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I PROBLEMI DELL'UNITA' D'ITALIA

LA CAVALCATA DELLA BANCA NAZIONALE SARDA
 

5.1 Prima del 1859 la Banca contava due sedi, Genova e Torino, e cinque
succursali: Alessandria, Cagliari, Cuneo, Nizza e Vercelli. Quell’anno, non
appena la guerra apparve certa, Cavour avverti Bombrini perché si
preparasse allo scatto. Prima ancora che gli austriaci fossero battuti –
evidentemente su suggerimento di Cavour - la Banca Nazionale aumentò il
proprio capitale in modo da concedere un quinto[1] al padronato lombardo. I
30 e più mila soldati caduti a Solferino e San Martino erano ancora insepolti
che la Banca Nazionale istituì la sede di Milano. Il pericolo di un dissesto, di
un run da parte dei portatori di banconote, si dissolse fra i vapori agostani
della Bassa Padana, mercé l’oro portato in dote dai fratelli lombardi.
Non so se Wagner si sia mai interessato alle banche, certo è che il dilagare
della Banca Nazionale per le cento città d’Italia ricorda l’impeto incalzante de
La cavalcata delle Valchirie. Bombrini fece più veloce dei bersaglieri. Tra il
giugno del 1859 e il settembre 1860 venne praticamente realizzata anche
l’occupazione della Toscana, dell’Emilia, delle Romagne, dell’Umbria, delle
Marche. Crollate subito dopo le Due Sicilie, furono immediatamente istituite
altre due sedi: Napoli e Palermo.
Nello stesso 1860, Bombrini inaugurò succursali ad Ancona, Bergamo,
Bologna, Brescia, Como, Messina, Modena, Parma, Perugia, Porto Maurizio
(l’attuale Imperia) e Ravenna.
Nel 1862 s’insediò a Catania, Cremona, Ferrara, Forlì, Pavia, Piacenza,
Reggio Calabria e Sassari;
nel 1863 a Bari e Chieti;
nel 1864 all’Aquila, Catanzaro, Foggia, Lecce e Savona.
Nel 1865, i toscani vennero a patti, cosicché Bombrini poté aprire la sede
di Firenze. Quell’anno inaugurò succursali anche ad Ascoli Piceno, Carrara,
Lodi, Macerata, Pesaro, Reggio Emilia, Siracusa e Vigevano.
Nel 1866 s’insediò a Caltanissetta, Cosenza, Girgenti (Agrigento), Novara,
Salerno, Teramo e Trapani.
Nel 1867, acquisito anche il Veneto ai Savoia, comprò una banca veneziana
e la trasformò nella propria sede di Venezia. Aprì inoltre le succursali di
Padova, Mantova, Udine e Verona. Al Sud inaugurò la succursale di Avellino.
La penetrazione locale proseguì dopo l’annessione di Roma (1870).
Una diffusione così ampia, ad opera di una banca privata, che si era messa
in campagna con appena cinque milioni d’oro in cassa, si spiega soltanto con
la fanfara dei bersaglieri. Questa espansione privata, e tuttavia munita del
sigillo dello Stato, fu una cosa da Compagnia delle Indie, indegna di un Regno
che si autoproclamava fondato sulla volontà della nazione, oltre che sulla
grazia di Dio. Evidentemente in quel momento il Sud era coperto di nubi e
sfuggiva alla vista e alla grazia di Dio! Per giunta, la consorteria cavourbombrinesca
inchiodò al remo gli altri istituti di credito al tempo esistenti,
alcuni dei quali - sicuramente il Banco delle Due Sicilie e la Cassa di
Risparmio delle Provincie Lombarde – avrebbero potuto fare d’essa un solo
boccone. Persino l’accomodante Di Nardi è costretto ad ammettere che
"l'espansione [della Banca Nazionale] non avvenne senza contrasti e
difficoltà. Negli antichi Stati italiani esistevano altre banche […] e potenti istituti
di credito radicati nella tradizione locale, che mal volentieri vedevano
l'insediamento nelle loro città di un istituto concorrente, che sembrava godesse
appoggi e protezioni del governo. Alcune di quelle banche si arresero subito
alla rivale piemontese, convinte di non poter reggere a lungo alla lotta con
essa sulle stesse piazze. Fu il caso della Banca Parmense e della Banca delle
Quattro Legazioni a Bologna, entrambe [da poco] autorizzate all'emissione di
biglietti, che concordarono presto la loro fusione con la Banca Nazionale, per
cui già nel marzo 1861 le rispettive sedi erano trasformate in succursali della
Banca Nazionale. Atteggiamento di resistenza assunsero invece la Banca
Nazionale Toscana ed i banchi meridionali. A Firenze la Banca Nazionale ci
andò solo nel 1865, quando la sede del governo sì trasferì nella capitale
toscana. Nelle provincie meridionali si insediò più presto, ma dovè vincere forti
resistenze locali e procedè con ritardo nella fondazione di alcune succursali, per
le precarie condizioni dell'ordine pubblico in quelle provincie, che per alcuni
anni furono infestate dal brigantaggio borbonico" (Di Nardi, 46 e sgg.)[2].
Come annotato da Di Nardi la Banca Nazionale entrò in Toscana soltanto
nel 1865, cioè sette anni dopo l’annessione, insieme al re, al suo governo e al
parlamento, allorché la capitale d’Italia venne trasferita da Torino a Firenze.
La città dei Bardi e de’ Medici fu l’ultima e sofferta conquista di Bombrini
prima della terza guerra cosiddetta d’indipendenza e della conquista del
Veneto. In precedenza i toscani, che avevano già capito tutto, non avevano
permesso che aprisse una delle sue prosciuganti sedi nella loro capitale e
delle succursali nelle loro città insofferenti di dominio forestiero. I banchieri
toscani si erano resi conto che per loro sarebbe stato impossibile reggere
l’attacco di un concorrente ammanicato con lo Stato. Sul contrasto tra toscani
e piemontesi sono calate spesse cortine fumogene. L’affanno a cercare dei
termini melliflui per mistificare il conflitto tra potentati locali, ambiziosi
d’occupare nella nuova patria il maggior spazio possibile, salta agli occhi del
lettore con sfacciata evidenza, e tuttavia la verità rimane intrappolata nei
meandri del vocabolario: non si può offendete i toscani, perché nessuno in
Italia è più italiano dei toscani, ma non si può dire male dei piemontesi,
essendo essi i padri della patria. Fra tante contorsioni lessicali, risulta pur
tuttavia chiaro che qualcuno capace di imporre la sua volontà persino al
colendissimo e venerato Cavour vietò a Bombrini di calcare la sacra terra di
Dante.
La Toscana, fra tante primogeniture, vanta anche quella d’aver tenuto a
battesimo la banca moderna, ma, spenti gli antichi splendori, una sua banca
d’emissione era arrivata ad averla soltanto nel 1858: la Banca Nazionale
Toscana, prodotto della fusione tra la Banca di Sconto di Firenze e la Banca
di Livorno. Plebano e Sanguinetti, gli storici di cose finanziare più accreditati
all’epoca, considerano la Nazionale Toscana una copia della Nazionale Sarda
(p. 114), che l’aveva preceduta di oltre un decennio. Ma il giudizio sorvola
sul fatto che la Banca Toscana, a simiglianza del Banco delle Due Sicilie,
emetteva biglietti garantiti dallo Stato; cosa che non era di poco conto,
specialmente se si ha presente che, nel clima corrotto instaurato dalla Banca
ligure-piemontese, i malcapitati italiani non chiedevano altro che una garanzia
credibile per il proprio contante seriamente insidiato.
Morto Cavour, si mise a fare la ruota del gran ministro delle finanze il
napoletano Giovanni Manna. E’ probabile che alquanto ingenuamente egli
considerasse l’Italia-una una specie di Tavola Rotonda, cosicché immaginò di
poter creare un istituto unico d’emissione più o meno controllato dal
padronato di tutte le regioni. Ovviamente Bombrini sulle idee dei ministri,
specialmente se napoletani, ci faceva la pipì. Piegata la Cassa di Risparmio
delle Provincie Lombarde, non aveva altro avversario degno d’essere
veramente temuto se non il Banco delle Due Sicilie. Aveva anche, in verità,
da fare i conti con la Banca Toscana, un ringhioso botoletto aizzato da Ricasoli
e avido contorno. Ma i giochi di Bombrini ormai erano fatti. L’arrogante e
tendenziosa denigrazione di ogni cosa che fosse meridionale da parte della
consorteria ministeriale, dell’organizzazione a delinquere ruotante in torno al
re, e della burocrazia torinese, ignorante e sciocca, coprivano ampiamente le
sue vampiresche manovre. Comunque, alle insistenze del ministro Manna –
uno degli utili idioti che il sistema padano annoverava fra i suoi ascari - il
Governatore Bombrini, come già qualcuno lo appellava, non poteva opporre
un aperto rifiuto. Fu così che tra la Banca Nazionale ex sarda e la Banca
Nazionale Tosacana si arrivò a un reclamizzato accordo. Manna portò in
senato il disegno di legge governativo. Dopo lunghe e ampollose discussioni,
il senato lo approvò, ma, passato alla camera, questa lo lasciò dormire fra le
altre scartoffie, finché non sopraggiunse la scadenza della legislatura.
In apparenza, sia alla camera sia al senato la maggioranza era contraria
alle bramosie della Banca Nazionale; nella sostanza era Bombrini a fomentarle
perché si perdesse tempo, in attesa che la Banca Toscana gli cadesse in
grembo come una pera matura. In effetti, Bombrini voleva mangiare, e non
accordarsi sul menù. Tra attacchi e resistenze, la partita tra Juventus e
Fiorentina si protrasse dal 1859 al 1865 - cioè un incalcolabile numero di
tempi supplementari. Alla fine la cosa ebbe la sua naturale soluzione. Difatti il
governo pretese che la sede centrale della Banca bombrinesca (che era
sempre una banca privata) lo seguisse nella nuova capitale. Bombrini assorbì
la Banca Toscana in cambio di 15 milioni di azioni della Banca sarda: 10 a
copertura del capitale sociale e 5 come regalia, per tappare la bocca ai
verbosi discendenti di Savonarola.
5.2 Come abbiamo visto, il grande ministro, che aveva fatto il possibile per
fare di Bombrini un uomo del tesoro (o forse al contrario, il tesoro una cosa di
Bombrini), prima ancora che i bersaglieri mettessero piede a Napoli per
prendere il posto delle camicie rosse, ordinò al luogotenente del re sedente a
Napoli di separare il Banco (ancora) delle Due Sicilie dal tesoro[3]. Infatti,
spirate le Due Sicilie, il Banco era passato al tesoro del Regno di Sardegna (il
Regno d’Italia non era stato ancora proclamato). Il rivoluzionario
luogotenente obbedì. In base al decreto 6 novembre 1860, il Banco divenne
un’istituzione pubblica nominalmente autonoma (e restò una banca di diritto
pubblico - cioè né carne né pesce - fino al 1995 circa). Con la erezione della
sede palermitana a banco - il Banco di Sicilia - l’area bancaria duosiciliana,
che già si fondava su due casse di sconto dotate di una larga autonomia,
venne completamente separata.
Ma andiamo avanti rispettando l’ordine cronologico. Nonostante Francesco II
avesse attinto con pochi riguardi alle riserve metalliche del Banco, per
condurre la guerra contro i garibaldini, nel 1860 esso aveva ancora, nelle sue
casse, argento e oro dieci volte che la Banca Nazionale (una cinquantina di
milioni misurando in lire piemontesi). Ovviamente una persona di indole
fortemente venale non poteva disinteressarsi al malloppo, cosicché, appena le
inclemenze stagionali gli permisero un viaggio per mare, s’imbarcò a Genova
(non è da escludere che lo facesse su una fregata del defunto Regno delle Due
Sicilie, più grande e sicura) e sbarcò a Napoli, dove l’ordine pubblico era
saldamente tenuto in mano dalla camorra. Siamo nell’autunno 1860. Il
vittorioso Vittorio ha appena varcato il confine del Tronto. A Napoli Bombrini
incontrò i membri del governo luogotenenziale, onde spiegare loro che in alto
si era convinti che la conquista di Napoli non poteva fermarsi alle sciabole. I
patriottici ministri annuirono e si predisposero a obbedire agli ordini. Il
primitivo progetto di Bombrini, avente carattere ruffianesco, prevedeva
l’apertura a Napoli di una sede allo stesso livello di Milano. Per far ciò avrebbe
aumentato il capitale sociale, portandolo a 100 milioni. Una parte delle nuove
azioni sarebbe stata attribuita ai vecchi azionisti e un’altra – dodici milioni e
spiccioli - assegnata a napoletani e siculi commisti. Come si vede Bombrini
concedeva ai fratelli d’Italia lussuose quote di molta minoranza e la facoltà di
lustrargli le scarpe.
Ciliegina finale, il progetto comportava la fine dei Banchi meridionali, che
sarebbero stati assorbiti e messi in liquidazione dalla Nazionale. Lo Stato
avrebbe dovuto garantire le passività pregresse e pagare gli interessi. Colpo
scuro: “La Banca Nazionale si offriva di assumere, gratuitamente, il servizio di
Tesoreria del governo, come praticava attualmente il Banco di Napoli”
(ibidem).
Difficile essere più generosi. Come si sa, i napoletani chiacchierano. Non
sanno tenere un segreto. E poi quelli di un tempo – forse – non erano tanto
fessi quanto i loro posteri. E neppure sempre disinformati. Qualche notizia
circa i pregi di Bombrini doveva pur essere arrivata dalla non lontana Livorno
o dalla Sardegna, o forse del tutto da Milano, attraverso gli aspri sentieri
appenninici. Sta di fatto che si spaventarono. Se, in materia di sciabole,
quelle piemontesi andavano loro bene, perché ricacciavano in gola ai
contadini le loro pretese, in materia di soldi preferivano far da sé. Bombrini
era certamente una persona simpatica quando raccontava barzellette, ma
quando entravano in ballo le palanche spremeva sugo pure dalle pietre.
Antonio Scialoja, ex professore di economia politica a Torino[4] e deputato
subalpino, ma napoletano di origine e di rimpatrio, scrisse a Cavour:
[Il direttore del ministro delle finanze del governo luogotenenziale a Napoli,
Coppola] «venne in mia casa, accompagnato ad un comune amico, per
dimandarmi se io approvava che il Governo concedesse a taluno, che facevane
dimanda, la facoltà di stabilire in Napoli una Banca di Circolazione e di Sconto.
Io risposi francamente che queste concessioni generiche non mi parevano
lecite; e soggiunsi che la via da tenere si era quella di formare una società,
stendere uno statuto, stipulare uno strumento, e quindi fare una dimanda di
autorizzazione. Il Conforti e l’amico si convinsero della giustizia delle mie
osservazioni; ed una lettera del primo al Dittatore (la quale è ora nella pratica)
prova che egli secondò il disegno da me suggerito, schivando la concessione a
priori, che sarebbe stato un privilegio esorbitante. Il fatto sta che la
proposizione era in realità assai più che io non credeva. Dopo qualche giorno
fui pregato a nome di rispettabili commercianti di consigliarli […] intorno alla
compilazione degli statuti. Comunicai loro quelli della Banca nazionale, e
quando li ebbero in massima adottati, mi restrinsi a consigliarli d’introdurre
