termine della breve campagna vittoriosa senza chiedere alla banca alcun
prestito, ma si giovò la banca che poté estendere la circolazione dei biglietti,
utilizzando soprattutto quelli di taglio minore, che risultarono bene accetti al
pubblico. Anche questa volta, come nel 1848, il corso forzoso servì a diffondere
l’uso della moneta di carta. Durò soltanto sei mesi, essendo stato abolito il 10
novembre dello stesso anno, ma l’emissione di un nuovo prestito di 100
milioni, decretata il 21 ottobre 1859, tolse d’imbarazzo la banca che aveva di
molto estesa la circolazione. Il prestito pubblico le forniva l’occasione di
costituirsi senza spesa, sia pure transitoriamente, la riserva metallica
necessaria a sorreggere l’aumentata circolazione fiduciaria, in quanto,
ricevendo presso le sue filiali le sottoscrizioni al prestito, raccoglieva monete
metalliche che rimanevano giacenti nelle sue casse finché il Tesoro, che ne
veniva accreditato in apposito conto corrente, non aveva bisogno di effettuare
prelevamenti in specie metalliche (grassetto mio).
“L’ammontare del baratto fu rilevante nel 1859, ma limitato ai primi quattro
mesi dell’anno. Nell’imminenza della guerra ed in previsione della dichiarazione
del corso forzoso, si affollarono le richieste di rimborso dei biglietti. Solo in due
settimane, dal 15 al 30 aprile, vi furono rimborsi in numerario per 9,50 milioni
di lire. Le importazioni di metallo dall’estero, nel corso dell’anno ammontarono
a 48,80 milioni, ma la spesa fu ingente, per l’aumento del cambio — il premio
del franco francese si elevò sino al 2% — e per i più alti saggi di interesse
richiesti dai corrispondenti stranieri a causa dell’aggio” (Di Nardi, pag. 64).
Il passo riportato convalida più di una mia affermazione.
1- L’Autore - il più citato fra i paladini dell’operato della Banca Nazionale - è
costretto ad ammettere, suo malgrado, che esiste un legame tra Stato
sabaudo - l’ente pubblico per eccellenza - e la Banca Nazionale, che è una
società privata. E non nega che il rapporto di complicità appare funzionale ai
profitti della Banca e non agli interessi dello Stato (salvo, poi, a commentare in
senso patriottico).
2 – Di Nardi sorvola sulle prove. Per esempio dice che nel febbraio del 1859
il Piemonte contrasse un prestito di 64,5 milioni. La cifra è esatta solo dalla
parte dell’indebitamento, inesatta dalla parte dell’incasso. La differenza tra
l’una e l’altra posta mostra come, al livello della gente che conta, il
patriottismo coincida con il lucro. L’operazione non andò liscia come l’olio o
come la prosa di Di Nardi farebbe supporre. Tra il finire del 1858 e il gennaio
1859, Cavour cercò disperatamente 50 milioni sulla Piazza di Parigi.
Nonostante l’interessamento personale del principe Napoleone e dello stesso
Imperatore dei francesi, non si trovò a Parigi un solo banchiere disposto a
scommettere un’altra lira sul Regno di Sardegna. A tirare fuori i soldi, 50
milioni, fu il padronato toscano, che si servì della mediazione dei banchieri
Pietro Adami e Carlo Fenzi. Le cartelle vennero vendute a 75 lire ciascuna e
l’indebitamento ascese ai citati 64,5 milioni (Romeo*, vol. III, pag. 489 e
segg.).
C’è da aggiungere che il prestito toscano fu il principio di
un’amicizia/inimicizia tra genovesi, piemontesi e toscani, alquanto tenebrosa e
credo fra le cause prime della mala unità.
3 – Non è dato sapere quale parte dei 50 milioni oro, versati da Adami e
Fenzi al governo sabaudo, finisse nella cassaforte della Nazionale.
4 – Il 27 aprile successivo, il governo sabaudo decretò il corso forzoso, in