qualche modificazione accessoria per migliorarli, e la riserva di aprire sedi alle
altre Banche italiane e fare accordi per lo mutuo scambio de’ biglietti. Le
condizioni locali del paese motivarono qualche aggiunta agli statuti di cotesta
Banca. Fin d’allora però richiamai l’attenzione di que’ Signori sulle difficoltà di
accordare la fondazione di una Banca privata, colla nostra Banca governativa
(il Banco di Napoli, ndr.) e colla cassa di sconto (dello stesso, ndr), che ora è
pure del Governo. Le quali due istituzioni, quantunque condannate a perire,
non può negarsi che per ora rendono importanti servigi, e fanno parte della
macchina nostra finanziaria. In ogni modo quattro o cinque case, tra cui una o
due delle principali del paese, e tra queste specialmente una casa che non
aveva mai versato in imprese arrischiate, il che mi pareva di buono augurio,
stipularono uno strumento per la fondazione della Banca con sei milioni di
ducati di capitale, prendendo esse un terzo di azioni, riserbandone un terzo per
collocarlo nella rimanente Italia, presso case o istituzioni di credito, e un terzo
per via di sottoscrizione, con obbligo di prendere esse medesime le azioni che
non si collocassero altrimenti. Questo istrumento fu presentato al Ministero
Dittatoriale per l’approvazione. Ma il Ministero si sciolse prima d’impartirla.
Frattanto corse voce che la Banca nazionale aveva da Lei (Cavour, ndr)
ottenuto formale promessa di estendere a Napoli una succursale. Bastò questa
voce perché le altre case che prima non avevano sottoscritto, dimandassero di
apporre al contratto la loro sottoscrizione. Di maniera che può affermarsi che
oggi sono sottoscritte a quel contratto tutte le case più importanti di questa
città, sieno del paese o straniere, e le minori vi hanno anche preso interesse»
(citato da Demarco**, pag. 142, nota).
Aggiunge Demarco:
“L’idea di creare un nuovo istituto bancario era stata agitata, a Napoli, subito
dopo la caduta dei Borboni, proprio dal ceto commerciale della città. Ed esso
mostrava preferenza per la creazione di un istituto indipendente, per una
Banca Napolitana […] fin dal novembre del 1860, promotori alcuni banchieri e
commercianti meridionali, si era costituita una società anonima per la
creazione, in Napoli, di una « Banca indipendente di circolazione e di credito,
con capitali propri, e diretta da uomini noti al paese e conoscitori delle sue
condizioni e bisogni », che aveva presto raccolto il vistoso capitale di sei milioni
di ducati, e presentato la domanda di autorizzazione e lo statuto al. governo
luogotenenziale” (Demarco**, pag. 142).
Sicuramente Bombrini avvertì l’iniziativa come una pugnalata al fianco.
Mentre prima - al tempo in cui Cavour era favorevole alla banca unica
d’emissione - aveva difeso l’autonomia della sua impresa privata, adesso,
siccome voleva tutto, si era trasformato in un assertore della banca unica
d’emissione. A tal riguardo scriveva: «I disordini monetari e commerciali, che
troppo di frequente si ripetono e che sconcertano anche attualmente gli Stati
Uniti, ove le banche e i biglietti possono moltiplicarsi all’infinito, non
sembrano possibili in Francia e in Inghilterra ove una sola banca, ricca di
forze materiali e di fiducia, non è mai soverchiata dagli avvenimenti, e trova
sempre in sé vigore bastante a dominare la situazione (citato da Demarco**,
pag 144).
Tutto giusto. Il fatto è che, nelle sue idee, la banca unica, soltanto lui
poteva farla, in prosecuzione di quella che già aveva; cosa che padanamente
avvenne dopo la sua morte, quando ormai il Sud contava quanto il due di
briscola. Anche se i libri di storia sorvolano l’argomento, in realtà, Bombrini si
sentiva e agiva da padrone, allo stesso modo di quel gran patriota del gran
ministro, che aveva patriotticamente usato tutte le sue malizie e tutte le
sciabole disponibili per boicottare patriotticamente[5] una costituente
nazionale. Tale padronanza non intendeva spartirla con altri, come sarebbe
stato doveroso in un momento in cui nasceva lo Stato di tutti gli italiani, quelli
dritti e quelli fessi. La sua ingordigia, la sufficienza connessa con la conquista
violenta, una cultura municipale e una ricca esperienza da intrallazista
bancario, non è che non fossero evidenti ai contemporanei più scaltriti. Ma
che Bombrini si accingesse a far danno lo dovette rilevare un cavourrista
DOC come Costantino Nigra, inviato da Cavour a Napoli ad affiancare l’asinino
principe di Carignano, nel vano tentativo di mettere fine alla buriana
inaugurata da borbonici traditori, liberali fuorusciti e rientrati, mafiosi
scaricati, garibaldini fregati, mazziniani ricattati, sciabolatori sabaudi e
luogotenenti imbelli. Relazionando a Cavour circa la pretesa della Nazionale
d’insediarsi a Napoli, Nigra ebbe a scrivere “che una banca, la quale avesse
surrogato il Banco delle Due Sicilie, avrebbe trovato, nelle vecchie
consuetudini, non lievi difficoltà per accreditarsi, mentre la diffidenza che
regnava verso il biglietto di banca, che sul principio sarebbe stato considerato
carta [senza alcun valore], poteva solo vincersi col tempo, e quando alla
testa dell’istituto fossero stati preposti gli uomini più conosciuti della città per
esperienza, probità e influenza finanziaria” (cit. in Demarco**, pag. 146). Più
chiaro di così! Solo Nigra, intimo collaboratore del grande ministro nella presa
per i fondelli di Napoleone III, poteva dire papale papale che mai i napoletani
avrebbero accolto con soddisfazione un pubblico delinquente come Bombrini e
una banca il cui fine risaputo consisteva nel depredare il prossimo.
Il progetto di una banca napolitana non ebbe seguito a causa di due reazioni
convergenti: quella di Bombrini che aprì a Napoli uno sportello pomposamente
chiamato sede, benché vi mancassero i soldi occorrenti per operare
commercialmente su una piazza che era la più ricca dell’Italia del tempo, e
quella dello stesso Banco, che intendeva continuare la sua vecchia attività di
banca di deposito e di sconto.
Nel Napoletano e in Sicilia la penetrazione della Banca Nazionale incontrò
seri ostacolati. Ne elenco quattro. Primo: mentre altrove il numerario esistente
era stato rastrellato rapidamente, con la conseguenza che i privati,
specialmente le imprese, volenti o nolenti, erano costretti a impiegare i biglietti
della Nazionale, nel Meridione il numerario era abbondante. Mancando la
costrizione pratica a usare il biglietto piemontese, la gente lo rifiutava; gli
preferiva l’argento, dotato certamente di ben altra eloquenza. Secondo: il
nuovo Stato, coniò monete in quantità insufficiente per sostituire i coni
borbonici. Terzo: il governo di Torino, ispirandosi alla riserva mentale che le
antiche monete avrebbero dovuto essere cambiate con carta - e solo con carta
della Nazionale - le lasciò in corso, riconoscendo loro potere liberatorio nei
pagamenti. Quarto: la lira ufficiale veniva coniata sia in oro sia in argento. In
quella fase, però, a causa del maggiore afflusso d’oro, il rapporto di scambio
fra i due metalli si era modificato a favore dell’argento. Ciò nonostante il valore
ufficiale dei coni rimase quello di prima. Anche in questa circostanza il disegno
del governo era quello di fregare i sudditi, prosciugando l’argento che avevano
in saccoccia in cambio di carta ed eccezionalmente di oro, il cui prezzo
mondiale era calante. In pratica la coniazione delle moneta d’argento cessò. Le
poche coniazioni di questa fase furono tutte in oro. Ciò creò disagi dovunque,
persino nelle regioni ex sabaude. Ma nelle regioni ex duosiciliane i disagi
furono soltanto per Bombrini. Le popolazioni difesero l’argento che avevano in
mano, imponendo un aggio tanto sulla cartamoneta quanto sull’oro monetato.
D’altra parte, dovunque in Italia, l’argento faceva aggio sull’oro e l’oro sul
biglietto. Al Sud, anche la Banca Nazionale dovette piegarsi alla regola
corrente. A questo punto, per incassare ducati, Bombrini e i suoi soci liguri
decisero di remunerare i depositi con un interesse del 2,5 per cento - una cosa
che a quel tempo non rientrava nella pratica corrente in alcuna regione
italiana. Ciò nonostante il primo bilancio della sede napoletana della Nazionale
si chiuse in perdita. In effetti solo la mano violenta del governo nazionale
avrebbe imposto l’italianità monetaria del Sud.
“A distanza di un anno da quando la Banca Nazionale aveva aperto una
sede a Napoli, quali risultati aveva conseguiti? Non c’erano stati quei progressi
che l’importanza della piazza poteva lasciare presumere, e le sue operazioni
erano « ben lontane » dal presentare quello stato soddisfacente sul quale si
aveva diritto di contare ad onta della introduzione del corso legale delle
monete d’oro.
“Il del Castillo poteva ripetere quanto aveva detto nel suo rapporto dell’11
gennaio [1862], circa le cause che ancora ostacolavano lo sviluppo della Banca
Nazionale nelle provincie meridionali. L’esperienza, aggiungeva ora, aveva
provato la necessità di adottare una misura che assicurasse al paese uno
«stabilimento di credito serio e prospero», «mentre lasciando andar le cose da
per loro si finirà per non ritirare nessun vantaggio né dalla Banca Nazionale, né
dal Banco di [Napoli]». Se il Ministro non riteneva, per il momento, opportuna
una soluzione radicale, egli chiedeva che si prendesse un «temperamento»,
che «la giustizia e l’interesse stesso dello Stato» richiedevano. E quale doveva
essere questo temperamento? Richiamare il Banco di [Napoli] all’origine della
sua istituzione, col vietargli le operazioni di sconto, e disporre che tutte le
casse del governo, nonché quelle del Banco di [Napoli], fossero obbligate a
ricevere i biglietti della Banca Nazionale, come era avvenuto nelle altre
provincie del Regno. In realtà ecco che cosa accadeva. Mentre la fede di
credito era ricevuta da tutte le casse governative e dalla stessa Banca
Nazionale, il biglietto di quest’ultima era rifiutato e dalle casse governative e
dal Banco di Napoli. Il biglietto della Banca Nazionale era quindi «ignorato dai
più », o «in completo discredito», perché si riteneva che governo e banco
rifiutassero di accettarlo nelle loro casse, «per poca fiducia». L’esistenza della
Banca, senza la congiunta circolazione del biglietto è «un’impossibilità», diceva
il del Castillo, mentre ognuno rammenta che, con l’incalzare degli avvenimenti
del ‘59, una delle fonti, cui il governo si rivolse con maggiore successo, fu la
Banca Nazionale, rendendone forzoso il corso del biglietto. Il governo
continuando ad operare in tal modo finiva per privarsi di una risorsa. Ma «non
si trasformano d’un colpo le abitudini di un popolo, né si può soddisfare a tutti i
suoi bisogni con un’ordinanza del potere il meglio assodato e sicuro».
«Cambiare violentemente non è moralizzare, ma perpetuare le idee della
violenza » (Il Commissario Governativo, del Castillo, al Ministro dell’Agricoltura,
a Torino. Napoli, 25 ottobre 1862).” (Demarco**, pag. 146)
L’impotenza finanziaria ex sarda, quantunque accompagnata dalla forza
politica dello Stato, e la potenza finanziaria duosiciliana, benché scompagnata
da una qualunque forza politica, eccetto il servilismo dei patrioti, resero dura e
pesante la vita al governo nelle nuove province meridionali. Ciò convinse
Bombrini - e lo Stato suo succubo - a piegarsi e a rimandare la cancellazione
dei Banchi meridionali a un momento più propizio. Dal canto suo, il ceto
mercantile della città di Napoli, o forse una parte soltanto, cominciò
machiavellicamente a ponderare l’idea di allearsi con un nemico che non aveva
la forza di abbattere. Guuidato credo dall’industriale Mauricoffe, tentò di
salvare il salvabile buttandosi nelle braccia del vincitore e parteggiando per la
Banca Nazionale. Ma il gruppo dirigente del neo-Banco di Napoli gli sbarrò la
strada.
Identica cosa avvenne in Sicilia.
“ Con decreto del 7 aprile 1843 il Governo borbonico estese alla Sicilia
l’apparato bancario napoletano istituendovi due Casse di corte, una a Palermo
e una a Messina, alle dipendenza della Reggenza del Banco delle Due Sicilie
avente sede a Napoli. In base all’atto sovrano del 2 settembre 1849 con cui fu
stabilito che l’amministrazione civile, giudiziaria e finanziaria della Sicilia fosse
‹per sempre› separata da quella dei domini continentali, la due Casse di Corte
siciliane furono rese indipendenti dal Banco napoletano e costituirono un nuovo
istituto che con decreto del 13 agosto1850 assunse la denominazione di Banco
regio dei reali dominii al di là del Faro e fu posto alle dipendenze del
Luogotenente generale in Sicilia” (Giuffida, pag. 6).
Il Banco siciliano funzionava allo stesso modo del Banco napoletano, cioè
accettava danaro in deposito, a fronte del quale rilasciava una fede di credito,
la stessa che a Napoli. Inoltre effettuava sconti commerciali. Anche in questo
caso si ha il raddoppio del danaro ricevuto, e per giunta nella forma elegante
che già abbiamo segnalato. In più si ha un aumento del circolante pari
all’ammontare degli sconti effettuati. Caduta la Sicilia in mano alle regioni
toscopadane, alcuni banchieri e imprenditori siciliani[6] chiesero e ottennero
dal governo prodittatoriale (decreto del 18 ottobre 1860) di fondare un banco
di emissione simile alla Banca Nazionale del Regno di Sardegna, che prese il
nome di Banco di circolazione per la Sicilia, con sedi a Palermo, Messina e
Catania. L’istituzione assunse (o avrebbe dovuto assumere) la forma della
società per azioni, con un capitale iniziale di sei milioni di lire sabaude.
Naturalmente l’iniziativa morì appena partorita. Da una parte calò in Sicilia la
Banca Nazionale sarda, dall’altra il Banco borbonico divenne il Banco di Sicilia.
In merito all’aborto, il Trasselli si è posto alcune domande:
«Perché il Banco di Circolazione non entrò mai in attività? forse perché i
promotori non riuscirono a collocare nei sei mesi previsti le 6.000 azioni? o
perché il Governo italiano, dopo la breve parentesi dittatoriale e prodittatoriale,
preferì mantenere in vita il decrepito Banco Regio? O perché, così come per le
ferrovie, erano calati subito Adami e Lemmi, per i servizi bancari calò la Banca
Nazionale, con le succursali in ogni capoluogo di provincia e con i suoi privilegi?
[...]. Noi comprendiamo bene che in quel momento favorire il Banco di
Circolazione od anche soltanto lasciarlo vivere, avrebbe significato annullare un
decennio di politica bancaria del Cavour [...]. Allora, tollerare una banca
siciliana avrebbe significato disfare sul piano bancario quell’unità che era stata
faticosamente e non perfettamente raggiunta sul piano politico, un andar
contro quel corso storico pel quale da cinque secoli almeno le due Sicilie erano
sotto il dominio finanziario ligure e toscano. Resta che l’unica grande banca
moderna promossa in Sicilia, all’infuori delle banche locali e della Cassa di
Risparmio non venne realizzata. Frattura tra la borghesia siciliana e quella
continentale? Questione meridionale? Purtroppo non sappiamo. [...]. Resta il
fatto che si presta a troppe interpretazioni diverse ». (Cfr. Premessa del
Trasselli a: M. Taccari, I Florio, Caltanissetta - Roma, 1967, pp. XXIX-XXX, cit.
da Giuffrida, pag. 5).
Avendo seguito – debbo dire con grande amarezza - lo svolgimento della
doppiezza cavouriana e penetrato l’avida concezione che Bombrini ebbe a
proposito dell’Italia–una, sono ben lontano dal dubbio (forse soltanto retorico)
che affligge lo stimato autore. Infatti Bombrini reagì sempre con grande
energia contro chi tentava di rubargli la greppia. Nella circostanza, andò da
Cavour e dai docili suoi ministri a dire che non ci stava; che tutto quel che
poteva concedere ai napoletani e ai siciliani (i quali avevano una ventina di
volte i suoi soldi) era una quota pari a meno di un sesto del capitale sociale
della sua banca, 12,5 milioni su ottanta. E comunicò il diktat al Luogotenente
palermitano. Tutto ovvio. Meno ovvio è che a Palermo, come a Napoli,
mercanti e banchieri - giunti a questo passaggio e intravista la faccia truce di
quell’unità da loro inizialmente auspicata - si arrocchino in difesa del Banco
borbonico. Con il senno di poi, bisogna dire che si trattò di una scelta
oltremodo sbagliata. Orami il guaio l’avevano fatto, ergo: o disfacevano la
mala unità o stavano al gioco bombrinesco, nel tentativo d’inserirvisi con
vantaggio. La mezza misura non salvò l’economia meridionale dal blocco
coloniale, né salvò i loro patrimoni.
In passato l’attività dei Banchi era sottostata alla direzione politica del
governo borbonico. Passati all’Italia-una, divennero un corpo senz’anima, una
mano senza il cervello che la guidasse. All’inizio, i napoletani riuscirono a
condizionare l’imperio padano. Ma più di questo non seppero fare. In Sicilia
nemmeno a questo riuscirono. In Italia-una la tensione era degradata a un
livello meno che municipale. La sola bussola che orientò l’azione dei Banchi
furono gli interessi della burocrazia interna che si batteva per conservare la
mangiatoia, per quanto magra essa fosse. La quale sarebbe stata rifornita a
sufficienza di biada soltanto se gli istituti avessero ottenuto da Torino il
permesso di avvalersi dei depositi per continuare a praticare lo sconto
cambiario. Solo quella fonte avrebbe assicurato le entrate necessarie a pagare
gli stipendi e tenuto in vita gli istituti.
Spettava al governo accordare o negare la facoltà. Abilmente la manovra
d’interdizione bombrinesca si concretizzava proprio sulla negazione di tale
facoltà. Michele Avitabile, neo-direttore del Banco di Napoli, avendo capito
finalmente di quale pasta erano fatti gli uomini del nuovo Stato, si recò a
Torino e incontrò i ministri competenti in materia bancaria, Giovanni Manna,
napoletano, e Marco Minghetti, toscopadano, convincendoli – dicono le storie
patrie - che l’economia napolitana avrebbe potuto giovarsi grandemente
dell’opera del Banco. Più verosimilmente (è questa l’unica spiegazione logica)
promise dei forti acquisti di cartelle del debito pubblico. Probabilmente
aggiunse che la chiusura del Banco avrebbe messo sul lastrico un congruo
numero di illustri patrioti. I ministri, convinti o meno, accordarono la vita al
Banco.
Si tratta di un passaggio nodale nella storia del paese che prima era uno
Stato con un suo inconfondibile nome – il Regno di Napoli, un paese autorevole
e rispettato – e che da allora, copiando la Francia, si chiama Meridione o
Mezzogiorno, o copiando gli USA, il Sud; un paese commiserato e
effettivamente da commiserare. Similmente all’aristocrazia che l’aveva
preceduta nel dominio etico-poltico del paese, la borghesia meridionale –
ispirata dai cadetti di una proprietà terriera resa scarsamente produttiva
proprio dall’indole dei padroni – pur di salvare sé stessa, svendette il proprio
popolo. L’invereconda morale mostrò al padronato toscopadano attonito[7] il
pertugio (o se preferite, l’alleato, o l’ascaro) attraverso cui passare per
ilotizzare le popolazioni meridionali. Il Banco, che era stato un’efficiente
istituzione cittadina in mano ai Borboni, una volta italianamente santificato,
divenne il mostro che ha oberato la vita economica delle popolazioni
meridionali per 100 anni.
Postesi le regioni del futuro Triangolo industriale a baricentro della vita
dell’assurda nazione, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia ebbero l’identica
funzione della classe sociale di volta in volta deputata dallo Stato nordista ad
esercitare l’egemonia politica sulle popolazioni meridionali. I banchi, benché
spesso detentori di ingenti risparmi provenienti specialmente dall’estero, non
servirono all’evoluzione della manifattura verso l’industria macchinistica, e
neppure al progresso agricolo. Nella fase della genesi nazionale lo scontro con
Bombrini servì soltanto a esacerbare gli animi, a innalzare il livello
dell’inimicizia tra Nord e Sud e a imbalsamare quest’ultimo.
5.3 In precedenza ho cercato di riassumere il percorso dalla banconota, che
parte timidamente dalla convertibilità in numerario, affronta le guerre
napoleoniche con la copertura del corso forzoso (il quale – ricordo - nasconde
un’imposta sul patrimonio), torna poi alla convertibilità, ma questa volta –
nella sostanza, benché la forma sia ancora privata - come moneta emessa e
garantita da una banca centrale, effettivamente dallo Stato. In Gran Bretagna
e in Francia i vari passaggi si snodano su un secolo e mezzo circa. Invece
l’Italia brucia letteralmente le tappe. La data di partenza è l’autunno del 1859,
allorché con l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna comincia lo
Stato italiano, il quale nasce prima della sua buffonesca inaugurazione ufficiale,
per effetto del crollo militare dell’Austria; la data finale è il crac della Banca
Nazionale, che gli storici tentano di tenere nascosto, e la fondazione, nel
1892, della Banca d’Italia, con la funzione di banca centrale. Appena trent’anni,
dunque, ma trent’anni durante i quali la Banca Nazionale si giovò delle
difficoltà dello Stato e dell’appoggio del personale governativo per
impossessarsi di tutto il potere di comandare il lavoro in Italia, concentrandolo,
e contemporaneamente ridistribuendolo, in Liguria, Lombardia, Piemonte e
Toscana. Parallelamente all’accentramento geografico si ebbe uno slittamento
del potere di comandare lavoro dalle aristocrazie fondiarie di tutte le regioni
alla speculazione, alla mercatura assistita e ai primi tentativi di industria
parassitaria. L’egemonia parlamentare e governativa della proprietà agraria è
una favoletta di cui siamo debitori alla malafede degli storici. Indubbiamente
l’estrazione degli asini e dei malfattori che sedevano in parlamento era di tipo
agrario e municipalista. Non lo fu sicuramente l’indirizzo governativo, almeno
fino alla parentesi mussoliniana. L’Italia una-nazione fu il vaneggiamento di
alcuni filosofi e di qualche storico - di Croce, di Guido De Ruggero, di Alfonso
Omodeo, di Gentile, di Gioacchino Volpe - nonché l’ubriacatura di qualche
poeta. Fin quando, nel secondo dopoguerra l’IRI e l’ENI non presero
saldamente in mano il destino produttivo del paese[8], il governo nazionale fu
effettivamente ispirato da ammiragli incompetenti e ribaldi, da generali inetti e
sanguinari, nonché da speculatori impancatisi a industriali e da banchieri senza
peli sullo stomaco, in combutta aperta o in accordo tacito con i primi. In effetti,
la sola cosa che, accanto ai monumenti, lo spirito toscopadano ha conservato
dell’eredità rinascimentale è l’ingordigia usuraria. L’animus spoliandi, che
aveva mosso Cavour e i municipalisti toscopadani ad avventurarsi nell’impresa
italiana, portava automaticamente all’azzeramento della borghesia mercantile
duosiciliana e al saccheggio del paese meridionale.
Nel seguire detto coacervo di ambizioni, propositi e atti, la Banca Nazionale
uscì completamente dal seminato, dal percorso storicamente tracciato dalle
banche d’emissione britanniche e francesi. Diversamente che nella Francia e
nell’Inghilterra del tempo, dove la banca centrale contribuisce ad unificare la
società civile, la politica bancaria di Bombrini provoca una crescente
disgregazione tra le borghesie regionali appena unificatasi nel nome della
paura sociale. Cerchiamo di dipanare la matassa.
La Banca d’Inghilterra e la Banca di Francia, nel corso dei primi tre decenni
della Restaurazione, tagliano completamente con il passato e raggiungono
consapevolmente la qualità di servizio pubblico a favore delle attività
commerciali e dello sviluppo economico. Entrambi i paesi hanno già da tempo
superato la fase dell’accumulazione preliminare. Al momento attraversano
quella fase del decollo industriale (per la Gran Bretagna, del tutto avanzata)
che porterà alla rivoluzione produttiva occidentale. In entrambi i paesi, lo Stato
gode di entrate fiscali adeguate, per cui non ha bisogno di ricorrere al
massiccio drenaggio di metalli preziosi. Il valore crescente delle esportazioni
facilita l’acquisto di metalli preziosi dai produttori, con cui entrambi i paesi
accrescono il numerario, la cui richiesta segue la penetrazione del mercato in
agricoltura e la crescita della classe salariata. Il capitale privato è oltremodo
consistente e il sistema creditizio ben organizzato.
Essendo la progettazione dello sviluppo e l’organizzazione degli investimenti
lasciati in mano ai privati, sono le idee e gli interessi delle rispettive classi
padronali a determinare l’azione politica. Invece l’area sabauda, come il resto
d’Italia, è ancora in una fase protoindustriale. Il consistente valore delle
esportazioni agricole portano Cavour a immaginare una specie di ingresso
laterale allo sviluppo, che ha come perno la modernizzazione dei trasporti. IN
via subordinata concepisce uno sviluppo drogato dell’apparato creditizio, che
superi la vecchia banca familiare di deposito e sconto. L’istituzione giusta è la
banca d’emissione e l’uomo giusto è Carlo Bombrini. Il fatto che Cavour
persegua il drenaggio dei metalli monetati ne eccita il lavoro, ma la modestia
dell’economia sabauda ancora Bombrini in limiti municipali.. Al salto verso un
progetto diverso la Nazionale è costretta quando Cavour spinge il Regno verso
la guerra, mentre la finanza internazionale non scommette più un solo franco
sul Piemonte. Il costo forzoso, decretato nel 1859, non appare una misura
sufficiente a salvarlo. Bombrini rigenerava la riserva obbligatoria acquistando
oro in Francia, che pagava incettando con le tratte degli esportatori piemontesi
di seta. Ma quando l’orizzonte si oscura, costoro rifiutano la sua carta.
Il momento è fallimentare. Il corso forzoso si trasforma in corso sforzato. Il
crac è dietro l’angolo. A salvare Cavour, e con lui Bombrini, sarà l’oro
lombardo. Anzi fa più che salvarli, infatti Cavour lo associa a sé, per portare
avanti il saccheggio del circolante metallico che è necessario a pagare l’enorme
indebitamento piemontese. Soltanto questo può spiegare l’invereconda
diffusione degli sportelli bombrineschi sul territorio italiano.
L’operazione si sviluppa in grande stile. L’azione di Cavour, non è più
appesantita dai sospetti del parlamento sabaudo, dall’opposizione dei cattolici e
dei deputati della Savoia. E’ un trionfatore e la sua volontà vale come una
decisione a cui tutti, persino il re, si debbono conformare. Conquistata l’Italia,
a tale volontà si debbono piegare anche tutte le banche esistenti in Italia
(abbiamo visto, a eccezione di quella toscana). La banca di Bombrini diviene la
banca centrale italiana senza che un atto legislativo le conferisca la funzione e i
poteri. Diversamente dalle banche centrali d’Inghilterra e di Francia, questa
banca centrale dissimulata non è servizio all’indistinto pubblico. E’ piuttosto
la banca di uno Stato che conduce una guerra interna, propriamente di tipo
corsaro, anche se non ci sono i galeoni spagnoli da saccheggiare, ma solo dei
contadini poveri da spellare e una borghesia micragnosa da alleggerire. La
posta in gioco è l’accumulazione preliminare: quella realizzabile in quel
momento, oggettivamente limitata dalle scarse risorse nazionalmente.
Intascati da Bombrini, l’oro e l’argento rendono, prima di tutto, il loro valore
e poi il loro valore moltiplicato per tre. L’incasso tributario fa due beneficiari: la
Banca Nazionale che agguanta il numerario e lo Stato che spesso si accontenta
del controvalore cartaceo, che essa mette a disposizione del tesoro. Ma c’è un
profitto che Bombrini fa da solo, ed è quello sui crediti degli italiani verso
l’estero. L’importatore straniero, che acquista seta o olio o vino in Italia, si
presenta alla propria banca per ordinare il pagamento della tratta italiana. La
stessa cosa fa l’importatore italiano. Il sistema bancario media entrambe le
operazioni. In tale ruolo, Bombrini ottiene due lucri: la mediazione bancaria e
le tratte italiane sulla Francia, dalle quali gli viene un incasso in oro, che egli
trasforma in carta quando paga l’esportatore italiano.
Siccome le esportazioni meridionali sono più di un terzo delle esportazioni
dell’Italia unita, esse diventano una fonte gratuita di arricchimento per la
Banca Nazionale e per l’intero sistema padano. Ottenere il valore delle merci e
dare carta in cambio, al momento, costituisce l’interesse principale della
colonizzazione padana del Meridione[9].
In effetti, a padroneggiare lo Stato è la borghesia toscopadana. La quale può
crescere soltanto se egemonizza tutte le risorse disponibili, che non sarebbero
poche se non fossero disinvoltamente sprecate dalla consorteria militare, la cui