quanto intendeva ottenere dalla Banca un prestito a breve per 30 milioni. La
Banca ottenne anche di mettere in circolazione sei milioni di biglietti da 20 lire;
cosa che significava il poter raggiungere le tasche della piccola borghesia.
5 – Poi, i 30 milioni, lo Stato non li incassò. Intanto il lettore ingenuo resta
sorpreso nell’apprendere che uno Stato così ricco e prospero come il Piemonte
cavouriano non avesse 50 milioni da spendere, che un popolo di ajacei patrioti
non scucisse la somma dalle sue ampie e profonde saccocce e soprattutto che
una banca in appresso tanto osannata non riuscisse a prestargli gli 80 milioni
(50 + 30) che servivano nel momento in cui le trombe di Verdi facevano
squillare l’attacco del Nabucco. L’ora del Lombardo – Veneto stava per
scoccare. Vittorio il Vittorioso, padre nonno avo benevolo di tutti gli italiani,
era sul punto di varcare Porta Magenta [16] in arcioni a un bianco destriero.
Ipotesi possibili:a – allo Stato i 30 milioni non servivano, quindi il corso
forzoso fu un bluff concertato tra Bombrini e Cavour, b – lo Stato voleva i soldi,
ma la Banca era allo stremo. c – come andarono effettivamente le cose viene
raccontato da altri. Ma fra tanti narratori nessuno fa notare che l’episodio
mostra le dimensioni della Banca Nazionale; che la grande banca e il grande
banchiere sono solo invenzioni degli storici. Certo la Nazionale faceva
correntemente delle anticipazioni al tesoro sabaudo, ma siamo ben lontani da
quelle che il Banco delle Due Sicilie faceva al governo borbonico. Basti
ricordare che appena un anno dopo l’episodio raccontato,Francesco II potrà
attingervi 40 milioni di ducati (circa 170 milioni di lire) senza che il Banco
batta ciglio. Anticipazioni allo Stato di tali dimensioni, la Banca Nazionale potrà
farle soltanto dopo aver patriotticamente prosciugato le saccocce di tutti gli
italiani. Al momento, forse poteva dare i 30 milioni, ma non li dette per non
rischiare, ma forse non poteva darli. E’ chiaro comunque che si sarebbe
trattato di un sesto della cifra sborsata dal Banco duosiciliano per un identico
anche se opposto motivo. Si tratta di un dato di gran peso per la storia
successiva e non è assolutamente possibile che l’omissione sia da attribuire al
cattivo stato della memoria di chi scrive di storia. 7 – L’amor proprio la vince
sul servilismo. Di Nardi non vuole passare per tonto. Cosicché si sofferma sul
connubio Stato-Banca Nazionale. Rileggiamo! Il passo è molto istruttivo per
chiunque. “Il prestito pubblico [alla Banca] forniva l’occasione di costituirsi
senza spesa, sia pure transitoriamente (transitoriamente è una
puntualizzazione assolutamente falsa, ndr.), la riserva metallica necessaria a
sorreggere l’aumentata circolazione fiduciaria, in quanto, ricevendo presso le
sue filiali le sottoscrizioni al prestito, raccoglieva monete metalliche che
rimanevano giacenti nelle sue casse finché il Tesoro, che ne veniva accreditato
in apposito conto corrente, non aveva bisogno di effettuare prelevamenti in
specie metalliche”.Se le banche erano sul punto di fallire e se i ricchi
tremavano, per la nazione sabauda si profilava il disastro. Non erano in pochi
ad avere l’esatta percezione del precipizio sul cui orlo era finito lo Stato
(Catalano, pag. 85 e segg.). L’economia, imbottita di capitali esteri, pareva
producesse di più, ma in termini di bilancio complessivo i nodi stavano per
arrivare al pettine. Cresceva il disavanzo e cresceva a dismisura
l’indebitamento estero dello Stato, cioè dei cittadini presenti e futuri.
Tab. 4.7a Debiti contratti con case bancarie straniere dal Regno di Sardegna
tra il 1849 e il 1858