vera patria sono la vanità e l’arroganza. Inavvertitamente (credo, ma potrebbe
essere altrimenti) si realizza una divisione dei compiti. Mentre il governo lavora
al servizio dei generali e degli ammiragli, la banca lavora all’accumulazione
preliminare in favore della borghesia attiva in via di formazione.
Difatti, il carattere dominante che la Banca Nazionale assume in Italia
deriva dal fatto che, provvedendo per conto proprio e per conto dello Stato alle
emissioni di cartamoneta, ottiene il controllo del credito su tutto il paese. Ciò
conferisce alla Banca Nazionale un potere abusivo di comandare lavoro
superiore a quello dello stesso Stato. Per agevolare l’espansione della Banca
Nazionale, i banchi meridionali furono ammessi all’emissione di cartamoneta a
taglio fisso solo dopo la decretazione del corso forzoso (1866), ben sei anni
dopo la conquista. Inoltre questo potere venne limitato e sottoposto al
condizionamento della Banca Nazionale. Siamo in un momento in cui tagliare
le braccia alla borghesia produttiva significa una condanna in blocco per tutta
l’economia duesiciliana. E’ questa la causa prima del dualismo italiano, un
momento tragico della guerra regionale inaugurata con l’unità, una batosta più
catastrofica dell’iniquità erariale; in pratica l’ilotizzazione del paese merdionale.
5.4 Quando l’emissione di cartamoneta viene inserita in un’area monetaria
avente base metallica, una banconota deve poter acquistare quanto acquista
una moneta coniata dello stesso valore. In pratica le due monete sono
intercambiabili, e non solo per volontà dello Stato, ma anche perché la gente
usa l’una o l’altra senza rimetterci. Se questo non si verifica, il meccanismo è
vizioso. Il vizio della Nazionale stava nel fatto che emetteva banconote di cui
prometteva la convertibilità a vista, ma poi, prospettando difficoltà che di volta
in volta andava inventandosi, non la cambiava. Con ciò espropriava il
portatore cartaceo, anzi lo frodava, perché per ottenere il suo oro, il
malcapitato era costretto ad assoggettarsi a pagare un aggio.
Dove circolano contemporaneamente monete metalliche e carta difficilmente
convertibile è assolutamente normale che, chi possiede oro, lo dà via in cambio
di carta, solo se costretto da un’urgenza. In detta situazione è anche normale
che l’oro faccia aggio sulla carta.
Il concetto politico che presiedette all’espansione bombrinesca è mistificato
dalle buffonesche dichiarazioni degli storici. Sono agli atti a renderlo evidente.
Ci troviamo di fronte a un’economia di guerra, ma la guerra non è alle porte,
e quand’anche lo fosse, sarebbe una guerra completamente estranea a una
qualunque ambizione o necessità del Sud. Tuttavia in Regno d’Italia porta
avanti la sua politica di riarmo, tartassando il contribuente e percependo il
gettito di un’imposta dissimulata sul patrimonio. Altrove, in Inghilterra, in
Francia, in Germania i sudditi non soffrivano un danno nel cambio. Infatti una
moneta in oro veniva sostituita perfettamente da una banconota con pari
potere d’acquisto. Ogni guerra ha i suoi profittatori di guerra. Storicamente il
disagio fu voluto. Derivò dall’omessa conversione dei coni metallici e dalla
contemporanea circolazione di antiche e nuove monete, aventi, tanto le une
quanto le altre, potere liberatorio nei pagamenti, nonché di carta monetaria,
che legalmente non era moneta, essendo i privati in teoria liberi di attribuire,
o no, fiducia, a essa, e tuttavia impiegata dallo Stato per il pagamento dei
dipendenti e per le sue spese. Insomma, volendo usare un termine televisivo,
venne dal casino inaugurato dai governo. Tanto più grande in quanto la gente
aveva scarsa fiducia in un titolo privato, il cui debitore godeva di scarsissimo
credito, perché un giorno pagava e due no. Il conseguente aggio sulla carta
non era insito nella natura della banconota, ma fu provocato dal fatto che era
il losco Bombrini a doverla rimborsare.
Gli storici hanno inventato la solfa dell’ignoranza delle popolazioni, la
quale, poi, sarebbe stata il prodotto di un tenebroso passato. Detta la cosa da
chi preparava loro un tenebroso avvenire, è impossibile che non induca a
pensare a quei Signori toscopdani, a cui il povero Machiavelli pretendeva di
rivelare di che lacrime grondi e di che sangue lo scettro ai regnatori.
L’ignoranza della gente è solo una scalcinata favoletta. Infatti dove la banca
era solvibile, per esempio nelle Due Sicilie, la carta circolava agevolmente,
anzi faceva aggio sul numerario.
Nel corso dei primi dieci anni d’unità, Bombrini s’impossessò dell’oro e
dell’argento circolanti nei vari ex Stati ed emise banconote in misura
maggiore; in un primo tempo, nel rapporto di tre a uno, a partire dal 1866,
nella misura che egli stesso, di volta in volta, decideva. Anche qui il fatto
negativo non è la maggiore circolazione da lui imposta, cosa che entro certi
limiti corrispondeva ai bisogni del mercato, ma in primo luogo alla mala
distribuzione del credito fra i sudditi e le regioni. La gente capiva che era
sottoposta a un sopruso e capiva anche che le sue risorse finivano in mano a
un limitato gruppo di improduttivi malfattori[10].
Morto Cavour appena pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia,
Bombrini si ritrovò con le mani libere. Invece che essere usato come prima,
usò gli altri. Per lucrare i vantaggi che il nuovo regime gli offriva, si alleò con
chi non riuscì a sottomettere. Ogni anno che passava la sua potenza
s’ingrandiva, il suo comando diventava più grande e lucroso. Agendo in modo
viscido e intrallazzistico s’impadronì del potere di comandare il lavoro di un
numero sempre più grande di italiani. Per prima cosa, il numerario
incamerato gli fruttava il corrispondente valore, e lui lo spendeva liberamente
sul mercato internazionale per incettare i titoli del debito pubblico di cui si
disfacevano a prezzi vili i detentori stranieri (leggi le grosse case d’affari
parigine, che avevano sottoscritto in blocco le cartelle a un prezzo ancora più
vile). Per seconda cosa, maneggiò quell’oro, che era di tutti, come fosse suo,
e quando lo prestava allo Stato pretendeva un interesse. Infine, costituito a
riserva l’oro di tutti, emetteva carta per tre, sei, dodici, ventiquattro,
quarantotto, novantasei volte tanto, estendendo il credito – cioè il suo potere
e il suo lucro - in misura corrispondente.
Diversamente da quel che gli storiografi della banca italiana lasciano
supporre, le ruberie della Banca Nazionale e dei suoi satelliti non giovarono al
decollo Nord. Il quale rimase inchiodato al sottosviluppo fin quando non arrivò
in Italia la valuta rimessa dagli emigrati. Lo favorì invece commercialmente
nel confronto con il Sud, il quale venne sottomesso, disarticolato e portato a
una situazione peggiore che ai tempi della dominazione spagnola.
Certamente Bombrini non mirava a tanto. La cosa era troppo grande per
lui. Soltanto Cavour, buon discepolo dei liberali inglesi ebbe in mente una
cosa del genere. Lo prova il dibattito parlamentare del maggio 1861
sull’estensione della tariffa piemontese alle Due Sicilie. Cavour che con
l’industria piemontese largheggiava in protezioni, per i napoletani rispolverava
i grandi principi di Edimburgo. In effetti il grande ministro voleva puramente e
semplicemente affossare l’economia meridionale, onde favorire i mercanti del
suo giro[11] , e l’altrettanto grande banchiere voleva puramente e
semplicemente spadroneggiare nel settore bancario, per guadagnarci il
massimo possibile. Così fece di tutto affinché quel Pozzo di San Patrizio, che
era l’emissione cartacea, non fosse esteso ad altre banche e rimanesse un
suo privilegio e monopolio. Ovviamente, se nel pollaio rimane soltanto un
gallo, il numero delle uova e delle covate non cresce. Tutto quel che si ottiene
è un trionfale ma solitario chicchirichì quando spunta il sole. Nella sua torbida
operazione Bombrini ebbe il sostegno e la connivenza del governo nazionale,
il quale con la mano destra usava lo strumento tributario con patriottica
ferocia - incurante degli uomini e del loro destino privato e collettivo - e con
la sinistra patriotticamente faceva cadere il ricavato in grembo agli speculatori
toscopadani, che molto spesso erano le stesse persone dei ministri.
Il servilismo degli storici vuole a tutti i costi vedere nella presenza e
nell’attività della Banca Nazionale un momento positivo sulla strada della
modernizzazione in Italia. La verità, invece, è lucidamente stampata nella
vicenda sociale italiana: il Nord impiega trent’anni per liberarsi dalle
speculazioni improduttive, al Sud l’unità fa tabula rasa. A denunziare il
pericolo insito nell’insolita figura di una banca centrale, che era pubblica negli
incassi e privata nelle decisioni, furono in molti, ma furono sempre
patriotticamente tacitati, magari con un posto da ministro. A livello nazionale
(se proprio di un’unica nazione può parlarsi) la politica cavouriana e
bombrinesca altro non fece che spostare risorse dalla produzione (attuale e
potenziale) alla speculazione. Lo fece non solo attraverso gli alti tassi di
remunerazione del debito pubblico e la facilità con cui gli investitori privati e
istituzionali ottenevano anticipazioni sulle cartelle della rendita, ma anche
vietando al Sud di costruirsi una banca d’emissione dello stesso livello e peso
di quella padana.
Bisogna aggiungere tra parentesi che le risorse capitalizzate in rendita non
provenivano dai surplus di un sistema a riproduzione pienamente allargata,
ma da surplus contadini da astinenza, realizzati con la violenza delle armi e
delle leggi, di cui lo Stato sabaudo si servì senza pregiudizi umanitari e senza
alcuno spirito di solidarietà nazionale. Ci furono, bisogna dirlo, anche surplus
da indebitamento – regolarmente investiti in armamenti - che vennero
finanziati con prestiti esteri, il cui rimborso venne dilazionato nel tempo e
patriotticamente intestato alle future generazioni, sempre di contadini.
L’espropriazione dei miseri in nome della speculazione ebbe come
contropartita l’omissione degli investimenti in agricoltura, come venti anni
dopo dimostrerà l’Inchiesta Jacini[12].
5.4 Dal confronto tra la massa della circolazione nel 1861, complessiva di
numeratio e biglietti, e quella del 1870 risulta chiaro che la prima era
insufficiente rispetto ai bisogni del mercato (La Francesca, pag. 22)[13]. Nella
sua velocissima corsa verso le cento città d’Italia, per aprirvi sedi e succursali,
Bombrini non piantò le tende solo nelle città ricche di commerci e d’affari, ma
anche in luoghi in cui il giro commerciale aveva un tono alquanto basso. Il
particolare riceve anche il suffragio degli storici, i quali affermano che tale
procedura era il frutto della volontà politica di diffondere il credito bancario
dove non esisteva. L’affermazione è capziosa. Da sempre si è detto o lasciato
intendere che la parte d’Italia carente di una buona geografia creditizia fosse
il Sud. In effetti, il Regno di Sardegna ebbe soltanto due sportelli fino al 1858,
e a partire da tale data cinque. La Toscana aveva due banche e in tutto tre
sportelli, la Lombardia una banca con due sportelli. A Parma, Modena e
Bologna esisteva una banca per città. In tutto il Triveneto operavano due
sportelli bancari. La Due Sicilie, a partire dal 1858 c’erano tre sedi aperte e
due in via di apertura. Non si capisce quindi dove fosse il relativo ritardo del
Sud.
Gli storici lamentano che, al Sud, la Banca Nazionale incontrò una
rilevantissima freddezza. Ma perché avrebbe dovuto non incontrarla? I
colonizzati non si fidavano di una banca proveniente da una terra ignota, che
dava carta in pagamento e poi mostrava una molta cattiva volontà allorché
era richiesta di barattare la carta con l’oro; cosa che era assolutamente
contraria alla loro tradizione, in quanto la carta del Banco delle Due Sicilie era
stimata più dell’oro. Perché, allora, Bombrini si accollò la spesa di un affitto e
lo stipendio degli impiegati spediti in colonia?
La gente capisce qualcosa in più degli storici. A costo d’apparire noioso,
ripeto il concetto. La Banca Nazionale – e con essa la generica borghesia
capitalistica delle regioni toscopadane attraverso i suoi esponenti al governo -
andava perseguendo un processo di accumulazione preliminare, che nel Sud
assunse subito il volto del saccheggio e dell’accumulazione selvaggia.
In quanto facente la funzione di banca centrale, tra il 1859 e il 1874, la
Banca Nazionale riuscì a convertire tutto l’oro e l’argento circolante negli ex
Stati italiani in cartamoneta fiduciaria. Come abbiamo potuto notare in
occasione della recente conversione della lira in euro, ancora oggi lo Stato non
è attrezzato per compiere rapidamente le operazioni del cambio monetario,
pertanto affida la bisogna ad enti privati, come le banche, o a enti pubblici
autonomi, come le Poste. Centoquarant’anni fa le cose non ebbero un diverso
svolgimento.
Ma prima di soffermarci sulla loro attività, è opportuno presentare il versante
mobiliare della ricchezza italiana - o meglio degli italiani - consistente nella
moneta metallica. Essendo fatta d’oro e d’argento non era, come oggi una
rappresentazione simbolica, un puro mezzo di scambio delle merci. Era essa
stessa ricchezza mobiliare nazionale, storicamente formatasi. In buona
sostanza era un bene che poteva essere speso fuori dei confini nazionali[14].
E’ il bene che una nazione non colonialista e che non possiede miniere d’oro
e/o d’argento ottiene cedendo altri beni sul mercato mondiale.
Il ministero Rattazzi, entrato in carica all’inizio del 1862, ebbe fra i suoi
componenti Gioacchino Napoleone Pepoli, un aristocratico bolognese, figlio
della figlia di Gioacchino Murat, – pertanto cugino di Napoleone III - nonché
marito di una congiunta del re di Prussia e bisogna doverosamente aggiungere
appassionato patriota, drammaturgo, narratore, buon conoscitore dei problemi
economici e infine già parrocchiano del defunto Cavour.
Ma qual era la circolazione d’oro e d’argento al momento della conquista
sabauda dell’Italia? Il dato ufficiale reso noto nel 1894, dopo che le monete
preunitarie furono dichiarate non più convertibili, è di 669 milioni.
Tab. 5.4a Circolazione monetaria negli ex Stati calcolata
in base alle monete successivamente rastrellate:

Ex Stati Milioni di lire Media pro
capite (lire)
% per ex Stato
Regno delle Due Sicilie 457,5 50 53,4
Granducato di Toscana 73,0 40 8,5
Regno di Sardegna 176,5 43 20,6
Lombardia 112,3 34 13,1
Parma e Modena 37,9 35 4,4
Totale 857,2   + - 100


Si tratta di un dato sicuramente falsificato a causa delle fusioni e dalle
esportazioni di monete verificatesi a partire dal 1859. In effetti la circolazione
preunitaria era valutata una cifra superiore al miliardo di lire piemontesi. E’
quanto basta perché sembri stravagante il fatto che unificate militarmente e
giuridicamente le popolazioni italiane non venisse riconiata la gran massa di
moneta in circolazione[15]. Sul problema dell’unificazione monetaria,
fortemente avvertito da ciascuna delle popolazioni regionali, il gruppo di
comando cavourrista bfuffò sin dal primo giorno. E se gli storici patrii non
hanno mai mostrato sorpresa per la trascuratezza governativa, ciò prova
soltanto il loro connaturato servilismo.
L’aberrazione si spiega con tre ragioni pratiche. Prima, l’unificazione del
debito pubblico costituiva un’urgenza prefallimentare. Sulle piazze estere, i
creditori degli altri ex Stati erano gli stessi con cui era indebitato il Regno di
Sardegna. Se il Regno d’Italia, erede universale degli ex Stati italiani, non
avesse accettato il passivo ereditario sarebbe scoppiato un litigio internazionale
e la dinastia sabauda sarebbe stata messa in mora per il suo proprio e
strabocchevole debito. Seconda, con alquanta superficialità i patrii storiografi
lasciano intendere che Cavour voleva arrivare all’unificazione del debito
pubblico prima d’ogni altra cosa perché al Piemonte conveniva fare
l’ammucchiata, essendo il debito piemontese più della metà del debito totale.
In effetti Cavour ammucchiò perché in prospettiva intendeva inguaiare
l’Italia tutta ben oltre di quanto già lo non fosse. Terza, più cresceva il debito
pubblico più la Banca Nazionale distribuiva biglietti, più incassava tangenti sul
prezzo d’emissione e più lucrava interessi sulle anticipazioni. Cosicché lavorò
sempre, a volte sotterraneamente, altre palesemente, a favore
dell’indebitamento pubblico.
Il problema dell’unificazione dei sette sistemi monetari esistenti venne
affrontato solo nel luglio 1862, un anno dopo l’unificazione dei debiti pubblici
degli ex Stati. Contro la prassi dettata dagli storici accademici, ma in ossequio
alla logica – da cui non si può prescindere neanche nel dare giudizi sul passato
- tratterò prima il tema dell’unificazione monetaria e poi quello del debito
pubblico.
A provvedere all'unificazione monetaria, il governo Rattazzi impegnò il
ministro dell’agricoltura, che aveva competenza anche sul commercio e
sull’industria. Ed è questa un’ulteriore stranezza, in quanto logica avrebbe
voluto che fosse il ministro delle finanze, al tempo Quintino Sella, a
occuparsene. Il compito affidato a Pepoli non era complicato. Infatti si trattava
puramente e semplicemente di copiare l’assetto francese, a cui volente o
nolente l’Italia doveva uniformarsi per agevolare i suoi traffici internazionali,
come peraltro aveva fatto da mezzo secolo il Regno Sardo. Nel Piemonte e nel
Ducato di Parma vigeva il sistema decimale napoleonico (che è quello che noi
posteri usiamo), mentre negli altri ex Stati l’unità monetaria aveva multipli e
sottomultipli di tipo tradizionale e non sempre il sistema decimale. Nonostante
le contrarie affermazioni dei ballerini di fila ingaggiati nelle patrie università in
occasione del centenario della conquista sabauda - per mostrare all’inclito
vulgo quanto grande e forte e bello e civile fosse il Piemonte di Cialdini e
Lamarmora e quale schifo facessero gli altri italiani - nel Regno delle Due Sicilie
il sistema monetario era perfettamente decimale, anche se erano ancora in
circolazione dei coni non sempre coordinati con il dieci e con i multipli di dieci.
L’unità monetaria, il ducato napoletano, non era coniato, ma al suo posto era
coniato il dieci carlini d’argento. Difatti il ducato si divideva in 10 carlini, un
carlino in 10 grani[16], un grano in 10 cavalli o calli; in età precedente il
cavallo si divideva in tornesi. In Sicilia i nomi cambiavano ma il sistema era lo
stesso. L’unità monetaria era lo scudo avente il valore esatto di tre ducati.
Quanto alla moneta divisionaria un tarì era lo stesso che un carlino, un baiocco
lo stesso che un grano e un picciolo lo stesso che un cavallo. Uno scudo → 30
tarì → 300 baiocchi → 3000 piccioli. La convivenza di una moltitudine di segni
monetari a noi può sembrare la fonte di una gran confusione. La cosa era il
prodotto del succedersi dei dinasti e delle dinastie[17] e della longevità dei
coni. La molteplicità dei segni monetari trovava una scorrevole coordinata
mentale e contabile nella diffusa conoscenza del contenuto in metallo fino di
ciascun conio. Per giunta, in quasi tutta l’aera padana, i ricchi e coloro che
stavano negli affari avevano un riferimento contabile internazionale
rappresentato dal franco francese, che non solo veniva impiegato nelle
transazioni commerciali, ma era anche considerato una specie di moneta di
conto.
L’influenza francese non raggiungeva le Venezie e le regioni
centromeridionali. Queste ultime usavano prevalentemente monete d’argento.
Circolava solo qualche conio d’oro. Ma tanto il fiorino austriaco, quanto il
ducato napoletano erano monete largamente note, perché le corrispondenti
regioni avevano larghe esportazioni. Pertanto il loro valore al cambio non
doveva essere calcolato di volta in volta dai privati, ma dava luogo a una
specie di cambio che restava fisso fin quando non mutava l’intrinseco delle
monete o il prezzo relativo dei metalli.
All’epoca, le popolazioni meridionali usavano prevalentemente monete
d’argento, mentre circolava soltanto qualche pezzatura d’oro. Dopo l’unità,
però, il problema della svalutazione dell’oro sull’argento coinvolse anche i
meridionali, i quali mostrarono di non gradire le monete d’oro con l’effigie del
vittorioso Vittorio, che il governo torinese cercava di rifilargli in cambio dei loro
ducati. D’altra parte - l’abbiamo già ricordato - in Piemonte la convivenza di
monete d’oro e d’argento, tra loro permutabili in base a un rapporto fisso
(bimetallismo), aveva provocato e provocava la fuga dell’argento, nonché
l’insorgere di un aggio dell’argento sull’oro (la moneta di minor valore
intrinseco scaccia dalla circolazione quella migliore, che si propende a non
spendere). Ergo, fatta l’unità, i ducati d’argento presero a far gola sia al
governo, che li fondeva, sia alle banche, che li usavano come riserva.
Pepoli non cambiò le monete, come avrebbe potuto agevolmente fare in
forza dell’ oro e dell’argento in circolazione, la cui massa era tale che qualcuno
poté stimare quella italiana maggiore della circolazione metallica francese. Egli
si limitò a determinare una parità cambiaria tra lira italo-piemontese e
ciascuno degli altri coni circolanti. Peraltro tale lavoro era stato fatto già
durante l’occupazione degli ex Stati dai dittatori, dai prodittatori e dai
luogotenenti del re. Con la legge Pepoli la lira fu proclamata moneta ufficiale,
ma solo sulla carta, perché le antiche monete conservarono per legge un
potere liberatorio presso i privati e presso lo Stato italiano, pari al loro cambio
ufficiale. In buona sostanza la lira era una vera moneta soltanto negli ex Stati
sabaudi, in Lombardia ed Emilia. Altrove si configurò come un vezzo del
conquistatore, sulla cui base la gente calcolava l’importo delle tasse da pagare
(che pagava, però, con la moneta storica), e credo nient’altro.
Si potrebbe aggiungere che l’introduzione della lira come moneta di
conto, invece che rendere più agevoli gli scambi li complicò. Ad esempio, tra
un ducato napoletano e un fiorino austriaco prima il cambio era diretto, mentre
adesso bisognava fare una triangolazione con la lira sarda. La cosa fu spesso
lamentata in parlamento, ma si trattava dell’amplificazione di un disagio
personale. In effetti i deputati e i senatori erano fra le pochissime persone a
cui toccava attraversare la penisola per raggiungere la nuova capitale.
Ovviamente il deputato siciliano, che passando per Ancona voleva mangiare e
comprare un sigaro, non poteva fare altro che quello che molti di noi hanno
fatto con l’euro: versare le monete sul palmo della mano e chiedere al
venditore se gentilmente voleva provvedere lui stesso a pagarsi. Al contrario il
disagio della gente non si concretizzava nel cambio fra molte monete. In realtà
il raggio entro cui circolava una moneta, anzi meglio, il suo spezzato di rame o
di bronzo, difficilmente superava il perimetro locale. Più che i disagi, una crisi
di notevoli dimensioni (anche se non registrata dalle storie patrie) si ebbe nelle
ex Due Sicilie, dove la gente usava monete d’argento e una quantità notevole
di spezzato metallico. Il governo di Torino e la Banca Nazionale, da buoni
filibustieri, per di lucrare l’aggio dell’argento sull’oro, coniavano soltanto
monete d’oro, e rastrellavano il rame e il bronzo, anche qui per fare cassetta.
5.5 Esistevano già autorevoli stime sulla condizione monetaria italiana. Oggi,
la più nota e apprezzata è quella di un dirigente della zecca milanese ed
esperto monetarista, Giuseppe Sacchetti, secondo cui la massa del circolante
metallico – includendo il Veneto e Roma, ancora fuori dello Stato italiano -
sarebbe ascesa a poco più di un miliardo. Anche la stima al tempo più nota,
quella dell’autore dell’Annuario Statico Italiano, Pietro Maestri, non era
significativamente diversa (De Mattia, pag. 175).
Sacchetti produsse, a breve scadenza l’una dall’altra, due stime sulla
circolazione esistente, che sarebbe ascesa a circa un miliardo e cento milioni..
 