Anno Mutuante Ammontare   Anno Mutuante Ammontare
IV /1849 Rothschild 66.000.000   II /1850 Rothschild 80.000.000
II /1850 Rothschild 80.000.000   X /1850 Rothschild 80.000.000
X /1850 Rothschild 80.000.000   VI /1851 Hambro 90.000.000
VI /1851 Hambro 90.000.000   II /1853 Rothschild 66.666.600
II /1853 Rothschild 66.666.600   1854 Rothschild 35.000.000
1854 Rothschild 35.000.000   1854 Regno Unito 50.000.000
1854 Regno Unito 50.000.000   IV/1854 Rothschild 15.000.000
IV /1849 Rothschild 66.000.000   1858 Rothschild 40.000.000


Totale……………………………………………….……………. 522.666.600


Di regola gli storici elogiano la politica economica di Cavour. Ma
evidentemente sono degli impenitenti umoristi. Elogiare quella politica è anche
peggio che elogiare la partitocrazia per essere riuscita a indebitare gli italiani di
due milioni di miliardi di ex lire. Eppure questo debito è più o meno pari al
prodotto interno lordo italiano di un anno, mentre il debito creato da Cavour,
era percentualmente il doppio.
Tab. 4.7b Bilancia commerciale degli Stati Sardi
Disavanzo negli anni:

1849 59.674.336   1854 90.201.902
1850 38.004.150   1855 74.983.512
1851 57.947.116   1856 88.711.034
1852 77.179.931 1857 101.312.821
1853 93.006.244   1858 87.555.183


  Totale [17] ………………………768.576.229


In materia di debito estero Cavour superò se stesso. Se a studiare l’uomo
fosse uno psichiatra, avremmo sicuramente il profilo di un paranoico. In
termini di sviluppo, poi, fu come se le enormi spese per le costruzioni
ferroviarie e gli aiuti dati sottobanco alle imprese – nel complesso circa 500
milioni di lire sabaude – non ci fossero mai stati. Infatti, nei decenni successivi
all’unità, il Piemonte fu una delle regioni meno attive e progredite dell’area
padana: appena sotto il Veneto quanto a emigrazione popolare. In effetti, il
grand’uomo produsse soltanto una classe di speculatori, e nient’altro, se non il
nefasto Stato che ci ha lasciato in eredità.
Lo strumento principe per creare una borghesia di affaristi, fu il debito
pubblico. Ai commenti di Bachi sopra ricordati bisogna aggiungere, a titolo
esplicativo, che lo Stato sabaudo s’indebitava per 100 onde poter avere 65, e
anche meno, come vedremo in appresso. Già nel decennio cavouriano il prezzo
al quale le case d’affari, tipo Rothschild, acquistavano le cartelle del debito
pubblico, per poi collocarle fra i risparmiatori, fu sempre inferiore alle cento lire
nominali. Da uno sconto quasi usuale di sette/otto lire, ben presto si arrivò alle
diciotto/venti lire, e poi alle ventisette/ventotto e anche più. Quando poi, a
unità fatta, i prestiti verranno sottoscritti dal pubblico italiano. Lo scrocco sulla
rendita, per i proprietari padani, saràun vettore d’italianità più convincente di
quanto non saranno i patriottici massacri di briganti per i redditieri meridionali.
Si sostiene che lo Stato sabaudo si piegò alla necessità e si aggiunge che è
doveroso essere grati ai piemontesi, i quali eroicamente sopportarono il peso
della predetta necessità. Intanto è superfluo insistere sul fatto che il debito
complessivo venne ridistribuito fra tutti gli italiani; cosa che, di per sé, basta a
far evaporare l’eroismo economico dei piemontesi.
La mistificazione patriottica trascura deliberatamente il tema delle
anticipazioni bancarie. L’istituto, che ha un’ascendenza mercantilista e una sua
nobiltà, sopravvive tuttora. A quel tempo la banca, dietro il deposito
pignoratizio di merci, anticipava una somma al produttore o al mercante. Di
solito il capitale della banca era di provenienza regia. In Piemonte, a effettuare
consistenti anticipazioni su seta era lo stesso Stato. Oltre alla seta, fra le cose
accettate in pegno dalle banche vi erano i titoli del debito pubblico. Però al
tempo di Cavour, quest’ultima operazione non aveva più la precedente
funzione di dare sostegno al piccolo produttore, d’andare incontro al
proprietario cheaffrontava una uscita straordinaria, per esempio la dote a una
figlia che prendeva marito, o al riccone che intendeva costruire un palazzo in
città, ma non disponeva di tutto il danaro occorrente. Con l’illustre padre della
patria, l’istituto venne trasformato in un crogiolo d’intrallazzi.
Essendo basso il corso della rendita piemontese (per esempio, lire 65) e
abbastanza buono il tasso annuo d’interesse (normalmente il 5 per cento), tra
speculatori e banca si poté realizzare un patriottico intrallazzo. Si comprava un
primo stock di cartelle a 65 lire, lo si portava in banca, dove le cartelle
venivano lasciate in pegno, onde ottenere un’anticipazione di lire 1000. Con le
1000 lire ottenute si poteva compare un secondo stock di dieci cartelle. A
questo punto – e sorvolando sul primo affare - avremo: (secondo investimento
di 650 = capitale 1000 acquisito = guadagno lire 350) (interessi pagati per il
debito = lire 32,50); (interessi percepiti = lire 50); (differenza tra interessi
pagati e interessi percepiti su dieci cartelle = lire 17, 50) (differenza su 10.000
cartelle eventualmente acquistate ipoteticamente da un ricco = 17.500 lire)
(differenza su 100.000 cartelle ipoteticamente acquistate da una banca = lire
175.000) (saggio d’interesse sul capitale danaro = 7,7).
Ora bisogna considerare alcune cose. Prima: le 1000 lire che la banca dava
in prestito erano carta. Seconda: lo Stato aveva più interesse a incassare oro
che carta. Terza: ottenendo lo Stato più carta che oro, pagare due volte la
Banca Nazionale, la prima perché gli acquistava le cartelle del d.p., benché gli
affibbiasse carta, la seconda quando,volendo oro in cambio della carta, era
costretto a sottoporsi esso stesso a pagare l’aggio dell’oro su della carta che
avrebbe potuto benissimo stamparsi da sé (come alla fine fu costretto a fare,
essendo ormai il giudizio che i nuovi italiani si erano fatti del nuovo Stato
identico a quello che allora si aveva per le prostitute). Quarta: lo Stato faceva
lo scemo del villaggio perché l’intento politico era quello di fabbricare i
fabbricati. Quinto: era questa una via allo sviluppo così tortuosa e lunga da
mettere in pericolo l’esistenza dello stesso Stato. Questo tracciato bloccò, per
più di trent’anni, la stessa economia padana, che si voleva invece sospingere
avanti. Sesto: benché lunga e costosa, quella strada portò alla formazione di
una borghesia di affaristi, che alla distanza produsse anche una forma
d’industria, sia pure parassitaria. Settimo: il Sud pagò per la prima e per la
seconda cosa. Il risparmio storico del Meridione fu saccheggiato, il paese
meridionale inaridito, e quando non ci fu altro da scippare, la Padana assorbì il
controvalore del surplus da astinenza dal consumo imposto attraverso i tributi
e il protezionismo industrial-parassitario.
Tab. 4.7c Anticipazioni effettuate dalla Banca Nazionale negli anni
Prima della virgola, milioni di lire dell’epoca