Tab. 5.5a Circolazione metallica in Italia Stima del Sacchetti
  Prima stima
(milioni)
Rettifica
(milioni)
Procapite Due
Sicilie = lire 50
Regno di Sardegna 182,2 176,5 -10,1
Ducato di Parma 20,3 19,9 -10,5
Ducato di Modena 18,5 18,0 -20,1
Stato Pontificio (a) 97,1 98,8 -10,0
Toscana 71,8 73,0 -10,1
Lombardo-Veneto 223,5    
Due Sicilie 464,1 457,5 0,0
Lombardia (b)   112,3 -10,0
Nizza e Savoia   26,6 -10,0
Veneto   99,9 -10,0
Roma e Lazio   29,7 -10,0
a) Bologna, Romagna, Umbria, Marche b) Esclusa Mantova c) Popolazione residente
secondo il Censimento 1861


Ora, queste stime - alquanto diverse dei dati ufficiali relativi al ritiro del
circolante – furono avvalorate da una decina di altri esperti, chiamati a deporre
dinanzi alla Commissione parlamentare sul corso forzoso, fra cui il direttore del
Banco di Napoli, Avitabile, e lo stesso Bombrini. Perché una differenza così
marcata? Si deve ritenere che tra il 1859 e il 1892 parecchio danaro coniato
sia rifluito verso la Francia per effettuarvi dei pagamenti. Molto probabilmente
una grossa quantità – centinaia di milioni – fu imboscata. Ciò spiega perché la
cifra dei ritiri non corrisponda alla situazione esistente prima della fine degli ex
Stati.
Tab. 5.5b Vuoto contabile tra circolazione e ritiro delle monete