Anno Ammontare Indice   Anno Ammontare indice
1850 45,8 100   1856 52,5 115
1851 51,9 113   1857 33,2 73
1852 71,2 155   1858 32,3 70,5
1853 54,1 118   1859 43,5 95,0
1854 54,3 119   1860 85,3 186,2
1855 57,3 125        


Sono andato troppo avanti. Torno indietro per rispondere a questa
domanda: rispetto allo sconquasso fatto da Cavour ci furono delle novità
positive nella vita delle regioni sabaude. Ne vedo quattro. Prima, l’abolizione
del dazio d’importazione su grano e granaglie, abbassandone il prezzo,
permise un miglioramento delle sussistenze vitali. Seconda: la liquidità creata
dal sistema bancario cavouriano dette luogo a una consistente importazione di
seta greggia dal Lombardo-Veneto. La seta veniva trasformato in organzini,
arte in cui i piemontesi erano specialisti, e poi riesportata in Francia con buon
profitto. Terza: in una fase di crescente domanda mondiale di derrate, il
liberismo aiutò le esportazioni di vino, olio e bestiame. Quarta: l’enorme
indebitamento estero favorì l’aumento della spesa pubblica. Molti contadini
marginali poterono passare a fare i manovali nei lavori ferroviari e stradali, con
un miglioramento dei redditi familiari. In senso opposto, le ferrovie che si
andavano inaugurando e l’apertura al mercato internazionale, ormai dominato
dalla grande industria straniera, cominciarono a sospingere verso posizioni
marginali le produzioni artigianali e quella domiciliari dei contadini. La
fuoruscita degli artigiani dall’economia non venne compensata, però, da una
stabile occupazione nell’industria. Solo la produzione serica continuò a
prosperare.
A fronte di queste cose – ripeto - ci fu un indebitamento colossale, tale da
impegnare fino al 1918/20 le future generazioni di italiani. Coprire un debito
con un altro debito, pagare una rata d’interessi facendo ancora un debito, era
diventato il sistema di governo. Tra il 1849 e il 1858 il Piemonte contrasse
all’estero, principalmente con James Rothschild, debiti per 522 milioni - quattro
annate di entrate fiscali. Il debito pubblico (escluse quello connesso con le
spese belliche)raggiunse i 740 milioni; il deficit della bilancia merci, nel 1858,
toccò i 122 milioni. La crisi allarmò chi non aveva portato il cervello
all’ammasso. Se facciamo l’ipotesi che i Savoia avessero voluto restituire
soltanto il capitale, e lo avessero fatto impiegando una quota del dieci per
cento delle entrate annue piemontesi, per portare a termine l’operazione ci
sarebbero voluti settant’anni. Ma gli interessi correvano, eccome! Un qualche
alleggerimento, il Regno d’Italia lo poté ottenere solo dopo cinquant’anni dalla
sua deprecabile fondazione, al tempo di Giolitti, che, da buon doppiogiochista
qual era, si valse della valuta che veniva dagli emigrati in America per
convertire il debito pubblico al 3,5 per cento e per finanziare attraverso la
Banca d’Italia la nascita di un’industria motorizzata. Quanto all’estinzione
totale del debito pregresso, l’Italia non ci arrivò mai in modo onesto. Solo la
frode ai creditori dello Stato, incorporata nelle due colossali inflazioni belliche,
permette che nel 2002 non ci siano ancora da pagare i debiti contratti dal
Piemonte tra il 1848 e il 1859.
Alla chiusura dell’anno 1858, il valore della produzione nazionale sabauda
era ben lontano dal poter soddisfare gli epici impegni voluti da Cavour. Nel
corso della sua rivoluzione liberale-speculatrice, il disavanzo commerciale
crebbe, e non diminuì, come servilmente si ama sostenere. E siccome, a quel
tempo, quando il debito estero non veniva saldato in merci, era necessario
regolarlo in oro,Bombrini, non avendo oro con cui pagare, cedeva ai banchieri
parigini le cambiali dei suoi clienti. In sostanza, il Piemonte perdeva, a titolo di
interessi pagati all’estero, cinque/settelire su ogni cento lire riscontate su
Parigi.
Conclusa la seconda guerra cosiddetta d’indipendenza, nel 1861,
l’indebitamento piemontese superava i due miliardi. Io non so in qual modo un
uomo dell’intelligenza di Cavour sarebbe uscito, con procedure pacifiche da una
situazione a dir poco catastrofica. Di certo - di storico - c’è solo il fatto che il
Regno di Sardegna se la cavò riversando i suoi debiti sul resto dell’Italia
autoannessasi. Fatta l’Italia, il passivo ereditario si sparse su tutti gli italiani. In
verità, ripartito su venticinque milioni di sudditi, non sarebbe stato un disastro
per nessuno di loro, se essi non avessero ereditato anche il sistema politico e
amministrativo piemontese, un re tronfio e mancante di quella nobiltà che
occorre ai fondatori di nazioni, una consorteria di uomini politici esosi, inetti,
compromessi con la speculazione e la banca.
Tab. 4.7d 1858: il Regno di Sardegna in zona fallimentare
Bilancio delle voci essenziali:

Numerario* Totale dei biglietti
stampati**
Riserva metallica
della Banca
Nazionale**
Debito pubblico.
Ammontare degli
interessi per un anno*
[18]
26.760.000 119.000.000 Oro.. 2.790.831
Arg...2.913.164
54.921.6906
Debito pubblico in conto capitale
  Calcolo di Rosario Romeo*
III(p. 835), al 1859
696.500.000  
  Calcolo di Luigi Izzo
relativo al 1860 (p. 22)
1.045.000.000  


[1] Gazzo dà il seguente elenco dei primi azionisti, che riporto in quanto
alcuni di loro conteranno parecchio nella fondazione del dualismo nazionale:
oltre a De Ferrari, il marchese Francesco Pallavicini, il barone Giuliano Cataldi,
il cavalier Bartolomeo Parodi (egli stesso o qualche suo omonimo e
concittadino sarà in appresso una delle succiasangue del Sud), Pellegrino
Rocca, Antonio Quartara e Carlo Alberti (pag. 26).
[2] Al tempo di Carlo Alberto, il Regno di Sardegna comprendeva il
Piemonte, la Liguria, la Valle d'Aosta, la Savoia, Nizza e la Sardegna.
[3] Un tempo i grossi importatori toscani e liguri di olio calabrese
acquistavano le partite dei piccoli produttori con l'intermediazione di minimi
commercianti (detti rigattieri), che giravano per le campagne su un biroccio. A
sera vendevano le quantità raccolte all'agente della ditta forestiera che
monopolizzava la piazza, ricevendo un assegno bancario. Tuttavia il rigattiere
non poteva aspettare l'apertura della banca, il giorno successivo, per cambiarlo
in biglietti. Sarebbe andata perduta la giornata, che cominciava tra le tre e le
quattro del mattino. Cosicché gli toccava anche godere delle buone grazie di un
grosso distributore commerciale, perché glielo cambiasse la sera stessa.
[4] L’argomento sarà trattato in appresso. Qui basterà dire che il Banco
napoletano, che era un’istituzione statale, in quegli anni effettuava prestiti per
circa 25.000 ducati (100 milioni di lire circa).
[5] Era il tasso massimo consentito nel Regno di Sardegna. Un tasso
superiore era considerato usurario. Questo limite fu abolito da Cavour nel
1855, per permettere alla Banca di elevare il tasso di sconto.
[6] 1847 = 106 mila, 1847 = 162 mila, 1848 = 293 mila.
[7] Il governo inglese si era premunito contro tale ipotesi, non concedendo il
diritto ad emettere biglietti alle banche costituite sotto la forma della società
anonime. Solo la Banca d'Inghilterra ebbe il diritto di fare diversamente.
[8] Marchetti ( pag. 15) attribuisce a Cavour la compilazione dell'elenco dei
dieci privilegiati. Sempre secondo questo autore la richiesta di una maggiore
diffusione del pacchetto azionario sarebbe venuta dalla Camera di Commercio.
[9] Cavour fu ministro a partire dal 1850.
[10] O s'impegnano a rifonderle: non mi è chiaro, ma la cosa non ha
importanza ai fini di questo discorso.
[11] E’ appena il caso di ricordare che la politica cavouriana non punta
nell’immediato all’unificazione dell’intera Italia, ma solo all’annessione
dell’Italia padana. Ciò non esclude che nella prospettiva egli si ponesse un
risultato più vasto per togliere ossigeno al partito d’azione. Lo attesta la sua
faticosa e tenace opera a proposito della difficile questione romana.
[12] Il debito pubblico italiano dell’anno 2000, di ammontare più o meno
pari al PIL, appare una cosetta da ladri di galline se confrontato con il debito
pubblico del Regno di Sardegna, che era almeno sei volte il PIL delle regioni
sabaude.
[13] In Italia il bimetallismo, di imitazione francese, oltre che in Piemonte
era adottato solo nel Ducato di Parma.
[14] La fabbrica napoletana di Pietrarsa fornì sette delle locomotive
delle quarantacinque che circolavano nel regno sabaudo intorno al
1855. Cfr. Cento anni delle ferrovie italiane. 1839-1939 edito a cura delle
Ferrovie dello Stato, Roma 1941
[15] Dubito che i dati forniti da Candeloro siano stati attinti a una fonte
seria, né il suo giudizio mi sembra imparziale. Infatti, secondo l'ingegner
Giuseppe Colombo - milanese e futuro rettore di quel Politecnico di Milano,
che nel 1863 condusse un'indagine per conto del governo nazionale sulla
idoneità degli stabilimenti ferroviari italiani - al tempo quello meglio
attrezzato era Pietrarsa, a Napoli (Are*, pag. 35 )
[16] Porta Magenta, o un’altra. Non lo so. Se debbo essere sincero, ignoro
anche il colore del cavallo.
[17] Nei bilanci dell’infelice unificazione nazionale, a rigor di termini tale cifra
non va computata come passività valutaria del Piemonte unificato ereditata
dall’Italia. Infatti, essa fu pagata dai piemontesi, con la fuoruscita d'oro e
d'argento, nel corso dell’improvvido decennio cavouriano. Al passivo, però,
bisogna scrivere la stessa cifra, quale vuoto di numerario colmato in tutto, o
forse solo in parte, con il numerario apportato all’economia sabauda dagli altri
italiani.
[18] Il totale delle emissioni ammontò a 725 milioni, ma essendo stati
collocati a prezzi alquanto bassi i titoli - tra le lire 70 e le lire 90 - lo Stato
sabaudo incassò una cifra parecchio inferiore: fra i 580 e i 480 milioni.
Nicola Zitara

 
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