Ex Stati Stima Sacchetti
(milioni)
Monete
rastrellate entro
il 1892
Vuoto
contabile
Regno di Sardegna 176,5 27,1 149,4
Ducato di Parma 19,9 1,7 36,2
Ducato di Modena 18,0    
Stato Pontificio 98,8 90,7 8,1
Granduc. di Toscana 73,0 85,3 +12,3
Lombardo-Veneto 212,2 20,9 191,3
Due Sicilie 457,5 443,3 14,2
Totale     386,9


Era letteralmente impossibile che nell’area sabauda, nel Lombardo-Veneto,
nei Ducati la circolazione fosse così striminzita come i ritiri finali
mostrerebbero. Sul disguido contabile i patrii ricercatori hanno steso una fitta
coltre di nebbia. E’ tuttavia evidente che il buco conoscitivo coincide con il
periodo che va dall’estate del 1859 all’autunno del 1862. In questo lasso di
tempo la Banca Nazionale si irrobustì con il numerario dei nuovi sudditi e
trovò nella fortunata condizione di collocare da sola i prestiti nazionali o di
farlo accanto ai grossi finanzieri francesi. In buona sostanza, non era più una
banca provinciale, ma una banca che aveva vinto il SuperEnalotto
dell’unificazione nazionale. Bombrini non era più l’attaché di Cavour ma un
potente che stava più in alto del governo, del parlamento e del re.
Comunque sia, il dato che Pepoli tenne a base del lavoro, che forse
immaginava di dover fare, era quello stimato da Sacchetti (il quale peraltro
pare l’abbia tratto proprio dalle stime del ministero diretto da Pepoli. La legge
Pepoli si limitò a definire i coni della nuova lira, ovviamente recanti la faccia
impudente del re Savoia. Però, nel corso dei decenni successivi le nuove
coniazioni ascesero in tutto a 416 milioni Dopo che la legge a lui dovuta fu
promulgata, Pepoli decise di cambiare mestiere e andò a fare l’ambasciatore
prima in Russia e poi in Germania. Evidentemente si era reso conto d’essere
stato bassamente strumentalizzato in un’azione contraria all’interesse
nazionale. Gli italiani badarono poco al suo destino politico, invece dovettero
piangere per decenni a causa della baraonda monetaria voluta da Bombrini e
dal suo servitorame politico. Ma ciò fa parte delle notizie minute, quelle che
uno storiografo d’alto lignaggio di regola trascura.
Esaminando le cifre, chiunque capisce che la massa d’argento ancora
disponibile a Napoli avrebbe consentito di far partire, senza forzature, anzi nel
modo più tranquillo, una circolazione metallica sufficiente per l’intera Italia,
sulla quale innestare eventualmente l’uso corrente della banconota
convertibile. Invece il governo toscopadanpo, travestito da italiano, scelse la
soluzione più odiosa, più cretina e meno onesta, infliggendo agli italiani trenta
anni di caos monetario. Si arrivò al punto che neanche i milionari disponevano
degli spiccioli per noleggiare una carrozzella. Da tutte le regioni del paese (ma
dal Sud meno che altrove) i prefetti spedivano allarmati telegrammi alle
autorità centrali, in quanto le aziende non riuscivano a cambiare le banconote
bombrinesche nella moneta necessaria per pagare i salari. Clamoroso - ma non
isolato, anzi alquanto comune e dovunque rilevato - il caso di Firenze dove, per
anni, circolarono bigliettini monetari emessi dai macellai. In verità, il vero
macellaio d’Italia fu Bombrini, avido e arrogante.
E’ inutile chiedersi se fu insipienza o una scelta. Manovrato dietro le quinte
dal grande banchiere, il governo voleva imporre agli italiani ricalcitranti l’uso
della carta e per riuscirci creò nel paese il caos monetario. Artefici del disastro
non furono soltanto la superbia e l’arroganza piemontese, come raccontano
untuosamente alcuni storici. Nella fase successiva alla morte di Cavour, la
gran regia delle finanze italiane fu tenuta concretamente dal direttore della
Banca Nazionale, che preoccupato soltanto di sé, dei suoi buoni affari e di
quelli dei sodali, si servì del suo ascendente e del potere conquistato per
imbandire a tavola polpette avvelenate. I ministri delle finanze andavano e
venivano, e così pure i presidenti del consiglio dei ministri, ma lui restava lì,
inchiodato al suo posto di amministratore di una società privata, quanto ai suoi
interessi, ma pubblica quanto al potere di comando. L’Italia dei ladri si formò
sotto la sua suprema regia. Come risultato non accessorio, come riferimento
programmatico del quotidiano operare, si ebbe l’arricchimento gratuito della
Banca Nazionale, e conseguentemente un’incredibile disponibilità di capitale
liquido, sotto forma di credito bancario, per i suoi clienti.
A monte dell’omissione di Pepoli, ed in sostanza dei governi della Destra
storica, c’era il progetto di Cavour di finanziare, con l’oro e l’argento dei
sudditi, la modernizzazione del Regno Sabaudo (che era poi l’esempio da
offrire a tutta la borghesia italiana che il leader borghesista intendeva portare a
sé, onde risorgimentare le classi padronali) attraverso una particolare entrata
straordinaria, consistente nel rastrellamento del numerario. In astratto il
progetto era ben concepito. Nella pratica fallì. Infatti lo Stato sabaudo
contrasse enormi debiti all’estero: per la guerra di Crimea; per creare una rete
ferroviaria: per armare ottantamila uomini di linea e una trentina di migliaia di
riserva. Contrariamente a quel che si sostiene, l’indebitamento non dette luogo
a un reale processo di crescita produttiva. Si ebbe, viceversa, una dissennata
importazione di prodotti esteri e un’esplosione del giro speculativo che fece
inorridire i contemporanei. Lo prova il fatto che, fatta l’unità, l’economia
piemontese entrò in una fase di pesante ristagno.
Come già annotato il fallimento cavouriano aveva messo a rischio
l’esistenza della Banca Nazionale, il cui territorio di caccia si era desertificato.
Con una gran massa di carta in circolazione, ma senza più credito all’estero
che le consentisse di approvvigionarsi d’oro, il run strisciante dei portatori di
biglietti sarebbe diventato esplosivo.
Evidentemente il Cielo era dalla parte di Bombrini e dei soci genovesi. La
conquista sabauda della Lombardia, dell’Emilia e delle regioni centrali portò
entrate eccezionali al tesoro, e conseguentemente ad essa, che faceva da
intermediaria per gli incassi e i pagamenti. Nel giro di sei mesi l’illecita prassi le
permise di uscire dalla zona di pericolo. Già nel 1862, Piemonte, Liguria,
Lombardia ed Emilia erano inondati della sua carta. Contemporaneamente le
sue riserve crebbero senza che dovesse attingere oro a Parigi con l’insistenza
di prima. Lo annota persino Di Nardi nella sua famosa giaculatoria sulle banche
d’emissione.
Gli storici non hanno il coraggio di spiegare che, nei seimila e più Comuni
del nuovo Regno, mai si presentò un funzionario pubblico a svolgere
l’operazione di convertire l’oro e l’argento recante l’effigie di una antico
sovrano, con l’oro recante il laido profilo di Vittorio secondo. Le nuove
coniazioni di numerario arrivarono in tutto a 416 milioni, le importazioni d’oro
dalla Francia – ovviamente pagate dalle esportazioni di tutta l’Italia -
superarono i 700 milioni e ciò nonostante il metallo scompariva dalla
circolazione.
Tab. 5.5c Importazioni di oro prima del corso forzoso del 1866:

1860 49.366.000   1864 151.579.900
1861 111.832.715   1865 152.497.400
1862 118.360.200   1866 43.094.000
1863 171.790.190   In
totale
798.490.405


Fonte: Atti I, p. 32
La confusione contabile regnò sovrana. Il numerario scompariva dalla
circolazione senza altra spiegazione se non questa: l’oro usciva dal paese
perché, a ondate, i possessori stranieri (leggi le grandi case parigine di
prestito) si disfacevano dei titoli del debito pubblico in loro possesso. Ma
bisogna aggiungere: gli speculatori italiani li compravano per quattro soldi,
pagandoli non certamente con le lodate banconote di Bombrini, ma col
circolante metallico. Né la Commissione d’inchiesta parlamentare sul corso
forzoso volle affondare il coltello nella piaga, né il patriottico regista di quella
colossale speculazione sul pane quotidiano degli italiani dette
spontaneamente le cifre della storica spoliazione. L’omessa conversione del
circolante metallico non ebbe altro scopo che quello di coprire con una fitta
cortina fumogena contabile la subdola e bieca espropriazione del popolo
nazionale da parte di una società privata, che colse il momento propizio per
realizzare superprofitti di regime.
A passarsela male furono i poveri particolari. Se a qualcuno venisse in
mente di fare un’antologia degli interventi parlamentari svolti tra il 1861 e il
1915 sulla condizioni create fra la gente dall’ingordigia bancaria, dovrebbe
prevedere un’opera in dieci volumi di duemila pagine ciascuno. In Italia si
arrivò al punto che avere un pezzo d’oro da venti lire bisognava darne
venticinque di carta e per cambiare un biglietto da cento lire in venti biglietti
da cinque lire bisognava pagare un pizzo di venti lire; che, per bere un caffè,
bisognava mettersi in giro a incettare i pochi centesimi necessari, non
essendoci più spiccioli in circolazione.
E’ interessante osservare la contemporanea dilatazione della cassaforte di
Bombrini, la quale conteneva appena 5, 7 milioni nel 1858 ma si ritrovò con
ben 400 milioni nel 1866.
Tab. 5.5d Riserve della Banca Nazionale prima e dopo l’unificazione politica
(Prima della virgola: milioni di lire italiane dell’epoca)

Anni Oro Argento Periodi
Regno sabaudo
1858 2,791 2,918 5,709
Diritto d’emissione 3 x 1. Milioni 17,127
ItaliaSubito dopo l’espansione in Lombardia, Emilia, Romagna, Umbria, Marche
1859 11,183 1,194
1860 24,245 2,421
1861 16,493 4,815
Oro
51,921
Argento
8,430
Regno d’ItaliaSubito dopo l’espansione nel Napoletano e in Sicilia Diritto d’emissione
3x1. Milioni 181,053
1862 11,080 14,123
1863 11,762 14,554
1864 9,184 15,408
83,997 52,515
Dopo la resa dei capitalisti fiorentini e la prosecuzione dell’ incettaDiritto d’emissione
3x1. Milioni 409,536
1865 18,187 28,003
1866 15,250 19,928
117,434 100,446
Subito dopo l’incorporazione del Veneto e del MantovanoDiritto d’emissione 3x1. Milioni
653,640
1867 55,226 19,895
1868 58,899 39,758
   
Drenaggio compiuto nei soli anni indicati 231,509 160,099
Totale   392,506
Diritto d’emissione 3 x 1. Corso forzoso illimitato
Crescita delle emissioni tra il 1858 e il 1868: 145 volte  


Secondo Carlo M. Cipolla, che esagera, nel 1874 la circolazione era
interamente passata alla carta bancaria. Attraverso cordiali e non casuali
facilitazioni dello Stato, la Banca Nazionale s’impadronì di tutto l’oro e di tutto
l’argento italiano in cambio di carta accettata dal tesoro, guadagnando non
solo un favoloso accrescimento delle riserve metalliche – cosa che le permise
di moltiplicare la carta e conseguentemente le operazioni attive - ma anche
l’aggio dell’argento sull’oro. In sintesi la famosa conversione delle monete
avvenne con una semplice procedura: i privati, quando pagavano imposte e
tasse, se non avevano carta di cui liberarsi, lo facevano con il vecchio
numerario, mentre la tesoreria di Stato, alias Bombrini, pagava con i suoi
biglietti. Purtroppo il carnevale bancario non fu una solite commedie padane
avvolte nel tricolore, ma una tragica farsa che coinvolse tutte le popolazioni
italiane per una trentina d’anni.
5.6 Nelle pubbliche carte le patriottiche oscenità bombrinesche non
figurano. Le serie storica degli incassi fatti dalla Nazionale per conto del
ministero tesoro, che qui riporto, è quella fornita dalla Banca Nazionale alla
Commissione d’Inchiesta. Essa comprende solo gli incassi ufficialmente
delegati dallo Stato alla Banca, mediante leggi e altri atti. Per esempio quelli
relativi alla vendita dei beni demaniali o il collocamento di alcuni prestiti. Non
comprende, invece, gli incassi fiscali, che dovrebbero corrispondere a quasi
tutto l’ammontare delle imposte.
Tab.5.5e Banca Nazionale
Conto corrente con il Tesoro:

Situazione all’1. 1. 1860 169.297.300
Incassi 1860 3.04.490
Ammontare all’1. 1. 1861 Incassi per il 1861 172.301790 23.429.380
Ammontare all’ 1. 1. 1862 Incassi per il 1862 195.731.178 79.101.145
Ammontare all’1. 1. 1863 Incassi per il 1863 274.832.343 128.991.412
Ammontare all’1. 1. 1864 Incassi per il 1864 401.823.755 303.526.578
Ammontare all’1. 1. 1865 Incassi per il 1865 705.350.333 154.490.036
Ammontare all’1. 1. 1866 Incassi per il 1866 859.840.369 64.772.044
Ammontare all’1. 1. 1867 Incassi per il 1867 924.612.413 94.611.437
Ammontare all’1. 1. 1868 1.019.223.850


Atti II, pag. 51
Nel viluppo di bugie coniate dalla storiografia unitaria, ce n’è una che vola
più alta delle altre: quella secondo cui il tesoro non fu un compiacente amico
delle tresche della Banca Nazionale.
Difatti nel 1851 il senato sabaudo aveva bocciato il disegno di legge
cavouriano che avrebbe voluto affidare alla Banca Nazionale il servizio del
tesoro. Fino al 1867 la situazione non sarebbe stata modificata. Patriottica
bugia.
La verità è che Cavour e Bombrini se ne fregarono del senato e delle sue
deliberazioni. Le tesorerie provinciali sopravvissero sicuramente, ma solo per
la bassa cucina. Fatta l’Italia, città per città i dipendenti del tesoro portavano
il riscosso allo sportello locale della Banca Nazionale, che lo accreditava alla
sede centrale, e questa a sua volta, farcito e ben lievitato, lo accreditava al
tesoro. Incassato il numerario, sia la sede centrale sia quelle periferiche
effettuavano i pagamenti per conto del tesoro mediante biglietti della banca
ermafrodita. Nel passaggio dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale – da dante
causa ad avente causa - la cosa andò avanti tranquillamente e senza smorfie
di sorta da parte dei ministri delle finanze succedutisi al governo. Essi
dovevano soltanto far finta di non sapere. Anticipiamo di alcuni anni una
testimonianza casuale. A metà del primo radioso decennio unitario, alcuni
patrioti si resero conto che la mano di Bombrini s’era fatta troppo pesante.
Una parte della massoneria italiana decise di decapitarlo. Nell’ultima decade
dell’aprile 1866, cioè qualche giorno prima di cedere al pressante ricatto
tosco-padano, decretando il corso forzoso dei biglietti monetari della Banca
Nazionale, il ministro delle finanze, Antonio Scialoja, chiese al direttore
generale del tesoro se la cassa era in condizione di far fronte agli impegni in
scadenza. L’interpellato rispose con una succinta relazione, di cui trascrivo
alcuni passi.
Primo:
“Signor Ministro,
“Mi pregio di trasmetterle, secondo il consueto, il prospetto dei fondi di
cassa del Tesoro per la seconda decina di aprile, ossia esistenti la sera del 20
detto.

Questi fondi in complesso ascendono a 112.800.000
composti così: Numerario effettivo, oro ed argento 28.000.000
Biglietti della Banca nazionale e della Banca Toscana, e fedi di credito del Banco di Napoli 68.000.000
Bronzo nelle tesorerie 15.280.000
Crediti in conti correnti colle Casse bancarie estere 1.520.000
Totale 112.800.000


Secondo:
“A primo aspetto, e nell’attuale crisi commerciale e monetaria, può far
senso che a comporre il fondo di cassa entri una massa di 68 milioni in
biglietti e fedi di credito. Il signor Ministro sa bene che si è studiato questo
fatto ed il modo di diminuire quella massa di carta, restringendo anche, ove
fosse stato possibile, la facoltà alle Casse (alle tesorerie provinciali, ndr) di
ricevere la carta di quegli Stabilimenti, e vi si è tornato sopra più volte in
previsione del futuro bisogno di danaro. Ma, oltreché una restrizione
consimile, spargendo la diffidenza, avrebbe accelerata la già minacciata crisi,
si è dovuto riconoscere che il Governo non poteva respingere le fedi di credito
del Banco di Napoli, perché quelle debbonsi ricevere obbligatoriamente, in
forza del decreto del 12 dicembre 1816 e dell’articolo 6 degli accordi presi in
Torino fra il Governo e il Banco il 30 maggio 1864, in compenso dell’onere
assuntosi dal Banco di anticipare al Tesoro 20 milioni in buoni del Tesoro al 3
per cento; doveva accettare i biglietti della Banca Toscana, in forza della
legge che approvò i suoi statuti (articolo 11 del decreto granducale 8 luglio
1857); ed avendo sempre ricevuti come moneta quelli della Banca Nazionale
Sarda, non era possibile per essa una distinzione odiosa…”
Terzo:
“Infine esiste una convenzione del 17 marzo 1854, in forza della quale la
Banca Nazionale Sarda, in compenso delle facilitazioni per il trasporto del suo
numerario sulle ferrovie dello Stato (sic!), fa al Tesoro gratuitamente il
passaggio dei fondi da una all’altra tesoreria, mediante mandati della stessa
banca, che non altrimenti vengono estinti che in biglietti.” (Atti I, p. 282,
283)
Chiaro? Chiarissimo. E’ chiaro altresì che frequentemente – anzi quasi
sempre - alcuni nostrani, nonché illustri storici della banca italiana scrivono
baggianate. E purtroppo le scrivono pur sapendo che sono baggianate!
Sugli intrallazzi e le prevaricazioni in materia cartolare tacque persino la
Commissione parlamentare d’inchiesta. E non è difficile capire il perché.
Filippo Cordova, che fu il presidente, e alcuni altri componenti, come Sella,
erano stati ministri delle finanze e impareggiabili patrioti. Additare l’illecito
sarebbe stata la stessa cosa che addebitarlo al Grande Ministro, al rimpianto
padre della patria cosiddetta nazionale, e a loro stessi.
[1] Ma non più di questo. Come vedremo i soci fondatori e padroni della
Nazionale, che diversamente da quella di Trapattoni non perdeva mai, non
transigettero mai sul tema del comando.
[2] La giustificazione è cretina, oltre che falsa. I poveri non andavano in banca.
I briganti stavano fra i boschi e non in città. Il ritardo non riguardò l’apertura di
sedi, ma la loro attività sul versante delle operazioni “attive”. La Nazionale
accettava depositi in oro, argento e fedi di credito, ma restituiva biglietti. I
meridionali non erano fessi tutti i giorni dell’anno. Chi li accettava era costretto
a defatiganti attese per convertirle allo sportello bancario, altrimenti,
impiegandole sul mercato, si sottometteva al pagamento di un aggio.
[3] Le notizie sul Banco di Napoli sono tratte da Demarco** cit. Ciò non
significa che questi sia anche l’autore della prosa sfoggiata nel paragrafo e
degli apprezzamenti con cui è condita.
[4] La cattedra torinese di economia politica fu fondata proprio per Antonio
Scialoja. Quando questi fu eletto deputato, la cattedra passò all’esule siciliano
Francesco Ferrara. Evidentemente i torinesi, l’economia politica, preferivano
farla anziché insegnarla.
[5] Credo sia corretto leggere il patriottismo nei fatti e non certo dedurlo dalle
roboanti dichiarazioni di una persona usa alle scaltrezze diplomatiche. In
riferimento a Cavour e a molti altri come lui, fatti dicono che il sostantivo
patriota e gli aggettivi che ne derivavo vengono usati untuosamnete.
[6] Ignazio e Vincenzo Florio, Antonio Chiaramonte Bordonaro, Michele Pojero,
Michele Raffo, Francesco Varvaro, tutti autorizzati a sdoganare le loro
importazioni con cambiali doganali per ben 20.000 once (pari a 60 mila ducati,
pari a circa 250 mila lire sabaude), nonché membri della Camera Consultiva di
Commercio, Deputati della Borsa dei Cambi, Deputati della Cassa di Sconto,
Governatori del Banco regio dei reali dominii ad di là del Faro (Giuffrida, pag
2).
[7] In verità Cavour e i suoi uomini conoscevano già il volto della proprietà
cadetta e l’avevano ampiamente valorizzato. L’ammiraglio Persano con una
spesa di circa due milioni e qualche promessa di carriera poté corrompere
quasi tutti gli ufficiali della marina borbonica, che era la terza in Europa, dopo
la Gran Bretagna e la Francia. Garibaldi, con una spesa di gran lunga minore,
si liquidò con quattro scaramucce un esercito di 120 uomini, il più numeroso
nell’Italia del tempo. I danari e le promesse corruppero persino alcuni fratelli di
Ferdinando II e zii di Francesco II, il re in trono.
[8] E finché lo tennero.
[9] Qualcosa del genere avverrà 30/35 anni dopo, al tempo di Gioitti, con le
rimesse degli emigrati.
[10] La Francesca (pag. 19) definisce eufemisticamente questo caso clamoroso
ed evidente di intrallazzo “forme nominalistiche di lievitazione finanziaria”. Con
il che, mentre io scrivo cuocendo sulla graticola meridionale, Bombrini è
assolto e si gode in Cielo la benevolenza dei Padri della patria, quelli a cavallo e
quelli appiedati. La Francesca osserva anche che “non venivano ricercate
soluzioni che tenessero pur conto delle specificità regionali e specialmente di
quelle delle province meridionali” (pag.18). Siamo commossi! Grazie! E se vi
sembra poco lamentatevene con la Fondazione del Monte e con tutte le altra
fondate Fondazioni che le fanno da corona!
[11] Avremo occasione di ricordare l’inverecondo e rivelatore affare degli
stracci.
[12] Si dovette certamente al fatto che la classe dei massari meridionali non
partecipò all’intrallazo speculativo se, tra il 1861 e il 1887, l’agricoltura
meridionale progredì con sorprendente velocità.
[13] Non ha, invece, alcuna sostanza qualificare la crescita dei depositi come
un beneficio connesso alla circolazione di cartamoneta (ididem). L’ampiezza
del fenomeno fu di quattrocento milioni a fronte di emissioni per otto miliardi.
Lo stesso che tappare la falla nella chiglia di una nave che sta imbarcando
acqua dalla tolda. L’unico commento possibile a ciò che avvenne è che
l’emissione cartacea – un’esigenza propria della nuova classe padronale -
doveva garantire tutti i padroni, e non fare chi figlio e chi figliastro.
[14] I grandi imperi navali ebbero fra l’altro lo scopo di saccheggiare
all’esterno oro e argento per arricchire la propria nazione. La stessa cosa del
petrolio, oggi.
[15] Al momento della conquista sabauda in Italia esistevano una decina di
zecche, alcune delle quali ben attrezzate.
[16] Al plurale anche grane.
[17] Torno a ricordare l’importanza sociale della moneta divisionaria.
L’ammontare dei salari giornalieri e del costo della vita stavano sotto le
monete argentee e auree. Per esempio erano normalmente meno di un ducato
e spesso anche meno di una lira piemontese o toscana.
Nicola Zitara

 
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